L'abuso del diritto in materia tributaria
L'abuso del diritto in materia tributaria
di Thomas Tassani
Aggregato di Diritto tributario, Università di Urbino "Carlo Bo"
1. Il principio del divieto di abuso del diritto come principio comunitario e costituzionale
Il divieto di abuso del diritto costituisce un principio di origine ed ispirazione comunitaria ma che, attualmente, è da ritenere implicito anche nel sistema tributario italiano, almeno alla luce delle più recenti pronunce della Corte di Cassazione.
Sono in particolare da considerare le sentenze che la Corte ha pronunciato, a Sezioni Unite, il 2 dicembre 2008, nn. 30055, 30056 e 30057.
In tali pronunce, la Corte di Cassazione ha affermato la sussistenza, nel nostro ordinamento, del principio di divieto dell’abuso del diritto, enucleabile in base ai principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività (art. 53 Cost.).
L’importante affermazione giurisprudenziale giunge al termine di un complesso percorso interpretativo, nel quale la Corte di Cassazione si è interrogata sulla generale applicabilità del principio comunitario di divieto dell’abuso del diritto, affermato in diverse occasioni dalla Corte di Giustizia [nota 1].
In un primo momento [nota 2], la Corte ha configurato un rilievo del principio in esame anche nei settori non armonizzati (si trattava, in particolare, delle pratiche di dividend washing e dividend stripping nelle imposte dirette) ma solo in quanto “principio tendenziale”, che avrebbe dovuto condurre il giudice a ricercare, nell’ordinamento nazionale, appropriati, e quindi già esistenti, mezzi giuridici per il contrasto dell’abuso. Tanto che, nelle sentenze citate, si prospettava il ricorso all’istituto della nullità dei contratti per mancanza di causa (art. 1418 c.c.) o per illiceità della stessa (art. 1344 c.c.).
Orientamento, questo, che è stato oggetto di diverse critiche. Da una parte, per la necessità di distinguere l’elemento della causa del contratto da quello degli interessi concretamente perseguiti dai contraenti.
Dall’altra, perché la soluzione tradizionale, e tutt’ora prevalente, è nel senso di non ritenere applicabile l’art. 1344 c.c. ai negozi che hanno lo scopo di eludere l’applicazione di una norma tributaria [nota 3].
Successivamente, la Corte è andata però oltre, sostenendo che il principio del divieto dell’abuso del diritto, in quanto di derivazione comunitaria, si impone nell’ordinamento tributario italiano “pur non esistendo una corrispondente enunciazione nelle fonti normative nazionali” e, quindi, anche “al di fuori dei tributi armonizzati o comunitari” [nota 4].
Era evidente lo sforzo della Suprema Corte di assicurare un collegamento tra i principi e le libertà affermati in ambito comunitario ed il settore non armonizzato delle imposte dirette, in una prospettiva, certamente apprezzabile, di coerenza ed omogeneità del sistema fiscale.
Tuttavia, simile conclusione si è in realtà rivelata una “forzatura” eccessiva, allo stato della evoluzione, anche interpretativa, dello stesso ordinamento comunitario. Infatti, in base all’orientamento dottrinale e giurisprudenziale tradizionale, si ritiene che i principi e le norme del diritto comunitario siano applicabili ai soli settori armonizzati e, nell’ambito di quelli non armonizzati, alle fattispecie in grado di entrare in conflitto con il diritto comunitario.
E’ in questo senso da considerare che la stessa Corte di Giustizia, quando è stata chiamata ad applicare il principio dell’abuso del diritto in settori diversi da quelli armonizzati, ha dato una risposta negativa. [nota 5]
Infine, come detto, si sono pronunciate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con le tre sentenze depositate il 23 dicembre 2008, nelle quali è stato configurato un principio di divieto dell’abuso del diritto “autonomo” rispetto a quello di derivazione comunitaria, che, ad avviso della Corte, non potrebbe esplicare effetto con riferimento ai tributi non armonizzati, come le imposte dirette.
A giudizio delle Sezioni Unite i principi di capacità contributiva e di progressività (art. 53 Cost.), renderebbero sussistente nel sistema nazionale “il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione”. Affermazione che non contrasterebbe con la presenza di specifiche norme antielusive (tra cui l’art. 37-bis, Dpr 600/73), visto che queste debbono apprezzarsi, sostengono le Sezioni Unite, come “mero sintomo dell’esistenza di una regola generale”.
Il principio dell’abuso del diritto, dunque, è frutto di una elaborazione puramente giurisprudenziale, il che tuttavia non sarebbe in contrasto, a giudizio della Corte, con il principio di riserva di legge, di cui all’art. 23 Cost., in quanto non si tradurrebbe “nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali”.
L’interpretazione, in questo modo fornita, dei principi della capacità contributiva e della progressività sembra rappresentare, nella applicazione delle Sezioni Unite, un richiamo alle esigenze di uguaglianza che sono alla base delle norme costituzionali in esame.
In questo senso, il riferimento è alla capacità contributiva quale limite relativo, in grado, secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale, di consentire una valutazione delle norme tributarie dal punto di vista di una razionale ripartizione dei carichi pubblici tra i consociati [nota 6].
Ed è da sottolineare come simile esigenza di uguaglianza venga riferita ad un aspetto che non riguarda direttamente gli elementi sostanziali del tributo, assumendo invece una portata di ordine procedimentale.
In termini critici, è anche da notare che, proprio in una valutazione “relativa” del principio di capacità contributiva, risulterebbe necessario considerare anche gli altri principi costituzionali coinvolti, tra cui assume una notevole importanza quello del legittimo affidamento, strettamente legato a quello della riserva di legge e, quindi, al principio della certezza del diritto.
Non può infatti non rilevarsi che una applicazione “retroattiva” del divieto dell’abuso del diritto possa condurre a risultati non coerenti, proprio sul piano della uguaglianza e del rispetto della capacità contributiva, in tutti quei casi in cui il contribuente non sia in grado di fornire elementi probatori adeguati in relazione a fattispecie che già si sono concluse e che, nel momento in cui sono state realizzate ed alla luce del contesto normativo allora vigente, apparivano quali scelte legittime di pianificazione fiscale, non disconoscibili dall’Amministrazione finanziaria.
2. La ripartizione dell’onere della prova relativamente all’abuso
In termini generali, secondo la Corte di Cassazione, spetta all’Amministrazione l’onere della prova della sussistenza dei presupposti di una pratica abusiva.
L’Amministrazione deve dimostrare che la ragione prevalente che sorregge la scelta giuridica del contribuente è quella del risparmio fiscale e, per fare questo, deve mettere a confronto il comportamento posto in essere con “il comportamento fisiologico aggirato, onde far emergere quella anomala differenza incompatibile con una normale logica economica”. [nota 7]
In questa prospettiva, ammonisce la Corte, occorre utilizzare estrema cautela, dovendo tenersi conto della evoluzione degli strumenti giuridici che possono dare vita a “forme nuove non necessariamente collegate a normali logiche di profitto della singola impresa”.
Appare poi di estremo rilievo l’affermazione secondo cui il comportamento abusivo del contribuente può configurarsi solo quando si ponga come “elemento predominante ed assorbente”, con la conseguenza che il divieto dell’abuso “non vale più” quando le operazioni possano “spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento del risparmio di imposta”.
Il contribuente, per contro, potrà provare la sussistenza di ragioni economiche “alternative o concorrenti” di carattere “non meramente marginale” in grado di giustificare le operazioni poste in essere.
3. L’applicazione del principio del divieto di abuso del diritto
Sulla base di simile elaborazione concettuale, l’applicazione del principio del divieto di abuso del diritto risulta estremamente ampia, come confermano le più recenti affermazioni della prassi e della giurisprudenza. Che hanno considerato il principio in esame per rendere “inopponibili” le scelte negoziali dei contribuenti, ai fini delle imposte sui redditi [nota 8], dell’Iva [nota 9], dei tributi doganali [nota 10], delle imposte sulle successioni e donazioni [nota 11]; dell’imposta di registro. [nota 12]
Con riferimento a quest’ultimo tributo, viene in considerazione la sentenza della Corte di Cassazione, n. 12042 del 25/5/2009, avente ad oggetto una cessione onerosa di ramo di azienda. E’ noto come il valore dell’azienda sia determinato ai sensi dell’art. 51, comma 4, Dpr 131/1986, ossia considerando il valore complessivo dei beni, compreso l’avviamento, “al netto delle passività risultanti da scritture contabili obbligatorie…”.
Nel caso in esame, le parti avevano imputato alla azienda passività estremamente rilevante (debiti di natura commerciale); scelta che l’Amministrazione finanziaria ha considerato effettuata al solo scopo di “abbassare fittiziamente il valore dell’imponibile”.
Secondo la Corte, spetta all’Ufficio il compito di provare l’intento elusivo, basandosi su una valutazione di “irragionevolezza”, di “atipicità” del comportamento effettuato , gravando poi sul contribuente l’onere di evidenziare le motivazioni economiche che sono alla base della scelta in oggetto, in grado di giustificare economicamente l’operazione.
Con riferimento alla specifica controversia, l’intento elusivo è stato giudicato provato, dando rilievo al fatto che il debiti commerciali erano una quota di costi attribuita dalla società controllante non italiana alla società italiana controllata (non proporzionalità tra i ricavi della società italiana e i costi addebitati dalla casa madre; e quindi non giustificata economicamente, in termini di normalità, tale addebito).
4. Conclusioni
In base alla giurisprudenza della Cassazione, è dunque necessario una attenta valutazione delle “ragioni economiche” delle operazioni che sono poste in essere.
Nel limite in cui le stesse sono giustificabili in termini oggettivi, in base alla pratica comune degli affari, minore o assente è il rischio dell’applicazione del divieto di abuso. Quando invece le stesse, pur se effettivamente realizzate, riflettono assetti, rapporti di “anormalità” economica, può verificarsi una ripresa fiscale, tutte le volte in cui è possibile individuare una strada fiscalmente più onerosa.
E’ quindi consigliabile un comportamento del contribuente (e del professionista) che, a monte, nel momento cioè in cui compie l’operazione giuridica (negli atti, nei contratti, nei verbali), dia risalto in modo anche analitico alle motivazioni economiche che la sorreggono, in modo tale da precostituirsi quegli elementi di prova contraria rispetto all’abuso da far valere dinnanzi sia all’AF sia al giudice tributario.
E’ indubbio che, in questa prospettiva, emerge un serio problema quando si tratta di considerare comportamenti del contribuente che non attengono ad una sfera d’impresa (o relative ad un circuito economico), come le scelte che riguardano la sfera personale, familiare, in cui assai difficile è fissare una regola di normalità, evidenziare le “giustificare ragioni economiche”.
Per questi, come per altri aspetti, risulta necessaria un’opera di “sistemazione” che non può che essere legislativa, soprattutto perché un principio del divieto di abuso, senza limiti, neanche di tipo procedimentale, rischia di mettere in discussione il diritto di difesa del contribuente.
Basti pensare alla affermazione della Corte di Cassazione per cui il divieto dell’abuso può applicarsi d’ufficio in ogni stato e grado del processo o al problema della applicabilità delle sanzioni [nota 13], allo stato esclusa dalla giurisprudenza.
E’ dunque necessario che il principio del divieto di abuso del diritto sia configurato con contorni chiari e precisi, nel rapporto Fisco-contribuente, affinchè la finalità del contrasto all’elusione non si rifletta in una messa in discussione sistematica delle scelte negoziali dei contribuenti e, quindi, delle esigenze di certezza che gli operatori economici necessitano, prima ancora del risparmio fiscale.
[nota 1] CORTE GIUSTIZIA CE, Grande Sezione, sentenza del 21/2/2006, cause C-255/02 e C-223/03, Halifax; recentemente CORTE GIUSTIZIA CE, sentenza del 21/2/2008, causa C-425/06, Part Service.
[nota 2] Sentenze n. 20398 del 21/10/2005, n. 20816 del 26/10/2005 e n. 22932 del 14/11/2005.
[nota 3] In generale sul tema, tra i tanti, TESAURO, Divieto comunitario di abuso del diritto (fiscale) e vincolo da giudicato esterno incompatibile con il diritto comunitario, in Giur.it., 2008, 1029 ss.; BASILAVECCHIA, Elusione e abuso del diritto: una integrazione possibile, in Riv.giur.trib., 2008, 741 ss.; LOVISOLO, Abuso del diritto e clausola generale antielusiva alla ricerca di un principio, in Riv.dir.trib., 2009, I, 49 ss.; ZIZZO, L’abuso del diritto, in Giur.trib., 2008, 465 ss.; BEGHIN, L’inesistente confine tra pianificazione, elusione e abuso del diritto, in Corr.trib., 2008, 1777 ss.; TASSANI, Autonomia statutaria delle società di capitali e imposizione sui redditi, Giuffrè, 2007, 144 ss.
[nota 4] Corte Cass., n. 25374 del 17/10/2008. Sul tema, BEGHIN, Alla ricerca di punti fermi in tema di elusione fiscale e abuso del diritto tributario (nel comparto dei tributi non armonizzati) e POGGIOLI, Il divieto di abuso del diritto nel prisma della giurisprudenza comunitaria in materia fiscale in materia fiscale, in TASSANI (a cura di), Attuazione del tributo e diritti del contribuente in Europa, in corso di pubblicazione per i tipi di Aracne.
[nota 5] Come nella sentenza del 5/7/2007 (causa C-321/05, Kofoed), avente ad oggetto la norma antielusiva contenuta nell’art. 11 della Direttiva 90/434/Cee, in cui la Corte di Giustizia ha affermato che, qualora l’ordinamento nazionale (nella specie, si trattava di quello danese), non abbia trasposto la norma antielusiva prevista dalla Direttiva, non potrà applicarsi alcuna regola generale di contrasto all’abuso del diritto. In questo modo, confermando l’inesistenza di un principio generale dell’abuso del diritto vigente anche nei settori non armonizzati.
[nota 6] Su questi temi, anche per riferimenti bibliografici, FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 44 ss.
[nota 7] Sentenza n. 1465 del 21/01/2009.
[nota 8] Corte Cass., sent. n. 10981 del 13 maggio 2009; sent. n. 10388 del 6 maggio 2009. Si veda BEGHIN, L’abuso del diritto nella indefettibile prospettiva del “vantaggio fiscale”, in Corr.trib., 2009; 2325.
[nota 9] Corte Cass., sent. n. 15029 del 26 giugno 2009.
[nota 10] Corte Cass., sent. n. 19827 del 15 settembre 2009.
[nota 11] Ris. n. 234/E del 24 agosto 2009.
[nota 12] Sul tema, recentemente, CERRATO, Elusione fiscale ed imposizione indiretta nelle operazioni societarie, in MAISTO (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, 389 ss. Sullo specifico ruolo dell’art. 20, Dpr 131/1986, si rinvia a DE MITA, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, in Riv.dir.trib., 1995, 154; UCKMAR-DOMINICI, Registro (imposta di), in Dig.disc.priv.sez.comm., XII, Torino, 1999, 260 ss.; MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 293; CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, Padova, 1992, 118 ss.
[nota 13] BEGHIN, Abuso di diritto. La Suprema Corte esclude le sanzioni in caso di elusione fiscale, in Il Fisco, 2009, 5319.
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