Caso Tributario
di Giovanni Liotta
Notaio in Torino
Le novità collegate all’abuso del diritto inducono ad affrontare alcuni casi pratici in materia successoria e familiare. Alcuni di essi sono stati oggetto di risoluzioni dell’Agenzia delle entrate, altri di pronunce delle Commissioni tributarie; il fine è verificare se da qui possa aprirsi un filone pericoloso per le attività quotidiane e se, e fino a che punto, ci sia il rischio di una responsabilità per il notaio alla luce di precedenti pronunce della Cassazione per casi simili e inerenti ai rapporti tra la prestazione notarile e gli effetti fiscali dell’atto. Pronunce, a dire il vero, un po’ risalenti, ma che potrebbero illuminare la condotta e consigliare prudenza. Nell’ambito di una sensibilizzazione nei confronti del diritto comunitario, cui la giornata odierna, l’abuso del diritto è tema emblematico dell’influenza che il detto diritto comunitario esercita.
Il primo è quello di una risoluzione di agosto dell’Agenzia delle entrate in materia successoria. Il caso è quello di una signora defunta con due figlie che a loro volta non avevano figli. A quindici giorni dalla morte della madre, muore anche una delle due eredi. Quindi, in ultima istanza, il patrimonio della mamma defunta sarebbe andato alla sorella superstite. Si è posto il problema, oggetto di un interpello rivolto all’Agenzia delle entrate, se e fino a che punto fosse indifferente per il fisco, essendoci un’ipotesi di trasmissione della delazione, rinunciare, da parte dell’erede superstite, alla parte di eredità della sorella premorta per diventare unica erede a mezzo della sola accettazione dell’intero patrimonio, in virtù del sistema dei rapporti fra trasmissione della delazione, rappresentazione e accrescimento.
Se la sorella fosse stata costretta ad accettare anche l’eredità della sorella premorta ci sarebbe stato un doppio passaggio successorio e, quindi, un carico d’imposta maggiore rispetto alla rinuncia e successiva accettazione di tutto il patrimonio. La questione posta era se ciò fosse indifferente per il fisco.
L’Agenzia delle entrate con risoluzione di agosto ha negato tale possibilità, in quanto ciò configurerebbe un caso di abuso del diritto. La motivazione, assolutamente stringata, ha tuttavia un primo riflesso: una ricostruzione nata in ambito comunitario ben delimitato, – l’imposta comunitarizzata qual è l’Iva –, viene de plano esportata dall’Agenzia delle entrate in un settore che in realtà c’entra ben poco. Ci si riferisce, come è naturale, al diritto delle successioni, settore in cui le valutazioni fatte al fine della scelta tra rinunciare o accettare quasi mai sono dettate da ragioni di tipo economico come di contro accade nell’ambito dei presupposti che sono alla base e giustificano un’operazione imprenditoriale.
Rinunciare o accettare un’eredità, conseguire o non conseguire un legato, come conseguire il detto lascito hanno sì riflessi economici connessi all’imposta, ma hanno anche importanti riflessi di tipo strettamente personale. Ad esempio, banalmente, l’erede superstite potrebbe non voler essere erede della sorella premorta a causa di furiose liti avute con lei negli anni e la scelta sarebbe stata quindi, sì connessa all’imposta sulle successioni, ma anche alla volontà di non essere considerata mai e poi mai erede della sorella.
Questo deve farci riflettere su come il diritto tributario si affermi e come questa sua affermazione a livello interno possa essere distorta, talvolta dalla giurisprudenza ma anche dalla stessa Agenzia delle entrate. Ciò per meglio consigliare il cliente, anche alla luce delle posizioni più o meno corrette del fisco o della giurisprudenza.
Il secondo caso è quello di due coniugi che avevano acquistato due case non come prima casa e che trasferivano ai figli il 10% ciascuno di questi alloggi, di cui erano unici proprietari, al fine di acquistare un nuovo immobile come prima casa.
Questa volta la Commissione tributaria provinciale di Milano ha affermato che apparentemente non c’è nessuna norma violata, però è stato forzato il diritto per violarne le regole e, quindi, si è configurato un abuso.
È evidente che da questi due casi il rischio che si apra una voragine rispetto alla quotidiana attività di ciascuno mi sembra sia non trascurabile. Possiamo, infatti, immaginare altre ipotesi banali ma più ricorrenti nella prassi. Si pensi all’ipotesi dei coniugi che, in comunione legale dei beni, hanno comprato un appartamento come prima casa e vogliono valutare, comprandone un secondo nella stessa città, se eventualmente intestarlo ad un figlio ma conseguendone almeno l’usufrutto. Si rivolgono al notaio e chiedono se sia meglio, cioè più economico, acquistarlo come seconda casa o se, piuttosto, si può risparmiare sussistendo la possibilità di acquistarlo come prima casa. Normalmente, il consiglio che viene dato - con tutti i dubbi connessi alla stipulazione, alle menzioni relative alla normativa Bersani e al fenomeno ulteriore di un’eventuale donazione - è quello di effettuare una separazione dei beni, trasferire la propria parte da un coniuge all’altro coniuge e procedere all’acquisto del nuovo immobile come prima casa da parte del primo. In tal modo, in genere, si risparmia perché comprando la prima casa si usufruisce del credito d’imposta. Per non parlare dei casi in cui l’operazione è connessa al mutuo e si riesca ad ottenerlo con un’aliquota allo 0,25% anziché dello 2% come mutuo diverso dalla prima casa.
Seguendo la pronuncia della Commissione tributaria provinciale di Milano dovremmo dire che, se quel caso è di abuso del diritto, a maggior ragione lo sarà quello appena esposto, non fosse altro per il fatto che si avrà un risparmio sull’imposta di registro, sull’imposta sostitutiva applicata con aliquota dello 0,25% e addirittura si conseguirà un credito d’imposta.
Il risultato non muta se si trasferisce la propria quota attraverso una donazione anziché con vendita, perché si consegue un vantaggio fiscale non acquistando come seconda casa. Se il ragionamento è: non c’è nessuna norma che lo vieta ma si abusa del diritto forzandone le regole, potrebbe esserci margine.
Altra ipotesi, dove entra in gioco la normativa Iva, è quella delle operazioni con i costruttori. Non è infrequente, infatti, il caso del papà che ha il terreno e lo cede in cambio del fabbricato o di alcuni fabbricati da costruire e che non vuole tenere per sé ma per i suoi figli i beni futuri. Le soluzioni che la prassi conosce sono varie, ciascuna connessa ad alcuni profili di diritto civile; ad esempio la permuta di cosa presente con cosa futura a favore di terzi, fattispecie che – se si ammette la non applicabilità del divieto di donazione di cosa futura al fenomeno della donazione indiretta sottostante questa ipotesi – nella prospettiva delle soluzioni adottate dal fisco nelle questioni suesposte potrebbe essere considerata un mezzo per evitare, o meglio risparmiare sul pagamento dell’imposta e, quindi, essere negata.
Il problema è se e fino a che punto si possa giungere a queste aberrazioni proprio perché la permuta di cosa futura a favore del terzo, come descritto nel caso precedente, è un atto soggetto ad Iva in quanto fabbricato da costruire.
Il discorso non cambia nel momento in cui si utilizzi lo schema della vendita con riserva d’area e più esattamente con riserva di diritto di superficie ed appalto – anche questo nella prassi spesso utilizzato –, per cui si avrà una compensazione del prezzo con l’appalto.
A me è capitato un caso in cui si è scelta questa soluzione perché non tutti gli appartamenti dovevano essere dati ai figli e, quindi, il genitore che si era riservato il diritto di superficie, essendo detentore di un credito nei confronti dell’impresa, ha poi immediatamente donato ai figli il diritto di superficie (bene presente) ed il credito nei confronti dell’impresa compensato con il prezzo dell’appalto.
Ancora una volta l’operazione consente di risparmiare rispetto ai doppi trasferimenti necessari. Il dubbio, pertanto, rimane. Queste operazioni possono essere tacciate di abuso del diritto? Il notaio ha delle responsabilità?
Il mio timore è che si stia aprendo una maglia sulla quale occorre intervenire subito per evitare che, paradossalmente, tutte le operazioni nelle quali c’è sì un risparmio d’imposta, ma ci sono anche valutazioni non prettamente economiche (io genitore voglio donare subito i beni a mio figlio, perchè lo voglio beneficiare di una “successione anticipata”) potrebbero essere bloccate o diventare più onerose per un principio di “diritto all’abuso” da parte della pubblica amministrazione, piuttosto che di abuso del diritto.
Sulla base della giurisprudenza comunitaria e della Cassazione credo sia necessario un intervento fermo per distinguere nettamente quei casi nei quali le valutazioni sono di tipo prettamente economico (e, quindi, potrebbero giustificare l’applicazione del principio della capacità contributiva che è alla base della tematica dell’abuso del diritto) da fattispecie nelle quali il risparmio d’imposta è solo una delle componenti, perché l’obbiettivo reale dell’operazione è una intestazione di beni ai figli, che tendenzialmente attiene a profili diversi da quello meramente economico.
In questo quadro, è utile delineare i poteri ed i doveri del notaio.
Per fare ciò è necessario esaminare i due aspetti del problema. La Cassazione ha affermato più volte (anni fa) che il notaio è responsabile se non fa conseguire al cliente il trattamento tributario più favorevole. Alcuni colleghi sono stati condannati per non aver segnalato un’agevolazione tributaria al cliente. Tralasciando l’eventualità che nel caso di specie ci fosse o meno una diligenza professionale e, quindi, se il collega fosse o meno da condannare, è un dato quello per cui noi Notai dobbiamo preoccuparci di far conseguire al cliente il miglior trattamento anche dal punto di vista fiscale. Nel contempo, in un’altra pronuncia della Cassazione, la n. 6680\1996, conosciuta per altri aspetti (essa si occupò infatti del Consiglio Nazionale del Notariato come soggetto che poteva fissare i principi di deontologia professionale), veniva evidenziato come un notaio era stato troppo furbo, cioè aveva fatto conseguire un trattamento più favorevole attraverso un escamotage fiscale e, come tale, andava condannato. In particolare, la massima recitava che “… è lesiva del decoro e del prestigio della classe notarile e della reputazione del notaio il fatto di essersi prestato attivamente nella realizzazione di uno scopo fiscalmente elusivo dell’imposta dovuta dalle parti”.
Pertanto, potrebbe verificarsi il paradosso che, se si opta per la permuta di cosa presente con cosa futura a favore del terzo, il fisco potrà opporre l’abuso del diritto e, quindi, potrà richiedere al cliente la differenza; a sua volta, il cliente potrebbe fare causa al notaio (anche sapendo dell’assicurazione), se dall’altro lato, rispettando il principio del divieto di abuso del diritto, non viene suggerita questa operazione, bensì si prospetta (per non essere il notaio attivamente parte) la vendita al costruttore e la donazione dal padre al figlio, per cui il cliente potrebbe opporre il deteriore trattamento fiscale e, quindi, fare ugualmente causa al notaio.
È evidente che un sano equilibrio in questi casi è fondamentale.
A mio avviso, non può essere considerato un mero accidente la consulenza attiva e fattiva ai fini dell’informazione del cliente. Queste sentenze come i recenti provvedimenti dell’amministrazione finanziaria sono l’occasione per riprendere quel ruolo indispensabile del notaio e, quindi, esporre al cliente le diverse ipotesi, i rischi dell’operazione, se necessario, lasciare traccia documentale di questa attività informativa.
Per quanto mi riguarda, nella mia attività, preferisco che siano i miei clienti di loro pugno a scrivere riguardo alle decisioni adottate, soprattutto in casi dubbi. Il ruolo di consulenza attiva, tuttavia, è fondamentale per esercitare bene la professione e per evitare di trovarci coinvolti per qualsiasi motivo in cause giudiziarie davvero poco giustificate.
[nota *] Trascrizione a cura della Fondazione Italiana per il Notariato autorizzata dall’Autore
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