Opponibilità del mandato
Opponibilità del mandato
di Gianfranco Palermo
Ordinario di Diritto Privato Università "La Sapienza" di Roma

Relativo al III CASO: Destinazione patrimoniale e controllo gestionale dell'impresa

Il tema assegnato involge un'indagine di ampio respiro, ben più ampio di quello che a prima vista potrebbe apparire.

Non si tratta di operare la pura e semplice rivisitazione di un contratto - quello di mandato - che pure ha sempre dato vita a perplessità e anche a vivaci contrasti dottrinali circa la sua rilevanza (interna o esterna), la sua opponibilità (erga omnes?), la sua trascrivibilità (ove abbia ad oggetto beni immobili); il compito è piuttosto quello di registrare il forte impatto che, sul mandato a gestire e a disporre, la legittimazione, conferita ai privati, di perseguire intenti destinatori con negozi produttivi di corrispondenti vincoli, è venuto a produrre, fino al punto da incidere sulla collocazione del particolare schema contrattuale nel nuovo sistema degli atti negoziali che, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 2645-ter c.c., sembra essersi instaurato.

Non più di nove anni fa, in un importante Convegno internazionale ad Erice sulla "fiducia", la possibilità di concedere nuovi spazi all'autonomia privata non sembrava prospettabile. E anche in occasione del Convegno tenutosi subito dopo l'entrata in vigore dell'art. 2645-ter c.c. - ben organizzato dalla Prof. Mirzia Bianca presso l'Università di Roma "La Sapienza" - venivano mossi dubbi addirittura di incostituzionalità della norma, che, secondo l'opinione di giuristi anche autorevoli, al più avrebbe potuto consentire l'avvio di operazioni negoziali altamente qualificate, là dove l' "interesse meritevole di tutela" del costituente risultasse collimante, se non addirittura coincidente, con il perseguimento di una "funzione sociale".

L'autonomia privata, in altre parole, avrebbe potuto ricevere un qualche riconoscimento, ma solo se tradotta in schemi caratterizzati dalla riconducibilità dell'interesse a un tipo predeterminato.

Oggi, anche se si continua a mostrare cautela riguardo a quello che l'interprete può assumere come interesse "meritevole di tutela", ci si sta aprendo abbastanza e sono rinvenibili ampie correnti dottrinali, le quali riconoscono che l'art. 2645-ter c.c. non è soltanto una norma sulla pubblicità, ma è una norma di carattere generale, che amplia il territorio dell'autoregolamentazione in chiave privatistica.

E' opportuno qui sottolineare che nel negozio di destinazione la causa non può essere data dal "destinare per il destinare"; la norma è nel senso che atti di autonomia privata, espressi in forma pubblica, possono realizzare un'attribuzione a favore di disabili, di pubbliche amministrazioni, di enti o di persone, e cioè di soggetti determinati. Siamo in presenza di una disposizione che essenzialmente consente di produrre, con atti di autonomia privata, un tipo di effetto, che è diverso, sia da quello obbligatorio, sia da quello di carattere immediatamente traslativo.

Si deve quindi parlare di normalissimi assetti di interessi. Non è ipotizzabile un negozio unilaterale di destinazione, fine a se stesso, ovvero posto in essere a favore di soggetti indeterminati. Per questa eventualità, resta disponibile lo strumento della fondazione (a prescindere dal fatto che questa possa essere utilizzata esclusivamente per fini socialmente utili o, come oggi sembrerebbe, anche nel perseguimento di interessi privatistici). Tanto appare opportuno rimarcare prima che sia operato un qualche parallelismo fra i negozi contemplati dall'art. 2645-ter c.c. e i trusts di scopo, ovvero i charity trusts, che, anche nei sistemi di common law, non sono ammessi indiscriminatamente.

Tutto ciò induce alla conclusione che, così come, quando si pone in essere una compravendita, una permuta - tanto per fare esempi elementari - non si va a sindacare l'interesse perseguito, parimenti non dovrebbero sussistere ostacoli ad affermare che, oltre a produrre effetti obbligatori ovvero effetti reali, si possano altresì creare vincoli atipici, nel modo in cui è consentito dalla nuova norma del codice.

Certamente, prima di ravvisare, attraverso questa norma, la possibilità di un'autodestinazione, sarà bene procedere con cautela, perchè la norma, nella sua stessa formulazione, prevede che la destinazione debba avvenire in favore di altri soggetti e non nell'interesse proprio del costituente. In questo caso, l' "interesse proprio", per apprezzabile che sia, è da considerare comunque "egoistico" e, pur potendo avere un'apprezzabile caratura, non sembra perseguibile con lo strumento che l'art. 2645-ter c.c. appresta.

La norma ha carattere generale, pur essendone da verificare caso per caso la praticabilità; così, ad esempio, per quanto concerne il testamento (in relazione alla forma), ovvero la donazione (la disciplina del modus dovendo essere coordinata con quella della novella), ovvero il fondo patrimoniale (con riguardo al quale appare necessario considerare, con la dovuta attenzione, l'alternativa di rimanere ingessati alla disciplina codicistica ovvero avvalersi dei maggiori spazi percorribili attraverso il ricorso al negozio di destinazione). La sua caratteristica è quella di contemplare, in serie aperta, assetti di interessi suscettibili di tradursi nella creazione di vincoli ai quali è dato attribuire carattere reale; ciò, in quanto la norma parla di vincoli destinatori che, come tali e in quanto tali, vengono a gravare sui beni.

Tali assetti di interessi - è ora il caso di aggiungere - non hanno precisa configurazione; gli atti, che possono indurne la realizzazione, possono essere molteplici e porsi in varie combinazioni fra loro, fino a dare vita ad autoregolamenti anche di particolare complessità.

Per dare conto della rilevanza che, sotto questo profilo, il mandato può assumere, appare pertanto necessario considerare il rapporto che si pone fra i singoli atti e l'operazione negoziale, nel suo complesso considerata.

La dottrina civilistica, da tempo si è orientata, nell'analisi delle attività negoziali, verso il superamento del diaframma concettuale, costituito dal nomen iuris, ovvero dall'atto singolo - quello che gli storici chiamano negotium quod est causa sua ipsius - dismettendo il canone di irrilevanza generale dei "motivi" e cercando di ricondurre gli studi ad una problematica più affinata e ben più approfondita di quella tuttora ferma alle ricerche embrionali sui "negozi collegati per volontà delle parti", ovvero "con causa complessa".

E' così emerso lo schema dell'operazione negoziale, che non è quella economica, ma piuttosto sintesi di qualificazioni formali e che, sviluppandosi attraverso un iter procedimentale comprensivo di una molteplicità di atti, tutti convergenti verso il risultato finale prefissosi dal disponente, acquista unitaria rilevanza.

Si è di recente portato avanti questa ricostruzione, che non è soltanto concettuale, precisando che occorre riguardare l'operazione negoziale in tutte le sue strutture; il che significa che, se l'atto, che è a fondamento del perseguito assetto di interessi, crea un vincolo opponibile, anche l'atto stesso deve avere una corrispondente rilevanza esterna, tale da indurre la sua configurabilità come titolo di acquisto in capo al beneficiario di certi diritti e quindi come indice della loro circolazione. Un significativo apporto della più moderna dottrina è nel senso che, se c'è una operazione che nasce da un atto a rilevanza esterna e termina con un acquisto anch'esso dotato di tale rilevanza, conseguentemente tutte le componenti dell'operazione non possono che rivestire identici caratteri.

Atteso altresì il principio di corrispondenza fra la natura dell'atto negoziale e il tipo di effetto, che quest'ultimo è idoneo a produrre, è conseguentemente da ritenere che di tutti gli atti, riconducibili alla fattispecie contemplata dal legislatore nell'art. 2645-ter c.c., possa essere affermata, in linea generale, l'opponibilità; anche se, sotto questo profilo, c'è chi concede poco (opponibilità solo nei confronti di taluni creditori), c'è chi concede pochissimo (mera obbligatorietà del vincolo) e c'è chi, viceversa, ritiene che la norma, in quanto integrante la disciplina della pubblicità dichiarativa - e avendo ad oggetto beni immobili (e loro frutti) - si inserisca a tutti gli effetti nel sistema della circolazione dei diritti, inducendo opponibilità nei confronti dei terzi secondo le regole generali. Quest'ultima opzione sembra preferibile.

Affermare l'opponibilità del mandato, che concorra a realizzare operazioni di carattere destinatorio, può anche dare luogo a perplessità e a qualche dubbio.

Il mandato viene definito, anche dal legislatore, come un contratto costitutivo di un rapporto obbligatorio fra le parti; ma è noto che questa concezione, così stretta, fa acqua da tutte le parti, già nel contesto codicistico. E' sufficiente pensare all'art. 1705 c.c., per il quale il mandante è abilitato a esercitare i diritti di credito derivanti dall'avvenuta conclusione del negozio gestorio, ovvero riflettere sulla disposizione contenuta nell'art. 1707 c.c., in forza del quale, ove il mandato abbia data certa, il bene mobile acquistato dal mandatario non è esposto alle pretese dei creditori di quest'ultimo. Ma è soprattutto nell'art. 1706 c.c. comma 2, che è possibile rinvenire la rilevanza, che il mandato, costituente causa esterna dell'acquisto operato con il negozio gestorio, è suscettibile di assumere anche nei confronti dei terzi, sia pure attraverso il filtro dell'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere il contratto (v. artt. 2932, 2652 n. 2 c.c.).

Si è più volte sottolineato che il codice contempla soltanto il mandato ad acquistare, ma non riconosce il mandato a disporre.

Il problema è che un siffatto riconoscimento avrebbe comportato, in materia di circolazione di immobili, la trascrizione di tale negozio. E questo punto è rimasto insoluto, non avendo i cauti interpreti ritenuto di poter infrangere il dogma della tassativa elencazione degli atti trascrivibili, qual essa emerge dalle disposizioni contenute negli artt. 2643 e 2645 c.c.

Si è così rimasti fermi al dubbio se sia possibile attribuire al mandatario una legittimazione a disporre disgiunta dalla titolarità del diritto sul bene da alienare; salvo a fare ricorso al meccanismo della condizione, postulando la possibilità di un passaggio del diritto dal mandante al mandatario, sospeso fino alla stipula del negozio gestorio, in virtù del quale il terzo verrebbe a realizzare il proprio acquisto in via mediata.

Sforzi ricostruttivi - l'uno e l'altro - che debbono, in realtà, fare i conti, oltre che con il mancato inserimento del mandato nella lista dei negozi trascrivibili, anche con il principio di continuità delle trascrizioni.

A dare impulso alla sistemazione di una materia così delicata e complessa può essere, a questo punto, proprio la norma che, nel codice civile, è stata introdotta.

L'art. 2645-ter c.c. consente, come si è detto, di porre in essere operazioni negoziali anche di particolare complessità. Essa rappresenta - come anni or sono ebbi a definirla - un "contenitore", che apre la strada ad auspicabili interventi legislativi, essendo opportuno che siano dettate norme specifiche per regolamentare, in modo più articolato, operazioni siffatte, là dove la gestione dei beni allo scopo, comprensiva di poteri dispositivi, come normalmente avviene nei casi di affidamento fiduciario, risulti rimessa a un terzo (il mandatario, per l'appunto).

In attesa di tali interventi (stranamente c'è chi, invece, vorrebbe abrogare questa norma, che ha avuto il torto di adeguare il nostro sistema civilistico alle esigenze dell'epoca attuale), l'interprete non può astenersi dal rilevare, alla luce dei principi posti in evidenza dalla moderna dottrina, come la rilevanza esterna dell'atto di destinazione e la realità del vincolo, impresso al bene immobile nell'ambito di una operazione negoziale, pluriarticolata e complessa, vengano necessariamente a tradursi, l'una in quella di tutti gli atti che la compongono, l'altra nella opponibilità ai terzi dell'attività negoziale svolta dal fiduciario (mandatario) in forza di un atto di affidamento (il mandato) conferito in una con il negozio di destinazione, trascrivibile oggi per espressa norma di legge.

Tutto ciò richiede approfondimenti, ma non sembra revocabile in dubbio che un mandato inserito in una operazione negoziale, avente siffatte caratteristiche, debba porsi sul piano dei rapporti con i terzi con tutti i caratteri, e con tutte le garanzie necessarie al pieno assolvimento della funzione, che l'operazione negoziale esplica; ciò, in quanto il vincolo di destinazione, stante l'avvenuto suo riconoscimento da parte del legislatore, ha in sè insita l'esigenza di assicurare, con adeguata tecnica, la sua concreta attuazione. Nè, al fine di ottenere un siffatto risultato, sembra necessario ricorrere a quel singolare strumento, che taluno configura come "trust interno", essendo l'operazione di trust, così come praticabile nei paesi di common law, per un verso irriducibile alla fattispecie prevista dall'art. 2645-ter c.c., nella quale la proprietà del bene resta in capo al costituente, e, per altro verso, difficilmente armonizzabile con il principio di unità del dominio - coerente con la nostra tradizione - il quale sembra escludere il potere di conformare la proprietà con atti di autonomia privata, realizzando forme di fiducia attributiva. Su questo punto, a mio avviso, occorre molta cautela.

Fermo quanto precede, occorre peraltro chiedersi se, in considerazione della peculiarità della fattispecie oggi all'esame, sia dato, in sede di concreta disciplina, porre limiti all'opponibilità che del mandato è, in principio, propria.

Non è dubbio che l'esistenza del vincolo destinatorio e l'attività del co-gestore, configurata come necessaria per l'effettiva realizzazione dell'interesse del disabile, determinino un forte impatto sulla vita della società unipersonale, essendo suscettibili di incidere sul suo svolgimento, comunque preordinato al conseguimento di una diversa sfera di interessi, potenzialmente confliggenti.

Tanto più forte può risultare l'impatto a seguito dell'intervento di un soggetto esterno nella compagine sociale. Ed invero, solo in quanto non si manifestino divergenze e la società resti "di famiglia", possono non insorgere delicati problemi. La situazione può essere accostata a quella conseguente alla stipula del patto di famiglia, disciplinato dagli artt. 768-bis e ss. del codice civile: perdurando l'accordo, e non sopravvenendo contestazioni o pretese da parte di terzi non partecipanti, il regolamento di interessi, contrattualmente instaurato, ha una sua tenuta; se la situazione subisce un mutamento, il castello di carte rischia di cadere, come può evincersi dalla lettura della disposizione contenuta nell'art. 768-sexies c.c.

Immaginiamo, a questo punto, che venga ad essere scomposta la quota di partecipazione al capitale della società (ad esempio, a causa di un legato), oppure che un terzo acquisti la quota con suimpresso il vincolo di destinazione, rilevante all'esterno, anche se non si tratta di bene immobile (l'art. 2645-ter c.c. non può essere interpretato come norma eccezionale, insuscettibile di lettura estensiva).

L'incidenza, protratta oltre il giusto limite, dell'attività gestoria, considerata necessaria a realizzare la finalità perseguita dal costituente e rispondente all'interesse non già della società (che può divergere), ma del soggetto disabile, potrebbe sortire l'esito di una inammissibile strumentalizzazione dell'attività di impresa.

Sotto questo profilo, una piena opponibilità a tempo indeterminato del mandato può far sorgere perplessità, nel quadro di un'operazione negoziale nella quale, a fronte della finalità perseguita dal costituente e dell'interesse del beneficiario del vincolo da realizzare mediante l'assolvimento dell'incarico gestorio, si pone l'interesse della società; il che esorbita dalla fattispecie, per dir così elementare, prevista dall'art. 2645-ter c.c.

Sembra configurabile, nel caso all'esame, un possibile venir meno di tale opponibilità in ragione del mutato contesto di rapporti intersoggettivi e, conseguentemente, dalle esigenze ex novo insorgenti sul piano dell'amministrazione e gestione della società.

Di qui una riflessione di fondo, alla quale non può sottrarsi neppure l'interprete abituato a ragionare attraverso schemi astratti e categorie formali.

Del tutto insufficiente risulta essere una lettura dell'art. 2645-ter c.c., che si arresti alla valutazione degli interessi del costituente e del beneficiario, isolatamente considerati nel disposto normativo.

La complessità dell'operazione negoziale, concretamente posta in essere, può in certi casi far emergere la compresenza anche di interessi diversi e di conseguenti istanze di tutela, che non possono essere sic et simpliciter subordinate a tali interessi.

La disputa sul grado di meritevolezza degli interessi del costituente e di quelli del beneficiario non può esaurirsi in un circolo chiuso, dovendo l'angolo di visuale dell'interprete essere ampliato fino a comprendere tutte le esigenze di disciplina che gli atti di autonomia privata, compresi nel "contenitore" apprestato dall'art. 2645-ter c.c., possono far sorgere, sia per la loro struttura, sia per il loro giustapporsi in unitario contesto.

Se oggi tutto è flessibile e modulabile - e questo è indubbiamente il trend dell'ermeneutica moderna - attenzione ben maggiore di quella occorrente in passato occorre allora impiegare nella rilevazione, selezione e valutazione di tutte le posizioni soggettive e degli interessi che a queste si ricollegano. Ciò sembra essere richiesto da principi, ai quali occorre attenersi.

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