La circolazione giuridica dei beni culturali. Criticità nell'attuazione delle norme
La circolazione giuridica dei beni culturali. Criticità nell'attuazione delle norme
di Maddalena Ragni
Direttore regionale dei beni culturali della Toscana

Il codice dei beni culturali e del paesaggio disciplina nella parte seconda, titolo I, parte IV e V, la circolazione dei beni culturali rispettivamente in ambito nazionale ed internazionale, trattando nello specifico, per quanto attiene alla parte IV, dell'alienazione e degli altri modi di trasmissione, della prelazione e del commercio, e, per quanto riguarda la parte V, dell'uscita dal territorio nazionale e ingresso nel territorio nazionale, dell'esportazione dal territorio dell'Unione europea, della restituzione di beni culturali illecitamente usciti dal territorio di uno Stato membro e per finire della Convenzione Unidroit.

L'argomento è ovviamente troppo ampio per poter essere affrontato compiutamente in questa sede e pertanto, considerata anche l'attività cui è applicato con maggiore frequenza l'Ordine del Notariato, ho ritenuto opportuno concentrare l'attenzione sulla circolazione dei beni culturali in ambito nazionale.

Un'analisi delle norme che disciplinano la materia non può prescindere da alcune riflessioni iniziali relative a:

- Non è un caso che le disposizioni in materia di circolazione dei beni culturali siano collocate nel titolo I riguardante la Tutela, con l'evidente intenzione di sottolineare come l'intera materia debba essere considerata e analizzata nell'ottica dell'esigenza primaria di garantire la conoscenza, la protezione e la conservazione dei beni culturali «per fini di pubblica fruizione», come peraltro richiamato nell'articolo 3 del codice.

Il comma 2 del citato articolo 3 precisa, infatti, sul punto che «l'esercizio delle funzioni di tutela si esplica anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti il patrimonio culturale», peraltro non di rado particolarmente rilevanti proprio nei casi di trasmissione dei beni.

- La circolazione dei beni in genere e quindi anche di quelli culturali, una volta relegata quasi esclusivamente nella sfera privata dell'individuo, ha assunto nel tempo, ed in particolare nel corso di questi ultimi anni, un significato di autentico interesse per la valorizzazione del patrimonio culturale nazionale, fungendo, nello stesso tempo, sia da impulso per la sua messa a reddito nell'esclusivo interesse del soggetto titolare pubblico o privato, sia per lo sviluppo economico e sociale del Paese.

Il nostro patrimonio, immenso, diffuso, di altissimo pregio, nella misura in cui può e deve essere studiato, conosciuto, protetto, conservato, si pone oggi come una ricchezza inestimabile, in una società postindustriale che può trovare nella sua cultura in senso lato una fonte inesauribile di crescita civile, sociale ed economica.

Se si vuole raggiungere questo risultato, il dialogo tra economia e cultura non solo deve essere possibile, ma è assolutamente indispensabile.

E' una necessità, perché i beni culturali hanno in sé la potenzialità di stimolare l'economia e le attività produttive con ricadute positive su redditi e occupazione, possono essere un incentivo per lo sviluppo di nuove tecnologie e per la formazione di professionalità elevate, costituiscono, aspetto importantissimo, fattore di coesione e integrazione sociale e territoriale, e non ultimo, infine, perché sono capaci di attivare circuiti virtuosi di investimenti e finanziamenti nazionali, europei, internazionali.

- In conformità a quanto previsto dalla normativa, è pregiudiziale ad ogni riflessione sulla regolamentazione delle modalità di circolazione dei beni, la loro individuazione come beni culturali, sia relativamente a quelli di proprietà pubblica in senso lato, per i quali il D.lgs. n. 42 del 2004 e Smi, ha introdotto il procedimento di verifica dell'interesse storico artistico, sia per quelli di proprietà privata ai quali continua ad applicarsi (in questo il codice non ha introdotto modifiche rispetto al T.U. n. 490 del 1999) il procedimento di dichiarazione di interesse storico artistico.

Appare quindi essenziale, nell'impostazione complessiva del discorso, procedere preliminarmente ad alcune considerazioni proprio sul tema dell'individuazione di un bene culturale.

L'evoluzione della normativa di tutela, a partire dalla storica legge del 1939, la n. 1089, e passando poi al T.U. 490 del 1999 ed infine al più recente codice dei beni culturali, mostra proprio su queste disposizioni, che possiamo dire di principio, modifiche rilevanti che meritano di essere sinteticamente richiamate.

La definizione di bene culturale che viene formulata all'articolo 10 fa capire come l'attenzione del legislatore si sia focalizzata in particolare sui beni di proprietà non privata, al punto che al comma 1 si recita «sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente o istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico», rinviando solo al successivo comma 3 la citazione delle singole tipologie di beni, con una diversa, di volta in volta, graduazione del livello di interesse in relazione alla diversa titolarità e natura degli stessi.

La ragione di questa particolare attenzione del legislatore nei confronti dei beni appartenenti a soggetti pubblici, istituzionali e non, risiede presumibilmente nella incertezza interpretativa che ha accompagnato nel tempo l'applicazione sia della L. 1089/39 che del D.lgs. 490/99 i cui articoli, rispettivamente 4 e 5, lasciavano trasparire una sorta di presuntività di interesse storico artistico degli stessi mai o quasi mai formalmente dichiarato.

L'art. 4 della L. 1089, infatti, attribuiva ai rappresentanti delle province, dei comuni, degli enti e degli istituti legalmente riconosciuti l'obbligo di presentare l'elenco descrittivo delle cose indicate nell'art. 1 di spettanza degli enti o istituti che essi rappresentavano, garantendone nel tempo il costante aggiornamento. A garanzia di tutela, tuttavia, l'ultimo comma dell'articolo 4 recitava «le cose indicate nell'art. 1 restano sottoposte alle disposizioni della presente legge, anche se non risultino comprese negli elenchi e nelle dichiarazioni di cui al presente articolo».

Analogamente l'articolo 5 del D.lgs. n. 490 del 1999 ha confermato per le regioni, le province, i comuni, gli altri enti pubblici e le persone giuridiche private senza fine di lucro l'onere (non l'obbligo) di presentare al Ministero l'elenco descrittivo delle cose indicate all'articolo 2, comma 1, lettera a) di loro spettanza sempre con vincolo di un suo costante aggiornamento.

Con la consapevolezza di come tale disposizione sia sempre stata in massima parte disattesa, fatte salve rare eccezioni, si è avuto cura in quella occasione di prevedere, in caso di omessa presentazione ovvero di omesso aggiornamento dell'elenco, l'assegnazione da parte del Ministero all'ente di un termine perentorio per provvedere a tale obbligo e, in caso, di ulteriore omissione, la previsione di un intervento in via sostitutiva del Ministero stesso nella compilazione dell'elenco, naturalmente a spese dell'ente proprietario.

Anche in questo caso, la norma confermava che «i beni elencati nell'articolo 2, comma 1, lettera a) che appartengono ai soggetti indicati al comma 1 sono comunque sottoposti alle disposizioni di questo titolo anche se non risultano compresi negli elenchi e nelle denunce previste dai commi 1 e 2».

In buona sostanza, il sistema prevedeva che fosse l'elenco contenente la descrizione dei beni di proprietà dell'ente, verificato dall'Amministrazione per quanto atteneva all'esistenza dei requisiti necessari per poter considerare i beni stessi di interesse, ad assumere valore di riconoscimento di interesse e poiché, come si è già detto, furono pochissimi gli enti che si fecero carico di provvedere agli adempimenti previsti dalla norma, quasi sempre l'Amministrazione nell'espletamento della sua funzione di tutela, ha fatto semplicemente riferimento ai requisiti di base della datazione non inferiore a 50 anni e dell'autore non più vivente in conformità a quanto previsto dagli ultimi commi dell'articolo 4 della L. 1089 e dell'articolo 5 del D.lgs. 490.

L'assenza di un provvedimento, la non certezza dell'esistenza dell'interesse, la sua non opponibilità a terzi, hanno determinato nel tempo l'insorgere di situazioni sempre più frequenti di contenzioso nonché condanne ripetute dell'Amministrazione con assunzioni di responsabilità ed oneri risarcitori non indifferenti.

La scelta di mettere a punto un procedimento di verifica dell'interesse di questa parte consistente del patrimonio culturale nazionale, che fosse adeguato alle nuove tecnologie e soprattutto rispondente a quei requisiti di certezza e trasparenza degli atti che l'ordinamento ha nel tempo richiesto, è stata quindi determinata, da un lato, dalla necessità di mettere riparo a questa situazione, dall'altra di fare in modo che la strategia politica di dare spazio alla dismissione ed alla valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, potesse avvenire nei tempi previsti, ma soprattutto nel rispetto della certezza del riconoscimento dell'interesse del bene e della tutela dello stesso.

La prima difficoltà che l'Amministrazione ha dovuto affrontare nell'applicazione del nuovo sistema, oltre ovviamente alla necessità di mettere a punto l'impostazione del sistema stesso adeguandolo a quelle esigenze che nel corso del tempo e con il succedersi delle pratiche venivano evidenziate, è stata quella di dover far fronte ad una quantità di richieste quasi sempre non sostenibile per gli uffici nonché all'attesa da parte di tutti di dover necessariamente recuperare in pochi anni un ritardo di più di cinquant'anni.

La seconda difficoltà, che sicuramente ha avuto riflesso anche sull'attività notarile, è stata quella di dover prevedere linee guida, recanti criteri e modalità per la verifica dell'interesse culturale dei beni immobili, diversificate a seconda della titolarità dei beni (un decreto per i beni di proprietà dello Stato, delle regioni, province e comuni, un decreto per i beni di proprietà del Ministero della difesa, un decreto per i beni di proprietà delle persone giuridiche private senza fini di lucro).

La terza difficoltà, ancora, peraltro, non completamente risolta, è connessa alla necessità di procedere anche alla verifica di quei beni già riconosciuti di interesse ai sensi delle leggi del 1939 e del 1909, in quanto i provvedimenti a suo tempo emessi risultano formalmente incompleti, privi di riferimenti e documentazioni catastali e non trascritti, e pertanto non adeguati ai principi di certezza e trasparenza dell'atto amministrativo presenti oggi nel nostro ordinamento.

La difficoltà invece che sicuramente incontra l'Ordine dei Notai nella sua ordinaria attività è la possibilità di conoscere in tempi brevi e con assoluta certezza quale sia la valutazione in termini di interesse storico artistico data dalla pubblica amministrazione relativamente ad un immobile di datazione superiore ai cinquant'anni e di autore non più vivente, soprattutto se quell'immobile è di proprietà dello Stato o di enti pubblici territoriali, di un ente o istituto pubblico, o, infine, di una persona giuridica privata senza fini di lucro.

Come noto il codice prevede all'art. 12 comma 8, che tutte le schede descrittive degli immobili valutati, integrate con il provvedimento di riconoscimento, confluiscano in un archivio informatico conservato presso il Ministero.

L'Amministrazione per i beni culturali sta già attivando una integrazione di tale archivio prevedendo l'inserimento in esso anche dei dati relativi ai riconoscimenti di interesse espressi nei confronti dei beni di proprietà privata in modo da poter ottenere, in tempi che si auspicano brevi, un archivio generale relativo ai beni tutelati.

Questo potrà senz'altro consentire di dare ai Notai, con maggiore semplicità e rapidità le indicazioni necessarie per lo svolgimento della loro professione.

Fatte queste considerazioni preliminari, si passa ora ad esaminare le disposizioni relative all'alienazione ed altri modi di trasmissione della proprietà o del possesso dei beni culturali, alla prelazione ed al commercio degli stessi.

Alienazioni ed altri modi di trasmissione (articoli 53 - 57 del codice)

Posto che rientrano nella fattispecie in oggetto non solo quegli atti suscettibili di determinare il trasferimento della proprietà di un bene da un soggetto ad un altro a titolo oneroso, ma anche atti come la cessione di un bene culturale a favore dello Stato, o i trasferimenti di immobili pubblici previsti all'interno di programmi di dismissione o di valorizzazione del patrimonio culturale pubblico (demanio statale, comunale, provinciale o regionale), laddove per valorizzazione si intende comprendere anche quelle forme di utilizzazione a fini economici di immobili pubblici quali concessioni d'uso o locazioni, o, infine, atti come la permuta, pare evidente che la questione di fondo da analizzare sia quella della alienabilità degli immobili, con particolare riferimento a quelli appartenenti al demanio, e del consequenziale regime di autorizzazione.

La materia è regolata dagli articoli 53 – 56 del codice per i beni culturali e per il paesaggio ed è stato un tema ampiamente dibattuto negli ultimi anni a livello politico e culturale.

Il concetto di demanialità, infatti, è sempre stato intriso della storica convinzione che solo una proprietà pubblica dei beni potesse realmente garantire quel soddisfacimento del comune interesse connesso alla natura dei beni medesimi; nel caso specifico, essendo oggetto di analisi il patrimonio culturale, la promozione dello sviluppo della cultura, come richiamato nell'articolo 9 della costituzione.

Per contro le trasformazioni e l'evoluzione della società hanno portato il comune modo di sentire della popolazione, indotto in ciò dalla percezione della sempre minore qualità dei servizi resi al cittadino, verso un orientamento sempre più discosto dal pubblico e sempre più teso a cercare una maggiore soddisfazione dei suoi bisogni, indipendentemente dal fatto che questi fossero affidati ad un soggetto pubblico o ad un soggetto privato.

La conseguenza di questo altalenante umore sociale ha determinato una analoga oscillazione nel succedersi delle leggi; dopo la sia pur limitata apertura alla alienabilità del patrimonio culturale prevista nelle leggi del 1939, con l'entrata in vigore nel 1942 del codice civile, all'art. 823, si è riaffermata con forza la natura pubblicistica della funzione di conservazione e valorizzazione dei beni culturali e l'intangibilità della demanialità.

Il testo dell'articolo, infatti, recita «I beni demaniali sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano».

L'interpretazione che è stata data di questa disposizione a livello giurisprudenziale è parimenti non univoca: per un verso un indirizzo sostiene che la derogabilità all'inalienabilità ad opera di una legge speciale si riferisce solo alla costituzione di diritti a favore di terzi, per un altro, invece, la derogabilità è ritenuta applicabile a tutte le categorie di beni demaniali ed in tutte le ipotesi di loro trasmissione, facendoli, di conseguenza, apparire come trasferibili.

Il contenuto del precetto, di grande rigore nella sua formulazione letterale ma, come si è detto variamente interpretato e applicato nella realtà, è stato nuovamente rimesso in discussione con la legge Bassanini bis, L. 15 aprile 1997, n. 127, che, all'art. 12 comma 3, recita «alle alienazioni di beni immobili di interesse storico artistico dello Stato, dei comuni e delle province, si applicano le disposizioni di cui agli art. 24 e ss. della legge 1 giugno 1939, n. 1089».

Il comma 1 dell'art. 53 del codice, come novellato dal D.lgs. n. 62 del 2008, ripete quasi alla lettera il contenuto dell'art. 823 c.c. ribadendo che «i beni del demanio culturale non possono essere alienati, né formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei limiti e con le modalità previsti dal presente codice», riconoscendo, con ciò al codice quella natura di legge speciale idonea a superare il vincolo della inalienabilità.

All'art. 54 e ss. è affidato il compito di disciplinare quei limiti e quelle modalità cui, in presenza di alienazioni di beni del demanio culturale, è necessario fare riferimento; la formulazione delle norme tuttavia non è chiara e costringe gli operatori ad una attività di raccordo e confronto delle varie disposizioni non sempre agevole.

Dall'analisi coordinata degli articoli 54, 55, 56 e 57-bis è, quindi, possibile dedurre quanto segue.

Con la formulazione dell'articolo 54 il legislatore ha inteso inquadrare le categorie di beni del demanio culturale che devono essere ritenuti inalienabili individuando, da un lato, quelli per i quali l'inalienabilità è assoluta, come:

- gli immobili e le aree di interesse archeologico;

- gli immobili dichiarati monumenti nazionali;

- le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie, biblioteche e archivi;

- gli immobili dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi dell'art. 10, comma 3 lett. d);

- le cose mobili di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre 50 anni se incluse in raccolte appartenenti ai soggetti richiamati al comma 1 dell'art. 53, e dall'altro quelli per i quali l'inalienabilità può essere considerata temporanea o condizionata al verificarsi di determinate situazioni, come:

i beni appartenenti allo Stato o enti pubblici territoriali, enti o istituti pubblici, persone giuridiche private senza fini di lucro, enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che siano di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant'anni fino alla conclusione del loro procedimento di verifica.

Di particolare rilievo può essere considerato il comma 3 dell'articolo in argomento, dove, in considerazione della definizione di demanio culturale e dell'inclusione in tale concetto anche dei beni di proprietà delle regioni e degli enti pubblici territoriali oltre che dello Stato, si prevede che «i beni e le cose di cui ai commi 1 e 2 possono essere oggetto di trasferimento tra lo Stato, le regioni e gli enti pubblici territoriali», intendendo con ciò superata, nei rapporti tra i suddetti soggetti, sia l'inalienabilità assoluta di cui al comma 1, sia quella per così dire relativa o temporanea di cui al comma 2.

Mentre l'articolo 54 definisce le categorie di beni inalienabili, con l'articolo 55 il legislatore individua i limiti e le modalità di alienazione degli immobili appartenenti al demanio culturale e puntualizza che i beni culturali immobili appartenenti al demanio culturale e non rientranti tra quelli di cui al comma 1 dell'articolo 54 (si parla quindi degli immobili di datazione superiore a cinquant'anni e di autore non più vivente per i quali sia stato concluso il procedimento di verifica), non possono essere alienati senza l'autorizzazione del Ministero.

A conferma di come nella disciplina della circolazione dei beni culturali prevalga sempre il rispetto di quelle misure di tutela capaci di garantire la conservazione dei beni stessi, al comma 3-bis si ricorda che l'autorizzazione non può essere rilasciata qualora la destinazione d'uso proposta sia suscettibile di arrecare pregiudizio alla conservazione o fruizione o comunque risulti non compatibile con il loro carattere storico artistico.

Sempre l'articolo 55 fa presente, infine, che il rilascio dell'autorizzazione ad alienare comporta la sdemanializzazione del bene oggetto dell'alienazione; da questo si può dedurre che l'articolo in argomento trova applicazione nei contratti di alienazione dei beni culturali stipulati dai soggetti titolari di demanio con soggetti terzi pubblici o privati (persone giuridiche private senza fini di lucro, enti o istituti pubblici, enti ecclesiastici o privati) mentre le modalità di trasferimento tra lo Stato, le regioni e gli enti pubblici territoriali sono disciplinate dall'articolo 57-bis.

Con l'articolo 56 del codice, invece, sono state dettate disposizioni relative alle modalità autorizzatorie cui devono essere assoggettate le alienazioni aventi ad oggetto tipologie diverse di beni sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo.

Recita, infatti, la norma che è altresì soggetta ad autorizzazione l'alienazione dei beni culturali appartenenti allo Stato, alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali diversi da quelli indicati all'articolo 54 commi 1 e 2, e articolo 55 comma 1, nonché l'alienazione dei beni culturali appartenenti a soggetti pubblici diversi da quelli sopra indicati o a persone giuridiche private senza fini di lucro ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.

Relativamente al primo punto, per una maggior chiarezza, si richiama il parere rilasciato dall'Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali, prot. 13014 del 16 giugno 2009 in cui, a titolo esemplificativo, si individuano le tipologie di beni considerate al comma 1 lett. a) nei singoli beni mobili non inclusi in raccolte, la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant'anni e siano opera di autore non più vivente, dichiarati di interesse a seguito di verifica, oppure i beni contemplati nell'art. 826 del codice civile (le cose di interesse storico, archeologico, paleontologico e artistico da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo), formanti patrimonio indisponibile dello Stato finché non siano stati inventariati e presi in carico nell'ambito delle pubbliche raccolte.

Si ricorda, inoltre, che le disposizioni sopra citate trovano applicazione anche nei confronti della costituzione di pegno o ipoteca oltre che in tutti quei negozi giuridici che possono comportare l'alienazione del bene.

Come già fatto presente, con l'articolo 57-bis, introdotto con D.lgs. n. 62 del 2008, sono state disciplinate le procedure di trasferimento di immobili pubblici.

Recita l'articolo che «le disposizioni di cui agli articoli 54, 55 e 56 si applicano ad ogni procedura di dismissione o di valorizzazione o utilizzazione anche a fini economici di beni immobili pubblici di interesse culturale, prevista dalla normativa vigente ed attuata, rispettivamente, mediante l'alienazione (dismissione), la concessione in uso (valorizzazione) e la locazione (utilizzazione ai fini economici)».

Ne consegue, pertanto, che per gli immobili pubblici e per le tre fattispecie contemplate dell'alienazione, della concessione o della locazione, non è necessario che si proceda preventivamente alla conclusione del procedimento di verifica, mentre deve essere acquisita l'autorizzazione ministeriale, devono essere individuate destinazioni d'uso compatibili con il carattere storico del bene e tutte le prescrizioni/condizioni contenute nei provvedimenti di autorizzazione dovranno essere riportate nei rispettivi atti contrattuali con i quali vengono regolati i rapporti di alienazione, concessione o locazione.

In breve, con l'attuale formulazione del codice si è inteso recuperare pressoché totalmente l'impianto normativo dell'ormai abrogato D.P.R. n. 283 del 2000, assicurando con ciò un controllo più stringente sugli atti e sui piani di dismissione, valorizzazione ed utilizzazione che negli ultimi anni hanno interessato l'intero patrimonio culturale demaniale.

Acquisto in via di prelazione (artt. 59 - 62)

La possibilità per il Ministero di intervenire in un processo di alienazione di un bene culturale vincolato esercitando il diritto di prelazione ha datazione antica, essendo stata prevista già con le leggi del 1939, quella che nel tempo ha subito una continua evoluzione è stata invece la procedura definita, nei passaggi conseguenti alle diverse modifiche normative succedutesi in questi ultimi anni, sin nei più piccoli dettagli sia con riferimento ai soggetti titolari dell'esercizio, sia con riferimento agli aspetti giuridico formali connessi alla forma ed al contenuto della denuncia, sia, infine, con riferimento all'oggetto stesso del diritto, come nel caso di prelazione parziale.

La vetustà dell'istituto ha permesso il formarsi di una giurisprudenza il cui contenuto, attraverso il mutare della percezione sociale dell'esercizio stesso e dell'interesse pubblico ad esso sotteso, ha in un certo qual modo guidato la riforma facendo chiarezza, anche sotto il profilo normativo, di situazioni particolari spesso oggetto di ampio dibattito culturale e sociale.

Può risultare utile, per completezza di esposizione, evidenziare alcuni di questi aspetti come di seguito riportato:

1. facoltà di acquisto in via di prelazione di un bene culturale sia nel caso che sia alienato a titolo oneroso, sia conferito in società al medesimo valore attribuito nell'atto di conferimento;

2. alienazione di un bene con altri per un unico corrispettivo o cessione senza previsione di un corrispettivo in denaro ovvero ceduto in permuta;

3. esercizio di prelazione parziale.

Giova ricordare, preliminarmente ad ogni analisi della fattispecie, che, come per tutti i provvedimenti, anche per quello in argomento la pubblica amministrazione che si avvale della facoltà di acquisto del bene in via di prelazione ha l'obbligo di fornire una oggettiva e valida motivazione della sua scelta che, dovendo fare riferimento all'interesse pubblico di cui l'Amministrazione stessa è portatrice, potrà trovare il suo fondamento o nella conservazione o nella valorizzazione del bene anche attraverso un utilizzo dello stesso rispondente ad un pubblico interesse e rispettoso della sua natura.

Sul primo punto sopra segnalato, l'attenzione è diretta in particolare sulla possibilità riconosciuta dal legislatore di avvalersi della facoltà di esercizio anche per il bene conferito in società, ritenendo con ciò l'atto di conferimento del bene un atto a titolo oneroso.

In una società che nel corso degli anni ha rapidamente e profondamente mutato le sue regole economiche ricorrendo spesso allo strumento societario anche in settori una volta tradizionalmente esclusi dai principi che regolano l'economia, dopo che si è acquisita e confermata la consapevolezza che anche un bene culturale è provvisto di un suo valore finanziario, si è spesso verificato che sono proprio i beni culturali, mobili e immobili, a contribuire alla formazione del patrimonio sociale attraverso l'istituto del conferimento.

Non può, di conseguenza stupire la scelta del legislatore di dichiarare formalmente e con chiarezza la possibilità di esercitare l'acquisto anche in occasione di atti di conferimento del bene in società fornendo, nel contempo, le indicazioni utili a determinarne il prezzo (vedasi articolo 60 comma 1).

Nessuna controindicazione si ritiene possa derivare dalla circostanza che il bene conferito inevitabilmente si collega ad una quota societaria in quanto con l'acquisto l'Amministrazione si limita a convertire in valore finanziario il bene in natura che il soggetto cedente avrebbe conferito senza assumere con ciò alcun ruolo nella gestione della società.

Di particolare interesse appare anche il secondo punto sopra richiamato non tanto per la previsione di alienazione di un bene insieme ad altri per un unico corrispettivo, fattispecie già prevista nella normativa antecedente e sovente verificatasi nella realtà, quanto piuttosto per la molto meno frequente ipotesi di una alienazione senza indicazione di corrispettivo o di una permuta, riconosciuta quest'ultima anch'essa, naturalmente, assimilabile ad un atto a titolo oneroso esattamente come tutti quegli atti in base ai quali il bene culturale sia dato a qualunque titolo in pagamento (per esempio in caso di pegno o ipoteca).

Molto più sfaccettata può essere la realtà in caso di esercizio della prelazione solo su una parte delle cose vendute, come richiamato al terzo punto.

Si legge nel comma 6 del'articolo 61 del codice che «nel caso il Ministero eserciti la prelazione su parte delle cose alienate, l'acquirente ha facoltà di recedere dal contratto» legittimando in tal modo una prelazione parziale.

Diverse possono essere le situazioni suscettibili di determinarsi, come può evincersi dal seguente prospetto:

- prelazione su una parte del bene vincolato, ma su tutta la parte venduta: in questo caso è improprio parlare di una prelazione parziale dato che oggetto del provvedimento è l'intera parte oggetto dell'alienazione. La sostenibilità della scelta dell'Amministrazione dovrà naturalmente trovare il giusto supporto nella motivazione che accompagnerà il provvedimento e che dovrà evidenziare come anche l'acquisizione di una sola parte del bene vincolato possa consentire l'attuazione di un progetto di valorizzazione dello stesso contribuendo con ciò alla sua conservazione e conoscenza;

- prelazione su una parte del bene vincolato a sua volta parte del bene venduto: è questo proprio il caso contemplato dal comma 6 dell'articolo 61 per il quale il codice prevede la facoltà di recesso da parte dell'acquirente. Anche in questo caso, anzi soprattutto in questo caso, l'Amministrazione avrà l'obbligo di motivare la sua scelta dando conto delle ragioni per le quali si procede ad una acquisizione parziale ed in particolare del permanere della validità dell'obiettivo di pubblico interesse che l'Amministrazione stessa intendeva prefiggersi.

Il principio giuridico che vuole l'esercizio del diritto di prelazione subordinato all'esistenza di un formale riconoscimento dell'interesse storico artistico del bene oggetto di alienazione, infine, è suscettibile di determinare situazioni molto particolari in presenza di provvedimenti diretti a tutelare non il bene nella sua interezza, ma una parte limitata di esso priva di una sua autonoma consistenza, per esempio la facciata o un elemento architettonico o decorativo ritenuto di particolare pregio.

Si ritiene che in una simile ipotesi, nell'impossibilità di poter considerare come autonomamente distinto il bene tutelato, sia difficilmente configurabile per l'Amministrazione la possibilità di potersi avvalere della prelazione per l'acquisto dell'immobile.

La riflessione in questo caso, però, non va sulla possibilità o meno per l'Amministrazione di acquisire il bene, quanto piuttosto sulla correttezza della valutazione pregiudizialmente formulata del valore storico del bene limitata a singoli elementi e non al bene nella sua interezza con il suo passato, la sua storia, il suo formarsi e modificarsi nel tempo.

Appare naturale domandarsi, infatti, in questi contesti, con quali modalità possa essere effettivamente esercitata l'azione di tutela nella consapevolezza di dover e poter limitare gli interventi e la vigilanza delle Soprintendenze al singolo elemento notificato senza poter incidere in alcun modo sulla parte rimanente dell'immobile, con il possibile e probabile risultato di conservare fisicamente quell'elemento ma vederlo poi inserito in un contesto completamente trasformato perdendo irrimediabilmente il ricordo del suo passato.

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