I possibili effetti espansivi del futuro regolamento sulle successioni transfrontaliere
I possibili effetti espansivi del futuro regolamento sulle successioni transfrontaliere
di Anselmo Barone
Avvocato in Roma

L'introduzione, nella proposta di regolamento, del certificato successorio europeo, quale mezzo di prova - riconosciuto con identico valore giuridico in tutti gli Stati membri dell'Unione europea - della qualità di erede, pone all'interprete il problema di verificare le possibili implicazioni dell'impatto di tale previsione sull'ordinamento interno.

E' vero, infatti, che i regolamenti, al pari di tutto il diritto dell'Unione europea, non si applicano alle situazioni giuridiche puramente interne, sorte ed esaurite nell'ambito di uno Stato membro.

Non è men vero, tuttavia, che l'applicazione di una norma comunitaria da parte di uno Stato può porre i cittadini di questo in una posizione di svantaggio rispetto a quella dei cittadini degli altri Stati membri, dando cosò vita ad una c.d. “discriminazione a rovescio”.

Con specifico riguardo al tema in esame, per esempio, la possibilità di avvalersi del certificato successorio solo nell'ambito delle successioni transnazionali potrebbe finire per determinare una disparità di trattamento rispetto alle successioni “interne”, in danno degli eredi impossibilitati a conseguire il rilascio di analogo certificato e gravati di una serie di adempimenti (e di costi) per poter esercitare i propri diritti, ereditari appunto.

Ebbene, la Corte di Giustizia ha più volte ribadito che tali situazioni di disparità, indirettamente originate dal diritto comunitario, sono irrilevanti per l'ordinamento dell'Unione europea e possono essere valutate esclusivamente dal giudice nazionale alla luce degli strumenti offerti dal proprio ordinamento (cosò, fra le altre, Corte Giust. 16 giugno 1994, causa C-132/93, Steen II).

Nel nostro Paese, la questione è stata affrontata prima sul piano giurisprudenziale e poi dal punto di vista legislativo.

La Corte Costituzionale, nella sent. n. 443/1997, ha dichiarato le discriminazioni a rovescio, derivanti dalla coesistenza di norme interne più restrittive delle posizioni soggettive individuali con norme derivanti dall'ordinamento comunitario, incompatibili con l'art. 3 Cost., censurando dunque le norme italiane.

Per la Corte «all'impatto con il nostro sistema giuridico, quello spazio di sovranità che il diritto comunitario lascia libero allo Stato italiano non può risolversi in pura autodeterminazione statale o in mera libertà del legislatore nazionale, ma è destinato ad essere riempito dai principi costituzionali e, nella materia di cui si tratta, ad essere occupato dal congiunto operare del principio di eguaglianza e della libertà di iniziativa economica, tutelati dagli art. 3 e 41 Cost.».

Dopo la presa di posizione del Giudice costituzionale (più di recente ribadita con la sent. n. 341/07), ad affrontare il problema delle discriminazioni a rovescio è intervenuto il legislatore, che, progressivamente, ha introdotto il principio della parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell'Unione europea residenti o stabiliti nel territorio nazionale. Invero, dapprima l'art. 2, comma 1, lett. h, della legge comunitaria per il 2004 (legge 18 aprile 2005, n. 62) ha previsto che i decreti legislativi di attuazione delle direttive comunitarie «assicurano che sia garantita una effettiva parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri Stati membri dell'Unione europea, facendo in modo di assicurare il massimo livello di armonizzazione possibile tra le legislazioni interne dei vari Stati membri ed evitando l'insorgere di situazioni discriminatorie a danno dei cittadini italiani nel momento in cui gli stessi sono tenuti a rispettare, con particolare riferimento ai requisiti richiesti per l'esercizio di attività commerciali e professionali, una disciplina più restrittiva di quella applicata ai cittadini degli altri Stati membri».

Successivamente, l'art. 6, lett. d, legge 7 luglio 2009, n. 88 (legge comunitaria 2008), ha inserito nella legge 4 febbraio 2005, n. 11 (“Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo dell'unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari”), l'art. 14-bis a tenor del quale: «1. Le norme italiane di recepimento e di attuazione di norme e principi della Comunità europea e dell'Unione europea assicurano la parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell'Unione europea residenti o stabiliti nel territorio nazionale e non possono in ogni caso comportare un trattamento sfavorevole dei cittadini italiani. 2. Nei confronti dei cittadini italiani non trovano applicazione norme dell'ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento dei cittadini comunitari residenti o stabiliti nel territorio nazionale».

Una significativa applicazione giurisprudenziale dei sopra richiamati principi, cosò come enunciati dalla Corte Costituzionale e dal legislatore, è offerta dalla sentenza del Tar Veneto n. 3630/07, riguardante la questione della disparità di trattamento creata all'interno dell'ordinamento italiano dall'art. 52 del R.D. n. 2537/25. In base a tale disposizione, agli ingegneri civili che hanno conseguito il diploma di laurea in Italia è impedito l'accesso a talune attività professionali che l'Amministrazione statale non può, invece, vietare agli ingegneri civili (o possessori di titoli analoghi), i quali abbiano ottenuto il titolo in altri Stati membri e godano, quindi, in forza di specifica normativa comunitaria (direttiva n. 384/85, recepita con D.lgs. n. 129/92), della equiparazione dei titoli di ingegnere civile ed architetto.

Per il Tar, oltre a violare il principio costituzionale di uguaglianza, il ripetuto art. 52 si pone anche in frontale contrasto con i precetti comunitari. Invero, «nel momento in cui la normativa europea afferma che l'ingegnere civile laureatosi in Italia può svolgere l'attività propria dell'architetto in tutta Europa, ma (in virtù di una norma interna) non in Italia, si offre al giudice italiano un parametro normativo per un giudizio di disapplicazione della norma interna contrastante con quella europea. E' evidente l'arbitraria discriminazione a danno degli ingegneri civili italiani operata dalla norma in esame, i quali, equiparati agli ingegneri civili ed agli architetti europei dalla normativa comunitaria, possono esercitare, diversamente da questi ultimi, l'attività professionale riservata ai titolari di diploma di architetto in tutta l'Europa, ma non in Italia: discriminazione che, trovando causa nel contrasto tra la normativa nazionale e il diritto comunitario, va risolta con la disapplicazione della disciplina interna e la conseguente invalidità degli atti applicativi». Per i giudici aSmministrativi, inoltre, l'anzidetto art. 52 «contrasta anche con il principio di parità introdotto dall'art. 2, comma 1, lett. h, della legge comunitaria 2004 (legge 18 aprile 2005, n. 62), tale principio, pur contenuto in una norma particolare (relativa all'emanazione dei decreti legislativi di attuazione di specifiche direttive comunitarie), deve ritenersi di applicazione generale, perché diversamente si creerebbe una disparità di trattamento contraddittoria con la stessa ratio del principio».

In un quadro normativo cosò novellato, non appare agevole circoscrivere la portata precettiva del futuro regolamento, in parte qua, alle sole successioni transfrontaliere, attesa la forza espansiva della previsione del certificato successorio europeo e la prospettabilità, proprio alla stregua dei ricordati principi “antidiscriminatori”, della estensione del suo ambito di applicazione anche alle successioni meramente “interne”.

Soprattutto, è difficile immaginare che la introduzione dell'anzidetto certificato non induca anche il legislatore statale ad una riflessione sulla opportunità di adottare disposizioni di adeguamento dell'ordinamento interno alle previsioni del (futuro) regolamento, al fine di evitare l'insorgere di situazioni di disparità di trattamento non compatibili con l'attuale contesto ordinamentale in cui, oltretutto, vige il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione.

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