Le forme giuridiche emergenti ed esistenti
Le forme giuridiche emergenti ed esistenti
di Marco Maltoni
Notaio in Forlì

L'oggetto dell'intervento

Non vi è dubbio che, nella sua potenzialità generalità, il titolo della relazione che mi è stata assegnata è espressivo, in forma sintetica, di un contenuto reso determinabile, e quindi circoscritto, per relationem al tema generale del Convegno, dedicato al trasferimento delle aziende, ed alle problematiche giuridiche e fiscali che lo caratterizzano.

Poiché "trasferimento" è termine espressivo di un effetto, cioè di un risultato, il mio intervento è necessariamente volto al tentativo di offrire una panoramica generale delle tecniche giuridiche che l'ordinamento consegna agli operatori per conseguire quel risultato.

Atteso che l'ordinamento è composto da norme giuridiche, vale a dire da regole di soluzione dei conflitti che possono sorgere nel mondo degli scambi e delle relazioni commerciali, il mio compito, in definitiva, è quello e solo quello di individuare e specificare le discipline approntate per regolare ed attuare il risultato economico del trasferimento di un'azienda, cioè del mutamento di titolarità di quel complesso di beni funzionalmente idoneo all'esercizio di un'attività di impresa.

In tale prospettiva il titolo della relazione potrebbe così essere riscritto nei seguenti termini: "le discipline giuridiche emergenti ed esistenti del trasferimento dell'azienda".

Trasferimento evoca il mutamento di titolarità. Voglio fin dall'inizio anticipare che dall'analisi delle discipline normative emerge che:

a. il mutamento di titolarità in cui consiste il trasferimento si presta ad essere specificato e predicato di ulteriori qualità, potendo essere sostanziale o formale, dovendosi intendere in senso solo formale ogni qualvolta non si verifichi un mutamento dei referenti finali dell'attività, di coloro che sono destinatari dei risultati dell'attività e che in quanto tali la governano;

b. che le stesse discipline sono costruite valutando la ricorrenza del fatto sostanziale o solo formale per la diversità di interessi economici che vengono in gioco.

Discipline giuridiche del trasferimento di azienda: selezione e ragioni economiche

Come noto, quando oggetto della vicenda traslativa sia un'azienda, per scelta volontaria dei contraenti o per qualificazione oggettiva della fattispecie (Colombo), si determina l'applicazione di una disciplina peculiare, in parte di natura imperativa, in parte di natura dispositiva, contenuta negli artt. da 2557 a 2560, nell'art. 2112, nell'art. 2610 c.c.

Occorre fin da subito evidenziare che, valutato in chiave funzionale, cioè di scopo perseguito, il regime normativo richiamato mira a garantire la continuità quale risultato del trasferimento dell'azienda, eliminando o attenuando le ordinarie regole che presiedono ai rapporti di scambio contenute nel IV libro del codice civile.

Paradigmatica in tal senso è la disciplina dell'art. 2558, che deroga alle ordinarie regole in tema di cessione del contratto di cui agli artt. 1406 e ss. c.c. Considerazioni analoghe potrebbero essere riferite alla disciplina prevista nell'art. 2559 per la cessione dei crediti di impresa.

Al contempo, tuttavia, non vengono eliminate le regole di protezione del terzo ceduto, in ragione del mutamento sostanziale della titolarità del compendio aziendale, ovvero dei referenti finali dell'attività: quindi, seppur in forma attenuata, si attribuisce rilievo alla discontinuità, consegnando al contraente ceduto la facoltà di recesso per giusta causa, nell'ambito della quale è annoverata, per esempio, l'inaffidabilità economica dell'acquirente.

Ciò detto, non mi pare tuttavia di particolare interesse ripercorrere i temi e le questioni classiche sollevate dal regime contenuto negli artt. 2256 e ss. c.c.

Intendo invece soffermarmi su due fattispecie note, ed una emergente.

Le prime sono quelle della scissione di società e del conferimento di azienda in società.

Normalmente il Notariato è abituato a valutare dette operazioni dalla prospettiva della modifica dell'organizzazione sociale, nell'adempimento dell'obbligo di controllo di legittimità imposto nell'art. 2436 c.c.

Quelle stesse operazioni, invece, già nell'ottica degli aziendalisti e nella prospettiva dei contraenti, sono ben altro.

Per i protagonisti della vicenda economica, infatti, «l'operazione di conferimento d'azienda consiste nel trasferimento di un complesso aziendale il cui corrispettivo non è rappresentato da denaro, ma da azioni o quote della società conferitaria, che, allo scopo, aumenta il proprio capitale sociale» (Savioli). In tale prospettiva, dunque, la differenza, rispetto ad una vendita di azienda, consiste nella natura del corrispettivo, con rilevanti conseguenze sul piano delle economie individuali dei contraenti, poiché il cedente non esce dal business convertendo l'investimento iniziale nell'azienda in denaro, ed il cessionario non sostituisce nel suo patrimonio con l'azienda il denaro corrisposto a titolo di prezzo, ma incrementa il proprio patrimonio netto, senza alcuna riduzione dell'attivo o lievitazione del passivo.

Sempre nell'ottica degli aziendalisti la scissione attua un trasferimento di componenti patrimoniali senza richiedere il denaro come mezzo di regolamento degli interessi economici concorrenti e confliggenti. La scissione, come il conferimento, «permette l'incontro di attori contrattuali che non vogliono tradurre il loro investimento originario in denaro, ma sono solo disposti a combinare i proprio interessi aziendali con quelli di altri soggetti verso fini comuni» (Savioli).

A differenza del conferimento, tuttavia, le partecipazioni nella società che incrementa il patrimonio per effetto dell'apporto attuato sono attribuite ai soci (referenti finali dell'attività economica) e non alla società, che subisce per tanto un depauperamento patrimoniale, fino ad estinguersi (scissione totale).

Dunque, dal punto di vista degli operatori economici il conferimento e la scissione possono essere strumenti di attuazione di un programma negoziale che ha per oggetto un'azienda.

L'intenzione delle presenti note diviene quella di verificare per cenni come reagisce la disciplina dettata per il trasferimento di azienda allorché viene a contatto con le norme specifiche che presiedono le singole operazioni societarie.

Scissione con assegnazione di azienda alla beneficiaria: quale disciplina presiede alla vicenda circolatoria?

Le teorie degli aziendalisti e l'ammissibilità della scissione a favore di società beneficiaria preesistente con soci diversi o della scissione non proporzionale consentono di ravvisare nella beneficiaria una sorta di "acquirente" del compendio aziendale.

L'assimilazione concettuale al trasferimento di azienda ha alimentato approfondite riflessioni in ordine all'applicazione estensiva o analogica delle norme degli artt. 2557 e ss. c.c. alla scissione.

In proposito la dottrina più recente (Scognamiglio, Lucarelli) ha dimostrato l'inutilità dell'applicazione per derivazione delle norme in tema di trasferimento di azienda: i possibili conflitti di interesse che si possono proporre in caso di scissione sono risolti in via autonoma e autosufficiente dal microsistema normativo ad essa dedicato.

Secondo la dottrina più autorevole alla base di tale conclusione vi è la natura della scissione quale riscontrabile dal dettato normativo che consente di ravvisarvi (Scognamiglio) una vicenda organizzativa dell'attività in quanto il mutamento di imputazione formale di parte o di tutto il patrimonio si attua senza che sia liquidato l'investimento originario dei soci, il quale continua a costituire il titolo giuridico della loro partecipazione all'attività: «in qualunque forma si realizzi essa implica perciò continuazione nell'attività e continuità dell'originario rapporto di partecipazione sociale» (Scognamiglio).

Al centro del fenomeno vi è l'intento dei soci della scissa, titolari in senso sostanziale del patrimonio trasferito, di continuare l'attività pro parte nelle società beneficiarie ovvero nella scissa (Scognamiglio).

Come rileva la medesima dottrina (Scognamiglio) nella scissione parziale si realizza un fenomeno di separazione di parte del patrimonio finalizzata alla prosecuzione dell'attività sotto altra forma o attraverso una diversa società: ma anche in questo caso ciò che prosegue è il rapporto sociale facente capo a ciascuno dei soci, non a caso qualificati come parti sostanziali dell'operazione.

La qualità che caratterizza l'istituto, dal punto di vista normativo, è la continuità, innanzitutto della partecipazione del singolo socio, poiché il fondamento giuridico della sua partecipazione nella beneficiaria è rappresentato dall'investimento iniziale, senza che possa essergli richiesto alcun ulteriore apporto; continuità anche dal punto di vista valoristico, come dimostra la disciplina del rapporto di cambio.

Muovendo da tali presupposti Scognamiglio conclude che, rilevato che l'intento tipico del socio della scindente è quello di proseguire nella sua partecipazione all'attività e detto intento permea di sé la disciplina, ne deriva che la scissione consiste in un fenomeno di continuazione sotto diverse forme dell'attività.

Il ricavo interpretativo che ne consegue è che il principio di continuità governa anche il passaggio di diritti e di obblighi che facevano capo alla scissa e che vengono assegnati alla beneficiaria. Senza l'affermazione di quella regola, peraltro, il fine del socio resterebbe privato di significato e contenuto economico.

Ne consegue, quale corollario applicativo, l'esonero dalle regole che governano la circolazione dei beni atomisticamente considerati, in quanto funzionali al mutamento di titolarità sostanziale che il legislatore esclude, con la continuità della partecipazione dei soci, proprietari in senso sostanziale del patrimonio sociale, che nella circostanza si produce; il mutamento di titolarità è solo formale (Scognamiglio; nello stesso senso Lucarelli).

La disciplina della scissione, in tale prospettiva e con tale funzione, è agevolativa, in quanto diretta a rendere più semplice e meno costoso il processo di riorganizzazione delle imprese.

Si ritorna al concetto rievocato nell'incipit: le norme giuridiche hanno solo la funzione di risolvere conflitti di interesse ed il contenuto delle norme esprime scelte di politica legislativa a prescindere da eredità dogmatiche.

La disciplina della scissione dimostra che il legislatore, comunitario prima, nazionale poi, ha sottoposto quella vicenda che presenta i connotati della scissione, quali definiti nell'art. 2506 c.c., al principio di continuità assoluta, ascrivendole il valore di vicenda dell'organizzazione e non dei beni. Emblematico, e chiarificatore dal punto di vista sistematico, è il mutamento terminologico operato in sede di riforma da "trasferimento" ad "assegnazione" nell'ambito della definizione della fattispecie (Lucarelli).

Mediante la scissione mutano i nomi, si creano più patrimoni destinati, ma la disciplina di diritto positivo, affermando il principio di continuità dei rapporti giuridici, dimostra che per il legislatore si tratta di un mero problema di imputazione formale e non sostanziale, che deve essere risolto mediante applicazione delle norme sulla circolazione nei limiti strettamente necessari (così Lucarelli).

Il che conferma che la qualificazione è sempre e solo un problema di disciplina, ossia di regole tramite le quali risolvere i conflitti di interesse che si propongono sul piano concreto, e non una questione di dogmi ereditati dalla tradizione giuridica, a cominciare dal dogma del legame necessario soggetto-bene, per cui ogni nome coincide con un soggetto e quando cambia il nome del proprietario di un bene quest'ultimo non può che circolare dal precedente (nome) al successivo (nome) (Lucarelli).

Dunque, tornando alle qualificazioni proposte dagli aziendalisti, la scissione può dar luogo, fra l'altro, ad uno scambio fra un compendio di beni, quale un'azienda, e le partecipazioni nella beneficiaria, ma il legislatore ha inteso consentire l'attuazione del programma economico in piena continuità, per cui non si applica il regime circolatorio di cui agli artt. 2558 e ss.

In prospettiva applicativa e di confronto competitivo fra discipline, è importante comprendere a quale responsabilità vada incontro la beneficiaria a cui sia assegnata un'azienda rispetto ai debiti anche risultanti dalle scritture contabili della scissa.

La dottrina (Scognamiglio) evidenzia che la tutela del ceto creditorio non è affidata alla responsabilità ex art. 2560, ma a due strumenti alternativi: in primo luogo il diritto di opposizione; in secondo luogo la responsabilità solidale delle società a cui il debito specifico non è stato assegnato, ma nei limiti del valore effettivo della quota di patrimonio netto assegnata.

Occorre tuttavia rilevare che la responsabilità della beneficiaria, nei limiti suddetti, si estende anche a tutti i debiti non evidenziati nel progetto di scissione, perché ignoti, perché successivi alla redazione delle situazioni patrimoniali di riferimento.

Per tale via, nella scissione, a differenza della cessione di azienda, ricevono adeguata tutela anche i creditori c.d. inconsapevoli, i creditori involontari, e tutti coloro i cui crediti per qualsiasi ragione non trovano indicazione nelle scritture contabili.

In tal senso la disciplina risulta più garantista di quella dell'art. 2560 c.c., che si limita a prevedere la responsabilità dell'acquirente per i crediti risultanti dalle scritture contabili e sul presupposto della natura commerciale dell'azienda trasferita.

Il conferimento di azienda in società di capitali

In caso di conferimento di azienda non vi è dubbio che si dia luogo ad un mutamento della titolarità sostanziale del compendio, poichè il trasferimento attua la ragione economica dell'operazione.

In tale situazione, è tesi corrente che trovi integrale applicazione la disciplina contenuta negli artt. 2556 e ss. c.c. (Marchetti; Miola). Dunque, è orientamento pacifico che trovi applicazione anche l'art. 2560 comma 2 c.c., che estende all'acquirente (conferitaria) la responsabilità per i debiti inerenti all'esercizio dell'azienda.

La disciplina propria del trasferimento di azienda, tuttavia, relativamente alle società di capitali, deve essere necessariamente integrata dalla particolare normativa imperativa che regola i conferimenti in natura, contenuta nell'art. 2343 e nell'art. 2465 c.c.

Nella prospettiva della società conferitaria, e pertanto nella logica dell'acquirente, la disciplina speciale sembra approntare un sistema di garanzie legali più efficace rispetto all'ipotesi di acquisti dell'azienda mediante stipulazione di un ordinario contratto di scambio.

I tratti di disciplina che inducono tale conclusione sono rappresentati:

- in primo luogo dalla necessità di una relazione di stima ad opera di un soggetto indipendente che risponde personalmente delle attestazioni eseguite;

- in secondo luogo dalla procedura di verifica del valore del conferimento fissata nell'art. 2343, e dei conseguenti rimedi legali, al cui servizio è posta tutt'ora l'indisponibilità delle azioni da parte del disponente;

- in terzo luogo dall'applicazione dei rimedi previsti per i contratti di scambio in virtù del rinvio attuato dall'art. 2342 all'art. 2254, applicazione possibile nei limiti della compatibilità con le peculiarità del conferimento in società.

E' tesi condivisa che l'accertamento della effettiva consistenza patrimoniale del conferimento in natura sia un interesse che accomuna i creditori sociali e gli altri soci, controinteressati in senso sostanziale al conferente, poiché destinatari finali dei risultati economici dell'impresa esercitata in forma societaria nella quale hanno investito mezzi propri.

Si tratta allora di cogliere, dall'angolo di prospettiva di questi ultimi, se vi sono e quali sono le caratteristiche della disciplina del conferimento che assicurano maggior tutela all'acquirente (in senso formale la società, in senso sostanziale gli altri soci) rispetto al mero acquisto della stessa azienda; secondariamente, le lacune della disciplina del conferimento a cui è necessario porre rimedio in via statutaria o mediante apposite clausole contrattuali (il contratto di conferimento di azienda) sotto forma di rappresentazioni e garanzie (representations and warranties) (Cassottana; Cincotti).

Con riferimento alle garanzie in ordine ai vizi dei beni, alla mancanza di qualità, ed in generale alle insussistenze, va rilevato che vi è generale concordia nel ritenere che non sia nella disponibilità della società conferitaria l'azione negoziale di risoluzione, perché incompatibile con il divieto di restituzione dei conferimenti (art. 2626) ed in generale con la natura giuridica della società. Restano certamente esperibili le azioni di adempimento ed il rimedio risarcitorio (Cassottana).

Come rilevato, il rafforzamento della tutela dell'acquirente in caso di conferimento si impone, in via legale, tramite in primo luogo l'obbligo di produrre una relazione di stima giurata, obbligo che, anche qualora ci si avvalga delle tecniche alternative di conferimento di cui all'art. 2343-ter c.c., può riemergere per scelta degli amministratori della società conferitaria, quindi per scelta dell'acquirente.

Già sotto questo profilo sembra plausibile configurare una potenziale responsabilità del conferente per la completezza, la verità e la correttezza dei dati contabili forniti all'esperto, quasi fosse implicita una sorta di representation di tipo sintetico, almeno se le attestazioni erronee, incomplete o false siano risultate fuorvianti per la valutazione dell'esperto (Cassottana).

Lo strumento di tutela legale dell'acquirente (società conferitaria) più rilevante è tuttavia rappresentato dal procedimento di revisione legale delle valutazioni contenute nella relazione di stima o comunque, ex art. 2343-quater c.c., nella perizia utilizzata per il conferimento.

Come rileva la dottrina (Cincotti) il procedimento di revisione di stima di cui all'art. 2343 commi 3 e 4, prevede una sorta di «garanzia sintetica ex lege relativamente al valore del bene conferito, nel contempo attribuendo agli amministratori della conferitaria una sorta di potere di autotutela di un'ampiezza senza confronti nelle normali operazioni di acquisizione di complessi aziendali».

Infatti, la disciplina legale, sia nella formulazione contemplata nell'art. 2343, sia in quella dell'art. 2343-quater c.c., con diverse declinazioni:

a. rimette agli amministratori della conferitaria, quindi all'acquirente, il potere di procedere alla revisione, quindi la facoltà di condurre una due diligence successiva all'acquisto, nel momento in cui il complesso aziendale nella loro piena disponibilità, senza predeterminare i criteri di valutazione;

b. assegna all'acquirente un rimedio reale, consentendogli di ridurre unilateralmente il prezzo dell'acquisto, salva la facoltà per la parte conferente di procedere all'integrazione in denaro del conferimento;

c. nelle more del termine legale il corrispettivo per la cessione dell'azienda, ovvero le azioni sottoscritte dal conferente, resta "congelato", in quanto intrasferibili.

Si può anche rilevare che secondo la dottrina la procedura suddetta deve trovare applicazione anche nel caso in cui si rilevino vizi o mancanza di qualità essenziali dei beni conferiti, o di insussistenze materiali, poiché generano una minusvalenza, ferma la possibilità dell'integrazione in denaro da parte del conferente (Cassottana).

Tale disciplina, che vale solo per le società per azioni, presenta tuttavia alcuni punti deboli dall'angolo di prospettiva dell'acquirente.

Si riconosce, infatti, al conferente una franchigia pari al 5% del valore complessivo del conferimento, entro la quale non può essere azionata dalla società conferitaria alcuna tutela legale.

Inoltre, decorsi sei mesi non risulta più possibile avvalersi dei rimedi legali per compensare le eventuali sopravvenienze passive o minusvalenze dell'attivo e si potrà determinare una perdita anche di capitale.

Ne consegue l'importanza e la rilevanza dell'intervento dell'autonomia privata, per prevedere nel contratto di conferimento di azienda una serie di rappresentazioni e garanzie che consentano alla società conferitaria di attivare dei rimedi contrattuali, alla stregua di qualsiasi acquirente di azienda (Cassottana; Cincotti).

Come noto, nella società a responsabilità limitata è stata eliminata la previsione legale della procedura di revisione legale del valore di conferimento ad opera degli amministratori. L'art. 2465 c.c. non richiama infatti i commi 3 e 4 dell'art. 2343 c.c.; il rinvio puntuale effettuato invece al comma 2 induce ad escludere la possibilità di un recupero interpretativo della procedura citata.

Non rilevano ai fini delle presenti note le ragioni della soppressione; giova invece evidenziare che la dottrina (Cacchi Pessani) è orientata nel senso di ritenere legittima l'inserzione nello statuto di clausole che consentono di replicare la disciplina della revisione della relazione di stima e delle sue conseguenze, quale prevista nell'art. 2343 c.c. seppur con alcuni accorgimenti.

Inoltre, «l'autonomia privata e statutaria dei soci non si ferma alla definizione dell'oggetto della revisione e delle modalità del riequilibrio delle posizioni relative ai soci. I soci possono anzi disciplinare anche i termini della revisione e il procedimento ... nonché il soggetto chiamato ad effettuare la revisione ... (un arbitratore ex art. 1349 c.c.)», nonché l'eventuale aggiustamento del valore di scambio che debba andare a vantaggio del conferente poiché il valore del conferimento si è incrementato medio tempore (Cacchi Pessani).

Mi pare importante segnalare un dato: si tratta di previsioni che non riverberano nell'interesse dei terzi creditori, se non indirettamente in quanto discrezionali e facoltative, e quindi operanti solo nell'interesse dei soci, vale a dire nell'interesse delle controparti in senso sostanziale del conferente.

Il che conferma come la disciplina sia ispirata anche da un'esigenza di tutela di interessi privati.

La trasformazione di comunione di azienda: discontinuità soggettiva e disciplina applicabile

La terza, più innovativa, "forma" di trasferimento dell'azienda è rappresentata dalla trasformazione di comunione di azienda in società o viceversa.

La fattispecie attua infatti anche il mutamento formale della titolarità del patrimonio, e non solo la mera modificazione delle regole di organizzazione dell'attività, a differenza di quanto accade in ogni altra fattispecie di trasformazione, anche eterogenea.

Dunque, la trasformazione di o in comunione di azienda sembra realizzarsi, almeno formalmente, nel segno della discontinuità soggettiva, al punto che pare possibile ravvisare in essa una soluzione alternativa alla liquidazione estintiva della società con assegnazione del complesso aziendale (trasformazione regressiva) o alla costituzione della società con conferimento di azienda (trasformazione progressiva).

In caso di trasformazione di società, infatti, si determina un risultato assimilabile, almeno dal punto vista economico, ad un'assegnazione dell'azienda sociale ai soci: effetto che fino ad oggi non poteva prodursi che al termine della fase di liquidazione in vista dell'estinzione dell'ente.

Alla stessa stregua, la trasformazione di comunione di azienda in società di capitali consente di derogare alle norme ed ai principi che regolano il conferimento di azienda.

Atto di conferimento (o di assegnazione) e atto di trasformazione divengono concorrenti sul piano funzionale, in quanto consentono di guadagnare il medesimo risultato.

Affermata l'equivalenza del risultato che, nella fattispecie, consentono di conseguire l'atto di conferimento e l'atto di trasformazione, mi pare che il dilemma si risolva innanzitutto in un problema di concorrenza di discipline.

Come già evidenziato, il conferimento di azienda, sia essa di proprietà individuale o in comproprietà, soggiace alle disposizioni dettate in tema di trasferimento di azienda.

Fino all'avvento della riforma, non vi era dubbio che il "passaggio" da comunione di azienda a società (e viceversa, sub specie "atto di assegnazione") fosse retto da tale disciplina.

La "riqualificazione" di tale vicenda come trasformazione si traduce nella sottrazione della fattispecie sia alle regole di circolazione dell'azienda e dei singoli beni che la compongono, sia ai rimedi ed alle tutele riconosciuti ai terzi che trovino fondamento in una vicenda traslativa di carattere derivativo.

La situazione di mutamento formale della titolarità del compendio aziendale che la fattispecie realizza, infatti, è sottratta a tali regole in virtù della tipizzazione normativa della vicenda quale trasformazione.

In altri termini, si assiste nella circostanza ad una valutazione del legislatore che sottrae il passaggio da società in comunione di azienda e viceversa alla disciplina tipica delle vicende traslative mediante la sua qualificazione in termini di trasformazione ed alla conseguente riconduzione del medesimo alla disciplina di quest'ultimo istituto.

Per coerenza, non possono trovare applicazione le norme che presuppongono una vicenda traslativa di natura derivativa, a cominciare da quelle in tema di cessione di azienda fino a quelle poste a tutela del ceto creditorio, quale l'azione revocatoria, o alle azioni contrattuali (nullità, annullabilità, rescissione).

La disciplina della trasformazione sancisce la continuità assoluta dei rapporti e si preoccupa solo della tutela dei creditori (artt. 2500-novies e 2500-quiquies e 2500-sexies ultimo comma), alla stregua di quanto sopra rilevato, mutatis mutandis, in tema di scissione.

La trasformazione è infatti disegnata come una vicenda evolutiva delle regole di organizzazione di un'attività, senza che pertanto mutino i rapporti fra i partecipanti all'attività e senza che muti il riferimento sostanziale di coloro che hanno stretto relazioni contrattuali per lo svolgimento di tale attività.

Sebbene dal punto di vista funzionale alla trasformazione giuridica debbano oggi ascriversi significati nuovi, che valgono - si ribadisce in chiave funzionale - a porre l'istituto in posizione alternativa al processo costitutivo (con il quale viene impresso un vincolo di destinazione ai beni) o al processo dissolutivo (con il quale viene soppresso il medesimo vincolo di destinazione) di una società, non sembra possibile ignorare il significato che etimologicamente le è proprio di mutamento, di conversione, di passaggio da uno stato iniziale, caratterizzato da determinati parametri, ad uno stato finale, caratterizzato da altri parametri, attraverso una successione continua di stadi intermedi.

Non si riscontra allora, evidentemente, la ricorrenza del possibile conflitto fra interessi che le norme del contratto di scambio mirano a risolvere.

Ne deriva che la disciplina della trasformazione si giustifica per l'assenza dei conflitti di interessi considerati dalle norme sui contratti di scambio e può trovare applicazione nel presupposto dell'assenza di tali conflitti.

E' un problema di identificazione dei limiti dell'area di trasformabilità; il che significa, stante la possibile equivalenza funzionale fra trasformazione e costituzione o soppressione della società, capire in presenza di quali condizioni e di quali presupposti l'ordinamento consente di avvalersi alternativamente delle diverse tecniche di destinazione patrimoniale o di soppressione della destinazione.

La soluzione è offerta dalla stessa disciplina, che fa della continuità il carattere essenziale dell'operazione anche sul piano dei presupposti. In sintesi, perché si possa applicare la disciplina della trasformazione, in luogo di quella del conferimento, occorre che sia assicurata la continuità soggettiva ed oggettiva, così che non si dovrà avere alcun mutamento né dei referenti finali dell'attività (tutti i comproprietari devono diventare soci e viceversa) né degli elementi patrimoniali, di qualsiasi natura, che compongono l'azienda (la possibilità di selezionare è facoltà connesso solo all'applicazione della disciplina del trasferimento dell'azienda e quindi al conferimento).

BIBLIOGRAFIA

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