Il trasferimento dell'azienda nell'imposta di registro: orientamenti giurisprudenziali
Il trasferimento dell'azienda nell'imposta di registro: orientamenti giurisprudenziali
di Vincenzo Busa
Direttore della Direzione centrale Affari legali e Contenzioso, Agenzia delle entrate
Nozione di azienda
L'articolo 2555 del codice civile definisce l'azienda come «il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa».
Con riguardo agli atti dispositivi aventi ad oggetto un insieme di beni aziendali (alienazione a titolo oneroso o gratuito, conferimento, ecc.) è determinante stabilire, anche per le ripercussioni sulla disciplina fiscale (come evidenziato in seguito), quando si è in presenza di una cessione d'azienda (o di un ramo) e quando invece la cessione si limita ad uno o a più beni facenti parte del complesso aziendale.
La cessione d'azienda - Aspetti fiscali
Ai fini dell'imposizione indiretta, stante il principio di alternatività Iva/registro, per individuare il corretto trattamento fiscale del trasferimento d'azienda occorre in primo luogo verificare se tale fattispecie rientra nel campo di applicazione dell'imposta sul valore aggiunto.
Ai sensi dell'articolo 2, comma 3, lettera b, del D.P.R. n. 633 del 1972, non sono considerate cessioni di beni «le cessioni e i conferimenti in società o altri enti compresi i consorzi e le assicurazioni o altre organizzazioni, che hanno per oggetto aziende o rami di azienda».
Dall'esclusione della rilevanza ai fini Iva consegue che il trasferimento dell'azienda o di rami della stessa deve essere assoggettato all'imposta di registro. Diversamente, il mero trasferimento di uno o più beni facenti parte del complesso aziendale resta assoggettato ad Iva, secondo le regole ordinarie. Attesa la rilevanza fiscale che tale operazione generalmente assume, spesso l'imprenditore cede i beni frazionatamente, con la tecnica del c.d. "spezzatino", così da applicare illegittimamente l'Iva in luogo dell'imposta di registro e scontare un carico fiscale sensibilmente inferiore. Invero, la cessione dell'azienda sconta l'imposta di registro sul valore complessivo dei beni che la compongono, compreso l'avviamento, mentre la cessione di singoli beni si avvale del regime di neutralità dell'Iva, che - come è noto - prevede l'obbligo di esercitare la rivalsa per il cedente e il diritto alla detrazione per il cessionario. Vi è peraltro un ulteriore vantaggio nel configurare l'oggetto della cessione in termini di singoli beni anziché di azienda: perdendo di vista l'azienda, infatti, viene sottratta a tassazione anche l'elemento connaturale della stessa, ossia l'avviamento.
In concreto, la distinzione dà luogo a notevoli difficoltà applicative e ad un ingente contenzioso. Pur non potendosi prescindere da una valutazione del singolo caso concreto, la giurisprudenza - civile e tributaria - ha fornito, negli anni, specifiche indicazioni circa gli elementi che devono essere valorizzati per configurare un trasferimento d'azienda.
In materia civile, la giurisprudenza - alla luce della nozione recata dall'articolo 2555 del c.c. - ha più volte affermato che per trasferimento di azienda si intende il trasferimento di un complesso unitario di beni organizzati [nota 1] a fini economici, di per sé idoneo a consentire l'inizio o la continuazione di una determinata attività imprenditoriale, anche non necessariamente la stessa esercitata dal cedente.
In tema di registro, nella sentenza 10 ottobre 2008, n. 24913, la Corte di Cassazione ha chiarito che si ha cessione d'azienda quando le parti non hanno inteso trasferire una semplice somma di beni, ma un complesso organico unitariamente considerato, dotato di una potenzialità produttiva, tale da farne emergere ex ante la complessiva attitudine anche solo potenziale all'esercizio di impresa, ovverosia quando «i beni strumentali ceduti siano atti, nel loro complesso e nella loro interdipendenza, all'esercizio di una impresa (anche se non si richiede che tale esercizio sia attuale, essendo sufficiente l'attitudine potenziale all'utilizzo per un'attività d'impresa, né che la cessione comprenda anche le relazioni finanziarie, commerciali e personali)» [nota 2] (sul punto anche la recentissima sentenza n. 9163 del 16 aprile 2010).
Al fine di qualificare un atto di trasferimento come cessione di azienda, la Cassazione ha fissato i seguenti principi:
- «non rileva la circostanza che i singoli beni aziendali siano stati ceduti globalmente o con più atti separati»;
- così come non rileva la circostanza «che il cedente sia un soggetto non munito di autorizzazioni all'esercizio dell'attività dell'azienda»;
- e nemmeno la circostanza «che al momento della cessione l'azienda fosse concretamente esercitata»;
- non rileva altresì «la mancanza di un corrispettivo a fronte dell'avviamento»;
- non vale ad escludere l'azienda il fatto che alcuni beni non figurano più nel complesso dei beni oggetto di cessione in quanto già ceduti in precedenza [nota 3];
- non rileva, infine, la mancanza di un'attività produttiva in corso.
Ciò che rileva, invece, è «unicamente la causa reale del negozio e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti dai contraenti ...» ossia il criterio fissato dall'art. 20 del D.P.R. 131/86 che costituisce il riferimento costante ai fini della soluzione di molte questioni analoghe.
Così anche la sentenza 11 giugno 2007, n. 13580, nella quale la Corte ha precisato che «... ai fini dell'applicazione dell'imposta di registro, il criterio fissato dall'art. 20 D.P.R. n. 131/1986 dell'intrinseca natura e degli effetti giuridici degli atti comporta che, nell'imposizione di un negozio, deve attribuirsi rilievo preminente alla sua causa reale e alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche se mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali».
Imposta di registro
Prima di affrontare le questioni più controverse, è opportuno richiamare i tratti fondamentali della tassazione, ai fini dell'imposta di registro, della cessione d'azienda.
Ai sensi del combinato disposto degli articoli 43 e 51 del D.P.R. n. 131 del 1986, per gli atti che hanno per oggetto aziende o diritti reali su di esse la base imponibile è costituita dal valore venale o dal prezzo di cessione (se maggiore) in comune commercio, tenuto conto delle passività relative all'azienda, che risultino dalle scritture contabili obbligatorie tenute dall'imprenditore oppure da altri atti aventi data certa [nota 4].
L'articolo 23 del D.P.R. n. 131 prevede che gli atti aventi per oggetto beni per i quali sia prevista una diversa aliquota [nota 5] (ciò che generalmente accade per le aziende) sono imponibili per l'intero valore con l'aliquota maggiore, salvo che l'atto stesso riporti in modo distinto il valore dei singoli beni. Ne consegue che la cessione d'azienda viene generalmente tassata applicando al valore complessivo [nota 6] dei beni, sia mobili sia immobili, compreso l'avviamento - depurato delle passività documentate a norma di legge - l'aliquota più elevata fra quelle previste per i singoli beni che la compongono, salvo che le parti abbiano previsto distintamente e scorporato il valore dei singoli cespiti (per i quali, quindi, trova applicazione l'aliquota di pertinenza).
Avviamento
In tema di determinazione della base imponibile, le problematiche maggiori si riscontrano con riferimento alla determinazione dell'avviamento, che in generale - anche ai fini fiscali - si sostanzia nell'attitudine dell'azienda a produrre a beneficio dell'imprenditore utilità economiche aggiuntive rispetto a quelle conseguibili attraverso l'utilizzazione isolata di ciascun bene facente parte dell'azienda.
Pur in presenza di più metodi di valutazione dell'avviamento individuati dalla dottrina aziendalistica, occorre in ogni caso, qualunque sia il metodo utilizzato, tenere conto delle particolari caratteristiche della singola azienda, essendo il valore dell'avviamento influenzato da un insieme di fattori oggettivi e soggettivi. In particolare, l'avviamento potrebbe essere determinato con il cosiddetto "metodo di capitalizzazione del valore medio", mediante cioè la capitalizzazione del reddito economico e non fiscale (utile d'esercizio), deducibile dalla dichiarazione dei redditi. Il valore dell'avviamento, in prima approssimazione, può essere ritenuto - secondo una datata pronuncia dell'Amministrazione finanziaria - pari a tre volte l'anzidetto utile lordo economico [nota 7]. Per dimensionare l'avviamento alle situazioni che concretamente si presentano nella realtà aziendale, si potranno quindi applicare al valore matematicamente determinato (media utile lordo x 3) appositi coefficienti "di adeguamento".
Si evidenzia che il menzionato metodo di valutazione ha trovato sostanziale riscontro nei criteri dettati all'articolo 2, comma 4, del D.P.R. 4 luglio 1996, n. 460 [nota 8], seppure con riferimento ad un particolare contesto (accertamento con adesione conseguente a rettifiche di valore delle aziende ai fini dell'imposta di registro).
Benché tale disposizione sia stata abrogata dal D.lgs. 19 giugno 1997, n. 218, la Corte di Cassazione, con sentenza 13 gennaio 2006, n. 613, ha affermato che - per la valutazione dell'avviamento - possono essere utilizzati i criteri indicati nel D.P.R. n. 460 del 1996 sull'accertamento con adesione che, in quanto avallati dal legislatore, confermano la validità del ragionamento seguito, nel caso di specie, dal giudice di merito [nota 9]. Con sentenza 23 luglio 2008, n. 20280, la Corte ha altresì precisato che il legislatore - con il D.P.R. n. 460 del 1996 - «ha inteso fornire i valori minimi cui l'Amministrazione finanziaria deve attenersi nella procedura transattiva che conduce ad un accertamento con adesione», con la possibilità per l'amministrazione di utilizzare altre metodologie di determinazione dell'avviamento o di pervenire alla quantificazione in misura maggiore.
Il metodo di determinazione dell'avviamento indicato nel regolamento del 1996, in breve, non può avere dignità inferiore agli altri criteri suggeriti dalla dottrina aziendalistica, anzi, a giudizio della Corte di Cassazione, proprio perché individuato dal legislatore, ben può essere utilizzato dall'Amministrazione finanziaria ai fini della quantificazione dell'avviamento, anche in ipotesi diverse da quella afferente l'accertamento con adesione. In altre parole la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo, attraverso più pronunce, il metodo di quantificazione dell'avviamento basato sui criteri del 460, ritenuto mediamente più credibile nella misura in cui va ad intercettare il valore minimo dell'avviamento.
Base imponibile delle Imposte ipotecaria e catastale
Qualora nell'azienda ceduta siano presenti degli immobili sono dovute anche le imposte ipotecaria (2%) e catastale (1%).
Al riguardo, deve considerarsi ormai consolidato il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui il rinvio operato dalla disciplina delle imposte ipocatastali a quella del registro ed ai relativi criteri di determinazione della base imponibile [nota 10] non consente di prescindere in ogni caso dalla diversità di oggetto propria di ogni singola imposta. In particolare, l'imposta di registro è correlata al valore dell'operazione economica sottesa all'atto di trasferimento, mentre quelle ipotecarie e catastali hanno quale presupposto l'attuazione di una peculiare forma di pubblicità concernente il singolo immobile mediante la formalità della trascrizione e la voltura catastale.
Valorizzando tale distinzione, la giurisprudenza ha più volte affermato (da ultimo, v. Corte di Cassazione, ordinanze 4 febbraio 2010, n. 2571 e 3 febbraio 2010, n. 2459) che nell'ipotesi di conferimento di un bene immobile o di cessione di un'azienda comprendente immobili, gravati da passività (ad esempio, un mutuo ipotecario gravante sull'immobile conferito o ceduto), è corretto determinare diversamente la base imponibile ai fini delle due imposte.
Con riferimento alla cessione di azienda comprendente beni immobili, si richiama per tutte la sentenza 20 dicembre 2007, n. 26854, nella quale la Suprema Corte - dopo aver premesso che «si deve ... necessariamente ritenere che, quando la legge sulle imposte ipotecarie e catastali rinvia alla base imponibile determinata ai fini dell'imposta di registro, si riferisce alla base imponibile di ogni singolo bene immobile incluso nel trasferimento e non a quella del trasferimento complessivamente considerato» - ha precisato che «... la base imponibile ai fini delle imposte ipotecaria e catastale va determinata tenendo esclusivamente conto dell'oggettivo ed intrinseco valore dell'immobile in sè considerato, al lordo delle componenti negative del complessivo trasferimento o conferimento e, segnatamente (v. Cass. 10486/03), degli eventuali mutui, garantiti da ipoteche gravanti sull'immobile trasferito, accollati al cessionario o alla conferitaria» [nota 11].
E' opportuno evidenziare che il riferimento della Corte Suprema alle "componenti negative" riguarda le passività valutabili ai fini del censimento catastale dell'immobile, non certamente le passività consistenti - ad esempio - in un mutuo ipotecario gravante sull'immobile stesso, oggetto di conferimento o cessione.
Conclusivamente, dall'esame delle pronunce della Corte di Cassazione emerge il principio secondo cui la base imponibile delle imposte ipocatastali, relativamente ad un immobile facente parte di un'azienda ceduta, va determinata secondo la disciplina ordinaria dell'imposta di registro applicabile all'immobile in sé considerato e quindi facendo riferimento al relativo valore venale in comune commercio, assunto al lordo delle passività consistenti, ad esempio, in un mutuo ipotecario gravante sull'immobile oggetto di conferimento o cessione.
Marchio
Spesso fra i beni che costituiscono l'azienda figura il marchio. La disciplina di tale bene immateriale è stata modificata nel lontano '92, con la modifica dell'art. 2573 c.c., nel senso di ammetterne il trasferimento a sé, separatamente rispetto al complesso dei beni.
Prima della predetta riforma, quando il trasferimento autonomo del marchio non era consentito, paradossalmente ai fini fiscali si era affermato l'orientamento di tassare il marchio separatamente dall'azienda. Più precisamente, la cessione unitaria e contestuale dell'azienda e del marchio veniva considerata un negozio complesso da assoggettare ad un duplice regime di imposizione: la cessione dell'azienda all'imposta di registro e la cessione del marchio ad Iva ai sensi dell'articolo 3, comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972 [nota 12].
La successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità, correttamente orientata dalla Corte di Giustizia, è approdata alla conclusione secondo cui il marchio, se ceduto al di fuori dell'azienda è classificato come un servizio, e quindi, deve essere assoggettato ad Iva; se invece è trasferito unitamente agli altri beni costituenti l'azienda, l'intero valore di quest'ultima, comprensivo del marchio, deve essere assoggettato ad imposta di registro.
Riferendosi alla fattispecie in esame, la Corte di Giustizia, con sentenza del 27 novembre 2003 emessa nella causa C-497/01, ha espressamente escluso la "limitata" soggezione ad Iva della cessione del marchio nell'ambito della contestuale cessione d'azienda. Ad avviso del giudice comunitario nella cessione di azienda deve prevalere il principio di unitarietà, per cui la nozione di trasferimento a titolo oneroso o gratuito o sotto forma di conferimento a una società di un'universalità totale o parziale di beni deve essere interpretata nel senso che in essa rientra il trasferimento di un'azienda o di una parte autonoma di un'impresa, "compresi" gli elementi materiali ed, eventualmente, immateriali che la compongono.
Utilizzabilità nel settore delle imposte sui redditi del valore definito ai fini dell'imposta di registro
La Corte di Cassazione ha più volte ammesso la potestà dell'Amministrazione finanziaria di contestare al contribuente, ai fini delle imposte sui redditi, il conseguimento di plusvalenze immobiliari nel medesimo ammontare determinato in sede di imposta di registro.
Al riguardo, si richiama la recente ordinanza 22 dicembre 2009, n. 27019, nella quale la Suprema Corte ha precisato che «l'Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere in via induttiva all'accertamento del reddito da plusvalenza patrimoniale relativa al valore di avviamento, realizzata a seguito di cessione d'azienda, sulla base dell'accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell'imposta di registro, ed è onere probatorio del contribuente superare (anche con ricorso ad elementi indiziari) la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell'imposta di registro, dimostrando di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore». (V. anche sentenza 4 dicembre 2008, n. 28791).
Nella sentenza 21 febbraio 2007, n. 4075 la Corte ha affermato che - pur nell'assunto che i principi relativi alla determinazione del valore di un bene che viene trasferito siano diversi a seconda dell'imposta da applicare (valore di mercato per l'imposta di registro e differenza tra il prezzo di acquisto e quello di cessione per la plusvalenza realizzata) - l'Amministrazione è tuttavia legittimata ad accertare la base imponibile rilevante ai fini delle imposte sui redditi in base al valore determinato in sede di imposta di registro, restando a carico del contribuente l'onere di superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato al valore di mercato accertato in via definitiva (v. anche sentenza 25 gennaio 2006, n. 1447 e 6 novembre 2000, n. 14448).
L'abuso del diritto
Nell'ordinamento tributario italiano non è presente una norma antielusiva generale, ma solo disposizioni volte a fronteggiare fenomeni elusivi in relazione a determinati settori impositivi ed a fattispecie specificamente individuate. A tale carenza ha posto rimedio la giurisprudenza della Corte di Cassazione con la formulazione della teoria dell'abuso del diritto, secondo cui la strumentalizzazione degli istituti giuridici volta a conseguire indebiti risparmi d'imposta stravolge lo scopo dei principi fondamentali dell'ordinamento. La nozione di abuso del diritto, quindi, secondo l'indirizzo giurisprudenziale della Suprema Corte, assume il ruolo di una clausola generale rilevante per l'intero ordinamento tributario.
Al riguardo, con le recenti pronunce del 23 dicembre 2008, n. 30055, 30056 e 30057 e del 26 giugno 2009, n. 15029, le sezioni unite della Cassazione hanno riconosciuto l'esistenza di un principio generale antielusivo, con la precisazione che la fonte di esso, in tema di tributi non armonizzati, va rinvenuta negli stessi principi costituzionali che informano l'ordinamento tributario italiano ed, in particolare, nei principi di capacità contributiva e progressività di cui all'articolo 53 della Costituzione [nota 13].
Anche la sentenza 25 maggio 2009, n. 12042, dopo aver richiamato le precedenti pronunce, ha ribadito l'esistenza nell'ordinamento di un generale principio antielusivo «la cui fonte, in tema di tributi 'armonizzati' è reperibile nel diritto e nella giurisprudenza comunitari; per gli altri tributi - quali, ad es., quelli diretti -, ed in generale, lo stesso principio è reperibile nelle norme costituzionali che sanciscono il criterio di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione (art. 53 Cost., commi 1 e 2), costituendo il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere». Ne consegue, secondo la Corte che «deve ritenersi non lecito al contribuente trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale».
In verità, il ragionamento della Cassazione è del tutto speculare a quello svolto dalla Corte di Giustizia in materia di Iva. Anche nella disciplina comunitaria di quel tributo, invero, non esiste una clausola antielusiva espressa. Ciononostante il principio dell'abuso del diritto è stato enucleato dalla Corte di Giustizia dall'insieme dei principi che disciplinano i diversi trattati. Con un procedimento logico del tutto analogo, la Cassazione ha desunto dalla Costituzione l'esistenza della clausola antielusiva per l'ordinamento giuridico italiano. La base giuridica che giustifica l'affermazione nell'ordinamento di tale clausola generale è da rinvenirsi nei principi costituzionali della capacità contributiva e della progressività di cui all'art. 53 della Costituzione. Va da sé che una volta affermata l'immanenza di detta clausola nel sistema tributario in generale, la stessa non può che assumere valenza generale, e quindi, trovare applicazione per tutti i settori impositivi e per tutti i tributi, compresi quelli non armonizzati, come le imposte sul reddito ed le altre imposte indirette diverse dall'Iva.
L'art. 53 della Costituzione costituisce il fondamento - secondo la tesi della Cassazione - sia delle norme impositive sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici particolari. Quest'ultimi devono considerarsi non leciti qualora siano perseguiti attraverso l'utilizzo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un vantaggio fiscale in difetto di valide ragioni economiche. E' questo il nucleo dell'elusione fiscale.
Ma come si configura l'abuso del diritto in tema di imposta di registro?
Occorre evidenziare al riguardo che, secondo la migliore dottrina, lo stesso articolo 20 del D.P.R. n. 131 del 1986, secondo cui «l'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente», contempla una norma antielusiva "generale". Tale disposizione consente, infatti, all'Amministrazione finanziaria in sede di tassazione di un negozio di prescindere dal nomen iuris attribuito dalle parti e di tenere conto, invece, degli effetti giuridici che in concreto derivano dalle pattuizioni contrattuali (v. sentenza n. 13580 del 2007 sopra richiamata, secondo cui deve attribuirsi rilievo preminente alla causa reale del negozio e alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti).
Con riferimento al disposto dell'articolo 20 del D.P.R. n. 131 del 1986, occorre in ogni caso evidenziare un'importante affermazione della Suprema Corte riguardo l'ambito dei poteri del fisco. La Corte di Cassazione, infatti, ha più volte riconosciuto la possibilità di tenere conto - in sede di individuazione e valutazione della causa reale di un negozio - anche di una pluralità di pattuizioni non contestuali, ossia contenute in diversi atti portati alla registrazione in diversi momenti. Più volte la Cassazione ha ritenuto che l'Amministrazione finanziaria ha la potestà di indagare sulla causa reale dei negozi anche in presenza di una pluralità di pattuizioni non contestuali, ossia di diversi atti portati alla registrazione in diversi momenti. Tale affermazione è perfettamente adattabile alle operazioni (c.d. "spezzatino") che tendono ad occultare la presenza dell'azienda attraverso più operazioni di cessione dei singoli beni che la compongono.
In un'ipotesi di conferimento in società di un immobile e successiva cessione delle quote acquisite per effetto del conferimento, la Cassazione 25 febbraio 2002, n. 2713 ha precisato che «i due comportamenti realizzano effetti parziali che, autonomi dal punto di vista civilistico, secondo la legge sull'imposta di registro sono meramente strumentali rispetto all'effetto giuridico finale prodotto dall'intera fattispecie complessa e costituito dal trasferimento dell'immobile alla società». Da ciò consegue che «... i due negozi, perciò, vanno considerati, dal punto di vista della speciale legge dell'imposta di registro, come un fenomeno unitario, non solo per l'interpretazione che si deve dare dell'art. 20 del D.P.R. 26 aprile n. 1986, n. 131, visto in connessione con le altre disposizioni dello stesso atto normativo (art. 1, art. 21 e Tariffa), ma anche perché tale interpretazione è l'unica conforme al principio costituzionale di capacità contributiva ex art. 53, comma 1, Cost., in quanto tiene conto della potenza economica effettiva espressa dai soggetti con i loro atti formalmente separati, ma funzionalmente connessi, dal punto di vista tributario, in maniera inscindibile».
Tali considerazioni potrebbero estendersi anche al conferimento dell'azienda (in sé assoggettato a tassazione in misura fissa) con successiva cessione delle quote di partecipazione, intesa come operazione alternativa alla "diretta" cessione dell'azienda (assoggettata a tassazione in misura proporzionale).
Contratto di locazione immobiliare
La Corte di Cassazione (sentenza 4 maggio 2009, n. 10180) si è recentemente pronunciata su un atto di cessione d'azienda che prevedeva anche la cessione del contratto di locazione dell'immobile in cui si svolgeva l'attività dell'impresa (nel caso specifico, non era previsto un corrispettivo riferito alla cessione del contratto).
Il riferimento normativo della fattispecie si rinviene nell'articolo 21 del D.P.R. n. 131, che tratta dell'applicazione dell'imposta in presenza di più disposizioni contemplate nello stesso atto.
Al comma 1, detto articolo prevede che «se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto», mentre al comma 2 statuisce che «se le disposizioni contenute nell'atto derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, l'imposta si applica come se l'atto contenesse la sola disposizione che dà luogo alla imposizione più onerosa».
Ai fini dell'applicazione della norma in esame, la Corte di Cassazione fa usualmente richiamo alla distinzione, di matrice civilistica, tra negozio complesso e negozi collegati, che deve essere colta in relazione alla causa o funzione economico-sociale che identifica e qualifica il negozio giuridico [nota 14].
Nella predetta ipotesi di trasferimento dell'azienda e cessione dei contratti di locazione dell'immobile/sede dell'azienda - contemplati nel medesimo atto - la Corte ha fatto applicazione del citato comma 1 dell'articolo 21, nell'assunto che l'unicità dell'atto realizza un mero collegamento negoziale tra disposizioni plurime che non derivano per loro intrinseca natura le une dalle altre. Anche l'imposta di registro pertanto va applicata separatamente.
L'orientamento restrittivo della Corte è stato vivacemente contestato dalla dottrina, specie con riferimento alle ipotesi in cui il legame tra l'azienda e l'immobile sia così forte da rendere impensabile l'esclusione della successione anche nel contratto di locazione, senza snaturare il trasferimento dell'azienda, di cui il bene immobile rappresenti il nucleo centrale.
E' opportuno, in ogni caso, considerare le implicazioni della tassazione separata dell'atto avente ad oggetto la cessione del contratto di locazione dell'immobile. Affermandosi la tassazione separata del corrispettivo di cessione del contratto o, se maggiore, del relativo valore, si prescinde dal collegamento con l'azienda e, quindi, si perde di vista il valore aggiunto che il contratto di locazione può apportare all'azienda in termini di maggiore avviamento. Non sempre tuttavia la tassazione separata del contratto, in tal modo sottratto alla valutazione dell'azienda, può risultare più vantaggioso per l'imprenditore ai fini fiscali. Se è vero infatti che, all'atto di cessione dell'azienda, un contratto di locazione avente scadenza prolungata nel tempo può contribuire significativamente all'incremento dell'avviamento in quanto fattore che nel medio o lungo periodo rechi una concreta utilità all'azienda, è altrettanto vero che un contratto di locazione in scadenza, ceduto assieme all'azienda, potrebbe generare un badwill che andrebbe a riflettersi negativamente sulla base imponibile dell'atto di cessione dell'azienda.
In attesa del consolidamento della giurisprudenza di legittimità, che ha espresso finora una sola pronuncia, credo vi sia spazio per una proficua riflessione congiunta sul trattamento del contratto di locazione ceduto assieme all'azienda.
[nota 1] Come chiarito dalla Corte di Cassazione nella sentenza 28 aprile 1998, n. 4319, «è nella organizzazione del complesso dei beni che va riconosciuta la componente immateriale caratteristica dell'azienda, o di un suo ramo, atteso che i beni, singolarmente considerati, prospettano solo la loro specifica essenza, ma la loro 'organizzazione', finalizzata alla produzione, conferisce al complesso dei beni il carattere di complementarietà necessario perché possa attribuirsi ad esso la definizione di azienda».
[nota 2] V. anche Cass. 27 giugno 2008, n. 17613. V. inoltre sentenza n. 11149 del 1996, secondo cui ai fini dell'imposta di registro, la sussistenza di una cessione di azienda non è condizionata all'attualità della gestione dell'azienda medesima; infatti, un complesso di beni si qualifica come azienda anche se l'attività economica in funzione della quale esso è organizzato non sia ancora iniziata o sia stata sospesa, essendo sufficiente che il complesso stesso sia caratterizzato dalla obiettiva attitudine all'esercizio dell'impresa, e - cioè - a realizzare la finalità cui quella organizzazione tende.
[nota 3] Sentenza n. 8362 del 1992, secondo la quale sussiste cessione di azienda, agli effetti dell'imposta di registro, anche se i contraenti escludono dalla cessione determinati beni aziendali, purché risulti che, nonostante tale esclusione e sebbene essa concerna elementi essenziali dell'azienda medesima, permanga nel complesso dei beni oggetto del trasferimento un residuo di organizzazione che ne dimostri la complessiva attitudine all'esercizio dell'impresa, non rilevando in contrario che, al momento della cessione, il complesso aziendale non si trovi in stato attuale di produttività ed essendo, invece, sufficiente che esso, anche se momentaneamente inutilizzato, mantenga una residua potenzialità produttiva (o ne presenti una nuova a seguito di prevedibili ristrutturazioni).
[nota 4] Il comma 4 dell'articolo 51 prevede che il valore «... è controllato dall'ufficio con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono l'azienda, compreso l'avviamento ..., al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa a norma del codice civile ...». Ai sensi dell'articolo 23 del D.P.R. n. 131, nelle cessioni di aziende (o rami d'azienda) le passività si imputano ai diversi beni sia mobili che immobili in proporzione del loro rispettivo valore.
[nota 5] Gli immobili scontano in genere l'aliquota dell'8% (art. 1 della Tariffa); i beni diversi dagli immobili il 3% (articolo 2 della Tariffa).
[nota 6] Al riguardo, con sentenza n. 20691 del 30 luglio 2008, la Corte di Cassazione ha chiarito che - nel prevedere che il valore dichiarato, ai fini dell'imposta di registro per gli atti che hanno ad oggetto aziende o diritti reali su di esse, «è controllato dall'ufficio con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono l'azienda ... al netto delle passività ...» - il D.P.R. n. 131 non pone deroghe al criterio generale dell'accertamento del valore secondo il parametro del "valore venale in comune commercio", previsto dal comma 2 dell'art. 51 (v. anche Cass. 10341/07, 12385/02). Ne consegue che l'imponibile non si ricava dalla somma algebrica sopra indicata, ma va definito in funzione della ricognizione dal "valore venale in comune commercio" del complesso aziendale, che non è necessariamente espresso dalla sommatoria delle sue componenti positive e di cui, come prospettato dall'Ufficio, ben può costituire significativo indice sintomatico il valore dei debiti aziendali che il cessionario si sia esplicitamente accollato in aggiunta al corrispettivo versato (v. Cass. 18150/04).
[nota 7] La circolare n. 10 del 1993 precisa che quello così ottenuto è un risultato meramente matematico che non tiene assolutamente conto di numerosi fattori che, in concreto, possono influenzare, positivamente o negativamente, la capacità dell'impresa a produrre reddito, e quindi la determinazione dell'avviamento. Come chiarito, si tratta di fattori rilevabili attraverso l'esame dei bilanci e di circostanze acquisibili mediante l'esercizio del potere di accesso oppure attraverso la richiesta di notizie e documenti fatta con la notifica degli appositi questionari.
[nota 8] L'articolo 2, comma 4, del D.P.R. n. 460 del 1996 dispone che «per le aziende e per i diritti reali su di esse il valore di avviamento è determinato sulla base degli elementi desunti dagli studi di settore o, in difetto, sulla base della percentuale di redditività applicata alla media dei ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi d'imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, moltiplicata per 3. La percentuale di redditività non può essere inferiore al rapporto tra il reddito d'impresa e i ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle stesse imposte e nel medesimo periodo ...».
[nota 9] Si segnala, anche la recente sentenza 8 giugno 2009, n. 211 della Comm. trib. prov. di Massa, che ha affermato che agli effetti dell'imposta di registro la congruità del criterio adottato dal giudice del merito nell'accertamento dell'entità dell'avviamento è desumibile anche dall'adozione di criteri indicati dal legislatore per la valutazione dello stesso bene con riferimento ad una legislazione non direttamente applicabile alla fattispecie, come la caducata norma di cui all'articolo 2 del D.P.R. n. 460 del 1996.
[nota 10] L'articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347, stabilisce che «l'imposta proporzionale dovuta sulle trascrizioni è commisurata alla base imponibile determinata ai fini dell'imposta di registro o dell'imposta sulle successioni e donazioni». Analogamente, l'articolo 10 del medesimo decreto stabilisce che «le volture catastali sono soggette ad imposta del 10 per mille sul valore dei beni immobili o dei diritti reali immobiliari determinato a norma dell'articolo 2».
[nota 11] Detta sentenza fa propri i principi già enucleati dalla Corte nella nota sentenza 9 luglio 2003, n. 10751, nella quale i giudici hanno affermato la necessità di fare riferimento al valore venale in comune commercio del singolo bene immobile. A parere della Corte «è perciò evidente che le espressioni ... ("valore in sé dell'immobile, valore desumibile dalle varie componenti, attive e passive, ad esso strettamente inerenti") equivalgono ad un comprensivo e generale richiamo di tutte le componenti economiche rilevanti, suscettibili, cioè, in base ai consueti criteri di estimo, di influire sulla quantificazione del valore venale in comune commercio dell'immobile, senza autorizzare affatto alcuna automatica ed indiscriminata deduzione di "passività", in deroga al menzionato criterio del valore venale in comune commercio».
[nota 12] L'articolo 3 del D.P.R. n. 633 del 1972 assimila alle prestazioni di servizio rilevanti ai fini Iva, ove effettuate verso corrispettivo, «le cessioni, le concessioni, licenze e simili relative a diritti d'autore, quelle relative ad invenzioni industriali, ... e quelle relative a marchi e insegne ...».
[nota 13] In particolare, la Corte Suprema ha affermato che «i principi di capacità contributiva (art. 53, comma 1, Cost.) e di progressività dell'imposizione (art. 53, comma 2, Cost.) costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi. Con la conseguenza che non può non ritenersi insito nell'ordinamento, con diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale». (Cfr. Cass. 23 dicembre 2008, n. 30057).
[nota 14] Ne consegue che, come chiarito dalla Suprema Corte con la sentenza n. 8142 del 1996, l'atto complesso - recante varie disposizioni rette da un'unica causa, che derivano, quindi, necessariamente, per loro intrinseca natura, le une dalle altre - va assoggettato ad un'unica tassazione, come se contenesse la sola disposizione che dà luogo all'imposizione più onerosa. Le disposizioni che danno vita ad un collegamento negoziale, in quanto rette da cause distinte, sono, invece, soggette ciascuna ad autonoma tassazione; la presenza di una pluralità di cause dei singoli negozi, autonomamente identificabili anche se tra loro funzionalmente collegate, porta, infatti, ad escludere che dette disposizioni possano ritenersi derivanti, per loro intrinseca natura, le une dalle altre.
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