Il notariato tra business community e società civile
Il notariato tra business community e società civile
di Stefano Zamagni
Presidente dell'Agenzia per le Onlus

Che il variegato mondo delle professioni liberali attraversi, oggi, una fase di crisi, cioè di passaggio secondo l'etimo greco di tale termine, è sotto gli occhi di tutti. Ne fanno fede i documenti e le prese di posizione che, da qualche anno, stanno conoscendo una intensità mai vista in precedenza nel nostro Paese. Si pensi - per limitarmi alla fase recente di interventi - all'indagine conoscitiva dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, resa pubblica nella primavera del 1998, che ha posto le basi per una rilettura critica della disciplina vigente e per una reinterpretazione delle caratteristiche rilevanti del mercato dei servizi professionali. Si pensi anche al disegno di legge sul riordino delle professioni intellettuali, elaborato dalla Commissione Mirone, approvato il 3 luglio 1998 dal Consiglio dei Ministri e la cui filosofia è quella di arrivare a proteggere l'interesse pubblico collegato all'esercizio delle professioni intellettuali attraverso l'applicazione di principi quali il pluralismo, la concorrenza, la personalità delle prestazioni, la tutela del cliente in ordine alla trasparenza e alla qualificazione delle prestazioni. Si pensi, infine, alle iniziative di varia natura che gli stessi ordini professionali hanno preso nel corso degli ultimi anni con intensità via via crescente, iniziative che testimoniano lo stato di disagio diffuso che serpeggia tra i circa due milioni e duecentomila iscritti alle ventisei professioni regolamentate che contribuiscono, complessivamente, al 15% circa del Pil nazionale. Se forte è la percezione, avvertita da più parti, circa la necessità di un mutamento di rotta, non chiara né tantomeno condivisa è la direzione lungo la quale muoversi. (Si veda la vicenda della c.d. "bozza Alfano" dell'aprile 2010 e la reazione successiva del Comitato unitario professioni soprattutto sulla questione delle società professionali e della fissazione delle tariffe minime).

Quanto è oggi in discussione è l'identità stessa del professionismo italiano. Come bene documenta Maria Malatesta (Professionisti. Storia d'Italia, Utet, 1996), la natura "protetta" delle moderne professioni liberali conosce la sua data di inizio nel 1874, anno nel quale vengono presi i primi provvedimenti in merito sulla base della considerazione che il professionista, svolgendo attività ad alta utilità sociale e ad alto tasso di produzione di esternalità positive, ha diritto a vedersi riconosciuti particolari e ben definiti privilegi. Lo strumento che viene scelto per la bisogna è l'ordine professionale, un istituto modellato sul celebre ordre francese e la cui funzione primaria è quella di rappresentare e garantire la specificità dell'attività professionale e, al tempo stesso, di assicurare controlli atti ad evitare l'opportunismo e l'abuso di autorità. Al riguardo, celebri restano le parole pronunciate da Giuseppe Zanardelli all'ordine forense di Brescia: «Noi non siamo una società, non siamo una corporazione che goda di alcun privilegio; noi siamo, secondo le parole che ereditammo dalle tradizioni romane, un ordine». (Cit. in M. MALATESTA, «Gli ordini professionali: scontro tra due culture», Impresa e Stato, 46, 1998).

Cosa ha messo in crisi quella sistemazione concettuale e di conseguenza normativa che per quasi un secolo ha costituito l'architettura della regolamentazione delle nostre professioni? (Si rammenti che il principio del riconoscimento della funzione pubblica delle professioni intellettuali e dell'obbligatorietà dell'iscrizione agli albi viene sancito con legge nel 1938). Si possono indicare tre ragioni diverse, eppure convergenti. La prima chiama in causa quell'evento di portata epocale che è la globalizzazione dei mercati. Ai fini presenti ciò che di tale evento mette conto sottolineare è il cambiamento indotto nelle preesistenti condizioni strutturali in una duplice direzione. Da un lato, per tutto un insieme di ragioni che non è qui il caso di richiamare, le imprese vanno rivolgendo alle diverse categorie professionali una domanda crescente di servizi connotata dalla interprofessionalità delle conoscenze richieste.

Dall'altro lato, la globalizzazione va investendo anche il mercato dei servizi professionali, un mercato che troppo a lungo si era ritenuto potesse e dovesse essere posto a riparo della competizione internazionale. Già oggi l'Italia è un importatore netto di tali servizi ed è lecito congetturare che, in assenza di riforme radicali, i segmenti più ricchi della nostra domanda di servizi professionali saranno serviti da società di professionisti di altri Paesi, soprattutto europei, localizzate in Italia. E se questo accadrà non sarà certo per la minore dotazione italiana di risorse intellettuali ma per l'ormai obsoleto e talvolta asfittico assetto organizzativo delle nostre professioni. Ecco perché a ben poco vale, oggi, difendere antiche posizioni di rendita. Quando il vento della competizione europea comincerà a soffiare con una certa intensità, non ci sarà barriera protettiva capace di conservare le posizioni acquisite. Si badi che quanto qui è in gioco non è tanto la cosiddetta formazione o preparazione dei nostri professionisti - i quali non paiono proprio essere secondi ad altri - piuttosto è l'assetto organizzativo delle attività professionali ad essere chiamato in causa perché esso possa risultare adeguato ad intercettare la nuova domanda di servizi.

La seconda ragione cui sopra accennavo ha a che vedere con il fatto che quello dei servizi professionali è un settore caratterizzato non solo da massicci fenomeni di asimmetria informativa, ma anche dal fatto che un servizio professionale si configura, a seconda dei casi, o come experience good (un bene la cui qualità può essere accertata solamente con il "consumo" dello stesso o durante il consumo, mentre essa resta ignota prima dell' "acquisto": si pensi al caso di una consulenza legale) oppure come credence good (un bene la cui qualità neppure ex-post può essere compiutamente accertata, perché il "consumo" del bene non fornisce un ammontare sufficiente di informazioni al suo utilizzatore: si pensi al caso di una prestazione in campo sanitario). Con il che viene meno la corrispondenza biunivoca tra intensità dello sforzo da parte del professionista e qualità del risultato finale conseguita dal cliente. Il risultato, allora, è che in situazioni del genere vengono a prodursi incentivi specifici per comportamenti di tipo opportunistico da parte del professionista oppure per chiusure di tipo monopolistico da parte degli ordini.

Infine, la terza ragione - forse la più forte - che ha fatto crollare le antiche certezze che finora hanno retto la disciplina delle nostre professioni è quella che concerne il superamento del modello neocorporativo di ordine sociale, un modello secondo il quale gli attori collettivi non agiscono separatamente dallo Stato, ma per il suo tramite oppure per sua concessione. E' lo Stato, secondo tale modello, che conduce verso un equilibrio sociale i portatori dei vari interessi rappresentati nella società. La pervasività nella cultura italiana di tale modello è all'origine di un grave mito che ha reso e tuttora concorre a rendere problematica la riforma degli ordini professionali: il mito dello Stato come Leviatano, secondo cui è lo Stato a dover fissare le norme (etiche e legali) di comportamento dei soggetti economici. Tanto che si può plausibilmente sostenere che a fondamento del moderno professionismo in Italia troviamo lo Stato e non già la società civile. Eppure, le convenzioni necessarie a supportare la deontologia professionale non discendono dai doveri e tanto meno dalla coercizione, ma dall'adesione volontaria dei soggetti coinvolti a valori condivisi.

Ora è un fatto che la progressiva, sia pure graduale, uscita di scena dello Stato-nazione - per le ragioni ormai a tutti ben note - porta con sé alla crisi degli attori collettivi che da esso sono legittimati e dunque alla improponibilità storica del modello neo-corporativo. E ciò a prescindere dai meriti acquisiti in passato da tale modello di ordine sociale. Di qui, allora, i due corni del dilemma: gli ordini devono riferirsi all'ideal-tipo del mercato, per acquisirne la prassi oltre che la logica di funzionamento, oppure a quello della società civile organizzata, per recuperare, reinventandolo, quel ruolo di civil service che fu ovunque all'origine delle professioni moderne? Come si comprende, per sciogliere questo dilemma è necessaria una precisa scelta di campo e dunque una coraggiosa scelta di valore.

A ben considerare, i tre fattori di crisi sopra illustrati, pur diversi nel loro significato e negli effetti che ne discendono, presentano un elemento in comune, quello di sollecitare la messa al centro del processo di riforma del settore dei servizi professionali la nozione forte di accountability. Una nozione questa che è il combinato disposto di due principi: quello della trasparenza e della responsabilità e il principio dell'efficacia della prestazione, qui intesa come capacità reale di soddisfare la domanda di servizio del cliente. In altro modo, l'accezione di accountability che va accolta non significa solo rispetto delle regole e delle procedure di erogazione dei servizi professionali. Essa è inclusiva anche degli outcomes, dei risultati, delle prestazioni fornite. Invero, il professionista può tradire l'aspettativa legittima del cliente se è incompetente, pur risultando un soggetto affatto etero interessato e ossequioso delle procedure. In definitiva, obiettivo ultimo della regolazione, secondo la moderna impostazione, non è più la difesa paternalistica del contraente debole, ma l'accountability professionale nell'accezione or ora richiamata.

Le considerazioni svolte nel paragrafo precedente valgono in generale per tutto il mondo delle professioni. Volgendo ora l'attenzione al Notariato, desidero argomentare a favore della seguente tesi: se si interpretano correttamente le tendenze in atto nel nostro Paese per quanto concerne le sfere economica e sociale, si trae la conclusione che il Terzo settore andrà ad espandersi considerevolmente, andando ad occupare territori che finora gli sono stati preclusi. Ebbene, per il suo posizionamento strategico, il Notariato non potrà non fare i conti con tale novità, pena la sua graduale uscita di scena. In altri termini, non potrà continuare a considerare marginale, o di scarsa rilevanza strategica, il suo rapporto con gli enti di Terzo settore.

Prendo le mosse dalla constatazione che quella del notaio è la figura di un vero e proprio Giano bifronte. Il notaio è un professionista, ed in quanto tale appartiene alla business community alle cui regole deve sottostare (le regole tipiche del mercato dei servizi), ma al tempo stesso è un pubblico ufficiale costruttore di legami di fiducia ed in quanto tale egli opera entro la sfera pubblica, pur non ricevendo pagamento alcuno dallo Stato. (Si rammenti che fiducia, dal latino fides, significa letteralmente "corda": il notaio è dunque un cordaio, che costruisce e ripara corde!).

Questa dualità di funzioni in capo al medesimo soggetto fa sorgere subito un problema. Mentre il diritto comunitario ha risolto il bifrontismo assimilando, a tutti gli effetti, l'attività professionale all'attività di impresa - come a significare che il professionista è un imprenditore, sia pure sui generis - il quadro normativo italiano è tuttora ancorato alla posizione espressa nella "Relazione del Ministro Guardasigilli Grandi al codice civile" (16 marzo 1942) secondo cui: «Il codice fissa il principio che l'esercizio di una professione non costituisce di per sé esercizio di un'impresa, neppure quando l'espletamento dell'attività professionale richiede l'impiego di mezzi strumentali e dell'opera di qualche ausiliario». (Par. 917 della Relazione a commento dell'art. 2238 del c.c.).

In tempi recenti, il contrasto tra diritto comunitario e diritto italiano è stato risolto da una sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 19 maggio 2009, chiamata ad intervenire su un problema in materia di concorrenza sollevato nei confronti delle farmacie italiane. (Si osservi che quella del farmacista è figura affatto analoga a quella del notaio per quanto concerne la dualità di ruoli espletati). La sentenza in questione non ha ritenuto in contrasto con la libertà di stabilimento la disciplina italiana che esclude la possibilità che a gestire una farmacia possa essere un non farmacista. E ciò in ragione del rischio per la salute dei cittadini e per l'equilibrio finanziario dei sistemi di sicurezza sociale derivanti dalla eventuale partecipazione alla gestione della farmacia di soggetti i cui interessi prevalenti siano quelli della finalità di lucro, mentre il farmacista vede tale ovvia finalità temperata «dalla sua formazione, dalla sua esperienza professionale dalla responsabilità ad essa incombente». (Sic!).

La domanda che sorge spontanea è: fino a quando l'Italia potrà resistere alle pressioni di vario genere che vengono dagli ambienti comunitari perché anch'essa si adegui al disposto del diritto comunitario? A mio giudizio, ancora per poco. Quando il Notariato giungerà ad acquisire piena consapevolezza delle tendenze in atto, allora non potrà non porsi il problema di dilatare l'area dei servizi che è in grado di rendere e di ampliare la gamma dei suoi compiti istituzionali. E' bensì vero che il Consiglio nazionale del Notariato già da qualche tempo ha iniziato ad investire nel restyling digitale in collaborazione con alcune associazioni di consumatori; ha provveduto a trasferire su iPad e iPhone la "Guida per il cittadino"; ha proposto l'attivazione di procedimenti di outsourcing da parte del sistema giudiziario (esecuzioni immobiliari; separazioni consensuali; ecc.). Tutto ciò va bene e va salutato con interesse, ma non penso proprio che sia sufficiente per rilanciare la figura storica del notaio, conservandone l'identità e ampliandone le funzioni. Si rammenti che quella del notaio è figura figlia della matrice culturale italiana che si afferma in parallelo con la nascita del modello di civiltà cittadina, per il quale l'Italia è giustamente famosa nel mondo.

Ecco perché vedo in una sorta di inedita alleanza strategica tra Notariato e Terzo settore la soluzione ai non pochi problemi dell'uno e dell'altro soggetto. La ragione è presto detta. Come oltre due secoli fa, al tempo della prima rivoluzione industriale, fu la nascente classe borghese ad inaugurare la nuova stagione, rompendo il vecchio equilibrio sociale centrato sull'aristocrazia e sulla classe dei rentiers, così oggi sarà una nuova classe di imprenditori sociali e civili e il complesso dei soggetti della società civile portatori di cultura a trovare la soluzione ai nuovi problemi dell'attuale fase di sviluppo. Penso, in particolare all'aumento scandaloso delle disuguaglianze che procede di pari passo con l'aumento della ricchezza; al paradosso della felicità - il fatto cioè che al di sopra di un certo livello di reddito pro-capite, ulteriori aumenti dello stesso provocano una diminuzione dell'indice aggregato della felicità pubblica; alle difficoltà crescenti per risolvere il problema dei commons (i beni di uso comune); alla divaricazione in aumento continuo tra mercato e democrazia. Si pensi anche al nuovo welfare di cui tanto si va parlando di questi tempi: esso non verrà né dal privato for profit né dagli apparati politico-amministrativi della sfera pubblica, ma dalla fioritura dell'area del civile la quale però dovrà conquistarsi quello spazio che ancora non occupa.

Il Novecento ha cancellato la terziarità nella sua furia costruttivista. Tutto doveva essere ricondotto o al mercato o allo Stato o tutt'al più ad un mix di queste due istituzioni basilari a seconda delle simpatie ideologico-politiche dei vari attori societari. E' oggi diffuso il convincimento secondo il quale il paradigma bipolare "stato-mercato" abbia ormai terminato il suo corso storico e che ci si stia avviando verso un modello di ordine sociale tripolare: pubblico, privato, civile. Una conferma autorevole ci viene dalla riforma del 2001 del Titolo V della nostra Carta costituzionale, laddove si afferma esplicitamente che anche i singoli cittadini e i corpi intermedi della società (art. 2) hanno titolo per operare direttamente a favore dell'interesse generale e dunque devono essere posti nelle condizioni concrete di poterlo fare. La modernità si è retta su due pilastri: il principio di eguaglianza, garantito e legittimato dallo Stato; il principio di libertà, reso fattivamente possibile dal mercato. La post-modernità ha fatto emergere l'esigenza di un terzo pilastro: il principio di reciprocità, che è la cifra delle organizzazioni della società civile, cioè del Terzo settore.

Ebbene, il Notariato è oggi nelle condizioni di fare molto per facilitare un'autentica fioritura del Terzo settore italiano, il quale è ancora un Prometeo incatenato, per usare l'efficace espressione dello storico americano David Landes. Mi limito ad alcuni esempi soltanto di nuova funzione per il Notariato: penso al counselling a favore soprattutto di quegli enti che operano in località lontane dai centri urbani; penso a compiti specifici relativi all'applicazione della normativa sul 5 per mille e sul trust Onlus - compiti che lo Stato potrebbe benissimo affidare ai notai; penso ancora al ruolo del Notariato come interlocutore privilegiato del legislatore nelle materie che riguardano il settore; e così via.

Ma quali condizioni gli attuali 4.913 notai - le sedi disponibili fissate dal Ministero della giustizia sono però 6.152 - devono sforzarsi di soddisfare per essere in grado di siglare il patto sociale con il Terzo settore? Non esito a rispondere che la condizione che antecede tutte le altre è quella della conoscenza del settore. A scanso di equivoci, desidero precisare che non è la conoscenza delle leggi e dei regolamenti sul Terzo settore a fare difetto, ma la conoscenza, per così dire dall'interno, di questo settore, della sua logica di azione e della realtà dei suoi plurimi campi di intervento. Un solo esempio per farmi capire. Come si sa, il D.lgs. 460/1997 ha introdotto la nuova figura delle Onlus - organizzazioni non lucrative di utilità sociale. Non basta essere un soggetto non profit per avere diritto ai vari benefici fiscali che quel decreto concede. Bisogna saper dimostrare che si è in grado di produrre utilità sociale, la quale nulla ha a che vedere con l'interesse sociale oppure con l'interesse generale. (Si osservi che anche l'art. 41 della Costituzione parla di "utilità sociale").

Ebbene, non poche dispute e non pochi sprechi di riserve (umane e materiali) si potrebbero evitare se statuti e atti costitutivi di enti aspiranti ad essere Onlus venissero redatti o comunque controllati da notai competenti in grado di comprendere nel concreto la differenza tra le nozioni di utilità sociale e di interesse o beneficio sociale. Invero, una certa attività può ben essere di interesse generale o sociale, ma può non produrre utilità sociale. Ecco perché, da qualche tempo ormai, vado proponendo l'attivazione di corsi di alta formazione per quei notai che intendono specializzarsi sulle tematiche del Terzo settore. C'è, infatti, un problema di acquisizione di competenze specifiche che non può essere dato per scontato; né si può pensare che tali competenze siano acquisibili per pratica.

Al fine di contribuire, sia pure in piccola parte, a favorire la conoscenza della realtà del Terzo settore, presso il Notariato, dedico le pagine seguenti alla cosiddetta questione definitoria: quale definizione adottare per il Terzo settore. E' noto che le tante definizioni di Terzo settore riscontrabili nella letteratura dell'ultimo quarto di secolo fanno quasi tutte esclusivo riferimento a tre termini, che costituiscono altrettanti elementi di distinzione: chi; cosa; perché. Quanto a dire che i vari enti non profit si differenziano tra loro o per l'elemento soggettivo (chi sono gli attori) o per l'elemento oggettivo (la specifica attività svolta o il settore di intervento) o per l'elemento teleologico (il fine particolare che l'ente si propone di conseguire) oppure ancora per una combinazione di tutti e tre gli elementi. Ciò che questa prassi classificatoria lascia in ombra è un quarto termine: come; vale a dire il modo in cui il soggetto di cui trattasi cerca di conseguire il fine che dà senso alla sua missio nel particolare settore di intervento in cui ha deciso di operare. Eppure, in un mondo come quello del Terzo settore, il come si produce (o si opera) è altrettanto importante del cosa e del perchè si produce.

Per rendersene conto, valga il seguente esperimento mentale. Si ponga a confronto l'attività di una fondazione con quella di una associazione di promozione sociale. Può accadere, come è dato di osservare, che entrambe le figure giuridiche si rivolgano agli stessi portatori di bisogni, si occupino di fornire i medesimi servizi e siano costituite dalla stessa tipologia di persone. Dove risiede allora la differenza? Nel come i due tipi di enti operano nel concreto: mentre l'associazione agisce sulla base del principio di democraticità - l'associazione, infatti, è un libero convergere di persone che si organizzano per raggiungere un fine comune - la fondazione non consente la partecipazione democratica e ciò per l'ovvia ragione che la fondazione è un fondo di risorse (monetarie e non) per uno scopo, gestito secondo regole fissate dal fondatore (privato o pubblico che sia). Un Terzo settore costituito esclusivamente (o anche prevalentemente) di soggetti fondazionali non costituirebbe certo un avanzamento sul fronte del progresso civile di una comunità, anche se sul fronte dell'efficienza e dell'efficacia il modello fondazionale potrebbe assicurare risultati superiori a quello associativo. La democrazia, infatti, è un valore finale, un valore cioè che appartiene all'ordine dei fini; l'efficienza invece è un valore strumentale che appartiene all'ordine dei mezzi. Non è dunque lecito istituire trade-off tra democrazia e efficienza: la logica dello scambio ha senso ed è ammissibile solamente se applicata a termini che appartengono al medesimo ordine di cose.

La conseguenza che traggo da quanto precede è che la pluralità delle figure giuridiche nel Terzo settore è un bene che il legislatore deve difendere ad ogni costo, anche contro i tentativi, di tanto in tanto ricorrenti, di procedere ad una sorta di reductio ad unum. Il modo di agire (il come) di fondazioni, associazioni, organizzazioni non governative, cooperative sociali, imprese sociali è necessariamente diverso l'uno dall'altro ed è questa diversità ad assicurare la spinta propulsiva del Terzo settore. Guai dunque a lasciarsi abbacinare da quel pensiero unico che, in nome di un'errata concezione del principio di efficienza, suggerisce di procedere a cosiddette semplificazioni del quadro normativo operando per mezzo degli incentivi fiscali o di strumenti regolamentari. Ciò costituirebbe un pericoloso regresso, dal momento che se si guarda alle origini e agli sviluppi delle organizzazioni della società civile (Osc), è possibile individuare, all'interno di questo vasto mondo una pluralità di modelli identitari, che a loro volta determinano logiche diverse di funzionamento e di gestione. Tenere conto di ciò è rilevante, oltre che ai fini della governance interna, anche in riferimento al tipo di relazioni che i soggetti del Terzo settore intrattengono con le altre sfere della società.

Tre sono, in particolare, i modelli identitari che è possibile individuare (Cfr. S. ZAMAGNI, Il Terzo settore nel nuovo welfare, Diabasis, 2010). Il modello di più antica apparizione, vede le Osc come espressione diretta della società civile, cioè come libera adesione di persone ad un progetto da realizzarsi in comune per perseguire interessi collettivi, ancorchè non universalistici. Al fondo di tale modello troviamo l'accettazione esplicita della sussidiarietà orizzontale, così come questo principio ha iniziato ad affermarsi all'epoca dell'Umanesimo civile (XV secolo) per poi trovare una prima sistemazione formale in Ugo Grozio oltre che in Luis Althusius già nel 1615. Un secondo modello che vede le Osc come emanazione e supporto della sfera pubblica(da non confondersi con la sfera politica). Rientrano in tale quadro le realtà non profit create da soggetti collettivi/categoriali istituzionalizzati (es. il sindacato che crea cooperative sociali; enti locali che promuovono la nascita di Onp; enti pubblici locali trasformati in fondazioni di partecipazione ecc.). Il principio regolativo di tale modello è il decentramento, cioè la sussidiarietà verticale: «Non faccia lo Stato ciò che possono fare gli enti di livello inferiore e i soggetti della società civile». Si noti la differenza: mentre con la sussidiarietà verticale si ha una cessione di quote di sovranità, con la sussidiarità orizzontale si ha una condivisione di sovranità. Infine, il modello di più recente affermazione vede il Terzo settore come espressione diretta del settore for profit. Rientra in questo ambito la recente e diffusa pratica di creazione di Onp - specialmente di fondazioni di impresa - da parte di imprese for profit. Si pensi al corporate philanthropy che si sta diffondendo anche nel nostro paese. Alla base di tale modello troviamo il "principio di restituzione": il soggetto for profit "restituisce" alla società una parte del profitto conseguito, perché quest'ultimo è stato ottenuto anche grazie alla esternalità che la società è stata in grado di porre a disposizione dell'impresa. Un esempio recente e notevole di tale modello è costituito dal progetto "giving pledge" (impegno di dare) promosso negli USA da Bill Gates e Warren Buffet, finora sottoscritto da una cinquantina di miliardari che si sono impegnati a devolvere fino al 50% del loro patrimonio a favore di cause socialmente rilevanti.

L'indagine storica delle dinamiche di ibridazione dei tre modelli identitari, per un verso, ci testimonia una contaminazione reciproca degli stessi, e per l'altro verso, dice dell'esigenza di comprendere il senso, cioè la direzione del movimento. La legislazione comunitaria europea viene assumendo sempre più, negli ultimi anni, un ruolo cruciale per lo sviluppo e la diffusione delle Osc, sancendo opportunità di crescita e ponendo inevitabili vincoli organizzativi, che vanno ad incidere, in maniera, a volte massiccia, sull'identità dell'organizzazione stessa. La questione cruciale con cui è urgente fare i conti è allora decidere se si vuole che i diversi modelli si pongano tra loro in modo conflittuale così che alla fine un solo modello sarà nei fatti destinato a prevalere, oppure si vuole che essi possano coesistere. (Cfr. P. DONATI (a cura di), Verso una società sussidiaria, Bononia University Press, 2011).

Non è difficile cogliere le implicazioni delle due alternative. Scegliere la prima significa, di fatto, favorire la dominanza, a lungo andare, del terzo modello identitario. Ora, chi ritiene - e chi scrive è tra questi - che vi siano ragioni forti per ritenere non desiderabile un esito del genere deve esprimersi a favore della seconda alternativa. Ma quali sono queste ragioni forti? Ne indico due.

La prima di queste chiama in causa quel principio personalista che l'Assemblea costituente volle porre a fondamento della nostra Carta costituzionale, preferendolo sia al principio individualista sia a quello collettivista. Fu Giuseppe Dossetti con un ordine del giorno del 9 settembre 1946, nella prima sottocommissione della Commissione dei Settantacinque a ottenere il consenso su tale principio. Conviene riportare il brano di straordinaria chiarezza e lungimiranza: «La Sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell'uomo; esclusa quella che si ispiri ad una visione soltanto individualistica; esclusa quella che si ispiri ad una visione totalitaria la quale faccia risalire allo Stato l'attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali, ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche cui il nuovo statuto dell'Italia debba soddisfare, è quella che: a) riconosca la precedenza sostanziale della persona umana … rispetto allo Stato e la destinazione di questo al servizio di quella; b) riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale: anzitutto in varie comunità intermedie disposte secondo una naturale gradualità … e quindi per tutto ciò in cui tutte quelle comunità non bastino, lo Stato; c) che perciò affermi sia l'esistenza dei diritti fondamentali delle persone sia dei diritti della comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato». Come si può intendere, si tratta di parole che si commentano da sole e che dicono quanto distanti siano tra loro spirito e lettera del libro I, titolo II del codice civile del 1942 e quelli della Costituzione. Basterebbe questa osservazione per giustificare l'urgenza della riforma del codice civile, rimasto ancorato ad una impostazione di natura concessoria.

La seconda ragione ha a che vedere con la dimensione giustificativa delle Osc. Come noto, il proprium di queste organizzazioni è quello di creare valore sia strumentale misurato dai beni e servizi prodotti - sia espressivo - le Osc consentono a coloro che in esse operano di esprimere la propria identità attraverso le opere. Il valore strumentale è misurato in termini di efficienza e di efficacia; il valore espressivo (o simbolico) delle Osc è misurato, invece, dalla loro capacità di produrre significati e di soddisfare il bisogno di riconoscimento delle persone; dalla capacità cioè di generare relazionali interpersonali. In altri termini, il Terzo settore non si limita alla semplice cura delle persone portatrici di bisogni, ma ambisce a curarle in modo relazionale. E' questo che fa la differenza tra un servizio di cura offerto - poniamo - del Comune e il medesimo servizio offerto da un ente non profit. Ecco perché qualità strumentale e qualità espressiva devono marciare assieme nel Terzo settore, proprio come ci ricorda la celebre metafora di Platone nel Fedro: «Il solco sarà diritto se i due cavalli che trainano l'aratro avanzano alla medesima velocità». In caso contrario, il solco piegherà a destra o a sinistra ed il raccolto sarà modesto.

Ebbene, qualora fosse il terzo modello identitario ad affermarsi in modo egemonico è chiaro che il valore espressivo delle Onp verrebbe sacrificato a vantaggio di quello strumentale. Ma di un non profit tutto sbilanciato sul lato della sola efficienza (allocativa) non è che se ne avverta una grande necessità - soprattutto nell'epoca presente. La posizione da favorire è dunque quella di un non profit plurale, all'interno del quale possono convivere liberamente i tre modelli identitari di cui si è detto, lasciando ai cittadini la scelta dell'opzione che più ritengono adeguata, tenendo conto del contesto ambientale e del quadro istituzionale. (Cfr. G. MORO, Cittadini in Europa, Carocci, 2009).

Chiudo con una considerazione di carattere generale. Il fatto che a tutt'oggi non si sia addivenuti ad una definizione univoca di Terzo settore - non così invece per le altre due grandi formazioni sociali e cioè lo Stato e il mercato - non deve meravigliarci, né tanto meno preoccuparci. Il nostro Gianbattista Vico ci ha insegnato che nomina sunt consequentia rerum (i nomi sono conseguenza delle cose); è dunque illusorio pensare di poter catturare entro i confini fissati da una definizione - per quanto elaborata essa sia - la varietà delle forme espressive dei soggetti del Terzo settore. Mai potrà esistere una teoria generale delle Osc e ciò per la fondamentale ragione che il Terzo settore è un tipico fenomeno morfogenetico: una realtà cioè che muta sia per spinte endogene sia per le trasformazioni dell'ambiente circostante. Il legislatore saggio farà allora bene a non cadere nella trappola definitoria; a non lasciarsi cioè prendere dalla mania di porre limiti alla fantasia creatrice della società civile organizzata.

Per l'importanza che riveste, conviene chiarire meglio il punto toccato. Come si sa, la definizione corrente di Terzo settore lo vede come la sfera cui afferiscono tutti quei soggetti che non hanno titolo per rientrare né nel mercato (primo settore) né nello Stato (secondo settore). Si noti subito l'asimmetria: mentre la distinzione tra Terzo settore e Stato si appoggia su un fondamento oggettivo, quale è quello basato sulla dicotomia pubblico-privato, la distinzione tra Terzo settore e mercato - entrambi enti di diritto privato - postula, per avere senso, che il mercato venga considerato come lo spazio occupato esclusivamente da agenti che sono motivati all'azione dal fine lucrativo. Solo così, infatti, si possono tenere tra loro separati soggetti - pensiamo ad una cooperativa sociale e ad un'impresa commerciale - che appartengono al medesimo universo giuridico (quello di enti privati) ma che perseguono obiettivi diversi. E' per questa ragione che, negli ambienti anglosassoni, le organizzazioni di cui qui si tratta vengono preferibilmente indicate con l'espressione di enti non profit, per sottolineare appunto il fatto che la loro specificità sta nel rispetto del vincolo di non distribuzione degli utili.

Ora, se le organizzazioni della società civile - ovvero le organizzazioni delle libertà sociali come le ha chiamate Gustavo Zagrebelski - appartengono alla sfera del privato ma non a quella del mercato, ne deriva che la loro distintività non può essere posta su un particolare modo di fare economia, ma va ricercata sul piano del sociale. Ecco perché, agli inizi degli anni '80 del secolo scorso, tali organizzazioni vennero opportunamente indicate con l'espressione di "privato sociale". Ebbene, mentre allora tale espressione rappresentava fedelmente ed efficacemente la realtà del tempo, le cose sono andate progressivamente mutando in seguito all'affermazione in senso quantitativo e alla diffusione su tutto il territorio nazionale, di soggetti imprenditoriali connotati da due elementi specifici. Primo, una organizzazione produttiva del tutto simile a quella delle imprese for profit (e dunque connotata da elementi quali professionalità, attenzione all'efficienza, continuità produttiva, capacità di competere, innovatività); secondo, il perseguimento di interessi collettivi o la tutela di interessi generali affatto analoghi a quelli perseguiti da associazioni (di volontariato; di promozione sociale, Ong) e da fondazioni (di impresa; di comunità). Si pensi alle cooperative sociali e alle neonate imprese sociali: si tratta di soggetti che stanno nel (cioè dentro il) mercato, pur non accettando il fine dell'agire capitalistico che è quello del profitto. In quanto operanti con sistematicità e regolarità nel mercato, tali soggetti sono simili alle società commerciali e dissimili da fondazioni e associazioni; in quanto non mirano al profitto, essi sono simili a fondazioni e associazioni e dissimili dalle società di cui al libro V del codice civile.

è noto che la vera novità dell'ultimo trentennio sul fronte del Terzo settore è proprio l'irrompere nella nostra società di questa nuova tipologia di soggetti imprenditoriali. Figure simili alle attuali associazioni e fondazioni esistono da secoli. Basti pensare alle Misericordie e alle varie confraternite le cui radici affondano nel tardo Medioevo. Ecco perché l'auspicata riforma del libro I, titolo II del codice civile dovrà sciogliere il nodo della configurazione concettuale di quei soggetti del Terzo settore (fondazioni operative, cooperative sociali, imprese sociali) che, in analogia ai soggetti del privato sociale (volontariato, associazioni, comitati), potremmo chiamare del privato civile per distinguerli appunto dai soggetti del privato commerciale. La duplicità di codici simbolici - quello del mercato e quello della socialità - che contraddistingue l'identità di questi soggetti è ciò che li rende un unicum. (Si rammenti che la figura della cooperativa sociale è un'invenzione tipicamente italiana; mentre a Inghilterra e Francia si deve l'invenzione della impresa cooperativa). (Per approfondimenti rinvio a Stefano e Vera ZAMAGNI, La cooperazione, Il Mulino, 2009). Ma tale duplicità è anche ciò che rende ardua la loro governance. Infatti, quando diviene dominante il codice del mercato, i soggetti del privato civile divengono indistinguibili da una qualsiasi altra impresa commerciale; quando diviene dominante il codice della socialità, essi conoscono il declino. In entrambi i casi, e non solo nel primo - si badi - l'impresa sociale o la cooperativa sociale si snaturano perdendo la propria identità. (Cfr. L. FAZZI, Governance per le imprese sociali e il non profit, Carocci, 2007). Riuscire a tenere in equilibrio dinamico i due codici, facendo sì che marcino assieme come i cavalli di Platone, così che dalla loro contaminazione reciproca discendano complementarità strategiche è la vera grande opportunità che il legislatore riformatore del codice civile dovrà raccogliere e saper vincere.

L'auspicio che in chiusura formulo è che il Notariato voglia raccogliere - vincendola - la sfida che in queste righe ho cercato di abbozzare. Sarebbe questo un segno eloquente di vitalità e di responsabilità da parte di un ordine come quello del Notariato. Il quale, se vuole tenere fede alla propria missione storica, non può non porre il proprio fondamento nel rapporto privilegiato con la società civile.

PUBBLICAZIONE
» Indice
» Approfondimenti