Profili di legittimità della detenzione di partecipazioni in enti societari da parte delle Onlus e di partecipazione degli enti esclusi nelle Onlus
Profili di legittimità della detenzione di partecipazioni in enti societari da parte delle Onlus e di partecipazione degli enti esclusi nelle Onlus
di Valeria La Paglia
Responsabile dell'Area Giuridica dell'Agenzia per le Onlus

In data 4 ottobre l'Agenzia per le Onlus ha approvato con deliberazione n. 362 il suo secondo Atto di indirizzo in materia di partecipazione di enti esclusi nelle Onlus.

Il primo Atto di indirizzo, emanato il 23 novembre 2004 con provvedimento n. 516, si pronunciato nel merito affrontando il tema a partire dalla tesi, sostenuta inizialmente da una parte della dottrina, che un ente privato "partecipato" da un ente pubblico mutasse natura giuridica divenendo anch'esso ente pubblico. Nel documento viene citata, tra le altre, una pronuncia della Cassazione penale (sez. VI sent. n. 3620 del 26 febbraio 1994) in cui espressamente si legge «… né può ritenersi indicativa della natura pubblica di un'associazione la partecipazione ai suoi organi rappresentanti dei soggetti pubblici che l'hanno formata». Le altre pronunce richiamate, sia della Cassazione civile, sia del Consiglio di Stato, avvalorano il medesimo giudizio esprimendo giurisprudenza costante in proposito.

Il secondo documento, scaricabile dal sito ufficiale dell'agenzia www.agenziaperleonlus.it nella sezione atti di indirizzo, propone un'analisi giuridica partendo da tutt'altro presupposto in ragione delle più recenti obiezioni mosse alle organizzazioni che chiedono l'iscrizione nell'Anagrafe delle Onlus e che presentano nella costituzione dell'ente la partecipazione di enti cosiddetti esclusi.

Innanzitutto gli enti esclusi sono quelli tassativamente elencati dal legislatore nell'art. 10, comma 10 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460 [nota 1]. Per questi soggetti il legislatore ha esplicitamente previsto il divieto di acquisire la qualifica di Onlus e, inoltre, in ogni caso di beneficiare del regime agevolativo stabilito per le Onlus. [questo è, a dire dell'Agenzia, il significato della locuzione in ogni caso, teso a rafforzare l'assoluto divieto].

L'Amministrazione finanziaria, con riferimento a questo problema, si era già espressa formulando la risoluzione n. 164/E del 28 dicembre 2004 nella quale constatava che nelle fondazioni di partecipazione l'elemento associativo viene ad attenuare la caratteristica del distacco dell'ente (e del suo patrimonio) dai soci fondatori e sostenitori e ritenendo, per questa ragione, che la presenza maggioritaria di soggetti di natura pubblica o societaria partecipanti nell'amministrazione dell'ente configurasse un'influenza dominante sul governo dell'ente, concludeva che la conseguenza logica fosse lo snaturarsi dell'autonomo ente privato il quale diventava, nella sostanza, ente strumentale dei soggetti partecipanti. L'Amministrazione finanziaria concludeva che in questi casi si dovesse escludere che tali enti possano assumere la qualifica di Onlus.

Sull'aspetto di organizzazione privata quale ente strumentale dell'ente pubblico, così come indicato nella circolare, l'Agenzia per le Onlus rileva che il T.U. enti locali, all'art 113-bis [nota 2] indirizza gli enti locali ad utilizzare le fondazioni quali enti strumentali per la gestione esternalizzata di quelle attività che non si reputa più utile o conveniente gravino totalmente sulla spesa pubblica (fondazioni partecipate) o che siano attuate più efficientemente ed efficacemente se svolte da enti privati. Con riguardo alla legittimità dell'esternalizzazione occorre dunque innanzitutto prendere in considerazione la norma appena citata del T.U. enti locali che permette (e in taluni casi favorisce) l'esternalizzazione di attività affidate ad enti privati. Se l'ente strumentale viene creato ad hoc dall'ente pubblico con un conferimento iniziale di risorse, o se viene invece decisa una adesione successiva conferendo una "partecipazione" in un soggetto giuridico costituito da più soggetti, magari anche tutti enti pubblici, siamo in presenza di fattispecie del tipo che possono assumere profili di interesse per l'amministrazione finanziaria ai fini dell'elusione fiscale.

Allora, stabilito che tali soggetti possono essere costituiti come enti di natura privata, occorre capire se e in che termini questi possono assumere la qualifica di Onlus. L'Agenzia delle entrate paventa un duplice profilo di elusione: da un lato il fatto che un ente escluso possa impiegare risorse ottenute attraverso agevolazioni fiscali riservate ad enti privati, dall'altro che enti pubblici possano ingerirsi nel governo di enti privati che godono di particolari regimi agevolativi.

Secondo le conclusioni dell'Agenzia per le Onlus, non si può considerare a priori elusiva l'esternalizzazione di talune attività se l'ente cui viene affidata la gestione ha tutte le caratteristiche, sia per attività svolta che per requisiti formali e sostanziali, richieste dalla legislazione specialistica delle Onlus, solo perché in parte i fondi provengono da un ente pubblico; quest'ultimo, peraltro, ha tutto il diritto ed anche il dovere di vigilare sulla corretta gestione. La stessa relazione illustrativa del decreto legislativo 460/97 motiva l'esclusione degli enti pubblici dal novero delle Onlus con la necessità di favorire la crescita e il consolidamento di un Terzo settore che operi autonomamente rispetto ai canali di allocazione diretta delle risorse pubbliche.

Per tale ragione l'Agenzia per le Onlus sul punto ha sempre sostenuto che un'organizzazione privata che rispetti tutti i requisiti che il decreto legislativo n. 460/97 le impone non si trova nelle condizioni di eludere le norme fiscali. In quanto: non muta natura giuridica nella sostanza solo per effetto della partecipazione di altri enti nella costituzione o nella composizione (vedi Atto di indirizzo sopra citato), né può distogliere l'attività e l'impiego delle proprie risorse da quanto previsto nello statuto.

Quali potrebbero essere dunque le controindicazioni che emergono se un'organizzazione è partecipata da un ente pubblico?

Se l'ente, come detto, non assume la natura di ente pubblico per il solo fatto di essere partecipata da un ente pubblico, allora quale pericolo può configurare tale partecipazione? Si paventa che il reale rischio sia quello di una ingerenza politica dell'ente pubblico nell'ente privato, il quale perderebbe la sua reale autonomia di gestione. Quale autonomia di gestione interessa all'amministrazione finanziaria? Ovvero, quale autonomia può avere interesse l'Amministrazione finanziaria a tutelare? Che non si configuri per l'ente privato un'indiretta gestione della propria attività da parte dell'ente pubblico? In questo caso l'ordinamento giuridico dovrebbe vietare agli enti pubblici di costituire enti privati cui affidare la gestione di attività. Invece, vediamo che in alcuni casi tale operazione è incentivata. L'ordinamento l'ha scoraggiata solo al fine di evitare sprechi di risorse pubbliche, soprattutto nei casi in cui gli enti privati, totalmente finanziati dall'ente pubblico, vengano costituiti al fine di eludere gli obblighi di taglio della spesa pubblica. Dunque, gli enti privati partecipati che realizzano la propria attività senza gravare integralmente sulla spesa pubblica sono da considerare un esempio virtuoso. Dove può essere il problema? Forse nel fatto che un ente pubblico che affida lo svolgimento di un'attività ad un ente privato che in parte finanzia, attraverso l'utilizzo di tali risorse possa beneficiare di agevolazioni fiscali? Ma l'ente pubblico si avvantaggerebbe di tali benefici solo se ne ricavasse degli utili o se fosse attribuibile a sé il risparmio fiscale. In verità, chi si avvantaggia dei benefici è l'ente privato che ha l'obbligo, per precisa disposizione statutaria e di legge, di reimpiegare le risorse nella realizzazione della attività istituzionale dell'ente e quindi se ne avvantaggia l'attività stessa.

Qualora il problema paventato sia quello di una ingerenza di tipo politico, saranno le stesse norme che reggono l'organizzazione dell'ente di tipo privato a regolare la partecipazione ovvero, se si tratta di un ente di tipo associativo sarà l'assemblea ad eleggere il consiglio di amministrazione e quindi a scegliere i membri dell'organo di governo, mentre, se si tratta di un ente di tipo fondativo il fatto che tra i fondatori vi sia un rappresentante di un ente pubblico non assume valenze diverse che se il rappresentante dell'ente fosse per conto di un ente privato. La sua rappresentanza, infatti, non assumerebbe connotati diversi circa gli interessi rappresentati.

Diverso è il caso della partecipazione dell'ente di tipo societario, in quanto in questo caso il pericolo paventato è che la rappresentanza diventi un'ingerenza di tipo economico. Ma vediamo perché non può esserlo se non nei modi e nei termini di qualsiasi altra partecipazione. Infatti, un qualsiasi privato che entrasse in una associazione o in un fondazione dovrebbe, ancora una volta, stare alle regole imposte per gli enti di tipo associativo o fondativo e quindi quella che viene chiamata influenza dominante così come è regolata dall'art. 2359 del codice civile (libro V capo V delle società per azioni) non può configurarsi in questi enti per via del fatto che non vi è correlazione tra capitale conferito e peso del voto nell'amministrazione dell'ente.

L'influenza dominante dunque nelle conclusioni dell'Amministrazione finanziaria si configura se è prevalente numericamente la partecipazione degli enti esclusi nella compagine dell'organizzazione Onlus. L'Agenzia per le Onlus invece ha motivo di ritenere che l'esercizio di un'influenza dominante sulla Onlus si possa configurare solo se si ha una scorretta governance dell'ente, ad esempio previsione nello statuto della revoca dei rappresentanti nominati da parte dell'ente che li ha designati, oppure riserve stabilite statutariamente di quote parti dell'attività all'ente che partecipa (ad esempio in un casa di riposo assegnazione diretta da parte dell'ente di alcuni posti a persone che sceglie direttamente senza seguire procedure trasparenti decise dall'organizzazione).

Dunque, in ultima analisi, occorre operare una vigilanza sugli enti partecipati, così come occorre sugli enti non partecipati, giacché, le probabilità che si configuri un'ipotesi di elusione o di evasione fiscale da parte di un ente partecipato sono paragonabili a quelle che si configuri per un ente non partecipato.

Se invece passiamo ad analizzare l'eventualità che una Onlus decida di acquisire e detenere partecipazioni in un altro ente, occorre innanzitutto stabilire come si configura tale acquisizione per la Onlus.

Anche su questo punto l'Agenzia per le Onlus si è già espressa con proprio Atto di indirizzo, approvato con provvedimento n. 144 del 15 marzo 2005, distinguendo l'eventualità che l'acquisto delle partecipazioni sia fatto allo scopo di effettuare un "investimento" di tipo patrimoniale dall'eventualità che si debba effettuare un'acquisizione di altra organizzazione o comunque esercitare il controllo su altra organizzazione.

Individuate le possibili fattispecie, occorre innanzitutto dire che l'Atto di indirizzo dell'Agenzia, al riguardo, si espresse a suo tempo per rispondere a quesiti di carattere generale che erano pervenuti; nei casi sottoposti si trattava di enti che avevano effettuato degli investimenti di tipo patrimoniale senza assumere il controllo o la proprietà del soggetto partecipato.

In particolare, con riferimento distinto alla detenzione e all'acquisto a titolo oneroso delle quote citate, la questione investe la legittimità dell'operazione menzionata rispetto a due dei vincoli che l'art. 10 del D.lgs. n. 460/1997 impone alle Onlus, quali precisamente:

il divieto di svolgere attività diverse da quelle istituzionali e connesse, di cui al comma 1, lett. c;

l'obbligo di impiegare gli utili e gli avanzi di gestione per la realizzazione delle attività istituzionali e di quelle ad esse direttamente connesse, di cui al comma 1, lett. e.

Sotto il primo profilo, cioè del divieto di svolgere attività diverse, l'Agenzia «ritiene che la mera detenzione di partecipazioni non possa mai dar luogo allo svolgimento di un'attività rilevante intesa in senso proprio, cioè, nella prospettiva in cui si contesti l'estraneità della detenzione in sé rispetto ai fini istituzionali, tale da comportare la violazione del divieto sopra citato».

Per definizione, infatti, quando si parla di attività in senso proprio si fa sempre riferimento all'attuazione di un complesso di operazioni reali, tra loro connesse ed organizzate, che non può certamente ravvisarsi nell'ipotesi del semplice possesso di quote societarie finalizzato alla sola percezione di dividendi provenienti eventualmente dalle stesse. In casi di questo genere, appare indubitabile che la titolarità di partecipazioni in capo ad un ente rappresenti unicamente una forma di impiego del patrimonio - ovvero un investimento dello stesso - che può determinare il godimento "passivo" dei frutti da esso originati senza implicare in sé lo svolgimento strumentale di alcuna attività.

Con riguardo ai limiti all'utilizzo degli avanzi di gestione, ovvero la seconda tematica evidenziata in premessa, afferente la connessa fase dell'acquisto della partecipazione stessa, si osserva che l'obbligo imposto alle Onlus di impiegare gli utili e avanzi di gestione nella realizzazione delle proprie attività statutarie, istituzionali o connesse, non sembra, a sua volta, essere di alcun ostacolo all'acquisto di partecipazioni a titolo oneroso da parte delle medesime organizzazioni per carenza di configurabilità di ogni profilo conflittuale con la normativa rilevante.

Si ritiene, infatti, che la disposizione in argomento, nel parlare di "impiego" di utili/avanzi di gestione, faccia riferimento a profili di casistica del tutto diversa da quella qui in esame che rappresenta un'ipotesi nella quale sono le predette risorse finanziarie costituenti il patrimonio dell'ente che vengono realmente utilizzate, in quanto capitale posseduto, per l'effettuazione di determinati acquisti. Nell'ipotesi di acquisizione di una partecipazione anche mediante il pagamento di un corrispettivo non si ravvisa alcun impiego - nel senso predetto di spesa effettiva – né di utili o proventi correnti né delle risorse accumulate nei precedenti esercizi, quanto semmai una mera trasformazione di una parte di esse, già costitutiva di dati patrimonializzati, da denaro disponibile in quote societarie, effettuata al solo scopo di ritrarne potenziali maggiori utilità.

Né può dirsi, su un piano affatto diverso, che l'acquisto di titoli di partecipazione comporti alcun "consumo" del patrimonio dell'ente che implichi, in violazione di quanto normativamente disposto, una distrazione dello stesso dalle attività statutarie obbligatorie tanto più che detta connessione diretta non è mai legislativamente prevista. Il fenomeno, invece, determina solo una parziale modifica della composizione del patrimonio medesimo che è del tutto libera in ragione di esigenze di investimento. E' ovvio che, poi, i frutti successivamente derivanti dagli effetti di tale operazione, ovvero i dividendi periodicamente percepiti in ragione della partecipazione, dovranno essere impiegati dall'ente per la realizzazione delle attività istituzionali e di quelle connesse nel comune rispetto del vincolo specificamente imposto dalla legge per i proventi tutti delle Onlus.

Ad ulteriore conferma della correttezza di tale posizione, si pone anche la considerazione che, se qualsiasi atto dispositivo delle risorse finanziarie integrasse un impiego di utili nel senso vietato dalla norma, necessariamente dovrebbe concludersi che alle Onlus è preclusa qualsiasi forma di investimento del proprio patrimonio, ivi compreso, ad esempio, l'acquisto di obbligazioni o di titoli pubblici.

Tale conclusione da un lato determinerebbe un'ingiusta e del tutto immotivata penalizzazione per tali organizzazioni che, in assenza di immediati progetti da attuare, sarebbero costrette a conservare le proprie disponibilità finanziarie presumibilmente in depositi bancari come noto scarsamente remunerativi; dall'altro lato sarebbe in contrasto con quanto previsto dalla legislazione tributaria stessa sul piano della tassazione, posto che, tra le categorie reddituali proprie delle Onlus, è espressamente prevista, anche nei modelli di dichiarazione fiscale, quella dei redditi di capitale che invero sarebbe di fatto inesistente qualora si escludesse a priori la possibilità per detti enti di utilizzare le proprie risorse per finalità di investimento in titoli o beni assimilati e di conseguenza percepire i relativi frutti sotto forma di dividendi, interessi o altro.

In conclusione, alla luce di tutte le considerazioni che precedono si ritiene che l'acquisto a titolo oneroso e la detenzione di quote di partecipazione in società di capitali siano del tutto compatibili con lo status giuridico-fiscale di Onlus in capo all'ente che se ne renda autore.

Sul punto l'Amministrazione finanziaria quali osservazioni ha maturato ad oggi? Di sicuro si è espressa nel senso di ritenere meno rischiosa l'ipotesi dell'acquisto di una partecipazione "limitata" da parte di una Onlus, quindi a puro titolo di investimento patrimoniale. Tale acquisto può costituire sicuramente un rischio ma, di fatto, non più che nel caso di altri tipi di eventuali investimenti patrimoniali che un'organizzazione possa fare. Questo perché i vincoli esistenti per una Onlus in proposito sono quelli statutari e comunque imposti dalla legge: ovvero l'obbligo di reinvestire gli utili e gli avanzi di gestione nell'attività istituzionale e il divieto assoluto di non distribuzione degli utili. In questi casi, quindi, l'ente utilizzerebbe parte del suo patrimonio per investirlo, con le stesse caratteristiche che se avesse depositato liquidità su un conto corrente bancario, il rischio di perdite è contenuto.

Invece, ipotizziamo, sempre nell'ottica del decreto legislativo 460/97 - che nella relazione illustrativa auspica la crescita e lo sviluppo del terzo settore finalizzato ad un'autonomia dal finanziamento "pubblico" - un'organizzazione Onlus che detenga la maggioranza delle azioni di una società o ne sia socio unico, quali eventuali si configurano?

Indubbiamente avere il controllo di una società comporta la possibilità di influire sulla gestione della stessa e quindi di vigilare e controllare che operi correttamente e produca utili. Il rischio di perdita del patrimonio? Certo, come nel caso precedente, esiste sempre il rischio che l'ente controllato fallisca, ma tale pericolo esiste anche per una organizzazione non profit, anche se in tal caso non si configura tecnicamente la procedura fallimentare.

Supponiamo poi che per la Onlus non si tratti di una operazione di tipo speculativo, ma che la costituzione dell'ente strumentale occorra per "produrre" le risorse necessarie per finanziare l'attività istituzionale. Infatti, una Onlus può svolgere attività "connesse" solo nei termini indicati nel D.lgs. n. 460/97 perché il legislatore, entro un certo margine, tollera che l'ente svolga attività che non presentino le caratteristiche solidaristiche, riservando alle stesse un regime agevolativo di favore [nota 3]. Se, però, per l'organizzazione Onlus tali risorse non fossero sufficienti, questa avrebbe tutta la convenienza a costituire un soggetto da sé autonomo che, benché sottoposto in tutto e per tutto al regime fiscale degli enti commerciali, produca risorse necessarie per finanziare l'attività solidaristica.

In tale caso quale può essere il rischio di elusione? Che l'ente commerciale, non essendo in grado di produrre utile abbia bisogno periodicamente di attrarre risorse dall'ente non profit. In questo specifico caso in verità l'Amministrazione finanziaria si pone dei legittimi dubbi e, per tale ragione, occorrerebbe definire in modo più chiaro: in che termini e con quali limiti consentire tale operazione affinché resti legittima. Altro rischio è dato dal fatto che l'ente profit, per sua natura, possa decidere di distribuire utili e allora in questo caso gli utili prodotti, anziché andare alla Onlus potrebbero essere utilizzati in altro modo. Si può ipotizzare che il legislatore regoli tali ipotesi?

Tuttavia, i rischi evidenziati non dovrebbero imporre il divieto a tutti i soggetti Onlus di costituire o detenere partecipazioni in società commerciali, in quanto diversi sono i casi documentabili in cui una simile operazione renderebbe autonomo un ente che svolge un'attività solidaristica e per realizzarla ha continuamente bisogno di attrarre risorse.

Ora, a differenza dell'Amministrazione finanziaria, per ovviare a detti rischi l'Agenzia per le Onlus ritiene più compatibile la detenzione di partecipazioni di maggioranza o addirittura totalitarie [nota 4], di modo che l'effettiva influenza dominante esercitata comporti nella società l'assunzione di decisioni che avvantaggiano la Onlus.

Da ultimo, inoltre, per ovviare a tali rischi, si è ipotizzata la soluzione di un'organizzazione Onlus che detenga una partecipazione in un soggetto avente la qualifica di impresa sociale di cui al D.lgs. 155/06.

Si tratta di una fattispecie che si differenzia rispetto a quelle fino ora analizzate in quanto, in tale ultima ipotesi, la partecipazione non assume la funzione di fonte di finanziamento per l'attività istituzionale non potendo la società impresa sociale distribuire utili.

L'art. 4 del D.lgs. 155/06 parla espressamente di gruppo di imprese sociali ed esclude che in esso possano assumere il ruolo di società controllante le imprese private con finalità lucrative e le amministrazioni pubbliche. Il controllo, invece, potrà essere detenuto da un ente non lucrativo caratterizzato quindi dalle medesime finalità del soggetto partecipato. Non si ritiene che nulla osti al fatto che tale ente possa rivestire legittimamente la qualifica fiscale di Onlus.

In questo caso la Onlus, anche per il tramite dell'impresa controllata, realizzerà la sua mission istituzionale, potendo creare una pluralità di soggetti che pur con le diverse caratteristiche loro proprie, perseguirebbero un unico fine di solidarietà sociale.


[nota 1] Non si considerano in ogni caso Onlus gli enti pubblici, le società commerciali diverse da quelle cooperative, gli enti conferenti di cui alla legge 30luglio 1990, n. 218, i partiti, i movimenti politici, le organizzazioni sindacali, le associazioni di datori di lavoro e le associazioni di categoria.

[nota 2] 113-bis. Gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica.
«1. Ferme restando le disposizioni previste per i singoli settori, i servizi pubblici locali privi di rilevanza economica sono gestiti mediante affidamento diretto a:
a) istituzioni;
b) aziende speciali, anche consortili;
c) società a capitale interamente pubblico a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano.
2. E' consentita la gestione in economia quando, per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del servizio, non sia opportuno procedere ad affidamento ai soggetti di cui al comma 1.
3. Gli enti locali possono procedere all'affidamento diretto dei servizi culturali e del tempo libero anche ad associazioni e fondazioni da loro costituite o partecipate».

[nota 3] Art. 150 Tuir: «Per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus), ad eccezione delle società cooperative, non costituisce esercizio di attività commerciale lo svolgimento delle attività istituzionali nel perseguimento di esclusive finalità di solidarietà sociale. 2. I proventi derivanti dall'esercizio delle attività direttamente connesse non concorrono alla formazione del reddito imponibile».

[nota 4] C.T.P. Bologna, sent. n. 30 dell'1 giugno 2004 «… il fatto ampiamente sottolineato dall'Ufficio che la gestione della nuova struttura realizzata con gli accantonamenti e gli utili pregressi, avvenga tramite società a responsabilità limitata appositamente costituita, di per sé non è rilevante e non esclude - allo stato - che l'utile percepito in questo modo dalla Fondazione venga utilizzato nel rispetto delle disposizioni statutarie della normativa Onlus».

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