Il patrimonio
Il patrimonio
di Marco Maltoni
Notaio in Forlì
Le riflessioni che seguono hanno per oggetto la disciplina vigente del patrimonio degli enti non profit e mirano a evidenziare gli interessi concreti che le norme di diritto positivo, lette anche in connessione sistematica, sono dirette a tutelare.
In tale prospettiva sembra necessario rilevare, in prima istanza, che la disciplina in oggetto risulta frantumata in una pluralità di sistemi normativi, di cui uno, contenuto nel codice civile, di valenza generale, e gli altri connotati dalla caratteristica della specialità [nota 1].
Pur dovendosi quindi rassegnare alla necessità di un'indagine plurima e frazionata, poiché considerazioni di ordine generale poco varrebbero per la soluzione dei problemi applicativi, pare tuttavia necessario, in apicibus, far proprie quelle valutazioni orientative per le quali la disciplina contenuta nel libro I del codice civile è fondata esclusivamente sulla distinzione fra enti riconosciuti ed enti non riconosciuti, e quindi fa del riconoscimento la ragione di essa, «mentre la natura dello scopo o dell'attività non incide minimamente sulla disciplina da applicare» [nota 2], mentre «nelle leggi speciali, al contrario, l'ente riconosciuto quasi scompare: mentre assurgono in primo piano il tipo di attività e lo scopo dell'organizzazione creata o, più normalmente, recepita dalla legge» [nota 3].
Pertanto, il codice civile appresta una disciplina applicabile a prescindere dallo scopo perseguito o dall'attività svolta dall'ente, purché ovviamente sia non profit, e pertanto applicabile «alla multiforme varietà delle organizzazioni create dalle leggi speciali, combinandosi con esse, qualora queste ultime non prevedano diversamente» [nota 4].
Ne consegue che le disposizione dedicate, nei diversi ambiti normativi, alla disciplina del patrimonio dell'ente devono essere lette ed interpretate alla luce del centro di gravità "funzionale" del singolo sistema normativo: disciplina dell'ente riconosciuto, e quindi degli effetti del riconoscimento nel caso del codice civile, disciplina dell'attività o dello scopo nel caso della normativa di settore.
Muovendo dall'analisi delle disposizioni del Codice Civile, è opinione condivisa anche presso gli operatori che, una volta abrogati anche gli artt. 600 e 786 c.c., il valore pratico del riconoscimento è circoscritto alla limitazione di responsabilità patrimoniale degli amministratori [nota 5].
La constatazione, invero, sembra da apprezzarsi più con riferimento alle associazioni che non alle fondazioni, qualora si acceda alla tesi per la quale queste ultime possono vivere solo a seguito del riconoscimento, senza esservi spazio per fondazioni non riconosciute.
Conviene tuttavia procedere con ordine, inventariando le norme che disciplinano aspetti afferenti al patrimonio e dando conto dell'interpretazione corrente.
A norma dell'art.16 l'atto costitutivo e lo statuto dell'associazione riconosciuta o della fondazione devono contenere l'indicazione, oltre che dello scopo, anche del patrimonio. In connessione, l'art.1 del D.P.R. 10 febbraio 2000 n. 361, ai fini del riconoscimento richiede che «lo scopo sia possibile e lecito e che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo». Si prescrive altresì (comma 4) che «la consistenza del patrimonio deve essere dimostrata da idonea documentazione allegata alla domanda». L'art. 4 del D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361 dispone che nel registro delle persone giuridiche debba essere indicato anche "il patrimonio" dell'ente; l'art.2 statuisce che ogni modificazione dell'atto costitutivo o dello statuto debba essere approvata dall'autorità amministrativa competente.
L'art. 28 c.c. prevede che qualora il patrimonio di una fondazione «è divenuto insufficiente, l'autorità governativa, anziché dichiarare estinta la fondazione, può provvedere alla sua trasformazione allontanandosi il meno possibile dalla volontà del fondatore», a meno che quest'ultimo, nell'atto fondativo, non abbia imposto l'estinzione e la devoluzione dei beni residui a terzi.
Ai sensi dell'art. 30 c.c., in caso di estinzione della fondazione o di scioglimento dell'associazione riconosciuta, «si procede alla liquidazione del patrimonio secondo le norme di attuazione del codice civile», le quali impongono la nomina di liquidatori, che devono dar luogo a procedure atte a soddisfare, anche concorsualmente, i creditori dell'ente (artt. 14 e 15 disp. att.); solo una volta «soddisfatti i creditori, i liquidatori formano l'inventario dei beni residuati e rendono conto della gestione al presidente del Tribunale» (art. 15, comma 3 disp. att.), per poi procedere alla distribuzione degli stessi beni residuati a norma dell'art. 31 c.c., «provocando, quando è necessario, le disposizioni dell'autorità governativa» (art. 15, ult. comma, disp. att.).
Norme significative in ordine al patrimonio degli enti mi paiono altresì gli artt. 21 c.c., laddove impone alle associazioni l'approvazione del bilancio, e l'art. 25 c.c., che consente un penetrante controllo dell'autorità amministrativa sull'attività gestionale degli amministratori di fondazione, potendo altresì annullare le delibere dell'organo amministrativo che siano contrarie all'atto di fondazione, salvi «i diritti acquistati da terzi in buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima», norma che tradisce il contenuto gestionale, e quindi di incidenza sul patrimonio, delle deliberazioni in oggetto. Dunque, disciplina del patrimonio, o più precisamente delle modalità di gestione del patrimonio.
Per proseguire l'indagine occorre chiarire quali siano gli interessi che la disciplina richiamata mira a tutelare, in coerenza con l'intento professato in epigrafe,
Si è già dato conto della tesi per la quale la caratterizzazione dello scopo perseguito non rappresenta un presupposto di applicazione di tale disciplina, e sotto tale profilo si è condivisibilmente parlato di neutralità del modello codicistico. Al contempo, tuttavia, lo scopo concreto non risulta indifferente, poiché, oltre che lecito, deve essere possibile, e la consistenza del patrimonio deve essere adeguata alla sua realizzabilità.
Tali qualità costituiscono oggetto della valutazione preventiva operata dall'autorità amministrativa in funzione del riconoscimento.
Dal che si desume, come autorevolmente rilevato, che la presenza di un patrimonio è condizione per il riconoscimento, anche se non per l'esistenza dell'ente [nota 6].
L'associazione e la fondazione realizzano una delle forme possibili di destinazione di risorse patrimoniali al conseguimento di uno scopo. Mediante il riconoscimento, e quindi mediante l'attribuzione della c.d. personalità giuridica, si accede all'autonomia patrimoniale: ovvero, si consente che la destinazione sia perseguita mediante regole organizzative peculiari, in funzione dell'efficienza del suo perseguimento, che si caratterizzano fra l'altro per la frattura che provocano fra il patrimonio destinato e il restante patrimonio del disponente tramite la tecnica meramente giuridica del mutamento della titolarità formale dei beni destinati [nota 7] e della creazione di un autonomo centro di imputazione dei rapporti giuridici che a quel patrimonio fanno capo, insensibile alle vicende del disponente [nota 8].
Particolarmente emblematica di tale tecnica organizzativa risulta l'evoluzione dell'impresa individuale in società di capitali unipersonale: se la destinazione dei beni all'esercizio dell'attività di impresa, di per sé, non produce separazione patrimoniale, nel senso che i beni destinati restano coinvolti nelle vicende del restante patrimonio del disponente (non solo ex art. 2740 c.c., ma anche da punto di vista della disciplina successoria, per esempio, e con l'eccezione della disciplina dei rapporti coniugali patrimoniali per effetto dell'applicazione dell'art. 178 c.c.), il conferimento/trasformazione in società unipersonale di capitali conduce alla creazione di un patrimonio autonomo, avente la medesima destinazione, con l'effetto di selezionare i creditori che su di esso possono soddisfarsi, in deroga all'art. 2740 c.c.
Preso atto che l'associazione e la fondazione altro non sono che una delle figure tipiche di destinazione patrimoniale rese disponibili dall'ordinamento all'autonomia privata, occorre dar atto altresì da un lato che il medesimo scopo può essere perseguito dal disponente avvalendosi, a sua discrezione, di una qualunque di tali figure [nota 9], e dall'altro che, a parità di scopo perseguito, non per tutte sono imposte regole afferenti al patrimonio destinato, il cui ammontare e la cui composizione sono lasciate alla libera scelta del disponente medesimo.
Sembra possibile dedursi che le regole in merito alla composizione qualitativa o quantitava del patrimonio destinato non siano volte ad assicurare l'aspirazione del disponente alla realizzazione dello scopo divisato, questione a cui l'ordinamento resta quindi indifferente, poiché non si comprenderebbe perché, a parità di scopo perseguito, in taluni casi interviene preventivamente ed in altri è volutamente assente. L'intervento legale dipende solo dallo schema organizzativo prescelto per perseguire la destinazione, e quindi dalle peculiarità di esso.
Se si condividono le premesse, ne consegue che il controllo dell'autorità amministrativa in sede di riconoscimento degli enti non profit non consiste in un apprezzamento di vitalità, cioè di idoneità del patrimonio a soddisfare l'interesse del o dei fondatori a perseguire e conseguire un obiettivo, ma si connette inevitabilmente a quello che è l'unico effetto caratterizzante del riconoscimento medesimo, ovvero il regime di responsabilità limitata dei gestori del patrimonio, che non possono essere chiamati a rispondere personalmente delle obbligazioni dell'ente [nota 10].
L'attenzione per le ragioni del ceto creditorio sembra confermata, peraltro, dalla disciplina della liquidazione del patrimonio dell'ente estinto (artt. 14 -15 disp. att. c.c.), che si pone in linea di coerenza sistematica con quella prevista per ogni altra ipotesi di cessazione di un patrimonio autonomo (è sufficiente riferirsi, in proposito, alla disciplina della liquidazione delle società, alla quale rinvia altresì, nei limiti della compatibilità, anche quella inerente l'estinzione dei patrimoni destinati a specifici affari, contenuta nell'art. 2447-novies c.c.).
Dunque, sembra condivisibile la tesi per la quale, agli effetti del riconoscimento, ed in ragione della responsabilità limitata degli amministratori che ne consegue, il patrimonio rileva in ragione della sola funzione di «assicurare, altrimenti che con la responsabilità illimitata di costoro, il soddisfacimento delle ragioni dei creditori» [nota 11].
Alla funzione ascritta al patrimonio sono fatti conseguire, sul piano della valutazione condotta in sede di riconoscimento, almeno tre coerenti corollari applicativi:
a) dal punto di vista quantitativo, il criterio dell'adeguatezza allo scopo, pretesa nell'art. 1 del D.P.R. 361/2000, si traduce nella regola per la quale il patrimonio iniziale deve risultare di per sé sufficiente al raggiungimento dello scopo concreto, quale idonea garanzia per i creditori dell'ente [nota 12];
b) dal punto di vista qualitativo, l'interesse precipuo a porre un baluardo a tutela dei creditori deve condurre a negare il riconoscimento ogni qualvolta lo statuto si limiti a contemplare «entrate puramente eventuali, non suscettibili, per questo loro carattere, di attribuire all'ente una sicura consistenza economica» [nota 13];
c) infine, «l'alienazione di beni, o la costituzione di garanzie reali su di essi, che siano fra quelli indicati nell'atto costitutivo come componenti il patrimonio dell'ente, richiederà, oltre che una deliberazione assembleare modificativa dell'atto costitutivo, una valutazione dell'autorità sulla sufficienza dei beni superstiti al raggiungimento dello scopo» [nota 14].
Diviene allora interessante verificare se il rigore logico delle conclusioni conseguenti alla premessa sia intangibile, oppure si presti ad essere scalfito o rivisitato alla luce di ulteriori valutazioni sistematiche.
Con riferimento al corollario dell'inalienabilità dei beni senza il preventivo placet amministrativo uno stimolo in tal senso proviene dalle considerazioni di attenta dottrina la quale, cogliendo lucidamente le istanze concrete della società civile, contesta la validità generale della regola suddetta quale caratteristica qualificante il patrimonio delle fondazioni (e direi, degli enti riconosciuti) [nota 15].
Valorizzando infatti la strumentalità del patrimonio all'esercizio dell'attività dell'ente in funzione dello scopo [nota 16], si propone di distinguere fra situazioni nelle quali il bene oggetto di conferimento è necessariamente strumentale al conseguimento dello scopo (ipotesi del teatro o dell'edificio storico rispetto alla fondazione creata appositamente per la loro gestione o valorizzazione) e situazioni nelle quali il patrimonio conferito rileva solo come valore, mezzo generico di perseguimento dello scopo. Se nel primo caso «la cessione del cespite il cui utilizzo integra la finalità dell'ente deve intendersi preclusa in assenza di apposita modifica statutaria (debitamente approvata dall'autorità governativa)», nel secondo non dovrebbe impedirsi la possibilità di «sostituire i beni conferiti, attraverso l'acquisto di nuovi con il reimpiego del ricavato dalla vendita di quelli attuali». [nota 17]
In tale prospettiva sembra possibile altresì legittimare la «configurabilità di una fondazione di erogazione programmaticamente rivolta a consumare il patrimonio per realizzare il proprio scopo altruistico» [nota 18].
A ben vedere, le argomentazioni proposte a fondamento di una tesi che piace sembrano assumere come angolo di prospettiva il solo rapporto fra poteri di amministrazione e scopo; sotto tale profilo non mi pare revocabile in dubbio che la destinazione impressa ad un patrimonio influisca in maniera determinante sul contenuto della funzione gestionale, che si conforma inevitabilmente all'impianto di interessi sottostante alla destinazione medesima [nota 19].
Nella circostanza, tuttavia, viene in rilievo ulteriormente l'interesse del ceto creditorio, per la responsabilità limitata dei gestori che consegue al riconoscimento.
L'asserita indisponibilità del patrimonio di dotazione senza l'autorizzazione amministrativa discende dalle premesse: in funzione della tutela del ceto creditorio il patrimonio iniziale della fondazione e dell'associazione deve essere indicato nell'atto costitutivo o nello statuto (art. 16 c.c.), è oggetto di valutazione di adeguatezza dal parte dell'autorità competente per il riconoscimento, come condizione essenziale per accedere ad esso (art. 1. D.P.R. 361/2000), viene indicato nel Registro delle persone giuridiche (art. 4 D.P.R. 361/2000).
Dal punto di vista formale, pertanto, il mutamento del patrimonio risultante dall'atto costitutivo o dallo statuto si presta ad essere qualificato come modificazione di essi e, come tale, soggetto all'approvazione con le modalità ed i termini previsti per l'acquisto della personalità giuridica (art. 2 D.P.R. 361/2000).
La rilevanza dell'esigenza di tutela del ceto creditorio per il corretto fluire dell'economia, e il principio di indisponibilità dei diritti altrui, ipotecano in maniera gravosa la possibilità del libero esplicarsi di scelte gestionali guidate solo dal rispetto dello scopo impresso al patrimonio autonomo.
Mi pare che la possibilità di giungere a conclusioni diverse e più soddisfacenti rispetto a quelle proposte dalla dottrina tradizionale dipenda dalla pregiudiziale possibilità di rinvenire strumenti di tutela del ceto creditorio alternativi rispetto al controllo dell'autorità amministrativa sugli atti dispositivi dei beni costituenti il fondo di dotazione iniziale.
L'ambito normativo e sistematico nel quale si è studiato più approfonditamente il problema è quello delle società di capitali.
è nota l'evoluzione che ha subito la teoria del capitale sociale nel corso del tempo [nota 20]: ciò che mi pare rilevi, ai meri fini della riflessione che si sta conducendo, è la condivisa affermazione per cui esso non svolge una funzione di garanzia del ceto creditorio, dovendo piuttosto il suo ruolo essere interpretato su piani diversi [nota 21].
Eppure, storicamente, la tesi della funzione di garanzia del capitale sociale ha dominato a lungo la scena interpretativa, quale contrappeso alla limitazione di responsabilità dei soci e degli amministratori (non spiegandosi allora la disciplina della società in accomandita per azioni): con l'inevitabile postulato per cui sarebbero stati conferibili solo beni suscettibili di azioni esecutive da parte dei creditori [nota 22].
Secondo tale orientamento, «riconoscendo al capitale sociale la funzione di creare un patrimonio qualificato destinato alla garanzia dei creditori, si perviene ad attribuire rilevanza anche al capitale reale, quale insieme di beni che compongono che patrimonio attivo e destinati alla funzione di garanzia» [nota 23]. La ricostruzione è completata tramite una lettura delle regole sull'iscrizione dei cespiti nel bilancio di esercizio che tenta(va) di selezionare i valori dell'attivo che entrano a fare parte del patrimonio sociale al fine di evitare alterazioni qualitative rispetto alla composizione dei conferimenti iniziali.
Giova evidenziare, con riferimento alla questione che ci occupa, che ogniqualvolta si è inteso assegnare ad un patrimonio una funzione di garanzia, è emersa altresì l'esigenza di premunirsi contro possibili alterazioni qualitative a cui lo stesso possa andare incontro.
L'evoluzione seguente nella concezione del capitale sociale è connessa alla valorizzazione della sua natura prettamente nominale: si tratta di mera regola volta a disciplinare la remunerazione periodica dell'investimento a favore dei soci, nonché a fungere da circuito di allarme per gli amministratori imponendo obblighi se le perdite superino il terzo [nota 24].
Oggi, relativamente alle società, è il conseguimento dell'equilibrio economico - finanziario dell'impresa (nel senso di adeguato rapporto tra "mezzi propri" e "mezzi di terzi", nell'ambito di tutti i mezzi di cui la società ha bisogno per conseguire l'oggetto sociale), a costituire non solo il presupposto imprescindibile del suo esercizio regolare, ma altresì l'unica vera garanzia del pagamento dei debiti sociali [nota 25].
Una dimostrazione dell'efficenza di quest'ultima soluzione sembra provenire dall'art.3 del "Disegno di legge delega di riforma del titolo II del libro I del codice civile recante la disciplina delle fondazioni, delle associazioni e dei comitati in attuazione del principio di sussidiarietà di cui all'articolo 118, comma 4, della Costituzione", il quale indica fra i principi e criteri che devono guidare l'azione legislativa quello di collegare il perdurare della limitazione di responsabilità, conseguente al riconoscimento, al rispetto di un adeguato rapporto tra i mezzi propri della persona giuridica e il suo complessivo indebitamento (lett. d).
Fra le regole proposte quella che sembra più rilevante de iure condito è contenuta nella lett e, del medesimo articolo 3, laddove, in caso di mancato rispetto del rapporto fissato a mente della lett. d, subordina il mantenimento della responsabilità limitata alla prestazione di idonee garanzie, soluzione che trova eco in un'altra disposizione, assai lontana sistematicamente, ma sempre volta a garantire la tutela di una particolare classe di creditori, gli obbligazionisti di società: mi riferisco all'art. 2412, comma 3, c.c., che consente di non rispettare il rapporto fra mezzi propri e indebitamento fissato nel primo comma allorchè si conceda ipoteca di primo grado su immobili di proprietà dell'emittente.
Quale conclusione trarre da tali dati rispetto al problema che ci occupa?
In attesa che la più volte annunciata riforma del I libro ci consegni regole di tutela del ceto creditorio fondate su predefiniti rapporti fra patrimonio proprio e indebitamento, accompagnati dall'obbligo, che mi pare inevitabile, di predisporre e depositare presso il Registro delle persone giuridiche un bilancio annuale (di cui si parla con riferimento alle associazioni riconosciute nell'art. 4 lett. g, punto 2, e di cui non ho reperito, sorprendentemente, traccia rispetto alle fondazioni), mi pare che l'unico mezzo di salvaguardia oggi riconoscibile sia quello desumibile indirettamente dall'obbligo, alternativo, di apprestare idonee garanzie.
Allo stato attuale della normativa il patrimonio iniziale di dotazione rappresenta la sola garanzia, seppure generica e non specifica, per il ceto creditorio, e mi pare inevitabile che sia afflitto da un vincolo di indisponibilità relativa, salvo autorizzazione amministrativa, a tutela della sua consistenza, anche qualitativa, in conformità alle indicazioni che la dottrina tradizionale riteneva dovessero valere anche per le società di capitali, a dimostrazione della ricorrenza di un'esigenza comune.
A tale conclusione conseguono ulteriormente una serie di corollari applicativi:
a) rebus sic stantibus, il patrimonio di dotazione dovrà essere formato da beni suscettibili di espropriazione, poiché esclusivamente destinati ad offrire una garanzia ai creditori;
b) nulla impedisce che vi sia identità fra i beni di garanzia ed i beni strumentali all'attuazione dello scopo;
c) nulla impedisce altresì che non vi sia identità, così come è possibile che il patrimonio, all'atto della costituzione dell'ente, sia scomposto funzionalmente in "patrimonio di garanzia", destinato ad essere conservato o mutato con l'autorizzazione amministrativa, e in "patrimonio di gestione", liberamente disponibile e diretto a consentire lo svolgimento dell'attività funzionale allo scopo, con la precisazione che il criterio di adeguatezza in sede di controllo preventivo deve essere circoscritto al primo, alla luce di quanto fino ad ora sostenuto.
Nella medesima prospettiva è altresì necessario che il valore dei cespiti componenti il patrimonio di dotazione sia accertato con le modalità più oggettive possibili, ed in tal senso dispone il comma 4 dell'art. 1 del D.P.R. 361/2000, ai sensi del quale «la consistenza del patrimonio deve essere dimostrata da idonea documentazione allegata alla domanda» (pertanto, qualora si apportino per esempio quadri, è necessario allegare alla domanda la perizia di un esperto nel settore).
Resta la questione della possibilità di costituire una fondazione di mera erogazione, «programmaticamente rivolta a consumare il patrimonio per realizzare il proprio scopo altruistico» [nota 26].
La risposta a mio avviso deve volgere nel senso della legittimità, perché, e purchè, programmaticamente incapace di assumere obbligazioni, stante la sua finalità, e quindi di creare affidamenti creditori. Al punto che la responsabilità limitata può essere considerata, nella circostanza, un orpello inutile.
Giova forse enfatizzare statutariamente la suddetta incapacità con regole espresse sul piano gestionale, che sanciscano il divieto per gli amministratori di assumere obbligazioni in nome e per conto dell'ente, al fine altresì di consentire l'attivazione dei rimedi di cui all'art. 25 c.c. da parte dell'autorità amministrativa, in caso di violazione, a tutela dei creditori dell'ente.
Le considerazioni da ultimo proposte hanno finito per condurre la riflessione sul piano delle regole di gestione del patrimonio degli enti non profit.
Sotto tale profilo giova ribadire, una volta di più, che il vincolo di indisponibilità (relativa) di cui si è dato conto vige solo con riferimento ai beni che hanno composto il patrimonio iniziale di dotazione dell'ente, quali indicati, ai sensi dell'art. 16 c.c., nell'atto costitutivo o nello statuto, con esclusione, quindi, di tutti i beni successivamente acquisiti, anche a titolo di liberalità, da terzi o dallo stesso fondatore.
L'abrogazione dell'art. 17 c.c. ha espunto ogni forma di controllo all'accesso sui beni successivamente acquisiti; in più, la valutazione di adeguatezza patrimoniale deve essere esperita solo in sede di riconoscimento, ed in tale momento condurre ad un esito favorevole. Ciò che perviene successivamente è ulteriore ed ultroneo rispetto al controllo iniziale, e quindi nella disponibilità degli amministratori senza necessità di placet amministrativo.
Sembra pertanto opportuno, dal punto di vista redazionale, non confondere statutariamente i beni costituenti il patrimonio iniziale con quelli successivamente acquisiti, poiché diverso è il loro regime sotto il profilo della disponibilità.
Così come, in taluni casi, può risultare opportuno precisare statutariamente i limiti massimi di indebitamento o di capacità di obbligare l'ente a cui è autorizzato l'organo amministrativo nel perseguimento dello scopo, sulla falsariga delle considerazioni svolte rispetto alla fondazione di mera erogazione, con inevitabili ricadute sulla valutazione dell'ammontare del "patrimonio di vigilanza" da mantenere vincolato.
Estremamente significativa in tal senso mi pare la disciplina delle fondazioni bancarie (D.lgs. 17 maggio 1999, n. 153) che all'art. 5, rubricato "patrimonio", prevede nel comma 1 che «le fondazioni, nell'amministrare il patrimonio, osservano criteri prudenziali di rischio, in modo da conservarne il valore ed ottenerne un'adeguata redditività».
In termini generali, dalla legge, oltre che dai principi, emerge la necessità che l'azione degli organi gestionali sia coerente con la destinazione impressa al patrimonio [nota 27].
In tale ottica si deve leggere la facoltà concessa all'autorità amministrativa di impugnare le deliberazioni dell'organo amministrativo che siano contrarie all'atto di fondazione, contrarietà da intendersi non solo come incoerenza del processo decisionale alle regole in tema di formazione della volontà collettiva, ma soprattutto come non conformità dell'azione gestionale allo scopo.
In materia si può altresì rilevare la peculiare attenzione della normativa di settore sul punto, che pretende che i beni, specie se acquisiti a titolo di donazione o iure hereditatis, siano effettivamente destinati al perseguimento degli scopi istituzionali per i quali vennero attribuiti o acquistati: enfasi giustificata dal fatto che se il codice civile propone un modello neutrale di ente non profit, le leggi speciali dettano una disciplina che trova la ragion d'essere nel tipo di attività esercitata e nello scopo perseguito [nota 28].
Già l'art. 5 della L. 11 agosto 1991, n. 266 (legge quadro sul volontariato) prescriveva che i beni acquisiti per donazione o a seguito di lascito testamentario e le relative rendite dovessero essere destinati esclusivamente al conseguimento delle finalità previste dagli accordi, dall'atto costitutivo o dallo statuto. Se si fosse pensato che la norma era giustificata dalla deroga agli allora vigenti artt. 600 e 786 c.c., mi pare che l'illazione possa essere fugata dalla previsione dell'art. 5 della L. 7 dicembre 2000, n. 383, "Disciplina delle associazioni di promozione sociale", certamente successiva a detta abrogazione (avvenuta con la L. 22 giugno 2000, n. 192), ai sensi del quale «le associazioni di promozione sociale prive di personalità giuridica possono ricevere donazioni e, con beneficio di inventario, lasciti testamentari, con l'obbligo di destinare i beni ricevuti e le loro rendite al conseguimento delle finalità previste dall'atto costitutivo e dallo statuto».
Infine, occorre rilevare che la normativa di settore è sempre attenta a prevedere obblighi di rendiconto, e quindi la redazione di un bilancio finale da sottoporre al controllo delle Authority via via competenti (art. 10, lett. g, D.lgs. 4 dicembre 1997, n. 460; art. 16, D.lgs. 29 giugno 1996, n. 367 sugli enti lirici; art. 3, lett. h, L. 7 dicembre 2000, n. 383; art. 3, comma 3, L. 11 agosto 1991, n. 266) : mi pare che questa soluzione debba trovare applicazione generalizzata a tutti gli enti che conseguono il riconoscimento, stante la limitazione di responsabilità che ne consegue e l'esigenza di trasparenza ad essa correlata.
[nota 1] Si veda in proposito M.V. DE GIORGI, «Il nuovo diritto degli enti senza scopo di lucro: dalla povertà delle forme codicistiche al groviglio delle leggi speciali», in Riv. dir. civ., 1999, p. 287 e ss.
[nota 2] M.V. DE GIORGI, op. cit., p. 297.
[nota 3] M.V. DE GIORGI, op. cit., p. 298.
[nota 4] M.V. DE GIORGIO, op. loc. ult. cit.
[nota 5] M.V. DE GIORGI, op. cit., p. 293; ID., «L'abrogazione degli artt. 600 e 786 c.c. e la modifica dell'art. 473 c.c. (come rielaborare il Codice attraverso la "Bassanini-bis")», in Studium iuris.
[nota 6] F. GALGANO, Persone giuridiche, (seconda edizione), in Comm. cod. civ. Scialoja Branca, Bologna-Roma, 2006, p. 244 e ss.
[nota 7] Efficacemente A. PISANI MASSARMORMILE, «Trasformazione e circolazione dei modelli organizzativi», in Riv. dir. comm., 2008, p. 73 e ss., il quale ci ricorda che «parlare di persona giuridica o di soggetto collettivo in riferimento a gruppi fondati sul contratto plurilaterale signfica, si dice, utilizzare una formula sintetica ed espressiva per richiamare una disciplina, un insieme di regole destinate a semplificare ed a disciplinare da un lato i rapporti interni al gruppo (fra i membri di esso e fra i membri ed il gruppo) e dall'altro i rapporti esterni (quelli tra un terzo estraneo al gruppo ed il gruppo unitariamente considerato); un insieme di regole destinato a durare nel tempo; un insieme di regole dalle quali nasce un'organizzazione e nascono alcuni scambi, anzi un flusso di scambi». Dunque, il soggetto è «ormai ridotto a mera tecnica di organizzazione di un gruppo di persone che gestisce unitariamente un'attività o di un'attività separata dalle altre della persona». ID., op. cit., p. 78. In precedenza, F. GALGANO, op. ult. cit., p. 6 e ss. ed in particolare, p. 25-26.
[nota 8] In materia, da ultimo, P. GABRIELE, «Dall'unità alla segmentazione del patrimonio: forme e prospettive del fenomeno», in Giur. comm., I, 2010, p. 593 e ss.
[nota 9] In proposito, si vedano i contributi di A. ZOPPINI, «Fondazioni e trusts (spunti per un confronto)», in Giur. it., 1997, IV, p. 41; G. IUDICA, «Fondazioni, fedecommesserie, trusts e trasmissione della ricchezza familiare», in Nuova giur. civ. comm., 1994, p. 77.
[nota 10] In tal senso, in maniera assolutamente condivisibile, F. GALGANO, op. cit., p. 247; G. IORIO, Le fondazioni, Milano, p. 197, per il quale «concedere la personalità giuridica ad enti sforniti di un adeguato patrimonio significherebbe consentire l'ingresso nell'ordinamento di soggetti privi di ogni garanzia in ordine all'adempimento delle obbligazioni», nonché p. 135 in ordine al carattere discrezionale della valutazione condotta dall'autorità amministrativa.
[nota 11] F. GALGANO, op. cit., p. 247.
[nota 12] F. GALGANO, op. cit., p. 249.
[nota 13] F. GALGANO, op. cit., p. 251, così anche M. BASILE, Le persone giuridiche, in Tratt. dir. priv. diretto da G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2003, p. 104. Ciò non significa che l'atto di dotazione debba avere necessariamente natura reale, potendo invece produrre effetti meramente obbligatori.
[nota 14] F. GALGANO, op. cit., p. 285. L'asserzione risulta condivisa dalla prassi amministrativa e dalla dottrina tradizionale. In tal senso anche L. NONNE, «Autodestinazione e separazione patrimoniale negli enti non profit dopo la riforma del diritto societario», in La nuova disciplina delle associazioni e delle fondazioni, (riforma del diritto societario e enti non profit) a cura di A. Zoppini e M. Maltoni, Quaderni della Riv. dir. civ., 2007, p. 247. Che la destinazione dei beni ad uno scopo tramite l'istituto della fondazione generi «impedimenti alla circolazione dei beni e al libero sfruttamento delle risorse economiche» anche M.V. DE GIORGI, op. cit., p. 304.
[nota 15] A. FUSARO, «La fondazione di famiglia in Italia e all'estero», in Riv. not., 2010, p. 24.
[nota 16] Il nesso di strumentalità, sia detto per inciso, mi pare enfatizzato dalla disciplina della trasformazione eterogenea, funzionale a salvaguardare la continuità patrimoniale in funzione dell'attività per nella mutabilità dello scopo.
[nota 17] A. FUSARO, op. cit., p. 25.
[nota 18] A. FUSARO, op. cit., p. 25.
[nota 19] Cfr. P. GABRIELE, op. cit., p. 608, per il quale «quando si istituisce un patrimonio autonomo il titolare originario perde la facoltà di disporne liberamente, mentre l'ente che lo riceve avrà un potere dispositivo sottoposto a vincoli derivanti dallo scopo per cui è stato istituito».
[nota 20] Per una rivisitazione anche in chiave storica dell'istituto G.B. PORTALE, «Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata», in Riv. soc., 1991, p. 3 e ss.
[nota 21] In tal senso G. PORTALE, op. ult. cit., p.12, , per il quale la sua appostazione al passivo «serve a rendere indisponibili, impedendone la distribuzione ai soci, il capitale reale, e cioè l'entità dei mezzi contrattualmente destinati a restare stabilmente investiti nell'impresa sociale, nel prevalente interesse dei terzi»; si vedano in proposito anche G. FERRI JR, «Il sistema e regole del patrimonio netto», in Riv. soc., 2010, p. 26 e ss., in particolare p. 31, per il quale la disciplina del capitale sociale non svolge alcuna funzione di garanzia dei creditori sociali in quanto tali, i quali dovranno cercare tutela nella disciplina concorsuale e segnatamente nel sistema revocatorio; e P. SPADA, «Appunto in tema di capitale nominale e di conferimenti», studio n. 127/2006 del Consiglio Nazionale del Notariato.
[nota 22] Si tratta della nota tesi di E. SIMONETTO, Responsabilità e garanzia nel diritto delle società, Padova, 1959, una sintesi della quale è reperibile in M. MIOLA, I conferimenti in natura, in Tratt. delle SpA diretto da G. E. Colombo e G.B. Portale, Torino, 2004, p. 13 e ss.
[nota 23] M. MIOLA, op. cit., p. 13.
[nota 24] G. FERRI JR, op. ult. cit.; P. SPADA, op. ult. cit.
[nota 25] G.B. PORTALE, op. cit., p. 19.
[nota 26] A. FUSARO, op. cit., p. 25.
[nota 27] Vedi sopra, nt. 17.
[nota 28] Sul tema M. BASILE, op. cit., p. 110; D. VITTORIA, «L'abrogazione dell'art. 17 c.c.: l'incidenza sull'assetto normativo degli enti del I libro del codice civile», in Contr. impr., 1998, p. 322.
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