Clausole di maggiorazione del dividendo ad incentivazione dell'azionariato attivo
Clausole di maggiorazione del dividendo ad incentivazione dell'azionariato attivo [nota *]
di Giuseppe Rescio
Professore ordinario di diritto commerciale, Università del "Sacro Cuore" di Milano

La norma che ci si accinge a commentare, contenuta nell'art. 127-quater Tuf, mette l'interprete in notevole imbarazzo e lo pone davanti ad una alternativa: assumere una posizione di rigetto, come quella di recente assunta dal collega ed amico Mario Stella Richter jr (I troppi problemi del dividendo maggiorato, relazione al convegno di Macerata, 8 ottobre 2010, in corso di pubblicazione nei relativi atti), oppure tentarne l'incorporazione nel sistema delle società azionarie ed analizzare sino che punto essa mette in tensione i principi che ne sono alla base.

La citata disposizione concede la possibilità di inserire nello statuto di una società quotata una clausola che preveda, a determinate condizioni, una maggiorazione del dividendo da distribuirsi ad alcuni azionisti rispetto a quello da distribuirsi agli altri.

Questo risultato è sempre stato raggiungibile mediante ricorso alle categorie di azioni, ed in particolare alla categoria delle azioni privilegiate nella distribuzione degli utili: una cui sottospecie - le c.d. azioni di preferenza - ha, appunto, la caratteristica di permettere all'azionista che le possiede di ricevere un dividendo più alto rispetto a quello che viene distribuito alle altre azioni.

La peculiarità della clausola oggi consentita, dunque, non consiste nell'obiettivo che essa permette di conseguire, ma nel modo con cui lo si può ottenere e si individuano i soggetti che in concreto godono del beneficio. Infatti, attraverso questa clausola, senza alcun ricorso alle categorie di azioni, il premio viene riconosciuto a chi vanta un possesso prolungato delle azioni della società, a qualsiasi tipologia queste appartengano (ordinarie o speciali).

La legge impone la verifica di alcuni presupposti perché il dividendo possa essere conseguito in forma maggiorata e stabilisce diversi limiti in proposito:

- il possesso delle azioni per cui si richiede il beneficio maggiorato deve durare per almeno un anno;

- la maggiorazione complessivamente distribuita non può superare del 10% il dividendo che viene complessivamente distribuito alle altre azioni, ponendosi quindi un tetto massimo all'ammontare del premio;

- in ogni caso il premio non può essere conseguito da un azionista singolo oltre una certa misura: se l'azionista possiede una partecipazione che supera lo 0,50% del capitale sociale, la maggiorazione può essere prevista nei limiti di tale soglia;

- i soggetti che possono avere diritto al beneficio sono i soci "di minoranza" nel senso precisato dall'art. 127-quater, comma 2.

L'espressione che adopero (soci di minoranza) è invero impropria. Pur senza indugiare nell'approfondimento dei numerosi problemi interpretativi che sul punto dovrebbero affrontarsi, si deve ricordare che l'art. 127-quater individua gli azionisti esclusi dalla fruizione del privilegio mediante ricorso ai concetti di "influenza dominante" e di "influenza notevole", riservando il beneficio ai soggetti che non esercitano da soli o congiuntamente con altri un'influenza dominante o notevole sulla società. Se l'influenza dominante rimanda alle note nozioni di controllo solitario o congiunto, l'influenza notevole rinvia alla presunzione stabilita dall'art. 2359, comma 3 c.c. e si presta oggi ad essere definita in conformità a quanto si stabilisce nell'allegato al regolamento Consob sulle operazioni con parti correlate, dove si legge una definizione di influenza notevole che ben può essere utilizzata anche fuori da quel contesto: si tratta della situazione in cui versano quei soci i cui convincimenti non possano essere trascurati dai soci di controllo e/o dagli amministratori nella determinazione delle politiche gestionali e finanziarie.

Chi si trova in una simile situazione non è considerato un socio "di minoranza" che possa aspirare al premio in oggetto, purché egli eserciti effettivamente un'influenza dominante o notevole: per escludere il socio dal beneficio non basterebbe, in altre parole, accontentarsi della esistenza di circostanze che normalmente facciano presumere l'influenza; bensì occorre dimostrare che nel periodo di possesso richiesto, o anche per una sola parte di questo periodo, sia stata effettivamente esercitata un'influenza dominante o notevole.

Ancora, la norma che si commenta prevede che non rientrano fra i soci che possono fruire di questo privilegio quelli che hanno preso parte a patti parasociali rilevanti ex art. 122 Tuf che radunino almeno il 30% delle azioni che danno diritto di voto nelle delibere sulla nomina e revoca degli amministratori: e ciò indipendentemente dalla idoneità del patto a fungere da strumento con cui le relative parti effettivamente esercitino un'influenza dominante o notevole; al riguardo, infatti, rileva la semplice partecipazione al patto.

Per esclusione, dunque, possono aspirare al privilegio tutti i soci "non influenti" nel senso sopra sommariamente precisato ed individuabili con espressione breviloqua, seppure non del tutto corretta, di soci "di minoranza".

Ci si può chiedere se la clausola statutaria concedente il beneficio in esame possa essere rimodellata in modo da aderire maggiormente agli interessi in concreto perseguiti, o se debba essere introdotta nei soli termini in cui viene delineata dall'art. 127-quater.

Alcuni margini di manovra vengono espressamente riconosciuti dal testo di legge. Certamente si può aumentare il periodo temporale di possesso rilevante al di là della durata annuale minima. Ancora, si può decidere di ridurre l'ammontare massimo del dividendo maggiorato distribuibile complessivamente o nei confronti di un singolo azionista rispetto alle soglie massime stabilite dalla legge. Si possono, inoltre, introdurre "condizioni ulteriori" - secondo quanto esplicitamente prevede l'art. 127-quater, comma 1 - solo in presenza delle quali scatta il diritto al dividendo maggiorato: quali possano essere tali condizioni ulteriori è motivo di discussione già nei primi commenti successivi all'entrata in vigore della disposizioni. Sul punto si avrà modo di tornare in seguito.

Un'altra possibilità testualmente prevista dall'art. 127-quater, comma 1, secondo periodo, consiste nell'estensione del diritto al privilegio anche nei confronti delle azioni assegnate gratuitamente (in sede di aumento di capitale) ad azionisti che possiedano azioni acquisite prima dell'assegnazione gratuita da almeno un anno. Secondo quanto si deve desumere dalla lettera della disposizione, a dire il vero scritta in modo piuttosto sintetico, si può fare in modo che, se pure il possesso delle azioni assegnate gratuitamente abbia durata inferiore ad un anno, goda del privilegio anche per tali azioni l'assegnatario che sia titolare di (altre) azioni pervenutegli e possedute da più di un anno.

Può darsi, però, che l'assegnatario in questione abbia un pacchetto azionario acquistato in momenti diversi e che solo per alcune azioni, non per altre, si superi il periodo di possesso minimo richiesto. In questi casi sembra naturale procedere ad una proporzione: il diritto al dividendo maggiorato spetterà per una parte delle azioni assegnate gratuitamente, parte da determinarsi in proporzione alla quantità di azioni già possedute dall'assegnatario da più di un anno.

L'art. 127-quater ricollega ad ogni azione il diritto alla maggiorazione del dividendo. Tuttavia, esso è altrettanto esplicito nel porre una limitazione quantitativa del diritto invocabile dal singolo azionista, una limitazione - un tetto massimo - che per certi versi ricorda quella che può essere statutariamente introdotta per i diritti di voto nelle SpA che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio in forza dell'art. 2351, comma 3 c.c. In entrambi i casi, sebbene ogni azione attribuisca il diritto (utile, voto), ogni socio legittimato per più azioni non potrà cumulare i diritti provenienti da ogni singola azione al di là della soglia massima stabilita. Ricorrendo ad un meccanismo già noto, sul punto ora menzionato la nuova norma non costringe l'interprete a sforzi eccessivi in ordine alla sua collocazione nel sistema.

Decisamente più complicata è l'armonizzazione col sistema là dove la disposizione collega la spettanza del diritto alla ricorrenza di circostanze di carattere soggettivo, o anche a carattere oggettivo ma transitorio, quali il possedere le azioni per un certo periodo di tempo e, soprattutto, l'essere il possessore ascrivibile ad una determinata categoria di soggetti definibili soci "di minoranza" o "non influenti": e ciò in (almeno apparente) contrasto con il tradizionale principio di uguaglianza dei diritti attribuiti dall'azione, principio che non dovrebbe consentire di discriminare tra diverse figure di azionisti. Ogni soggetto che diventa proprietario di un'azione deve tendenzialmente poter esercitare tutti i diritti inclusi nell'azione; qui, invece, si descrive un diritto astrattamente concesso a tutte le azioni, ma congegnato in modo tale che, se le azioni giungono nelle mani di un soggetto non rientrante nella categoria dei soci "di minoranza", esso non spetti e/o non possa essere esercitato. Ne deriva una deroga, di tutta evidenza, all'impostazione tradizionale che costringe a ripensare il principio di uguaglianza e la sua effettiva portata.

è notevole il fatto che il beneficio in questione non sia trasmissibile: lo afferma apertamente l'art. 127-quater, comma 3 Tuf, il quale fa eccezione soltanto per i casi di morte dell'azionista persona fisica, subentrando gli eredi nella posizione del de cuius, e di fusione o scissione della società azionista, ove la beneficiaria risultante diventa titolare delle azioni esattamente nella stessa posizione giuridica già spettante alla società fusa o scissa. Fuori dai casi testé ricordati, se l'azione viene ceduta, si perde il beneficio: ma in che senso?

In primo luogo, nel senso che l'acquirente dell'azione non può continuare nel possesso: se il proprio dante causa ha posseduto per sei mesi, non può l'acquirente sommare tale periodo ad altri sei mesi di possesso personale per completare l'anno necessario per invocare il diritto alla maggiorazione.

In secondo luogo, nel senso che, ove il periodo minimo di possesso sia già stato compiuto dal cedente, ma non sia stata deliberata la distribuzione del dividendo, la cessione effettuata non permette né al cedente né al cessionario di invocare il dividendo maggiorato. Dunque, può darsi che un azionista abbia posseduto per più di un anno, ma che non si sia ancora tenuta l'assemblea di approvazione del bilancio oppure che detta assemblea abbia approvato il bilancio senza distribuzione di dividendi, avendo deliberato di accantonare l'eventuale utile conseguito dalla società: se l'azione viene a questo punto alienata, l'acquirente ha un diritto al dividendo in misura ordinaria, riprendendo a decorrere dall'inizio il periodo di possesso minimo per ottenere la maggiorazione.

Vi è tuttavia un caso nel quale la circolazione dell'azione comporta anche la circolazione sia della titolarità sia della legittimazione all'incasso del dividendo maggiorato: si tratta del caso in cui l'azione venga alienata dopo che sia intervenuta la delibera di distribuzione del dividendo, e quindi, dopo che sia già maturato un diritto di credito del socio alienante ad ottenere il dividendo maggiorato. In tal caso il diritto non si perde se l'azione viene venduta: non c'è ragione di concludere nel senso della perdita (estinzione) del diritto, dal momento che a seguito della delibera di distribuzione si è costituito un diritto di credito autonomo le cui vicende non sono necessariamente connesse a quelle che interessano l'azione. Vero è peraltro che il credito al dividendo (in questo caso maggiorato), in base alle regole del sistema azionario, sarà incassato dal portatore dell'azione: la legittimazione all'incasso passa all'acquirente dell'azione. Sempre in base ai principi, con la legittimazione di norma passerà all'acquirente dell'azione anche la titolarità del diritto di credito predetto (salvo casi particolari e salvo accordi diversi tra le parti che potrebbero anche condurre all'obbligo dell'acquirente di riversare all'alienante quanto il primo, sulla base della legittimazione acquisita, incassi a titolo di dividendo).

Considerato quanto precede, viene allora da chiedersi se il diritto di cui si discute davvero inerisca all'azione. Probabilmente la risposta al quesito è positiva, perché si tratta pur sempre di un diritto che viene attribuito all'azionista per il tramite dell'azione. Tuttavia sono innegabili le evidenziate peculiarità della fattispecie, e particolarmente l'aspetto per cui, pur trattandosi di un diritto inerente all'azione, tale diritto, nella sua esistenza/persistenza, risulta legato a situazioni di carattere soggettivo, o oggettivo/transitorio, in cui si trova il possessore dell'azione.

Che la previsione del diritto in questione non dia luogo a categorie di azioni, è già stato osservato. Ma è bene chiarire che, se si ricorre alla configurazione di una categoria speciale di azioni, la maggiorazione del dividendo a favore dei titolari di azioni speciali non incontra i limiti di cui si è sinora parlato. I limiti previsti dall'art. 127-quater operano in quanto la maggiorazione del dividendo venga ricollegata al possesso di ogni azione della società, certo non intendendo il legislatore limitare la possibilità di concedere diritti al dividendo maggiorato come diritto speciale che contraddistingue una particolare categoria di azioni: sotto quest'ultimo profilo nulla è variato rispetto alla situazione anteriore all'introduzione della disposizione commentata.

Dopo una prima ricostruzione della portata innovativa della disposizione commentata, ed ancor prima di ulteriori approfondimenti, verrebbe da chiedersi se la sua introduzione nel nostro ordinamento sia legittima nel quadro della attuazione della direttiva comunitaria sui diritti dell'azionista, perché, a dire il vero, nessun cenno si trova nella predetta direttiva né in relazione ai diritti patrimoniali dell'azionista, né con particolare riferimento alla distribuzione dell'utile ed ai premi in proposito accordabili. Allora, considerato che la norma de qua è stata emanata sulla base di una delega limitata all'attuazione della direttiva, ci si potrebbe fondatamente chiedere se il legislatore sia incorso in un eccesso di delega.

Bisogna tenere presente che l'art. 3 della direttiva dà al legislatore del singolo Stato membro la possibilità di introdurre ulteriori misure, rispetto a quelle minime ivi previste, atte ad agevolare la partecipazione dell'azionista alla vita della società. Pertanto, si potrebbe concludere l'art. 3 della direttiva azionisti rappresenta la base legittimante l'introduzione della norma in esame, dal momento che con essa si mira a favorire la partecipazione dell'azionista alla vita della società.

In proposito, però, si potrebbe in primo luogo obiettare che con la clausola recentemente autorizzata non si agevola affatto la partecipazione del socio, semmai la si incentiva: il singolo azionista potrebbe essere indotto a partecipare maggiormente alla vita della società nella misura in cui egli più a lungo resti socio e di più possa ottenere nella ripartizione dei dividendi.

E soprattutto viene da osservare che, così come è congegnata dall'art. 127-quater in assenza di modifiche migliorative apportate dalla singola società interessata, la clausola sul dividendo maggiorato nemmeno incentiva la partecipazione del socio alla vita della società, perché il socio viene gratificato dalla maggiorazione anche ove mai dovesse esercitare i c.d. diritti di voice, né mai interloquire con gli altri soci di maggioranza e con le cariche sociali, né mai partecipare all'assemblea, né in alcun modo contribuire alla formazione delle decisioni sociali: e ciò perché è il semplice possesso continuato che dà la possibilità, unitamente agli altri presupposti prima elencati, di ottenere la maggiorazione.

La clausola "base", quale prefigurata dall'art. 127-quater (in difetto di modifiche lecitamente apportate dalla società che voglia introdurla nel proprio statuto), può anzi produrre un effetto negativo di riduzione degli scambi azionari e di incentivazione non già della partecipazione del socio bensì della semplice stabilizzazione dell'azionariato, in quanto induce a non alienare per poter fruire della maggiorazione. Peraltro, se ci sono azionisti che possono permettersi il lusso di tener ferme le proprie azioni per inseguire l'obiettivo della maggiorazione del dividendo, ci sono altri azionisti - i quali in teoria potrebbero intervenire più fattivamente nelle decisioni sociali, come gli investitori istituzionali - che invece devono tenersi pronti al disinvestimento, quando la situazione di mercato ciò consigliasse, e che allora non solo potrebbero non essere in condizione di invocare il beneficio, ma rischierebbero di essere trattati, nella ripartizione dei dividendi, peggio di quanto sarebbe avvenuto in assenza della clausola in questione proprio a causa del concorso di altri azionisti (stabili ma assenti) aventi diritto alla maggiorazione. Se infatti la società predetermina il dividendo totale da distribuire ed occorre tenere conto della maggiorazione spettante a quegli azionisti di minoranza che hanno posseduto per più di un anno, ciò significa che tutti gli altri azionisti (anche) di minoranza prenderanno meno di quanto avrebbero altrimenti percepito. Ne deriva che l'azionista istituzionalmente pronto al trading e alla movimentazione degli scambi azionari, seppure partecipe attivamente alla vita della società, è un azionista svantaggiato dalla clausola che si esamina.

A ciò si aggiunga che l'ingessamento della proprietà azionaria, per chi sia a ciò disposto, potrebbe risultare maggiore di quanto appaia. Può darsi infatti che, sebbene la clausola ricolleghi la spettanza del beneficio al possesso di durata annuale, ci voglia un periodo molto più lungo per avere una reale chance di percepire il dividendo in forma maggiorata. Ricorrendo ad un esempio pratico, si può facilmente verificare la concretezza del problema a cui si intende accennare. Ipotizziamo che il socio X abbia acquistato azioni il 1/7/2010 e che il bilancio dell'esercizio chiuso al 31/12/2010 venga approvato a fine aprile dell'anno successivo: il socio X non ha ancora raggiunto l'anno di possesso e quindi non avrà diritto ad alcuna maggiorazione; anzi, dovrà subire quella "perdita di riflesso" (in termini di minor dividendo percepito) che probabilmente conseguirà al fatto che altri azionisti, possessori da più di un anno, potrebbero godere della maggiorazione. Il nostro azionista, per avere una chance di recupero, deve mantenere le azioni ancora per un anno ed aspettare la chiusura (31/12/2011) e l'approvazione del bilancio (es. 30/4/2012) dell'esercizio successivo: ciò significa che in realtà egli dovrà aspettare quasi due anni, senza peraltro avere la certezza che il premio gli venga una buona volta distribuito in quanto: i) potrebbero non esserci utili distribuibili oppure ii) i soci di maggioranza, che per definizione non percepiscono la maggiorazione, potrebbero decidere di non distribuire alcunché.

Quanto precede porta a concludere che, se si vuole fare in modo che la maggiorazione del dividendo svolga una qualche funzione virtuosa, è necessario procedere ad interventi modificativi della clausola "base" delineata nell'art. 127-quater che siano in grado di attenuare i rischi di cui sopra.

Ad esempio, con riguardo all'ultimo problema sollevato, si potrebbero adottare misure già sperimentate con riguardo alle azioni di preferenza: come la parametrazione dell'ammontare del premio alla durata del possesso azionario (infatti non è detto che il premio debba essere uguale per tutti coloro che hanno superato il periodo minimo, ben potendosi prevedere che nei limiti di legge maggiore sia il premio per chi più a lungo possieda) o come l'introduzione di obblighi di distribuzione di utili conseguiti nei futuri esercizi e/o accantonati da precedenti esercizi (per la qual cosa la clausola potrebbe prevedere anche degli obblighi di accantonamento a riserva) al fine di temperare il rischio di mancata futura distribuzione del dividendo.

Soprattutto, però, ci si deve interrogare sulla questione se si possa riconoscere una funzione virtuosa alla clausola in oggetto lavorando in fase prima interpretativa e poi applicativa sulle c.d. "condizioni ulteriori" alle quali, senza particolari esemplificazioni, l'art. 127-quater espressamente consente di subordinare la spettanza del beneficio. Quale può essere il contenuto di tali condizioni e a quale obiettivo possono venire preordinate?

Viene naturale rispondere, nell'ambito di un'interpretazione della norma il più possibile coerente con i principi del diritto comunitario e della direttiva nel quadro della cui attuazione essa si colloca, che l'obiettivo principale debba consistere nel favorire l'attivismo dell'azionista. Sotto tale profilo le "condizioni ulteriori" dovrebbero stimolare il buon esercizio dei poteri di voice ed essere individuate avendo riguardo alle modalità con cui si intende stimolare la partecipazione degli azionisti, anche di minoranza, al governo societario. Le società quotate dovrebbero interrogarsi su quale tipo di interazione esse intendano promuovere tra gli azionisti di minoranza, le cariche sociali e gli azionisti di maggioranza. Esemplificando, si potrebbe decidere di sviluppare i diritti pre-assembleari dell'azionista, ed allora il premio potrebbe essere condizionato all'esercizio corretto di diritti quali l'integrazione dell'ordine del giorno, la presentazione di proposte di delibere e di contributi all'elaborazione di decisioni, la presentazione di liste di candidati alle cariche sociali. Potrebbe invece ritenersi utile stimolare la partecipazione dell'azionista nella fase prettamente assembleare e/o di votazione (pur se il più delle volte a questo punto la discussione reale è già esaurita e i giochi sono già ultimati): si potrebbe allora condizionare il riconoscimento del premio all'esercizio corretto dei diritti di intervento e di voto. è bene insistere sulla correttezza dell'esercizio dei diritti di voice, come condizione per percepire la maggiorazione, al fine di non premiare l'azionista disturbatore, il quale è certamente molto attivo nell'esercizio dei diritti assembleari, ma per motivi strumentali e spesso ricattatori asserviti ad interessi personali (il che, tra l'altro, potrebbe indurre ad incentivare l'esercizio dei diritti della fase pre-assembleare piuttosto che quelli connessi all'intervento alla riunione).

Qualcuno dubita dell'ammissibilità di simili condizioni, ma non se ne vede la ragione. Si ricordi che il socio resta libero di esercitare come meglio crede, nell'ambito del lecito, o di non esercitare i suoi diritti sociali: l'esercizio o il non esercizio qui rilevano esclusivamente in ordine alla percezione di un premio nella distribuzione del dividendo. L'allineamento dell'interesse così perseguito con l'interesse sociale e con quelli primariamente protetti dalla direttiva azionisti dovrebbe dileguare ogni perplessità al riguardo. Né sembra che in questo modo si introducano tensioni maggiori, rispetto ai principi di base della disciplina della SpA, di quanto già non avvenga per la clausola "base" delineata dall'art. 127-quater: Se la clausola priva di "condizioni ulteriori" è positivamente valutata dallo stesso legislatore, allora (salvo problemi di incostituzionalità da eccesso di delega che l'esperienza maturata in molteplici casi analoghi dimostra essere meramente teorici e di assai improbabile riconoscimento ad opera del giudice), se ne deve apprezzare l'incidenza sul sistema specie in punto di ricostruzione del principio di uguaglianza dei diritti azionari; ma in proposito le descritte condizioni ulteriori non aggiungono altri profili problematici.

Viceversa bisognerebbe resistere al tentativo di utilizzare il premio per scoraggiare l'esercizio di diritti di voice. Nel caso in cui si riservasse il premio a chi non eserciti i diritti amministrativi che la legge gli attribuisce, può forse essere dubbio se si debba concludere per la illiceità della clausola (verrebbe comunque in gioco la percezione di un premio, non già la privazione del diritto al dividendo); è anche vero, però, che - come già prima osservato - la privazione del diritto alla maggiorazione del dividendo va di pari passo con la potenziale percezione di un dividendo inferiore a causa del premio da riconoscersi ad altri azionisti. Per affermare l'illiceità della condizione di non esercizio di diritti di partecipazione si dovrebbe fare ricorso a clausole generali di incerta estensione, quali l'immeritevolezza dell'interesse perseguito o la contrarietà all'ordine pubblico economico; ma la questione pare davvero teorica, poiché la clausola poc'anzi ipotizzata non è di quelle che il mercato possa accogliere di buon grado: e ciò pare osservazione sufficiente per non doversene occupare ancora in punto di diritto.

Spingendosi più in là, ci si può chiedere se si possa addirittura riservare il premio a determinate categorie di soggetti: come gli investitori istituzionali, o i partner commerciali che contribuiscono maggiormente alla produzione di utili per la società e che partecipano in posizione di minoranza alla società stessa, o gli azionisti che risiedono nel territorio in cui l'attività sociale produce il maggiore impatto ambientale, o gli azionisti che risultano coinvolti nell'organizzazione d'impresa della società quotata (si pensi al beneficio in oggetto quale strumento di incentivazione dell'azionariato dei dipendenti).

Non ci si può nascondere che queste applicazioni si prestano ad aumentare l'attrito con i principi di fondo del diritto azionario, già messi a dura prova dalla clausola "base"; donde la cautela con cui l'argomento merita di essere approcciato specie nella sua concretizzazione pratica.

In sè considerata, la riserva del premio a categorie determinate di azionisti, come quelle sopra esemplificate, persegue finalità meritevoli di tutela: quelle stesse finalità che vengono positivamente apprezzate nelle discussioni sulla corporate governance e sulla protezione degli stakeholders. Ciò non toglie che occorra rispettare il principio di parità di trattamento ex art. 92 Tuf nella introduzione della clausola inclusiva della condizione ulteriore di appartenenza ad una data categoria di azionisti. In proposito possono proporsi due tentativi di soluzione.

Si potrebbe dar luogo ad azioni speciali, contraddistinte dalla maggiorazione del dividendo, la cui emissione sia riservata ad una data categoria di azionisti (es. investitori istituzionali) e la cui circolazione debba mantenersi all'interno della stessa categoria, nel senso che, se alienate a soggetti esterni rispetto alla categoria in questione, le azioni perdono il diritto alla maggiorazione, convertendosi in azioni ordinarie (che un'azione speciale possa convertirsi in azione ordinaria al verificarsi di un dato evento, è ormai principio acquisito).

Un'altra via potrebbe essere percorsa nella fase di start up della società quotata: approfittando del limitato numero di soci, in ipotesi tutti consenzienti, di una SpA in attesa di quotazione, si potrebbe inserire in statuto la clausola che riserva il premio ad una data categoria di azionisti mediante una delibera assembleare adottata all'unanimità la cui efficacia sia subordinata al buon fine del procedimento di quotazione: l'unanimità risolve in radice ogni problema di parità di trattamento per i soci attuali; quanto ai soci che entreranno in seguito, anche dopo l'inizio delle negoziazioni, essi saranno debitamente informati delle regole sulla ripartizione dei dividendi e del privilegio accordato ad alcune categorie di azionisti.

Da ultimo, e per altra ragione, v'è da aggiungere che sembra quasi inevitabile il doversi prevedere un'altra "condizione" per fruire del beneficio: una condizione connessa all'esigenza della società di avere contezza dell'ammontare del dividendo da distribuirsi in misura maggiorata nel momento in cui si tratta di deliberare sulla distribuzione del dividendo.

è possibile che gli amministratori propongano e l'assemblea approvi che a tutte le azioni venga attribuito un dividendo nella misura ordinaria di 1 euro per azione e maggiorata di 1,10 euro per azione a favore di chi goda del beneficio; ed è ben possibile che la proposta degli amministratori, prima, e la decisione dei soci, dopo, vengano adottate senza che sia noto in quei momenti quale sia l'esatto ammontare del dividendo complessivo da distribuirsi, poiché si ignora quanti azionisti si trovino in condizione di poter invocare la maggiorazione: tutto ciò è possibile poiché è sufficiente che gli amministratori verifichino, e l'assemblea confermi, che la società ha utili distribuibili in misura sufficiente per realizzare la distribuzione del dividendo nella "peggiore delle ipotesi", cioè quando tutti gli azionisti "non influenti" (dato ricostruibile in base agli assetti proprietari di quel momento) fossero in condizioni di accedere alla maggiorazione.

Si capisce, tuttavia, che quella appena descritta non è la situazione ideale, perché la società ha di norma interesse a stimare le proprie esigenze di autofinanziamento e a perseguire politiche di distribuzione o accantonamento dell'utile prodotto che tengano conto di tali esigenze: per la qual cosa è importante avere una precisa rappresentazione dei dividendi da distribuire in totale, ivi inclusi i dividendi in misura maggiorata, fin dal momento in cui gli amministratori propongono all'assemblea la quantità (massima) di utili da distribuire.

Al fine predetto bisogna che la clausola sul dividendo maggiorata sia formulata in modo tale da assicurare la identificabilità degli azionisti "non influenti", la conoscenza della durata del loro possesso azionario e, ove del caso, la verifica della loro appartenenza alle categorie aventi diritto alla percezione del dividendo. Ciò si può ottenere attraverso la posizione di un onere (che costituisce un'altra "condizione" per la spettanza o la percezione del premio) in capo a chi aspira ad incassare il dividendo maggiorato, avente ad oggetto la tempestiva messa a disposizione della società di quelle informazioni che lo riguardano senza le quali la società non potrebbe determinare in anticipo la quantità di utili da distribuire.


[nota *] Trascrizione autorizzata e riveduta dall'Autore dell'intervento al Convegno "I diritti degli azionisti di società quotate e le nuove regole assembleari: la Direttiva 2007/36/CE" organizzato dalla Fondazione italiana del Notariato e tenutosi a Milano il 15 ottobre 2010.

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