Abuso del diritto nell'ordinamento tributario. E' ancora lecito il risparmio d'mposta?
Abuso del diritto nell'ordinamento tributario. E' ancora lecito il risparmio d'imposta?
di Raffaele Botta
Giudice della Corte di Cassazione, Sezione tributaria
In tema di abuso del diritto la giurisprudenza della Corte di Cassazione sembra muoversi al’interno di un’area delimitata dall’uso di due avverbi, esclusivamente ed essenzialmente, attribuiti al risparmio fiscale considerato come fine dell’operazione posta in essere con un determinato contratto.
Si tratta di avverbi che, nonostante talvolta siano utilizzati dalla giurisprudenza in funzione sinonimica, hanno significato assai differente. Esclusivamente indica l’unicità della funzione svolta dal contratto; essenzialmente indica, invece, la prevalenza della funzione svolta dal contratto. Mentre nel primo caso ci si trova di fronte ad operazioni eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale, nel secondo caso ci si trova di fronte ad operazioni che oltre alla finalità di realizzare un risparmio fiscale, hanno anche altre finalità, che, tuttavia, sono marginali nell’economia dell’operazione.
E' evidente che in questo secondo caso l’intervento del giudice sarebbe caratterizzato da una maggiore discrezionalità in una materia che non è regolata tipicamente dal legislatore. Una discrezionalità che deve essere apprezzata con un consapevole rigore se l’abuso del diritto può tradursi in un difetto di causa che dà luogo alla nullità del contratto, rilevabile ex officio [nota 1].
Le Sezioni unite della Corte, intervenendo in due ipotesi, una relativa ad operazioni di dividend washing e una relativa ad operazioni di dividend stripping, hanno stabilito: nel primo caso, l’inopponibilità all’amministrazione dell’operazione quando essa «sia configurabile come abuso del diritto, essendo posta in essere al solo scopo di consentire al fondo o alla Sicav di avvalersi del credito d'imposta previsto dall'art. 14 del D.P.R. n. 917 cit. (altrimenti non fruibile, ai sensi dell'art. 9, comma 1, della legge 23 marzo 1983, n. 77), ed all'acquirente-venditore di ridurre il reddito d'impresa mediante il computo della minusvalenza costituita dal differenziale tra il prezzo d'acquisto e quello di rivendita» [nota 2]; nel secondo caso, l’inopponibilità all’amministrazione dell’operazione quando sia configurabile come abuso del diritto, essendo posta in essere al solo scopo di consentire al cedente di eludere la ritenuta sui dividendi prevista dall'art. 27, comma 3, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, trasformando il reddito di partecipazione in reddito da negoziazione, ed alla cessionaria di percepire i dividendi, sui quali, oltre a subire l'applicazione della ritenuta meno onerosa di cui all'art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 600 cit. (oltretutto recuperabile in sede di dichiarazione annuale), essa può avvalersi del credito d'imposta previsto dall'art. 14 del d.P.R. n. 917 del 1986, ed inoltre dedurre dal reddito d'impresa, "pro quota" annuale, il costo dell'usufrutto» [nota 3].
Questo tipo di approccio è stato lungamente discusso, con particolare riguardo al problema della rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, e trova una sua giustificazione nella valenza pubblica che caratterizza il giudizio tributario, il quale affronta direttamente il rapporto tributario, configurandosi come un giudizio di merito e non di mera legittimità dell’atto. Questo può consentire al giudice tributario, che ha il potere di giungere ad una rideterminazione dell’atto impositivo innanzi a lui impugnato, un capacità di incidere sul rapporto maggiore di quella che tradizionalmente si riconosce al giudice ordinario.
L’intervento della Corte tra un forte radicamento nel diritto comunitario e nella giurisprudenza della Corte di giustizia [nota 4].
Le problematiche relative all’abuso del diritto, infatti, derivano proprio dall’ampliamento dei confini, che introduce nelle scelte d’impresa l’opzione stabilimento dell’azienda in un Paese che ha un trattamento fiscale più favorevole, determinando l’orizzonte dell’impresa in un confronto tra le legislazioni che ne influenza in modo determinante le scelte.
In questa prospettiva la prevalenza del diritto comunitario, che impone al giudice nazionale la disapplicazione della norma interna con essa eventualmente contrastante, fino a vincere persino il limite del “giudicato”, resta una regola di garanzia ed un orientamento che, facendo prevalere la realtà sostanziale sulla forma, offre spazi di intervento al giudice più assimilabili a quelli di cui questo gode negli ordinamenti di common law piuttosto che negli ordinamenti di civil law. Tuttavia un limite resta.
Le due sentenze pronunciate dalle sezioni unite della Cassazione, e che si sono dapprima ricordate, si orientano complessivamente nella stessa direzione e riducono in ristretti confini l’onere della prova, più di quanto faccia la giurisprudenza successiva, che ha cercato di stemperarne alcune rigidità. Così, ad esempio, attribuendo all’amministrazione l’onere di provare la mancanza della ragione economica del contratto e alla parte quali siano le ragioni alternative al risparmio fiscale per la conclusione del contratto, la discrezionalità del giudice, che nelle sentenze del 2005 poteva sembrar essere senza possibili limiti, ne risulta più vincolata, sulla scorta del rilievo che, la rilevabilità d’ufficio e la considerazione della nullità ex officio del contratto da parte del giudice, possono anche portare ad una decisione “arbitraria”. L’attività del giudice non dovrebbe mai trasmodare in quella del “legislatore”, anche se, talvolta, l’inerzia parlamentare, ha costretto il giudice a questo ingrato compito, nel diritto tributario in particolar modo, ove accade abbastanza spesso che il legislatore aspetti il formarsi di un orientamento giurisprudenziale per poi intervenire, adottando, con norme di interpretazione autentica una delle soluzioni interpretative proposte dalla giurisprudenza (cui attribuire la capacità di operare retroattivamente).
La regola della prova ha un rilevo essenziale nella sentenza n. 1465 del 2009 [nota 5], la quale riconosce che la joint venture è un’operazione che - almeno nella fattispecie esaminata - non è fiscalmente deficitaria, essendo assistita da una ragione economica (ed in questo si differenzia dalla giurisprudenza più recente del 2011) e pone l’accento sulla differente posizione dell’imprenditore individuale e del gruppo d’impresa.
La sentenza in esame stabilisce che «le scelte economiche d’impresa non sono identiche se differente è la struttura d’impresa»: quindi che il tipo di operazioni necessarie all’interno di un gruppo d’impresa può diversamente caratterizzarne l’atteggiamento rispetto a quello dell’imprenditore individuale o della piccola impresa.
La grande impresa, infatti, operando su un mercato più vasto, trova per le proprie scelte operative una ragione economica diversa da quella che può essere adottata dalla piccola impresa.
In questo passaggio la sentenza 1465/2009 dice che «l’esigenza di costituire una joint venture è particolarmente sentita per la condivisione di progetti industriali la cui realizzazione richiede il possesso di requisiti tecnologici ed economici spesso mancanti in un solo soggetto». In altre parole, la fusione in un progetto tra soggetti, di cui uno abbia i mezzi tecnici e l’altro i know how, è possibile perché realizza una scelta unitaria. «Il divieto di comportamenti abusivi» spiega la Corte, «non vale più ove quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmio d’imposta»: questo è il principio dell’abuso.
L’amministrazione finanziaria deve fornire prova sia del disegno elusivo, che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati irragionevoli in una normale logica di mercato perché perseguiti “solo” per pervenire a quel risultato fiscale (e qui ritorna l’interpretazione del concetto dell’esclusivamente, che si ritrova anche nella giurisprudenza comunitaria).
Per contro, il contribuente ha l’onere di allegare le ragioni economiche alternative o concorrenti con quelle che giustificano fiscalmente l’operazione.
Ciò “indebolisce” molto la costruzione dell’abuso del diritto, perché pone nella responsabilità contrapposta delle parti la capacità di portare all’attenzione del giudice una realtà più spiegata, che limiti la rilevabilità d’ufficio.
Nella vicenda decisa con sentenza 1372 del 2011 [nota 6], in materia di ristrutturazioni societarie di gruppo, l’amministrazione sosteneva non solo che il contratto non avesse una valida ragione economica per conseguire un risparmio fiscale, ma che lo stesso risultato potesse essere ottenuto con un’altra operazione fiscalmente più onerosa.
La Cassazione, condizionata anche dalla fattispecie, ha affermato, invero, che non è possibile limitare la libertà d’impresa laddove esiste un gruppo d’impresa, perché in questo caso la libertà economica trova una dimensione diversa (e più ampia rispetto alle possibilità di scelte imprenditoriali) da quella dell’impresa individuale.
Pertanto, non è necessario scegliere il contratto più oneroso fiscalmente perché ciò sarebbe contrario alla libertà d’impresa, in quanto l’impiego di forme contrattuali e/o organizzative che consentono un minor carico fiscale costituisce esercizio della libertà d’impresa e di iniziativa economica, nel quadro delle libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione e dall’ordinamento comunitario. Tanto più che la rapida evoluzione del quadro economico-finanziario in un mercato aperto sollecita sempre più l’adozione di forme nuove dell’attività negoziale, che non siano strettamente legate ad un’angusta logica di profitto della singola impresa [nota 7].
In questa prospettiva, la necessità che l’amministrazione finanziaria si muova con cautela in un campo nel quale i confini tra libertà e abuso sono così da definire, appare giocoforza che incomba sull’amministrazione l’onere di spiegare, anche nell’atto impositivo, perché il complesso di forme giuridiche impiegate abbia carattere anomalo ed inadeguato rispetto all’operazione economica intrapresa e quindi, perché, la scelta imprenditoriale si sia tradotta in un uso improprio del diritto. Ma in effetti, secondo le circostanze che la particolare fattispecie contrattuale fa emergere, si sposta su uno ovvero su entrambi i protagonisti della realtà processuale l’onere di allegare nella sostanza quali sono gli scopi del contratto realizzato.
Si avverte tutto il peso della genericità del concetto di abuso del diritto, che rischia di far emergere nel contratto lo spettro dei motivi sulla causa. Inoltre, il riferimento alle “valide ragioni economiche” risulta essere un criterio di difficile interpretazione, che possono scoraggiare iniziative imprenditoriali, sia nazionali che internazionali. Si tratta in definitive di scelte che spetterebbero al legislatore, il quale è l’unico che può individuare (ed è assolutamente necessario che individui) una casistica dettagliata.
E' su base legislativa che dovrebbe basarsi la scelta della forma contrattuale da utilizzare, con l’obiettivo principale della semplificazione, cui sono legate strettamente le problematiche della certezza (e della programmabilità) delle scelte da adottare da parte del cittadino. Quest’ultimo ha il diritto di avere precise indicazioni dall’ordinamento e ciò potrebbe essere realizzato riportando all’unitarietà la frammentazione che ormai caratterizza la materia fiscale, così da consentire, soprattutto in materia di libertà d’impresa, delle scelte che non siano condizionate dal giudice di turno.
[nota 1] Nella sentenza “Olivetti” (Cass. n. 22932 del 2005), ove era in esame l’ipotesi in cui una società estera titolare di partecipazioni azionarie abbia costituito sulle stesse un diritto di usufrutto in favore di una società residente nel territorio dello Stato, al fine di eludere il regime fiscale previsto dall’art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973 per gli utili spettanti a soggetti non residenti (cosiddetto dividend stripping), è stato ritenuto che «tale mancanza di ragione, che investe nella sua essenza lo scambio tra le prestazioni contrattuali, comporta l'inefficacia del contratto nei confronti del fisco, escludendo il credito d'imposta previsto per l'usufruttuario dei titoli dall'art. 14 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917». Per un commento alla sentenza cfr. M. BEGHIN, «L'usufrutto azionario tra lecita pianificazione fiscale, elusione tributaria e interrogativi in ordine alla funzione giurisdizionale», in Riv. giur. tributaria, 2006, p. 223 e ss.
[nota 2] Cass. S.U. n. 30055 del 2008, la quale aggiunge che: «In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell'imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali. Esso comporta l'inopponibilità del negozio all'amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall'operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell'operazione». Per un commento alla sentenza cfr. M. CANTILLO - G. ZIZZO, «Profili processuali del divieto di abuso del diritto: brevi note sulla rilevabilità d'ufficio. Clausola antielusione e capacità contributiva», in Rass. trib., 2009, p. 476 e ss.
[nota 3] Cass. n. 30057 del 2008.
[nota 4] In proposito la Corte di giustizia, pronunciandosi proprio a seguito di una questione pregiudiziale sollevata dalla Corte di Cassazione ha affermato che «La sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/Cee, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari - Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, deve essere interpretata nel senso che l’esistenza di una pratica abusiva può essere riconosciuta qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale dell’operazione o delle operazioni controverse» (sentenza Part Service del 21 febbraio 2008 in causa C-425/06). La Corte di giustizia precisa che «quando un soggetto passivo ha la scelta tra due operazioni, la sesta direttiva non impone di scegliere quella che implica un maggiore pagamento di Iva. Al contrario, il soggetto passivo ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale. Tuttavia, quando un’operazione comprende diverse prestazioni, si pone la questione se essa debba essere considerata come un’operazione unica o come corrispondente a più prestazioni distinte e indipendenti da valutarsi separatamente»: sicché diventa decisiva la valutazione dei caratteri dell’operazione per verificare, e tale compito spetta al giudice nazionale, se si sia in presenza di un’unica prestazione, la quale ricorre, ad es., «quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo sono a tal punto strettamente connessi da formare, oggettivamente, una sola prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale» (punti 47 e 48 della sentenza Part Service). La sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione a seguito della ricordata decisione della Corte di giustizia ha affermato che: «In tema di Iva, le pratiche abusive consistenti nell'impiego di una forma giuridica o di un regolamento contrattuale al fine di realizzare quale scopo principale (seppur non esclusivo) un risparmio di imposta, anche se allo stesso si accompagnino secondarie finalità di contenuto economico, consistono in abusi di diritti fondamentali garantiti dall'ordinamento comunitario e pertanto assumono rilievo normativo primario in tale ordinamento, indipendentemente dalla presenza di una clausola generale antielusiva nell'ordinamento fiscale italiano. L'individuazione dell'impiego abusivo di una forma giuridica incombe sull'amministrazione finanziaria, la quale non potrà limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma dovrà individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l'operazione priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio di imposta. (Fattispecie nella quale la Suprema Corte ha ritenuto costituisse abuso del diritto il frazionamento di un contratto di leasing in una pluralità di contratti distinti, conclusi con soggetti diversi ed aventi ad oggetto rispettivamente la concessione in uso del bene ed i servizi di finanziamento e di assicurazione contro la perdita del bene o il deterioramento del bene, al fine principale di considerare imponibile soltanto il corrispettivo per l'uso del bene, con esenzione degli altri servizi, ai sensi dell'art. 10 n. 1, 2 e 9 del D.P.R. n. 633 del 1972)» (Cass. n. 25374 del 2008). Per un commento cfr. V. FICARI, «Elusione ed abuso del diritto comunitario tra "diritto" giurisprudenziale e certezza normativa», in Boll. trib. d’inf., 2008, p. 1766 e ss.
[nota 5] La massima della sentenza recita: «In materia tributaria, integra gli estremi del comportamento abusivo quell'operazione economica che, tenuto conto sia della volontà delle parti implicate che del contesto fattuale e giuridico, ponga quale elemento predominante ed assorbente della transazione lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta. La prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull'amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l'onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore che giustifichino operazioni in quel modo strutturate. (In applicazione del principio, la Suprema Corte ha escluso la configurabilità di un'operazione elusiva nell'impianto organizzativo di una corporate joint venture in cui gli investimenti erano stati effettuati da una società ad hoc, costituita per l'acquisto di attrezzature e linee di produzione, concesse in comodato gratuito a terzi per la realizzazione di veicoli poi acquisiti dalla comodante ad un minor prezzo, in quanto, pur derivando dall'operazione un risparmio di imposta, essa trovava giustificazione ragionevole nell'obiettivo di assicurarsi vantaggiose posizioni commerciali di competitività sui mercati cui i veicoli prodotti erano destinati)». Per un commento della sentenza cfr. M. BEGHIN, «L’abuso del diritto tra capacità contributiva e certezza dei rapporti Fisco-contribuente», in Corr. trib., 2009, p. 823 e ss.
[nota 6] La massima della sentenza recita: «In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse alla mera aspettativa di quei benefici. Ne consegue che il carattere abusivo di un'operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell'operazione medesima ma possono rispondere ad esigenze di natura organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda. (In applicazione del riportato principio, la Suprema Corte ha negato potesse essere riconosciuto il carattere abusivo di una complessa operazione di trasferimento di un pacchetto azionario di una società facente capo ad un gruppo multinazionale ad altra società del gruppo, con l'assunzione di notevoli impegni economici per il finanziamento dell'operazione e con conseguente riduzione del carico fiscale, solo perché lo stesso risultato economico avrebbe potuto raggiungersi attraverso un'operazione di fusione, essendo peraltro non contestate dall'amministrazione finanziaria le necessità organizzative volte ad una gestione unitaria di uno dei settori di attività del gruppo)». Per un commento della pronuncia cfr., D. STEVANATO, «Ancora un’accusa di elusione senza “aggiramento” dello spirito della legge», in Corr. trib., 2011, p. 673 e ss.; F.R. FANTETTI, «Esercizio della libertà economica non limitato per ragioni fiscali», Dir. prat. soc., 2011, p. 57 e ss.; I. VITALE, «Abuso di diritto: onere della prova all’amministrazione finanziaria», ibidem, p. 43 e ss.; M.A. FIORENTINO, «Note critiche in tema di abuso del diritto», ibidem, II, p. 733 e ss.
[nota 7] A. GENTILI, «Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche», in Ianus, 2009, 16, pone l’accento sul concetto di funzione sottolineando che «se la conformazione dell’operazione sospetta di abuso può invocare ragioni economiche (e non solo fiscali) comunque sufficienti a giustificare quella conformazione, essa non può essere ritenuta abusiva».
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