Brevi riflessioni sull'abuso del diritto comunitario: commercio internazionale ed esercizio delle libertà individuali
Brevi riflessioni sull'abuso del diritto comunitario: commercio internazionale ed esercizio delle libertà individuali
di Sergio M. Carbone
Ordinario di Diritto Internazionale, Università degli studi di Genova

Il passaggio dal solo impiego dell'interpretazione funzionale delle libertà comunitarie al progressivo utilizzo della nozione di “abuso del diritto”

Come è noto, i principi generali del diritto dell'Unione europea (nell'evoluzione storica, del diritto comunitario) sono stati impiegati dalla giurisprudenza al fine di garantire coerenza e completezza al sistema normativo alla base del suo funzionamento. Ma non soltanto. Essi hanno consentito di adattare le varie normative nazionali alla progressiva evoluzione della costruzione europea. E, sotto quest'ultimo profilo, la loro applicazione ha permesso di escludere gli effetti delle normative nazionali che risultavano in contrasto con tali principi pur in mancanza di un'espressa disposizione che ne precisasse gli esatti contenuti.

In particolare, anche con riguardo ad ambiti materiali nei quali non era stata adottata una specifica normativa a livello dell'Unione europea o, addirittura, non era prevista un'espressa attribuzione normativa a favore dell'Unione europea, i principi generali di diritto comunitario hanno costretto la legislazione dei singoli Stati - e la loro evoluzione giurisprudenziale nell'ambito delle loro specifiche competenze - ad orientarsi in coerenza con le indicazioni fornite dalla progressiva elaborazione di tali principi generali. Tanto che, da parte di alcuni, non si è avuta esitazione ad affermare che essi sono stati impiegati anche al fine di «circumscribe or frame the powers retained by the Member States».

Peraltro, nell'evoluzione ora indicata, non è stato semplice trovare principi comuni a tutti gli Stati appartenenti all'Unione europea. Spesso, quindi, sono stati adottati quali principi dell'Unione europea alcuni principi espressi chiaramente solamente in alcuni ordinamenti, ma ritenuti particolarmente funzionali al perseguimento degli obiettivi comunitari e dei quali ci si è preoccupati di integrarne e giustificarne in tal senso l'applicazione. Risultato al quale si è giunti attraverso il c.d. attivismo giudiziario tradizionalmente riconosciuto alla Corte di giustizia, favorevole anche all'impiego di tecniche interpretative rivolte a rendere compatibile l'operatività di tali principi con gli assetti normativi vigenti nei vari ordinamenti nazionali degli Stati membri dell'Ue. In tale prospettiva, la giurisprudenza comunitaria non ha identificato i principi in esame attraverso la tecnica del “minimo denominatore comune” ai vari ordinamenti statali, bensì in virtù del c.d. “evolutive approach”, ben descritto sin dalle conclusioni dell'Avvocato generale Lagrange nella causa 14/61 [nota 1]. Ci si è preoccupati, quindi, di verificare, da un lato, quali principi ricavabili dai vari ordinamenti statali fossero maggiormente coerenti con gli obiettivi e la struttura del sistema normativo dell'Ue e, dall'altro lato, la compatibilità della loro applicazione all'interno dei vari ordinamenti nazionali nel rispetto della specificità delle loro tradizioni e radici culturali.

Quanto ora indicato è anche riscontrabile a proposito dell'impiego del principio relativo al c.d. abuso del diritto dell'Ue. Infatti, tale nozione è addirittura ignorata da alcuni ordinamenti degli Stati membri (quali l'Irlanda, la Danimarca e l'Inghilterra) ed in altri viene impiegata secondo criteri più (come avviene in Francia ed in Italia) o meno (come avviene in Germania) ampi.

Nessuno stupore, quindi, se nelle prime fasi evolutive della giurisprudenza comunitaria ci troviamo di fronte ad un impiego assai cauto della nozione di abuso del diritto comunitario, la Corte di giustizia Ue preferendo, piuttosto, a) ricostruire in modo rigoroso i limiti relativi all'effettivo contenuto delle c.d. libertà comunitarie, b) evidenziare l'esigenza che tali libertà vengano esercitate “bona fide” e c) precisare le circostanze «in presenza delle quali gli Stati possono legittimamente porre limiti all'esercizio di tali libertà» oppure d) interpretare specifiche normative comunitarie (ad esempio a proposito degli aiuti a determinate attività economiche) secondo criteri restrittivi rispetto alla libertà delle esportazioni e delle importazioni dei relativi prodotti.

I primi impieghi dell'abuso del diritto nella valutazione delle misure restrittive delle c.d. libertà comunitarie

Il caso van Binsbergen è il primo riconosciuto unanimemente dalla dottrina e dalla giurisprudenza come rilevante ai fini di un impiego di criteri interpretativi del diritto comunitario secondo principi in qualche misura riconducibili all'abuso del diritto [nota 2]. Si trattava di un caso relativo alla libera prestazione dei servizi, in occasione del quale ad un avvocato olandese che aveva trasferito la propria residenza in Belgio venne negata la possibilità di conservare lo stato giuridico di rappresentante in giudizio innanzi ai giudici olandesi essendo tale qualifica riservata ai soli avvocati residenti in Olanda. Si ritenne, infatti, in tal modo di escludere che il cambiamento di residenza di un prestatore di servizi rivolti al suo Stato di provenienza potesse essere utilizzato attraverso l'impiego della libera prestazione dei servizi, al fine di evitare l'applicazione delle regole professionali del suo Stato di origine nell'ambito del quale i suoi servizi pur continuavano ad essere prestati ed eseguiti. Ed in questa prospettiva le misure adottate da parte del suo Stato di origine al fine di escludere tale eventualità vennero considerate legittime proprio perché giustificate al fine di reprimere condotte abusive delle libertà comunitarie.

Analoga motivazione venne impiegata per giustificare le misure interdittive della libera prestazione dei servizi e della trasmissione di programmi televisivi nei casi Commissione c. Belgio, Veronica e TV 10 [nota 3]. Tanto che, in occasione degli emendamenti e delle integrazioni apportate alla c.d. direttiva “Televisione senza Frontiere” (direttiva 89/552 emendata dalla direttiva 97/36 [nota 4]) non si è esitato ad indicare espressamente la legittimità di misure antiabusive che, di fatto, consolidano normativamente gli esiti della giurisprudenza innanzi citata.

Si ritenne, pertanto, la legittimità di interventi inibitori da parte dello Stato destinatario dei servizi televisivi rivolti ad evitare che, attraverso le emissioni di provenienza da parte di altro Stato membro, fosse possibile evadere abusivamente gli obblighi derivanti dalla disciplina nazionale relativa ai contenuti pluralistici e non commerciali dei programmi televisivi. Ed in questa prospettiva, la prova della circostanza dell'emissione abusiva si ritenne adeguata allorché - secondo le espressioni dell'Avvocato generale Lenz nel sopra citato caso TV 10 - la volontà di “evadere” la normativa dello Stato destinatario dei servizi televisivi risultava da specifiche circostanze oggettive accompagnate da inequivoci elementi soggettivi. Elementi, questi ultimi, che, con riguardo ai comportamenti tenuti da persone giuridiche, possono essere presunti anche sulla base della sola presenza di “particolari circostanze oggettive”. Si precisò, peraltro, che, trattandosi comunque di un'eccezione al principio della libera prestazione di servizi, tali elementi dovevano essere valutati secondo criteri rigorosi.

Le reazioni ad un impiego estensivo delle misure abusive

Di tale esigenza interpretativa in senso restrittivo dei comportamenti abusivi delle libertà comunitarie, d'altronde, si è avuta una chiara conferma in occasione del caso Centros [nota 5]. Si trattava, come è noto, di un caso in cui una società era stata costituita in Inghilterra da parte di un cittadino danese al fine di avvantaggiarsi del regime societario esistente in tale Stato evitando, così, l'applicazione della normativa danese sul capitale minimo delle società, pur essendo la società destinata ad operare in Danimarca oltreché dotata della sua sede principale ed effettiva in tale Stato. In questa occasione, il relativo comportamento della società inglese venne considerato legittimo e le misure anti-elusive adottate nell'ordinamento danese per imporre nel caso di specie l'applicazione della sua disciplina societaria furono conseguentemente giudicate in contrasto con la normativa comunitaria di cui agli (allora) artt. 43 e 48 Ce (oggi artt. 49 e 54 Tfue).

In realtà, anche nella sentenza in esame si riconobbe espressamente che i soggetti privati «non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario». Si pose, peraltro, in rilievo che «nel valutare tale comportamento [i giudici nazionali] devono tenere presenti le finalità perseguite dalle disposizioni comunitarie». Pertanto, si osservò che la scelta di costituire una società «nello Stato le cui norme societarie … sembrino meno severe e [di] cre[are] succursali in altri Stati membri non può costituire di per sé un abuso del diritto di stabilimento». Tale scelta, in altri termini, venne considerata un «diritto … inerente all'esercizio, nell'ambito di un mercato unico, della libertà di stabilimento». Anzi, si è precisato che la circostanza che la società non svolga alcuna attività nello Stato della sua sede e della sua costituzione «non è sufficiente a dimostrare l'esistenza di un comportamento abusivo e fraudolento» idoneo a permettere allo Stato in cui di fatto svolga la sua attività principale di negare ad essa di fruire delle sue disposizioni in virtù dell'esercizio del diritto di stabilimento.

Si è trattato, dunque, di un'impostazione estremamente restrittiva dell'impiego delle misure anti-abusive ed ampiamente generosa nel determinare l'estensione degli effetti conseguenti all'esercizio delle libertà comunitarie, in evidente contrasto con le precedenti tendenze maturate in altri casi vertenti sulla stessa materia. Infatti, sempre con specifico riferimento al diritto di stabilimento in materia societaria, nel noto caso Daily Mail [nota 6], non si è avuta esitazione nel considerare legittimo il divieto opposto dalle autorità inglesi ad un trasferimento della sede principale di una società inglese in Olanda in quanto ritenuto abusivo perché rivolto ad evitare il pagamento delle imposte inglesi sulle plusvalenze azionarie. Tanto che questa decisione venne considerata una vera e propria apertura assoluta (una carte blanche) ad un largo impiego delle misure anti-abusive nel settore del diritto societario.

Proprio a causa di tale eccessiva apertura in precedenza adottata a favore di un largo impiego delle tecniche anti-abusive e della stessa nozione di abuso del diritto, si giustifica la decisa inversione di tendenza maturata in occasione del caso Centros. Ne risultava, così, che non tutte le situazioni rivolte ad impiegare le libertà comunitarie per evitare l'applicazione della disciplina altrimenti rilevante potevano essere considerate come abusive del diritto comunitario. Peraltro, non si precisavano le esatte caratteristiche di tali comportamenti abusivi, con effetti giurisprudenziali contraddittori, come quelli cui si è giunti nei casi appena citati. Una comune esigenza veniva, comunque, posta in rilievo: e cioè, garantire che le misure antiabusive, e più in generale l'impiego del divieto dell'abuso del diritto comunitario, non impediscano ai soggetti interessati di scegliere la disciplina fiscale e societaria relativa ad un'operazione economica in funzione della quale essa possa essere effettivamente localizzata in uno Stato dell'Ue fruendo delle libertà comunitarie.

Continua: la rilevanza della presenza di “condizioni artificiose” e dell'intento abusivo

Si trattava, quindi, di rivedere quanto elaborato con riguardo all'impiego abusivo del diritto negli ordinamenti che tale nozione hanno adottato e di operarne una riformulazione che offrisse alcuni parametri di riferimento funzionali all'esercizio delle sopravvenute libertà comunitarie e dotati di un ragionevole grado di certezza e prevedibilità al fine di consentire agli organi comunitari e/o agli Stati di escludere determinati effetti della normativa comunitaria allorché risultino in contrasto con una sua interpretazione funzionale agli scopi effettivi posti alla base della sua formulazione e/o con una sua applicazione in buona fede da parte dei soggetti ad essa interessati.

Una prima occasione per tale razionalizzazione è stata quella offerta dal caso Emsland-Stärke [nota 7], avente ad oggetto una fattispecie la cui abusività era per molti versi facilmente riconoscibile. Un esportatore tedesco di patate verso la Svizzera pretendeva di giovarsi dei benefici all'esportazione previsti dalla normativa comunitaria (reg. n. 2730/79) pur in presenza della prova inequivoca che tali sue esportazioni venivano immediatamente re-importate nell'area doganale comunitaria attraverso gli stessi mezzi di trasporto impiegati per la loro esportazione ed in tale ambito venivano destinate alla loro utilizzazione definitiva.

Non era, quindi, difficile provare che si trattava di un'operazione rivolta ad ottenere un premio all'esportazione in contrasto con gli “obiettivi comunitari” attraverso la creazione di “condizioni artificiose” relative ad un'esportazione fittizia. Pertanto, ne derivava che il beneficio non poteva essere conseguito e, se conseguito, doveva essere restituito. A tal fine venne adottata un'interpretazione funzionale di alcune specifiche norme la definizione del cui ambito e dei relativi effetti consentiva di realizzare il risultato indicato. Si ritenne, infatti, che l'ottenimento di importi compensativi nelle circostanze indicate, da un lato, non poteva considerarsi ricompreso nell'ambito di applicazione del regolamento che prevedeva i premi all'esportazione e, dell'altro, non poteva essere conseguito in virtù di operazioni di esportazione e di reimportazione realizzate in contrasto con il criterio della buona fede nelle transazioni commerciali.

Si indicavano, così, due profili rilevanti ai fini dell'impiego del principio dell'abuso del diritto comunitario. Per un verso, un elemento oggettivo, in quanto l'operazione posta in essere non conseguiva l'obiettivo della specifica disciplina comunitaria dei premi dell'esportazione, posto che i prodotti non risultavano effettivamente esportati essendo reintrodotti e consumati in ambito comunitario. Per altro verso, un elemento soggettivo, in quanto la reintroduzione dei prodotti esportati nell'area comunitaria era non già casuale, ma specificamente voluta e realizzata grazie a condizioni artificiosamente e volontariamente create.

L'estensione dell'abuso del diritto comunitario al settore delle imposte indirette

E', appunto, da questa prospettiva che si è orientata la successiva e più recente giurisprudenza comunitaria con specifico riferimento alla materia tributaria. Si tratta, come è noto, per quanto riguarda la disciplina delle imposte indirette, ed in particolare dell'Iva, della giurisprudenza che ha come leading case la sentenza relativa al caso Halifax [nota 8], la quale ha costituito l'esito finale di numerose decisioni dei primi anni del nuovo millennio relative alla tassabilità, ai fini Iva, di alcune transazioni rivolte ad evitarne, o alternativamente massimizzarne, gli effetti.

In tali decisioni, infatti, si è specificamente posta in rilievo l'esigenza di prevenire il fenomeno della tax avoidance e delle pratiche abusive, invocando al riguardo anche puntuali indicazioni ricavabili dalla stessa normativa comunitaria relativa all'uniformazione dei principi della disciplina impositiva che, in tal senso, legittimavano gli Stati ad adottare specifiche misure antievasione. Per altro verso, si è anche osservato che non si poteva, di per sé, censurare i soggetti passivi di imposte per aver tratto vantaggio dalla formulazione di una specifica disposizione o da una lacuna normativa, purché non vengano utilizzate modalità e tecniche idonee a frustrare gli obiettivi perseguiti attraverso la disciplina di diritto comunitario e come tali rappresentative di una pratica abusiva [nota 9].

Si trattava, dunque, anzitutto, di valutare la legittimità di determinati comportamenti sulla scorta della “interpretazione funzionale” della normativa comunitaria al riguardo applicabile per verificare l'idoneità di tali comportamenti a frustrarne gli obiettivi ed in tal caso, conseguentemente, determinare la portata di tale normativa al fine di limitarne l'operatività e gli effetti abusivi. Si riteneva, in altri termini, che l'interpretazione funzionale o purposive interpretation fosse la più idonea ad escludere che gli effetti delle prospettate transazioni artificiose potessero consentire un impiego abusivo dell'Iva. Ed al riguardo si metteva, così, in rilievo come le tecniche relative all'abuso del diritto potessero costituire un utile remedy coerente con l'esito dell'interpretazione funzionale della normativa comunitaria.

Peraltro, è soltanto con la sentenza Halifax, come già accennato, che il principio dell'abuso del diritto entra a far parte, in modo particolarmente significativo, della giurisprudenza comunitaria in materia di imposte indirette. Si trattava di un caso in cui il gruppo Halifax aveva posto in essere una serie di transazioni tra le società ad esso appartenenti al fine di riuscire a recuperare l'intero importo dell'Iva dovuta. Anche in tale occasione venne ribadito il principio in virtù del quale è giustificato e legittimo scegliere la struttura delle proprie operazioni in modo da ottimizzarne l'effetto fiscale. Con un preciso limite: e cioè, tale libertà di scelta deve trovare un confine invalicabile nel divieto di pratiche abusive di cui ci si preoccupa di tracciare le caratteristiche. In sintesi, planning without abuse è del tutto legittimo. Ma di tale legittimità si tracciano i confini che vengono definiti come segue.

Da un lato, non si deve trattare di modalità e/o di operazioni il cui effetto comporta il conseguimento di un vantaggio fiscale in contraddizione con gli obiettivi perseguiti attraverso la normativa comunitaria. Dall'altro, le pratiche sono da considerare abusive se presentano elementi obiettivi che consentono di escludere la loro genuina natura evidenziandone il carattere meramente artificioso con specifica attenzione anche ai rapporti intercorrenti tra i soggetti coinvolti. Si deve trattare, quindi, di atti per i quali non esiste un'effettiva business justification e/o ai quali non corrisponde un'effettiva operazione economica. Ne consegue che, in presenza di tali elementi, si deve procedere ad identificare la situazione effettiva e le caratteristiche proprie della vera operazione dissimulata, al fine di applicare ad essa e nei confronti dei soggetti al riguardo coinvolti la corretta tassazione prevista nella normativa comunitaria.

La parallela estensione alle imposte dirette: il caso Cadbury Schweppes

Tale impostazione è stata estesa anche alla disciplina della materia relativa all'imposizione diretta, ove pur non esiste una normativa armonizzata a livello comunitario. Infatti, soprattutto in occasione del caso Cadbury Schweppes [nota 10], si trattava di stabilire se la creazione di una società controllata in uno Stato membro diverso da quello della sua controllante al fine di avvantaggiarsi del suo sistema impositivo, riconducendo ad essa una specifica attività del ciclo produttivo e distributivo di cui il Gruppo dispone, potesse costituire un impiego abusivo del diritto di stabilimento riconosciuto dal diritto comunitario. Al riguardo sono state sostanzialmente riprese le stesse considerazioni svolte in relazione al caso Halifax.

Anzitutto, si ribadisce che l'utilizzo della libertà di stabilimento «per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà» Pertanto, le eventuali restrizioni che possono essere previste al riguardo (con effetti limitativi della libertà di stabilimento) sono ammissibili solo «per ragioni imperative di interesse generale» nella misura che non eccedano «quanto necessario per raggiungerlo».

Peraltro, misure nazionali che restringono l'esercizio della libertà di stabilimento allorché «concernono specificamente le costruzioni di puro artifizio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato» sono sicuramente ammissibili. In tal caso, infatti, ci si trova di fronte a comportamenti rivolti a creare realtà artificiose «prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale» della società alla quale sono realmente riconducibili compromettendo «un'equilibrata ripartizione del potere impositivo degli Stati».

Per quanto riguarda, in particolare, la valutazione di “proporzionalità” delle misure adottate, che nel caso innanzi citato consistevano nel ricondurre all'imponibile della società controllante gli utili formalmente imputabili alla società controllata in virtù di costruzioni artificiose, la Corte di giustizia ne ha precisato la legittimità in quanto la società controllata estera era risultata una «costruzione puramente fittizia» priva di qualsiasi ragione economica che non aveva retto al c.d. motive test.

Pertanto, l'operatività dell'istituto dell'abuso del diritto, ed in particolare delle misure anti-abusive innanzi indicate, deve essere, per converso, esclusa «ove da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la Sec [società estera controllata] è realmente impiantata nello Stato di stabilimento e ivi esercita attività economiche effettive». In quest'ultimo caso, infatti, risulta provata la presenza di un insediamento stabile con relativo «esercizio effettivo di un'attività economica reale» idonea a «favorire l'interpenetrazione economica e sociale nel territorio della Comunità nel settore delle attività indipendenti» in coerenza con la funzione e gli obiettivi della disciplina comunitaria del diritto di stabilimento.

Continua: La prova di un interesse meritevole di tutela e gli effetti della presenza di costruzioni apparentemente artificiose

La presenza di «artificiose costruzioni giuridiche» porta, pertanto, a presumere l'intento di non voler esercitare in buona fede le (e pertanto di voler abusare delle) libertà previste nel Trattato Ue. Tale buona fede, peraltro, potrà essere, anche in tal caso, provata. Ma ciò dovrà avvenire specificamente e con onere della prova a carico dei soggetti interessati, attraverso rigorosi criteri rivolti a dimostrare, nonostante la sua apparente artificiosità, l'effettività dell'operazione economica e la sua idoneità a favorire l'interpenetrazione economica e sociale dell'area comunitaria. Tale impostazione è stata ripresa anche in un successivo caso nel quale è stato ulteriormente confermato che l'esistenza di artificiose costruzioni giuridiche crea, di per sé, la convinzione della presenza di una volontà di evitare il pagamento della tassazione normalmente dovuta rispetto ad un'attività economica e ad un valore aggiunto effettivamente realizzato in un ambito territoriale diverso da quello che appare in virtù di tali «artificiose transazioni» [nota 11].

In quest'ottica, quindi, dovrà essere valutata la legittimità delle varie normative statali “anti-elusive” più in generale adottate in materia societaria non soltanto con riguardo alla materia tributaria, ma anche relativamente ai criteri di corporate governance e, più in generale, con riferimento al diritto dei mercati finanziari. Nessun dubbio, pertanto, che l'intento abusivo derivante da costruzioni considerate artificiose in virtù di presunzioni previste direttamente dalla legge potrà essere contraddetto in presenza ed attraverso la prova di un insieme di elementi oggettivi tali da porre in rilievo il perseguimento, al di là delle apparenze, di un interesse meritevole di tutela giustificato dagli elementi soggettivi ed oggettivi della sottesa operazione, oltreché coerente con le varie norme imperative ad essa altrimenti applicabili.

E' proprio in funzione di tale prospettiva che devono considerarsi legittime alcune specifiche norme antielusive nel settore del mercato finanziario anche se possono apparire in contrasto con la libera circolazione dei capitali e/o con il diritto di stabilimento. Si pensi, ad esempio, alle norme che prevedono di computare nell'ambito degli importi relativi al limite dell'emissione di obbligazioni anche quelli dipendenti dalle garanzie rilasciate a favore di obbligazioni emesse dalle proprie controllate estere. Tali norme si giustificano, infatti, in quanto in tal caso si presume che la società estera non sia adeguatamente dotata di mezzi e risorse ai fini dell'emissione delle obbligazioni e, proprio perché richiede la garanzia della sua società controllante, rappresenti soltanto un mero “veicolo” artificialmente creato per conseguire un risultato in contrasto con le norme imperative dell'ordinamento nazionale di quest'ultima. In altri termini, l'interesse sotteso all'emissione nei termini indicati delle obbligazioni da parte della controllata estera non sembra meritevole di tutela, potendo produrre effetti negativi nei confronti di tutti i creditori della società controllante e del suo equilibrio economico-finanziario, in contrasto con quanto previsto dalle norme imperative del suo “statuto personale” e, pertanto, rivelandosi illegittimamente elusivo della loro portata precettiva.

Il diverso approccio nella valutazione dell'abuso del diritto comunitario con riguardo alla libera circolazione delle persone

In una prospettiva molto meno rigorosa è stata, invece, valutata la presenza e la rilevanza di circostanze almeno apparentemente create in virtù di artifizi in occasione della giurisprudenza relativa alla libera circolazione delle persone ed in particolare dei lavoratori. Un esempio. In occasione del caso Akrich [nota 12], l'Avvocato generale Geelhoed ha precisato [nota 13] che il trasferimento di un lavoratore dal proprio Stato di residenza ad un altro Stato membro al fine di beneficiare di un più favorevole trattamento non integra, di per sé, un utilizzo abusivo del diritto comunitario anche se operato nella consapevolezza e con l'intento di un rapido successivo ritorno nello Stato di origine. Infatti, trattandosi di un diritto specificamente previsto dal diritto comunitario, da un lato, è corretto riporre su di esso un legittimo affidamento, dall'altro, il suo esercizio non può, di per sé, provocare un misuse del diritto comunitario.

In termini ancora più espliciti si è espressa la Corte di giustizia, che ha precisato come il diritto al trasferimento in un altro Stato ed al ritorno nello Stato di origine, insieme ai vantaggi che ne derivano, in capo ad un lavoratore si estendono al coniuge, anche se cittadino di uno Stato-terzo, con il quale vive. Tale diritto, pertanto, non può essere limitato indagando sui “motivi” che possono aver giustificato tali spostamenti. Solo in presenza di un “matrimonio non autentico” - e cioè di «matrimonio di comodo contratto al fine di eludere le disposizioni relative all'ingresso ed al soggiorno dei cittadini di paesi terzi» - si può ritenere che ci si trovi di fronte ad un “abuso” del diritto alla libera circolazione dei lavoratori comunitari. Peraltro, la ricorrenza di un “matrimonio non autentico” deve essere rigorosamente provato dovendosi basare «su elementi obiettivi (propri) del comportamento abusivo o fraudolento dell'interessato per negargli eventualmente la possibilità di fruire delle disposizioni» di diritto dell'Ue rivolte ad inserire i familiari dei lavoratori migranti nello Stato ospitante, la cui applicazione consegue alla presenza di un vincolo matrimoniale effettivo, come di recente precisato dalla Corte di giustizia nella sentenza relativa al caso C-303/08 [nota 14].

In termini ancora più restrittivi è stata valutata la possibile ricorrenza di situazioni abusive con riferimento agli effetti dell'attribuzione della cittadinanza di uno Stato membro dell'Ue al fine dell'esercizio del diritto relativo alla libera circolazione previsto dal diritto comunitario. Il caso Chen è il più famoso tra quelli in cui è stato affrontato questo argomento. In quell'occasione si trattava, come noto, di valutare la legittimità del rifiuto opposto dal Regno Unito al trasferimento della residenza in tale Stato da parte di una cittadina cinese e della figlia minorenne, la quale ultima aveva acquisito la cittadinanza irlandese in virtù dello jus soli. Tale cittadinanza, infatti, venne ottenuta a seguito della decisione della madre, Signora Chen, incinta di sei mesi, di andare in Gran Bretagna, avendo frequenti giustificazioni di tale viaggio per motivi di lavoro che le hanno consentito di evitare i controlli cinesi, e successivamente di trasferirsi dall'Inghilterra in Irlanda acquisendo in tale Stato lo status di residente temporaneo in occasione della cui vigenza, appunto, nacque la figlia.

E' proprio in funzione dell'assoluta peculiarità di tali circostanze che le autorità rifiutarono il successivo ritorno in Inghilterra, con trasferimento della residenza della madre e della figlia giustificato dalla libertà di circolazione delle persone di cui potevano godere in virtù della cittadinanza irlandese della figlia. Peculiarità tanto più significativa in quanto la stessa Signora Chen ammetteva di aver creato volutamente, in virtù delle tecnicalità innanzi indicate, le condizioni necessarie per consentire l'acquisto della cittadinanza irlandese alla propria figlia al fine di ottenere in seguito un permesso di soggiorno di lunga durata per sé e per la figlia nel Regno Unito. Pertanto, si assumeva che si fosse in presenza di condizioni artificiosamente create rivolte ad abusare di un diritto riconosciuto dall'ordinamento comunitario.

La Corte, peraltro, non ebbe esitazione nell'andare di contrario avviso, affermando con grande determinazione che «non spetta ad uno Stato membro limitare gli effetti dell'attribuzione della cittadinanza di un altro Stato membro» con specifico riguardo al conseguente effetto dell'esercizio delle libertà fondamentali previste dal Trattato. Si è, pertanto, escluso il diritto del Regno Unito di negare ai cittadini di altri Stati membri, divenuti tali in conformità alla loro disciplina nazionale pur in presenza di circostanze del tutto particolari, il godimento di una libertà fondamentale garantita dal diritto comunitario, invocando al riguardo che l'acquisto della cittadinanza di tale Stato membro ha mirato, in realtà, a procurare abusivamente ad un cittadino di uno Stato terzo un diritto di soggiorno ai sensi del diritto comunitario in un altro Stato membro.

In termini estremamente favorevoli ad un ampio riconoscimento delle libertà comunitarie e del riduttivo impiego dell'abuso del diritto, si è espressa anche la giurisprudenza nei successivi casi Collins [nota 15] e Commissione c. Austria [nota 16]. In quest'ultimo caso, in particolare, si trattava di valutare la legittimità del comportamento adottato dal Governo austriaco, giustificato in funzione anti-abusiva, rivolto a non assimilare completamente la titolarità di un diploma di istruzione secondaria conseguito negli altri Stati membri a quello ottenuto in Austria ai fini dell'accesso all'Università e, più in generale, ai livelli di istruzione superiore. Anche a questo proposito la Corte non ebbe alcun dubbio nell'escludere la legittimità di un tale tipo di misure, che non poteva essere in alcun modo giustificato in quanto lesivo del contenuto essenziale del principio relativo alla libertà di movimento degli individui previsto dal Trattato anche con particolare riguardo alla libera circolazione degli studenti.

Ed in termini altrettanto chiari nel confermare quanto ora indicato si è espressa la Corte di giustizia nel recentissimo caso Koller [nota 17], allorché si è affermato il diritto di un cittadino austriaco laureatosi in Austria di trasferirsi in Spagna per ivi divenire avvocato ed essere successivamente iscritto nell'albo degli avvocati austriaci, evitando il tirocinio di tre anni previsto dalla legge austriaca per l'esercizio della professione forense, attraverso il conseguimento di un titolo di formazione complementare in Spagna (ove l'obbligo di tirocinio non esiste) che abiliti il possessore ad accedere in quest'ultimo Stato alla professione regolamentata di avvocato. La presenza di tali circostanze, infatti, non è stata considerata tale da giustificare la ricorrenza di un abuso del diritto dell'Ue relativo al riconoscimento delle qualifiche professionali.

Il diverso impiego dell'abuso del diritto comunitario con riguardo al diritto dell'economia ed a proposito della libera circolazione degli individui: criteri e limiti

Da quanto esposto risulta chiaramente una precisa tendenza della giurisprudenza dell'Unione rivolta ad escludere, o quanto meno a ridurre, l'utilizzo dell'abuso del diritto allorché si tratta di applicare i principi e le norme relative alla libera circolazione degli individui, anche se sussistono circostanze del tutto peculiari apparentemente artificiose e specificamente adottate per poter conseguire i vantaggi derivanti da tali normative. Per converso, allorché si tratta, invece, di verificare la legittimità dell'esercizio della libertà di circolazione con riguardo ai suoi effetti sul diritto dell'economia o degli affari, e soprattutto in materia tributaria, l'impiego dell'abuso del diritto tende ad essere sempre più frequente e l'ambito delle motivazioni ricomprese in tale nozione risulta progressivamente ampliato. Tanto da ravvisare la sussistenza dell'intento abusivo in virtù delle sole circostanze anomale in presenza delle quali vengono esercitate le libertà dell'Ue a prescindere dalla specifica prova di un intento abusivo, che viene presunto.

E' proprio in tale prospettiva che una parte della dottrina ha affermato la mancanza di una precisa nozione dell'abuso del diritto in ambito Ue. In realtà, ciò che emerge è una differente intensità dell'impiego di tale nozione in funzione delle differenti materie ricomprese nelle competenze dell'Unione. Tale differenza può essere giustificata dall'esplicito riconoscimento delle «libertà e dei principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000», particolarmente sensibile ai diritti degli individui, che ha trovato il suo riconoscimento normativo nell'art. 6 Tue ed in tal modo ha concorso a rafforzare le precise indicazioni in tal senso emerse già in occasione dei casi Wakanf [nota 18] e Cowan [nota 19]. Nella stessa direzione operano anche i principi di solidarietà comunitaria previsti nel Trattato di Lisbona a favore degli individui, di cui è significativa espressione la previsione della comune cittadinanza europea ormai consacrata negli art. 9 Tue e 20-23 Tfue e destinata a rappresentare lo statuto fondamentale dei cittadini degli Stati membri [nota 20]. Si cerca di giustificare, così, nei confronti dei cittadini e dei lavoratori di tutti gli Stati membri, una particolare sensibilità con specifico riguardo ai loro diritti individuali allorché, in qualunque modo ed a qualunque titolo, si trovino ad esercitare la loro libertà di circolazione in ambito Ue. Ed in tal senso appare emblematica la sentenza resa dalla Corte di giustizia nel caso Rottmann, laddove si è affermato che il diritto Ue (in particolare l'art. 20 Tfue, ex art. 17 Ce, che istituisce e definisce la cittadinanza europea) non osta ad una decisione nazionale di revoca della cittadinanza ottenuta fraudolentemente, anche ove tale decisione abbia l'effetto di rendere l'individuo apolide e di privarlo dei diritti correlati allo status di cittadino Ue. Spetta, tuttavia, al giudice nazionale accertare che un tale provvedimento di revoca e gli effetti privativi ad esso conseguenti si conformino al principio di proporzionalità [nota 21].

Allorché ci si trovi, invece, a valutare l'ambito delle libertà dell'Ue con specifico riguardo al diritto degli affari ed al diritto tributario, tale sensibilità risulta molto meno accentuata. Tanto che l'abuso del diritto e le misure normative adottate in funzione anti-abusiva da parte degli Stati risultano generalmente legittimate dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia, purché non risultino ingiustificatamente, e/o non proporzionalmente, dissuasive rispetto alla libera circolazione delle merci o disincentivanti rispetto agli investimenti in altri Stati membri.

Si tratta, quindi, di verificare se la differenziazione - o quanto meno la misura - di trattamento dell'abuso del diritto nelle situazioni innanzi indicate sia giustificato tenendo conto della necessità, da più parti evidenziata, di individuare principi generali del diritto Ue che giovino alla chiarezza e favoriscano la certezza del diritto, senza concorrere a creare o ad incentivare pericolose ambiguità ed eccessiva discrezionalità nella loro applicazione. Tanto più che se anche una differenziazione di trattamento può essere giustificata in merito alle varie situazioni innanzi indicate, essa dovrà comunque essere coerente con il principio di proporzionalità ed adeguatezza dei valori rispettivamente protetti.

In ogni caso, è certo che, anche con riferimento ad ogni specifico settore al quale risulti applicabile la nozione di abuso del diritto, il sistema normativo e giurisprudenziale della Ue dovrà rappresentare la sede in cui individuare il benchmark della sua applicazione uniforme nell'ambito dei vari Stati membri, sia con riferimento alle situazioni relative ad operazioni transazionali sia con riferimento a quelle meramente interne, come si è già verificato nei vari settori del diritto dell'economia. Una diversa soluzione, infatti, crea ingiuste diversità di trattamento di situazioni identiche nei vari Stati membri, gravi incertezze dei rapporti economici e pericolose distorsioni rispetto ad una corretta allocazione di risorse nell'ambito dell'area economica dell'Ue. Ma soprattutto, in tal modo, si vanificano i risultati ottenuti e gli sforzi rivolti ad ottenere l'armonizzazione o addirittura l'uniformità dei principi impositivi nella Ue, la cui presenza ed il cui ulteriore sviluppo è essenziale per garantirne l'evoluzione nella direzione tracciata dal Trattato di Lisbona. Ed è ben noto che l'Unione europea potrà difficilmente raggiungere gli obiettivi ambiziosi - di cui al Trattato di Lisbona e sviluppati nella recente Comunicazione della Commissione su Europa 2020, nella quale si evidenzia la necessità di criteri interpretativi e di nozioni uniformi per il commercio internazionale, per le scelte di politica economica e per la regolazione fiscale - mantenendo al riguardo un approccio a prevalente dimensione nazionale differenziato tra i vari Stati.

Merita, dunque, condivisione l'indirizzo, di recente espresso dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione con sentenza 21 gennaio 2011, n. 1372, secondo cui occorre ripensare in senso riduttivo (rispetto alle precedenti indicazioni dalla stessa Corte impartite) la nozione di “abuso” anche allorché è impiegata in ambito fiscale. E', infatti, opinione della Cassazione che, come insegna la Corte di giustizia, pur potendosi riscontrare ipotesi di abuso anche quando l'obiettivo del risparmio fiscale non è esclusivo [nota 22], il principio dell'abuso deve essere applicato con la massima cautela, soprattutto quando a venire in rilievo siano operazioni di ristrutturazione societaria nell'ambito di grandi gruppi di imprese. Di tal ché, il carattere abusivo di operazioni siffatte deve escludersi quando si accerti «la compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell'operazione, ma possono essere anche di natura meramente organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell'impresa».

NOTA BIBLIOGRAFICA

La particolare circostanza della redazione del presente lavoro giustifica la mancanza di specifici riferimenti bibliografici. Si ritiene comunque di menzionare i principali riferimenti bibliografici utilizzati per l'elaborazione del presente lavoro:

AA. VV., Abuse of Tax Law across Europe (Part One and Two), in EC Tax Review, 2010, p. 85  e ss.,  p. 123 e ss.; L. BROWN, Is There a General Principle of Abuse of Rights in European Community Law?, in D. Heukel, T. Curtin (eds.), Institutional Dynamics of European Integration, Vol. II, Leiden, 1994, p. 511 e ss.; M. BURGIO, The Abuse of Law in the Framework of the European Tax Law, in Intertax, 1991, p. 82 e ss.; S. CAFARO, L'abuso di diritto nel sistema comunitario: dal caso Van Binsbergen alla Carta dei diritti, passando per gli ordinamenti nazionali, in Il Diritto dell'Unione europea, 2003, p. 291 ss.; S.M. CARBONE, Lex mercatus e lex societatis tra principi di diritto internazionale privato e disciplina dei mercati finanziari, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 2007, p. 27 e ss.; L. CERIONI, The “Abuse of Rights” in EU Company Law and EU Tax Law: A Re-reading of the ECJ Case Law and the Quest for a Unitary Notion, in European Business Law Review, 2010, p. 783 e ss.; P. CUNHA - P. CABRAL, ‘Presumed Innocent': Companies and the exercise of the right of establishment under Community Law, in European Law Review, 2000, p. 157 e ss.; R. DE LA FERIA, Giving themselves extra (VAT)? The ECJ ruling in Halifax, in British Tax Review, 2006, p. 119 e ss.; R. DE LA FERIA, Prohibition of Abuse of (Community) Law: The Creation of a New General Principle of EC Law through Tax, in Common Market Law Rev., 2008, p. 395 e ss.; V. EDWARDS - P. FARMER, The concept of abuse in the freedom of establishment of companies: A case of double standards?, in A. Arnull, P. Eeckhout, T. Tridimas (eds), Continuity and Change in EU Law - Essays in Honour of Sir Francis Jacobs, Oxford, 2008; M. GESTRI, Abuso del diritto e frode alla legge nell'ordinamento comunitario, Milano, 2003; P. HARRIS, “Abus de droit” in the field of Value Added Taxation, in British Tax Review, 2003, p. 131 e ss.; A. KJLLGREN, On the Border of Abuse- The Jurisprudence of the European Court of Justice on Circumvention, Fraud and other Misuses of Community Law, in European Business Law Review, 2000, p. 179 e ss.; F. LAGONDET, L'abus de droit dans la jurisprudence communautaire, in Journal des tribunaux Droit européen, 2003, p. 10 e ss.; L. LECLERCQ, Interacting principles: The French abuse of law concept and the EU notion of abusive practices, in Bulletin for International Taxation, 2007, p. 235 e ss.; A. LENAERTS, The General Principle of the Prohibition of Abuse of Rights: A Critical Position on Its Role in a Codified European Contract Law, in European Review of Private Law, 2010, p. 1121 e ss.; K. LENAERTS - J.A. GUTIÉRREZ-FONS, The Constitutional allocation of Powers and General Principles of EU Law, in Common Market Law Rev., 2010, p. 1629 e ss.; G.T.K. MEUSSEN, Cadbury Schweppes: The ECJ significantly limits the application of CFC rules in the Member States, in European Taxation, 2007, p. 13 e ss.; O. ROUSSELLE - H. LIEBMAN, The doctrine of abuse of Community law: The Sword of Damocles hanging over the head of EC corporate tax law?, in European Taxation, 2006, p. 559 e ss.; P. SCHAMMO, Arbitrage and Abuse of Rights in EC Legal System, in European Law Journal, 2008, p. 351 e ss.; K. SØRENSEN, Abuse of Rights in Community Law: A principle of Substance or Merely Rhetoric?, in Common Market Law Rev., 2006, p. 423 e ss.; D. TRIANTAFYLLOU, Abuse of rights versus primacy, in Common Market Law Rev., 1999, p. 157 e ss.; D. TRIANTAFYLLOU, L'interdiction des abus de droit en tant que principe general du droit communautaire, in Cahiers de Droit européen, 2002, p. 622 e ss.; T. TRIDIMAS, The General Principles of EU Law, Oxford, 2006; S. VRELLIS, “Abus” et “fraude” dans la jurisprudence de la Cour de Justice des Communautés Européennes, in Liber Amicorum H. Gaudemet-Tallon, Paris, 2008, p. 638 e ss.; P.J. WATTEL, Circumvention on National Law; Abuse of Community Law?, in Common Market Law Rev., 1995, p. 1257 e ss.


[nota 1] Decisa dalla Corte di giustizia con sentenza del 12 luglio 1962, Koninklijke Nederlandsche Hoogovens en Staalfabrieken, causa 14/61, in Raccolta, 1962, p. 253.

[nota 2] Sentenza della Corte di giustizia del 3 dicembre 1974, van Binsbergen, causa 33/74, in Raccolta, 1974, p. 1299.

[nota 3] Il riferimento è, rispettivamente, alle sentenze della Corte di giustizia: del 16 dicembre 1992, Commissione c. Regno del Belgio, causa C-211/91, in Raccolta, 1992, p. I-6757; del 3 febbraio 1993, Veronica, causa C-148/91, in Raccolta, 1993, p. I-487; del 5 ottobre 1994, TV10, causa C-23/93, in Raccolta, 1994, p. I-4795.

[nota 4] Direttiva 89/552/Cee del Consiglio, del 3 ottobre 1989, relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati Membri concernenti l'esercizio delle attività televisive, in Guce L 298 del 17 ottobre 1989, p. 23 e ss., successivamente modificata dalle direttive 97/36/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 giugno 1997 (in Guce L 202 del 30 luglio 1997, p. 60 e ss.) e direttiva 2007/65/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 dicembre 2007 (in Guue L 332 del 18 dicembre 2007, p. 27 e ss.), oggi abrogata e sostituita dalla direttiva 2010/13/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 10 marzo 2010, relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti la fornitura di servizi di media audiovisivi (direttiva sui servizi di media audiovisivi), in Guue L 95 del 15 aprile 2010, p. 1 e ss. 

[nota 5] Sentenza della Corte di giustizia del 9 marzo 1999, Centros, causa C-212/97, in Raccolta, 1999, p. I-1459.

[nota 6] Sentenza della Corte di giustizia del 27 settembre 1988, Daily Mail, causa 81/87, in Raccolta, 1988, p. 5483.

[nota 7] Sentenza della Corte di giustizia del 14 dicembre 2000, Emsland-Stärke, causa C-110/99, in Raccolta, 2000, p. I-11569.

[nota 8] Sentenza della Corte di giustizia del 21 febbraio 2006, Halifax, causa C-255/02, in Raccolta, 2006, p. I-1609.

[nota 9] In tal senso cfr. la sentenza della Corte di giustizia del 29 aprile 2004, Gemeente Leusden e Holin Groep BV cs c. Staatssecretaris van Financiën, cause riunite C-487/01 e C-7/02, in Raccolta, 2004, p. I-5337.

[nota 10] Sentenza della Corte di giustizia del 12 settembre 2006, Cadbury Schweppes, causa C-196/04, in Raccolta, 2006, p. I-7995.

[nota 11] Sentenza della Corte di giustizia del 13 marzo 2007, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, causa C-524/04, in Raccolta, 2007, p. I-2107.

[nota 12] Sentenza della Corte di giustizia del 23 settembre 2003, Akrich, causa C-109/01, in Raccolta, 2003, p. I-9607.

[nota 13] Nelle sue conclusioni rassegnate in data 27 febbraio 2003.

[nota 14] Sentenza della Corte di giustizia del 22 dicembre 2010, Bozkurt, causa C-303/08, non ancora pubblicata in Raccolta.

[nota 15] Sentenza della Corte di giustizia del 23 marzo 2004, Collins, causa C-138/02, in Raccolta, 2004, p. I-2703.

[nota 16] Sentenza della Corte di giustizia del 7 luglio 2005, Commissione c. Austria, causa C-147/03, in Raccolta, 2005, p. I-5969.

[nota 17] Sentenza della Corte di giustizia del 22 dicembre 2010, Koller, causa C-118/09, non ancora pubblicata in Raccolta.

[nota 18] Sentenza della Corte di giustizia del 13 luglio 1989, Wakanf, causa 5/88, in Raccolta, 1989, p. 2609.

[nota 19] Sentenza della Corte di giustizia del 31 gennaio 1984, Cowan, cause riunite 286/82 e 26/83, in Raccolta, 1984, p. 377.

[nota 20] In argomento si veda, da ultimo, la sentenza della Corte di giustizia del 2 marzo 2010, Rottmann, causa C-135/08, in Raccolta, 2010, p. I-1449.

[nota 21] Così la Corte di giustizia nella sentenza del 2 marzo 2010, Rottmann, cit.

[nota 22] Il riferimento è alla sentenza della Corte di giustizia del 21 febbraio 2008, Part Service, C-425/06, in Raccolta, 2008, p. I-897.

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