Abuso del diritto o ... "diritto all'abuso"?
Abuso del diritto o ... "diritto all'abuso"?
di Ugo Friedmann
Notaio in Milano
Diceva Rescigno che «Nei suoi limiti e nella sua vocazione la dottrina dell'abuso finisce allora col testimoniare l'antica miseria del diritto e la pena del giurista che cerca di riscattarla».
L'argomento è quello del cosiddetto "abuso del diritto" da intendersi come Clausola generale dell'ordinamento o come criterio guida da impiegare in occasione della interpretazione del diritto.
Tale principio è ovviamente assente nel sistema delle norme di diritto positivo e risulta introdotto dalla Suprema Corte nell'esercizio di quella funzione "normante" che pare essere caratteristica dei tempi attuali.
La Suprema Corte in sostanza [nota 1] afferma e fa prepotentemente entrare nell'ordinamento un principio sin qui utilizzato solamente in relazione ad imposte armonizzate in quanto regolato dalla normativa comunitaria.
Il limite dell'applicazione del principio dell'abuso del diritto (diverso dal comportamento contrario a norme antielusive che richiede appunto la presenza di una norma che codifichi le fattispecie elusive) era costituito per l'appunto prima del recente orientamento del Supremo Collegio dalla mancanza nel nostro ordinamento di una norma interna che regolasse la fattispecie.
Ora si dice che la interpretazione "antiabuso" è una clausola generale di giustizia nella ripartizione del carico tributario tra i consociati tesa a dare concretezza alla equità tributaria e trova la sua base normativa nell'articolo 53 comma 1 laddove si afferma che «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» [nota 2].
Quindi il contribuente che scopre che per raggiungere un determinato risultato può perseguire due diversi percorsi che fiscalmente danno luogo l'uno a una tassazione più favorevole rispetto all'altro e non trova una valida giustificazione economica nel perseguire quello fiscalmente più vantaggioso che non sia il risparmio fiscale in sè, deve sapere che può vedersi disconosciuto il comportamento tenuto e applicata la tassazione prevista per il percorso fiscalmente più oneroso.
Tale impostazione è il frutto dello sviluppo dal precedente orientamento della Cassazione del 2005 che nelle famose sentenze n. 20398 e 22932/2005 aveva sostenuto la nullità del contratto per difetto di causa in quanto "in frode alla legge" all'adozione degli attuali schemi che valorizzando il principio del divieto di abuso del diritto al fine di impedire il prodursi di effetti tributari delle operazioni che possano in qualche modo essere caratterizzate da un vantaggio tributario arriva a disconoscerne gli effetti appunto nei confronti della amministrazione finanziaria con la conseguente applicazione della imposte nella maggiore misura dovuta oltre agli interessi, ma, si badi bene, senza applicazione di sanzioni perchè comunque nessuno nega che lo strumento usato dal contribuente è legittimo.
Unica via di scampo è per il contribuente, sul quale incombe l'onere della prova, quella di dimostrare le valide ragioni economiche, che non siano marginali o teoriche, del proprio comportamento.
Se però come sopra detto a livello comunitario il principio appare regolato e applicato anche a seguito di famose sentenze della Corte di giustizia nell'ordinamento interno non pare si possa sfuggire al principio di riserva di legge (articolo 23 della costituzione) della materia fiscale volto a garantire da un lato la democraticità delle scelte impositive e dall'altro la certezza nei rapporti con la amministrazione finanziaria e quindi qui appare di tutta evidenza la ragione che sottende alla seconda parte del titolo della mia relazione.
Non può infatti un generico riferimento a un "vantaggio fiscale" costituire paradigma per il disconoscimento degli effetti di negozi legittimamente posti in essere dal contribuente.
Senza nulla togliere alla certezza della imparzialità e serietà del giudice tributario è alla licenza di quest'ultimo valutare o meno come "abusivo" il comportamento di questo o quel contribuente che deve dimostrarne, per scampare alla disapplicazione degli effetti dell'atto posto in essere, la validità economica.
Sembra potersi ancora affermare che la Suprema Corte nell'affermare la esistenza del più volte menzionato principio, la cui base viene comunque desunta dall'ordinamento costituzionale interno, si rifà in modo distorto alla normativa ed alla giurisprudenza comunitaria che persegue come abusivo non il comportamento che perviene a un risparmio di imposta utilizzando strumenti conformi al sistema , ma quello che vi perviene con comportamenti "asistematici".
In realtà non il mero risparmio fiscale, ma lo "sviamento" degli effetti propri del negozio per pervenire al risparmio fiscale costituisce comportamento "abusivo".
Dato per scontato che una cosa è l'elusione e cosa diversa è l'abuso del diritto e che quindi il disposto dell'articolo 37-bis del D.P.R. 600/73 non è sovrapponibile alla fattispecie in esame anche il derivare tout court dagli articoli 53 e 3 della Costituzione la esistenza di un principio "immanente" nell'ordinamento applicabile in via interpretativa appare sicuramente lesivo del principio della "riserva" di legge contenuta nell'articolo 23 della Costituzione.
La posizione della giurisprudenza incontra nella dottrina non poche ed acute critiche [nota 3] che portano sostanzialmente a contestare l'utilizzo di uno strumento così poco definito anzichè meglio utilizzare anche in via interpretativa strumenti che già sono presenti e codificati nell'ordinamento.
Non si può d'altronde negare che tale filone interpretativo cozza con la filosofia che ha dato vita al negletto "Statuto del contribuente" che trova la propria base e fondamento anch'esso in una norma costituzionale di rango superiore qual'è l'articolo 3 che vuole assicurare parità di trattamento tra fisco e contribuente anche sul piano della difesa.
Fatte queste brevi premesse tratterò di un caso in particolare che ritengo di interesse notarile e il cui esame può aiutarci a meglio comprendere i pericoli insiti nei confini sfumati di questo nuovo orientamento tributario.
Il caso in questione è quello che ha dato origine a una pronuncia della Commissione tributaria provinciale di Milano sezione XX - sentenza numero 118 del 7 aprile 2009 che nella massima recita «deve riconoscersi natura elusiva, rappresentativa di una fattispecie di abuso del diritto, alla cessione di diritti pro indiviso su fabbricati ad uso abitazione finalizzata ala perdita dell'esclusiva titolarità dei beni onde instare per i benefici previsti dal T.U. del registro in materia acquisto della prima casa».
Il caso è emblematico.
Due coniugi vendono ai figli il dieci per cento delle due case che possiedono e, a seguito della vendita, non essendo più proprietari "esclusivi" di altra casa di abitazione nel Comune di residenza (e ovviamente non avendo a suo tempo fruito di alcuna agevolazione prima casa sugli acquisti degli immobili di cui continuano a detenere una quota) richiedono la agevolazione prima casa sul nuovo acquisto che pongono in essere nel medesimo comune.
L'amministrazione contesta la elusività dell'operazione.
I contribuenti ricorrono opponendo che non ricorre alcuno dei casi puntualmente regolati dall'articolo 37-bis del D.P.R. 600/73 in tema di elusione essendo la vendita stata fatta per finanziare il nuovo acquisto e che pertanto la pretesa dell'ufficio è infondata.
La commissione tributaria adita non accoglie la doglianza dei contribuenti ed afferma che «questo Collegio non ha dubbi:i coniugi vendettero il 10% dei due appartamenti in A per una somma poco superiore a 19.000 euro per l'obiettivo principale di risparmiare imposte per oltre 30.000 euro.
La vendita non fu simulata, non fu fittizia, ma rappresentò il necessario strumento per beneficiare di un'agevolazione fiscale che altrimenti non sarebbe spettata
Induce a tale convinzione in primis la quasi contestualità tra la vendita "elusiva" e l'acquisto della prima casa ma soprattutto l'irragionevole rinuncia alla piena proprietà di due case per soli 19.000 euro.
Per fare liquidità bastava vendere una quota di una sola proprietà senza necessità di frazionarne due.
Ma è evidente che essi intesero adeguarsi formalmente e pedissequamente ai requisiti richiesti per ottenere l'agevolazione fiscale: tra questi vi era quello di non essere proprietari "esclusivi" di altri immobili nello stesso comune della nuova casa da acquistare … omissis … si osserva che l'operazione ei Signori non può essere ritenuta elusiva ai sensi dell'art. 37-bis del D.P.R. 600/73 in quanto non rientra tra quelle elencate nel terzo comma dello stesso articolo come giustamente ha eccepito parte ricorrente.
Si può serenamente affermare che nessuna norma scritta del nostro ordinamento essi hanno violato.
Non si può e non si deve negare, però, che essi hanno utilizzato un negozio giuridico astrattamente lecito per il principale obiettivo di ottenere un'agevolazione fiscale che altrimenti non avrebbero ottenuto.
Essi hanno usato il diritto forzandone le regole, abusandone ...».
La commissione sviluppa poi il ragionamento che nelle brevi note introduttive sopra riportate dimostrerebbe la esistenza nel nostro ordinamento di una regola non scritta per la quale non si possono utilizzare gli strumenti giuridici leciti offerti dall'ordinamento per una causa diversa da quella per la quale lo strumento era stato concepito ed ottenere dei vantaggi che l'ordinamento non intendeva offrire o addirittura vietare.
Dopo un'ampia e diffusa argomentazione la Commissione soggiunge che: «... Questa Commissione condivide la diffusa preoccupazione che un ricorso eccessivo e meccanico al contrasto dell'abuso di diritto possa frustrare l'iniziativa economica privata o che possa menomare l'incomprimibile diritto dei contribuenti di potere scegliere fra i negozi giuridici quello che porta al minore carico fiscale.
Nè si nasconde la difficoltà di applicare ai casi concreti la generale regola di contrasto all'elusione.
Chi è chiamato a farla rispettare si deve muovere sullo stretto confine tra lecito e illecito, tra consentito e non consentito.
Ma tutto questo non può portare alla resa nei confronti di chi usa il diritto al solo scopo di aggirarlo …».
Ecco il giudice che diviene arbitro, non della corretta applicazione delle norme, ma che stabilisce in assenza di una codificazione, di quella riserva che l'articolo 23 della Costituzione impone quale comportamento sia lecito o illecito.
Non sta all'interprete stabilire se il giudice in questo caso ha avuto ragione perchè contro la sua decisione sarà stato attivato un gravame ed un altro giudice superiore dovrà occuparsi della questione, ma, si badi bene, non dovrebbe il giudice del gravame occuparsi della corretta applicazione della legge nel caso concreto bensì a sua volta valutare se siamo di fronte a un comportamento che integra abusi del diritto oppure no.
Salvo che decida che il conclamato principio in realtà non è immanente al nostro ordinamento e sconfessare a sua volta il giudice del primo grado.
Interessante è richiamare il diverso orientamento della Commissione tributaria regionale del Piemonte [nota 4] che cassando una sentenza della Commissione tributaria provinciale di Biella del 14 marzo - 11 ottobre 2007 ritiene non costituisca abuso del diritto il fatto che un soggetto (nella specie un coniuge) si spogli a mezzo di una convenzione matrimoniale della metà della proprietà di un immobile da lui acquistato chiedendo le agevolazioni onde potere nuovamente fruire delle agevolazioni prima casa.
Quello che interessa è l'incipit della motivazione che afferma con chiarezza che "nell'ordinamento tributario italiano non esiste una norma antielusiva di carattere generale" criticando poi la posizione della giurisprudenza in materia.
Una rondine non fa primavera, ma certamente non può nascondersi che a fronte di un rafforzarsi da parte di certa dottrina e giurisprudenza della esistenza di un principio "immanente" altra dottrina e giurisprudenza sentano il dovere di stabilire confini precisi a tale impostazione.
Assai preoccupante è da ultimo la deriva che porta l'abuso del diritto davanti alle procure della repubblica e lo fa assurgere a base per l'azione penale, con effetto retroattivo contro ogni principio e con evidente violazione di quello Statuto del contribuente che sempre più assomiglia a un pannuccio caldo messo al solo scopo di agitare le acque e non di creare un reale, serio e paritetico rapporto tra contribuente ed amministrazione.
Non si può certamente favorire ed accettare un comportamento illecito o contrario alla legge da parte dei cittadini contribuenti, ma è condizione essenziale per il buon funzionamento di un ordinamento di civil law qual'è il nostro che le norme siano certe, che ne sia consentita ove i principi lo consentono la applicazione in via analogica, ma che non sia consentito da nessuna parte l'arbitrio (anche se finalizzato a nobili scopi) e la violazione dell'intangibile principio della parità tra i diritti di entrambe le parti in gioco.
Merita in conclusione un cenno ad una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione sezione tributaria (1372 del 21 gennaio 2011) laddove precisano che «in tema di abuso del diritto si tratta di verificare se l'operazione rientra in una normale logica di mercato e il carattere abusivo deve essere escluso per la compresenza, non marginale, di ragioni extra fiscali che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell'operazione ma possono essere di natura meramente organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell'impresa. Tale è la regola emergente dal sistema sul modello comunitario che prende in considerazione soltanto il contenuto oggettivo dell'operazione a differenza di altri ordinamenti» nonchè una precedente pronuncia del Supremo Collegio (n. 4737 del 2010)che pur ammettendo una volta di più la facoltà per l'amministrazione finanziaria di fare ricorso all' "abuso del diritto", ma introduce l'obbligo per quest'ultima di dimostrare che «in concreto il contribuente abbia tratto veramente beneficio» dalla fattispecie in esame.
Mi pare giusto sottolineare anche che se da un lato parlare di abuso del diritto può avere un senso in relazione ad operazioni poste in essere nell'ambito di impresa ben più complesso è il problema quando si entra nella valutazione dell'operato del singolo cittadino e si va a sindacare la ragione di scelte che ben poco hanno a che fare con la logica di impresa.
Se l'ordinamento favorisce l'accesso alla casa e lo fa con una legislazione premiale ha senso che lo stesso ordinamento bolli come elusivo il comportamento del cittadino che pone in essere comportamenti volti a mettersi nelle condizioni di fruire di detta legislazione?
È paradossale ad esempio che non sorga alcun dubbio di operazione abusiva quando un cittadino proprietario di un intero comune in forza di atti in cui non ha chiesto l'agevolazione prima casa compri la "prima casa" nel limitrofo comune in cui «si riserva di portare la residenza nei diciotto mesi» mentre divenga abusivo il comportamento di quel cittadino che ha avuto la disgrazia di ereditare un monolocale e ne venda ai figli una quota per comprare la prima casa nel medesimo Comune.
Il recente inasprimento della normativa sul contrasto all'evasione fiscale ha richiamato in vita principi vaghi e discutibili come quelli della "antieconomicità" del'operazione, delegando al funzionario fiscale valutare la congruità dei prezzi alla luce di astratte nozioni di "valore normale" e ha ulteriormente messo sul piatto della bilancia il vago e confuso principio dell'abuso del diritto.
Se quindi si poteva pensare che una corretta rilettura dei principi dell'ordinamento (come le recenti pronunce della Suprema Corte e della Corte di giustizia lasciavano ben sperare) diviene ora improcrastinabile (anche se con i certi e inevitabili limiti classificatori che ciò comporterà) un intervento del legislatore che porti ordine in una situazione destinata altrimenti ad essere sempre più confusa e foriera di incertezza e di lesione dei diritti del contribuente in uno Stato di diritto.
[nota 1] Sentenza n. 30057 del 23 dicembre 2008 delle Sezioni unite afferma che «non può non ritenersi insito nell'ordinamento come diretta derivazione delle norme costituzionali il principio secondo il quale il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'uso distorto (pur se non contrastante con alcuna disposizione) di strumenti giuridici atti a ottenere un risparmio fiscale in difetto di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l'operazione diverse dal mero risparmio fiscale».
[nota 2] Dimenticando però che nella medesima costituzione all'articolo 23 si prevede che «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge» e sembra trascurare l'aspetto pregnante della "capacità contributiva" quale elemento giustificante il prelievo fiscale.
[nota 3] Tra gli altri Carlo Maria Pelosi nel citato Quaderno della Rivista di diritto tributario alle p. 49 e ss. criticando la arbitrarietà che deriva dalla lettura proposta del principio dell'abuso del diritto che prescinde totalmente da un inquadramento normativo della fattispecie afferma che «... la certezza del diritto è ancora da considerare un valore fondamentale del nostro ordinamento, il ricorso a principi non scritti di creazione giurisprudenziale non dovrebbe consentire di applicare nozioni così vaghe e generiche qual'è appunto il divieto di abuso del diritto con l'inevitabile risultato di mettere in discussione quel valore». Come è stato giustamente osservato (L. LUZZATTI, La vaghezza delle norme, Milano, 1990, p. 425) «quanto più una norma è vaga tanto meno essa esiste come norma».
[nota 4]Sentenza n. 1 del 19 gennaio 2010 (ud. del 12 maggio 2009) in Fisconline.
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