Contrasti tra principi asseriti e veri: elusione e affidamento
Contrasti tra principi asseriti e veri: elusione e affidamento
di Gianni Marongiu
Ordinario di Diritto Tributario, Università degli studi di Genova
La asserita natura antielusiva dell’art. 20 della legge di registro alla luce della coerenza del sistema
Ancora di recente la Commissione tributaria regionale di Venezia (sez. IV, 18 maggio 2010, n. 66) ha deciso che l’art. 20 della legge del registro non può essere considerato come una clausola generale antielusiva operante nell’ambito del tributo stesso e qui non ripeteremo le ragioni del nostro consenso [nota 1].
E bene ha fatto il giudice veneziano a trarre argomento a favore della soluzione accolta [nota 2] anche dal combinato disposto degli artt. 87 e 176 del Tuir che sanciscono un regime di neutralità fiscale per le operazioni di conferimento di un ramo d’azienda e successiva cessione delle partecipazioni.
Sarebbe, infatti, del tutto irrazionale che, ai fini delle imposte sui redditi, la scelta di cedere i beni conferiti operando sulle partecipazioni e non sui beni stessi fosse considerata non solo legittima ma anche fiscalmente incentivata e che la stessa operazione, ai fini dell’imposta di registro, rischiasse di essere disconosciuta e riqualificata nella forma della cessione diretta dei beni conferiti (!).
Insomma, il legislatore avrebbe scelto di agevolare e fare risparmiare le imposte dirette per fare pagare centinaia di migliaia di euro ai fini dell’imposta di registro!!
Sarebbe un caso classico di trappola legislativa e il contribuente, indotto in errore, potrebbe esclamare «Ci salvi la Provvidenza da tali provvidenze» [nota 3].
I nessi ineludibili tra l’elusione e il procedimento di contestazione
Solo soggiungo che l’apprezzamento di elementi sopravvenuti rispetto all’atto, registrato, di conferimento nonché degli atti successivi ad esso sarebbe possibile solo ammettendo un potere diverso da quello previsto dall’art. 20 [nota 4], che potrebbe corrispondere a quello fissato nell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, a condizione, ovviamente, di condividere la tesi che l’art. 53-bis del D.P.R. n. 131/1986 rinvii anche a tale ultima disposizione.
Ma anche su questa strada ci si imbatte in due ostacoli che paiono, entrambi, insuperabili.
Il primo ostacolo è dato dal fatto che, se si ritiene applicabile l’art. 37-bis, gli avvisi di liquidazione sono, nel concreto, illegittimi tutte le volte in cui non sono state rispettate le garanzie previste, a pena di nullità, dallo stesso art. 37-bis.
Se, invece, ecco il secondo ostacolo, non si ritiene applicabile l’art. 37-bis, contestare un’elusione in termini generali, con riguardo all’imposta di registro, significa porre sul tappeto, una evidente distorsione applicativa cui può porre rimedio solo la Corte Costituzionale.
Palese sarebbe, infatti, la discriminazione tra colui al quale è contestato un abuso del diritto (e/o elusione) ex art. 37-bis e cioè in tema di imposte dirette e colui contro il quale sono invocati l’art. 53 Cost. e l’art. 20 della legge di registro.
Al primo sarebbe, infatti, garantita una via nota e tutta procedimentalizzata; il secondo sarebbe affidato al buon volere della pubblica amministrazione.
La disarmonia sarebbe palese e macroscopica. E invero, se nell’ordinamento tributario italiano esiste (ma non esiste) un principio generale antiabuso fondato in alcuni casi su una norma, in altri su un principio generale comunitario e in altri ancora sul principio di capacità contributiva, detto principio generale, nella sua fase attuativa e applicativa, dovrebbe passare attraverso un procedimento unico e unificato perché se il bene protetto (il contrasto all’elusione) è unico, unica deve essere la procedura per accertarla, con uguale garanzia per tutti i contribuenti.
Orbene, l’unico procedimento previsto è quello disciplinato dall’art. 37-bis e quindi gli atti di accertamento emessi al di fuori di detta procedura sono illegittimi.
Se così non si concludesse, palese sarebbe la violazione della Costituzione perché un diverso trattamento di identiche fattispecie comporterebbe la violazione dell’art. 3 (principio di uguaglianza), dell’art. 24 (diritto alla difesa) e dell’art. 97 (imparzialità della pubblica amministrazione).
Quindi e concludendo delle due l’una: 1) o si applica anche all’imposta di registro l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 e allora gli avvisi sono illegittimi quando l’asserita elusione non è stata contestata secondo la procedura dallo stesso prevista [nota 5]; 2) o l’art. 37-bis non si applica, si applica solo l’art. 20 della legge di registro e gli avvisi di liquidazione sono illegittimi perché l’art. 20 non è una norma antielusiva.
I diversi orientamenti della Corte di Cassazione sul fondamento dell’elusione
Esplicitate, ancora una volta, le ragioni del consenso all’orientamento di cui la sentenza in rassegna è espressione, si ritiene opportuno soffermarsi ancora su di essa perché il giudice ha ritenuto di non raccogliere e quindi di respingere (seppure implicitamente) una argomentazione dell’amministrazione che va al di là della mera invocazione dell’art. 20 della legge di registro.
L’ufficio, infatti, adduceva, a conforto delle proprie pretese che, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, «l’esistenza di una clausola generale antielusiva deve essere rinvenuta nei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione dettati dalla nostra Costituzione».
Si tratta di affermazioni generiche che fanno il paio con quella per cui «sulla questione e quindi sull’applicabilità del principio dell’abuso del diritto a ogni settore impositivo anche non soggetto all’armonizzazione europea, si è espressa a più riprese la Corte di Cassazione».
Queste asserzioni, spesso ripetute a mo’ di ritornello e decontestualizzate, esigono una immediata precisazione perché sull’abuso del diritto (rectius: “elusione”) la giurisprudenza della Corte di Cassazione, negli ultimi dieci anni, è stata ondivaga e contraddittoria [nota 6].
La Corte di Cassazione, ancora pochi anni fa, statuiva che la autonomia contrattuale delle parti e la libertà di scelta del contribuente non vanno limitati se non in presenza di specifiche disposizioni di legge per cui, in difetto, si rimane nell’ambito della mera lacuna della disciplina tributaria [nota 7].
Successivamente, la stessa Corte insegnò che è possibile trasporre nel diritto tributario, normativa speciale, principi e criteri che sono propri del diritto civile e quindi dichiarare la nullità di taluni contratti tra loro collegati per “carenza di causa” concreta [nota 8]. Sono le sentenze, notissime, con le quali il Supremo Collegio, con riferimento alla prassi del dividend washing, statuì che le relative pattuizioni contrattuali erano da considerarsi affette (non dalla mera inopponibilità al fisco ma) dalla nullità civilistica. Quali che siano state le critiche rivolte, in punto di diritto sostanziale e processuale, alle sentenze ora ricordate, nulla di nuovo sotto il sole perché mai la dottrina e la giurisprudenza avevano dubitato che l’amministrazione finanziaria, potesse avvalersi anche di strumenti del diritto comune. Ne costituisce un esempio la riconosciuta possibilità di proporre una azione di simulazione [nota 9], ma è evidente che questa prospettazione nulla ha in comune con le asserite operazioni elusive [nota 10] nelle quali le pattuizioni sono vere, reali ed effettivamente volute (se ne veda l’applicazione, a proposito di un contratto simulato di lease back da parte della stessa Corte di Cassazione, che per altro ha ben distinto tra l’applicata simulazione e l’elusione fiscale stricto sensu che presuppone un contratto effettivamente voluto dalle parti) [nota 11].
Ancora pochi anni dopo, la stessa Corte ha affermato la diretta applicabilità, nell’ordinamento tributario nazionale, del principio giurisprudenziale comunitario «dell’abuso del diritto» inteso «quale canone interpretativo regolatore dell’ordinamento» che «prescinde da qualsiasi riferimento alla natura fittizia o fraudolenta di una operazione» ed è volto a colpire operazioni reali, assolutamente conformi ai modelli legali ma inficiate dalla mancanza di ragione, di uno scopo che non sia quello di ottenere un vantaggio fiscale [nota 12].
Tanto audace orientamento si scontrò, per altro, con i dubbi e le perplessità avanzate da chi, correttamente, dubitò che i principi sanciti dalla Corte di giustizia (quale che fosse la loro valenza) potessero applicarsi ai tributi diversi da quelli armonizzati a livello europeo, e cioè ad esempio a imposte come quelle sul reddito o all’imposta di registro.
E i dubbi hanno finito per avere ragione tant’è che lo stesso Supremo Collegio, oggi, statuisce che la clausola antielusiva di matrice comunitaria (avente rango di diritto comunitario primario operante anche in difetto di una specifica disciplina nazionale) si applica solo all’Iva e ai tributi armonizzati [nota 13].
Preso atto dell’impossibilità di estendere ai tributi non armonizzati la clausola antielusiva di matrice comunitaria la stessa Corte di Cassazione ha statuito che «per gli altri tributi, e cioè quelli non armonizzati quali ad esempio quelli diretti, lo stesso principio antiabuso e antielusivo è desumibile dalla norma costituzionale, l’art. 53 Cost., che sancisce il canone di capacità contributiva» [nota 14].
L’invocazione dell’art. 53 Cost., l’asserita esistenza di un principio e l’indebolimento del supporto normativo
Ad avviso nostro il richiamo al principio di capacità contributiva, per i tributi non armonizzati, lungi dall’irrobustire la tesi qui avversata l’ha palesemente indebolita [nota 15].
Nessuno dubita, infatti, che l’art. 53 Cost. sia stella polare della applicazione del diritto a livello giurisprudenziale (e amministrativo), ma solo nel senso che a) le norme devono essere interpretate, nei limiti della loro area di significato possibile, in modo conforme al principio di capacità contributiva; b) l’equivalenza delle fattispecie ai fini della eventuale applicazione analogica va valutata, per il diritto tributario, alla luce della capacità contributiva (le fattispecie sono analoghe se esprimono ricchezza analoga); c) se non è possibile una interpretazione o applicazione conforme al principio di capacità contributiva, il giudice (che non può creare norme insussistenti, fuori dal caso di applicazione analogica, ovvero disapplicare norme esistenti) deve sollevare la questione di legittimità costituzionale.
È certamente vero che l’art. 53 si rivolge (non solo all’interprete ma) anche al legislatore cui il Costituente vieta di sottoporre a tributo fattispecie non espressive di ricchezza e si può anche concedere che esso valga quale comando al legislatore di sottoporre a imposizione la ricchezza, ma è altrettanto certo che esso non determina né può determinare direttamente la creazione di un obbligo tributario, neppure in presenza di una ricchezza palese [nota 16]. Occorre la necessaria mediazione di una disposizione di legge espressa o, quantomeno, di una norma che possa essere applicata analogicamente. Se così non fosse, nulla vieterebbe alla giurisprudenza di creare norme impositive ad ogni manifestazione di ricchezza.
Significativamente la stessa giurisprudenza di Cassazione dubita della legittimità dell’applicazione analogica in materia tributaria perché essa violerebbe il principio della riserva di legge che impone al legislatore di individuare quali sono le situazioni di capacità contributiva giuridicamente rilevanti.
Le conseguenti incertezze degli operatori e degli interpreti
L’ondivago orientamento della Corte di Cassazione ha creato non poche perplessità, incertezze e quindi difficoltà che sembrano fare riflettere anche alcuni che confidavano nell’intervento salvifico dell’art. 53 Cost.
Lo stesso Supremo Collegio, nelle settimane più vicine, ha più volte rilevato che «l’applicazione del principio dell’abuso deve essere guidata da una particolare cautela, essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta della forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività di impresa» e ha soggiunto: «Ciò premesso è necessario altresì rilevare che la cautela, che deve guidare l’applicazione del principio, qualunque sia la sua natura, deve essere massima quando non si tratti di operazioni finanziarie (come avviene nei casi di dividend washing e di dividend stripping) di artificioso frazionamento di contratti o di anomala interposizione di stretti congiunti ma di ristrutturazioni societarie» [nota 17].
L’ondeggiamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione e il suo recente invito alla prudenza hanno gettato nell’incertezza gli operatori che hanno chiesto l’intervento del legislatore. Così con una lettera al ministro dell’Economia, i presidenti di Abi, di Ania, e di Confindustria, hanno chiesto l’intervento del Parlamento per porre riparo alla situazione che si è creata dopo l’introduzione di fatto di questo strumento concettuale nell’ordinamento da parte della Cassazione. «La certezza delle regole - affermano i tre presidenti - assume un ruolo di assoluto rilievo», per il miglioramento dei rapporti tra contribuenti e fisco.
«Gli effetti degli accertamenti fiscali, - soggiunge il documento - sono pesanti e potrebbero rivelarsi devastanti. I bilanci delle imprese, colpiti per milioni (centinaia) di euro, soffrono: gli obiettivi di fuoriuscita dalla crisi economica diventano ancora più difficili da raggiungere».
Ma ancora più interessanti, per il giurista, sono le parti della lettera ove si soggiunge: «l’abuso del diritto viene interpretato dall’amministrazione finanziaria come parametro soggettivo circa l’applicabilità o meno, in fattispecie concrete, delle norme del diritto positivo».
Tuttavia, si legge ancora nella lettera, non è possibile sindacare le scelte degli imprenditori solo «perché non sono quelle più onerose in termini di imposte dovute». In questo caso, infatti, si minano «gravemente beni fondamentali quali la certezza del diritto, l’affidamento e la prevedibilità dell’operare di accertatori e giudici». In questo modo si raggiunge un grado di rischio fiscale superiore a quello fisiologicamente accettabile in un ordinamento avanzato e tale da «bloccare qualsiasi pianificazione fiscale». Senza contare che le contestazioni sull’abuso, si fa rilevare, riguardano comportamenti posti in essere quando nell’ordinamento nessuno neanche sospettava dell’esistenza di questo principio.
La tutela recata dallo Statuto del contribuente e l’inapplicabilità del principio generale antielusivo a fattispecie anteriori alla sua formale e recente esplicitazione (solo giurisprudenziale)
Proprio il riferimento alla certezza del diritto, all’affidamento e alla prevedibilità delle conseguenze dell’operazione mi induce a indulgere ancora sul tema e a svolgere qualche ulteriore considerazione.
La conclusione ricavabile dai trend giurisprudenziali sopra ricordati è una e una sola e cioè che, con riguardo alle imposte dirette, e in genere ai tributi non armonizzati, nessuno, fino alle sentenze delle sezioni unite della Corte di Cassazione del 2008, aveva posto a fondamento dell’asserito principio generale il canone della capacità contributiva.
Alla luce di questa premessa non ci sembra agevole attrarre, nella sua applicazione, fattispecie verificatesi anteriormente al 2008.
La legge 27 luglio 2000, n. 212, recante le disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente, contiene i principi generali dell’ordinamento tributario (art. 1, comma 1) e all’art. 3 statuisce che «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo».
A postulare la possibile applicazione del principio antielusivo a fattispecie anteriori alla sua formale esplicitazione ci si troverebbe, quindi, di fronte al contrasto tra un principio generale contrario alla retroattività delle disposizioni tributarie (a qualsiasi disposizione) e un principio generale (la clausola antielusione) che la giurisprudenza vorrebbe applicare anche a situazioni anteriori alla sua proclamazione.
Per la verità, il contrasto sarebbe anche più intrinseco ove si rammenti che il principio di capacità contributiva (non solo sarebbe la fonte dell’asserito principio antielusivo ma) è certamente il limite (il primo limite) individuato dalla dottrina e dalla giurisprudenza alle possibilità di legiferare con efficacia retroattiva in materia tributaria. Fu proprio la Corte costituzionale a sancire, quarant’anni fa, su sollecitazione della più sensibile dottrina, che se una legge tributaria retroattiva non comporta per se stessa la violazione del principio di capacità contributiva, cionondimeno «deve essere verificata di volta in volta, in relazione alla singola legge tributaria, se questa, con l’assumere a presupposto della prestazione un fatto o una situazione passata o con l’innovare, estendendo i suoi effetti al passato, gli elementi dai quali la prestazione trae i suoi caratteri essenziali, abbia spezzato il rapporto che deve sussistere tra imposizione e capacità contribuiva, e abbia così violato il precetto costituzionale» [nota 18].
Insomma, insegnava e insegna la Corte costituzionale proprio perché la capacità contribuiva deve essere effettiva, attuale, concreta [nota 19] una norma retroattiva può violare, anche se non necessariamente viola, l’art. 53 Cost. [nota 20]
Già alla luce di queste puntualizzazioni si colgono tutti i limiti dell’insegnamento giurisprudenziale perché un contribuente che volesse denunciare il possibile contrasto tra l’applicazione retroattiva del principio antielusivo, non sancito in una norma di legge, e il primo comma dell’art. 53 Cost. non saprebbe in concreto come articolare la denuncia.
Denuncerebbe un principio, ma formulato da chi e con quali parole? E su cosa verterebbe il giudizio della Corte Costituzionale e rientrerebbe esso (il principio) nel sindacato di costituzionalità previsto dall’art. 134 Cost.? E se così non fosse, potrebbe ammettersi che vige nell’ordinamento un principio che potrebbe ferire il principio di capacità contributiva, sancito dall’art. 53 Cost., ma non denunciabile alla Corte Costituzionale, perché non ricompreso nella locuzione «leggi e atti aventi forza di legge» di cui all’art. 134 Cost.?
Ipotesi che, al solo formularla, pone interrogativi tali che dovrebbero fare recedere dalla tesi secondo la quale esisterebbero principi generali, vaghi e ondivaghi, non consacrati da e non fondati su precise statuizioni normative.
Ma v’è di più, nel senso che, anche ad ammettere l’operatività nel nostro ordinamento tributario, di un principio antielusivo (dedotto dall’art. 53 Cost.) esso, nella sua applicazione retroattiva, si scontrerebbe con un altro principio generale (questo sì previsto da una legge, lo Statuto) per il quale le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo.
Chiara è la matrice del precetto statutario ove si ricordi che «l’irretroattività costituisce un principio generale del nostro ordinamento (art. 11 preleggi) che, se pur non elevato, fuori della materia penale, a dignità costituzionale (art. 25, comma 2 Cost.) rappresenta, pur sempre una regola essenziale del sistema, a cui, salva una effettiva causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini» [nota 21].
Costituendo l’irretroattività una regola essenziale del sistema (e non solo del sistema fiscale), la giurisprudenza del Supremo Collegio insegna che «proprio perché alle specifiche clausole rafforzative di autoqualificazione dello Statuto deve essere attribuito un preciso valore normativo e interpretativo» «ogni qualvolta una normativa fiscale sia suscettibile di una duplice interpretazione, una che ne comporti la retroattività e una che la escluda, l’interprete dovrà dare preferenza a questa seconda interpretazione come conforme ai criteri generali introdotti con lo Statuto del contribuente e attraverso di essi ai valori costituzionali intesi in senso ampio e interpretati direttamente dallo stesso legislatore attraverso lo Statuto» [nota 22].
Conclusione che trova ulteriore conferma in una ancora più lata e profonda lettura dello Statuto.
Proprio il Supremo Collegio ha ripetutamente sottolineato che «l’art. 3 dello Statuto del contribuente sul divieto di retroattività delle normative fiscali si inquadra all’interno di un principio più generale di correttezza e di buona fede cui devono essere improntati i rapporti tra amministrazione e contribuente e che trova espressione non solo nell’art. 10 che ha per oggetto la tutela dell’affidamento e della buona fede, ma anche in una serie di altre norme dello Statuto, vale a dire nell’art. 6 sulla conoscenza e la semplificazione degli atti, nell’art. 7 sulla chiarezza e motivazione degli atti stessi, nell’art. 5 sull’informazione e sulla trasparenza delle disposizioni tributarie» [nota 23].
L’esame complessivo di queste disposizioni, è ancora l’insegnamento del Supremo Collegio, chiarisce che la correttezza e la buona fede, nei confronti del contribuente, debbono essere osservate non solo dall’amministrazione finanziaria in fase applicativa, ma anche dallo stesso legislatore tributario all’atto della emanazione delle fonti normative, come emerge in particolare dall’art. 2 che detta i criteri di chiarezza e di trasparenza che debbono essere osservati nelle disposizioni tributarie e dello stesso art. 3 sul divieto di attribuire ad esse efficacia retroattiva [nota 24].
Quindi, sotto la vigenza dello Statuto del contribuente e dei principi generali da esso previsti e sanciti, «deve sempre essere privilegiata, ogni qual volta sia possibile, come lo è nel caso in esame, una interpretazione delle norme tributarie - anche se preesistenti (allo Statuto) e anche se da applicare a fattispecie verificatesi antecedentemente - che sia conforme ai principi di correttezza e di buona fede che debbono essere osservati reciprocamente da entrambe le parti nei rapporti tra fisco e contribuente» [nota 25].
Conclusione che trova conferma autorevole, ancora una volta, nell’insegnamento del giudice delle leggi. E invero questi, nel ribadire che «il divieto di irretroattività della legge costituisce fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento cui il legislatore deve, in linea di principio, attenersi» ha anche aggiunto: «Il legislatore ordinario può, quindi, nel rispetto di tale limite, emanare norme retroattive purché esse trovino adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti così da incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti» [nota 26].
Tra questi (e cioè tra gli interessi costituzionalmente garantiti), soggiunge la stessa Corte costituzionale, va annoverato «l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica che, quale essenziale elemento dello Stato di diritto, non può essere leso da disposizioni retroattive, le quali trasmodino in un regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti» [nota 27].
Le conclusioni operative anche ad ammetterne la vigenza
Orbene, se quelli esposti sono gli autorevoli, concordi insegnamenti della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, facile è trarre la conclusione, e cioè che l’applicazione retroattiva di un principio generale, formulato dalla giurisprudenza nel 2008, viola l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica.
Per decenni, infatti, era stato tenuto per fermo l’insegnamento che una clausola generale antielusiva nel nostro ordinamento non esisteva, e tale principio il Supremo collegio confermava ancora nel 2002.
Successivamente è emersa una indicazione che il principio antiabuso (o antielusione) era fondato su un principio generale comunitario, ma tale generale indicazione è stata subito ridimensionata nel senso che esso si applica ai tributi “armonizzati”.
Solo nel 2008 la comunità nazionale, gli operatori, gli studiosi, gli scrittori di manuali di diritto tributario hanno appreso che anche per i tributi non armonizzati v’è un generale divieto di elusione fondato sull’art. 53 Cost. che nessuno, salvo qualche isolato autore (subito sommerso da un mare di note critiche), aveva mai immaginato si potesse enucleare.
Il che ovviamente non significa che il progresso non possa essere affidato a pensatori solitari e alle conseguenti riflessioni, ma significa solo che “le invenzioni”, anche le migliori non possono trovare applicazione per il passato: la luce (elettrica) la si accende dopo la sua invenzione, non prima.
In conclusione, anche ad ammettere che un siffatto principio si evincerebbe dall’art. 53 Cost. e sopra si è visto quali e quante sono le difficoltà, esso può trovare applicazione per il futuro (successivamente al 2008, anno natale) e non per le fattispecie anteriori alla sua formulazione come era nel caso deciso dalla sentenza in rassegna che bene ha fatto a sorvolare.
[nota 1] Si veda G. MARONGIU, «L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del “diritto” e l’abuso del potere», in Dir. prat. trib., 2008, I, p. 1067 e ss.
[nota 2] In senso conforme si vedano Comm. trib. prov. di Milano, 19 novembre 2010, n. 388, in Il fisco, 2010, p. 7670 e ss., Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, 22 ottobre 2010, in Corr. trib., 2010, p. 3947 e ss. con nota di A. MARCHESELLI e Comm. trib. prov. di Treviso, 22 aprile 2009, n. 41, in Corr. trib., 2009, p. 2331 con commento di M. BEGHIN (p. 2325 e ss.).
[nota 3] Si veda D. SCANDIUZZI, «Sviste giurisprudenziali in tema di elusione nell’imposta di registro: il caso del conferimento di aziende ex art. 176 Tuir seguito dalla vendita delle partecipazioni», in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 553 e ss.
[nota 4] Ancora di recente il supremo Collegio, con le parole di un insegnamento tradizionale e consolidato, scrive che «ai sensi dell’art. 20 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, l’atto deve essere tassato in base alla sua intrinseca natura e agli effetti (ancorché non corrispondenti al titolo e alla forma apparente) da individuare attraverso l’interpretazione dei patti negoziali, secondo le regole generali di ermeneutica, con esclusione degli elementi desumibili aliunde» (così Cass., sez. trib., 16 febbraio 2010, n. 3571).
[nota 5] Si veda sulle problematiche procedimentali, M. PIERRO, «Abuso del diritto: profili procedimentali», in Giust. trib., 2009, p. 410 e ss.
[nota 6] Questa rivista si è occupata ampiamente e a più riprese dell’elusione con vari contributi dottrinali e quindi ricordiamo A. MARCHESELLI, «Equivoci e prospettive della elusione tributaria tra principi comunitari e principi nazionali», in Dir. prat. trib., 2010, I, p. 801 e ss.; E. PEDROTTI, «Il principio giurisprudenziale dell’abuso del diritto nell’imposizione diretta», ibidem, 2010, I, p. 597 e ss.; C. MELILLO, «Elusione e abuso del diritto tra ipotesi di interpretazione ed esigenze di certezza normativa», ibidem, 2010, I, p. 413 e ss. e A. CONTRINO, «Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali», ibidem, 2009, I, p. 463 e ss.; nonché G. MARONGIU, nel lavoro citato alla nota 1.
[nota 7] Così Cass. 3 aprile 2000, n. 3979; Cass. 3 settembre 2001, n. 11351; Cass. 9 maggio 2002, n. 6599.
[nota 8] Così Cass., sez. trib., 26 ottobre 2005, n. 20816 e Cass. 14 novembre 2005, n. 22932.
[nota 9] Si veda Cass., sez. trib., 26 febbraio 2010, n. 4737.
[nota 10] Si veda G. FALSITTA, «Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”», in Riv. dir. trib., 2010, II, p. 349 e ss.
[nota 11] Così Cass., sez. trib., 6 agosto 2008, n. 21170, in Boll. trib., 2009, p. 238.
[nota 12] Così Cass., sez. trib., 29 settembre 2006, n. 21221; Cass. 4 aprile 2008, n. 8772 e Cass. 21 aprile 2008, n. 10257 e altre dello stesso anno.
[nota 13] Così Cass., sez. trib., 19 maggio 2010, n. 12249, in Boll. trib., 2010, p. 1562.
[nota 14] Così Cass., S.U., 23 dicembre 2008, n. 30055, n. 30056 e n. 30057; si veda anche Cass., sez. trib. 25 maggio 2009, n. 12042, in Boll. trib., 2009, p. 1223.
[nota 15] Per una serrata critica alla tesi secondo cui il principio di capacità contributiva sarebbe direttamente applicabile nel rapporto tributario senza mediazione alcuna ad opera del legislatore ordinario si veda F. PEDROTTI, op. cit., spec. p. 611-621; a proposito di questo ultimo orientamento abbiamo scritto che se è vero che l’art. 53 Cost. impone l’obbligo di pagare i tributi in una visione solidaristica (ne è espressione la sancita progressività) è altrettanto innegabile che il dovere tributario sorge solo per effetto di quanto dispongono le leggi e il principio di capacità contributiva è previsto proprio per garantire i contribuenti a fronte delle scelte del legislatore (si veda G. MARONGIU, in Corr. trib., 2009).
[nota 16] Si veda M. BEGHIN, «L’abuso del diritto tra capacità contributiva e certezza dei rapporti Fisco-contribuente», in Corr. trib., 2009, p. 823 e ss.
[nota 17] Così Cass., sez. trib. 21 gennaio 2011, n. 1372.
[nota 18] Così Corte cost., 26 giugno 1964, n. 45.
[nota 19] Così Corte cost. 26 giugno 1965, n. 50.
[nota 20] Per una applicazione concreta con la conseguente dichiarazione di illegittimità costituzionale si veda Corte cost., 23 maggio 1966, n. 45.
[nota 21] Così Corte cost. 4 aprile 1990, n. 155.
[nota 22] Così Cass., sez. trib., 12 febbraio 2002, n. 17576.
[nota 23] Così Cass., sez. trib., 30 marzo 2001, n. 4760.
[nota 24] Così Cass., sez. trib., 14 aprile 2004, n. 7080.
[nota 25] Così Cass., sez. trib., 14 aprile 2004, n. 7080.
[nota 26] Così Corte cost. 13 ottobre 2000, n. 419.
[nota 27] Cosi Corte cost. 4 novembre 1999, n. 416.
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