Abuso del diritto e imposte indirette non armonizzate. Casi e questioni di interesse notarile
Abuso del diritto e imposte indirette non armonizzate. Casi e questioni di interesse notarile
di Giovanni Domenico Putortì
Notaio in Reggio Calabria
La posizione di sostanziale vantaggio di cui gode l'amministrazione finanziaria nei confronti del contribuente [nota 1], raggiunge il livello di guardia con la recente affermazione (forte di ben quattro sentenze della Cassazione a Sezioni unite) [nota 2] di un orientamento giurisprudenziale di matrice decisamente antielusiva.
Sembra dunque essere prevalsa la tesi favorevole all'esistenza, anzi alla "immanenza" [nota 3], nell'ordinamento tributario di una clausola generale tesa al contrasto del fenomeno elusivo, pur in assenza di indici normativi in tal senso.
La diversa scelta del nostro legislatore [nota 4], più volte confermata, non ha però impedito il sorgere del consueto quadro normativo disarmonico, l'accavallarsi di interventi a "macchia di leopardo", improbabili richiami tra norme disomogenee.
In tale contesto, come accade in assenza di norme positive, la giurisprudenza ha svolto la dovuta funzione suppletiva, solo di recente approdata in pronunzie di tipo forse eccessivamente creativo, alla luce della riserva di legge imposta dalla Costituzione in materia di tributi [nota 5].
Va in ogni caso rilevata, a fronte del mutamento d'indirizzo, una tendenziale, costante opera di "protezione" dell'interesse pubblico sotteso al sistema impositivo, che emerge nel richiamo al principio di equa ripartizione del carico fiscale, anch'esso di rilievo costituzionale [nota 6].
Tale tendenza appare anche nei recenti interventi della Suprema Corte riferibili alla questione antielusiva, culminati nelle tre ormai famose "sentenze gemelle" a Sezione unite del 23 dicembre 2008, in cui si arriva alla sostanziale affermazione della "atipicità" dei mezzi di contrasto all'elusione fiscale.
Nel legittimare l'esistenza della clausola generale antielusiva, nella propria recente impostazione la Corte affianca al citato argomento costituzionale, il concetto di "abuso del diritto", facendone strumento utile - quanto appunto atipico - a conferirle fondamento tecnico-giuridico, traducendone la supposta immanenza sul piano operativo.
Va anche precisato che l'ingresso nel nostro sistema tributario, per la massima via giurisprudenziale, del principio antielusivo fondato sull'abuso del contribuente, non rappresenta un'intuizione dei nostri giudici di legittimità.
La vicenda, infatti, è in gran parte ascrivibile ad alcune note pronunzie della Corte di giustizia dell'Unione europea [nota 7], cui è stata attribuita grande (forse eccessiva) rilevanza nelle sentenze cui si faceva riferimento. Pur trattandosi di decisioni molto importanti nella più generale questione elusiva, va ricordato che i principi affermati in ambito comunitario vincolano il diritto interno solo in ambito di cosiddette "imposte armonizzate".
Nel nostro sistema giuridico, a livello di teoria generale del diritto, il divieto di "abuso del diritto" è principio già conosciuto, storicamente fondato sul giudizio di riprovazione dell'ordinamento verso un esercizio, formalmente legittimo, ma in realtà distorto e sostanzialmente fraudolento, di un diritto (o di un potere giuridico) da parte del suo titolare allo scopo di ottenere un risultato antigiuridico [nota 8].
Un primo accenno alla figura del "contribuente" quale soggetto potenzialmente "a rischio", all'interno di un più ampio collegamento tra elusione, buona fede ed abuso del diritto, può forse scorgersi nella sentenza della Corte di Cassazione del 10 dicembre 2002, n. 17576, ove si afferma che i «doveri di buona fede e collaborazione, dal lato del contribuente, implicano il divieto di condotte sostanzialmente connotate da abuso dei diritti o tesi a eludere una giusta pretesa tributaria».
La successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità va considerata un dato ormai acquisito per l'operatore economico - giuridico, specie per il prevedibile effetto "a cascata" che le decisioni delle Sezioni unite sono in grado di produrre sul giudizio tributario e ancor prima sulla prassi fiscale operativa.
Tra l'altro, essendo già controversa la sua ricostruzione in soli termini generali, diviene arduo tentare una valida definizione del fenomeno elusivo nelle ipotesi in cui esso integri gli estremi dell'abuso del diritto.
Sulla scorta delle recenti decisioni della Suprema Corte, in soli termini descrittivi, può affermarsi che l'elusione integra gli estremi dell'abuso di diritto (e come tale si ritiene sanzionabile anche in difetto di norma ad hoc) ogni qual volta l'operazione economica del contribuente, formalmente rispettosa dell'ordinamento, sia sostanzialmente diretta ad aggirarlo, al fine di conseguire un indebito vantaggio fiscale.
In realtà la questione da risolvere non è tanto quella meramente descrittiva, quanto piuttosto quella attinente la ricerca teleologica degli elementi funzionali della fattispecie abusiva, cui si ricollega in particolare quella sulla natura e sui limiti dell'indagine tributaria tesa ad accertare lo scopo elusivo del contribuente.
Se potessimo ragionare in termini civilistici inquadreremmo la problematica in termini puramente "causali" dell'operazione, utilizzando conseguentemente i canoni interpretativi ormai condivisi in tema di causa concreta, funzione economico-individuale, ragione pratica dell'operazione. Con tale metodica ne vaglieremmo eventuali profili di illegalità, di illiceità o il sostanziale scopo fraudolento.
La giurisprudenza di legittimità, dapprima orientata verso l'utilizzo dei canoni civilistici anche in ambito tributario, ha successivamente assunto una posizione contraria all'interazione tra i due settori dell'ordinamento giuridico, i rispettivi principi, le regole proprie di ciascuno di essi.
La conseguenza è stata un'evoluzione del concetto di abuso del diritto e dei termini di riferimento dell'indagine antielusiva: in una prima ricostruzione, la rilevanza tributaria dell'abuso viene condizionata alla presenza di uno scopo fraudolento, esclusivamente teso alla elusione d'imposta. In una visione più recente (accolta anche sulla scorta delle sentenze della Corte Ue) si esclude ogni rilevanza del “consilium fraudis”, e si reputa sufficiente che lo scopo elusivo sia "essenziale" all'operazione e non più quindi "esclusivo".
Nelle pronunzie a Sezioni unite del 2008, la Corte si fa infine riferimento al concetto di "valide ragioni economiche", la cui assenza o anche mera accessorietà rispetto allo scopo elusivo, viene ritenuto decisivo indice della natura abusiva dell'operazione.
Questo ultimo [nota 9] concetto si mostra in qualche modo legato all'unico dato normativo presente nel sistema tributario interno e, allo stesso tempo, ritengo si presti ad una lettura più garantista per il contribuente [nota 10].
Anche con riguardo all'aspetto sanzionatorio la giurisprudenza sembra orientata verso un'applicazione generalizzata del rimedio disciplinato all'art. 37 bis secondo comma D.P.R. 600/73.
La forza invasiva e la particolarità di tale rimedio - consistente nel potere del fisco di dichiarare a sé non opponibile l'atto elusivo per sottoporre al maggior carico fiscale il supposto, diverso negozio realmente voluto dalle parti - porterebbero tuttavia a ritenerlo quale principio di stretta interpretazione e come tale, a rigore, di applicazione strettamente limitata ai settori d'imposta nei quali sia espressamente chiamato ad operare.
Quest'ultima disposizione, introdotta dall'art. 7 del D.lgs. 358/97, va considerata la prima [nota 11] (e sinora unica) norma dell'ordinamento tributario interno in qualche misura diretta a colpire il fenomeno elusivo in via generale, sebbene sia stata almeno in origine di applicazione limitata all'imposta sui redditi.
Il limite più rilevante della norma, dal punto di vista operativo, è quello legato alla necessaria ricorrenza delle operazioni, tipicamente societario-imprenditoriali, elencate nel terzo comma dello stesso art. 37-bis.
Nei successivi interventi in materia di contrasto all'elusione il legislatore ha progressivamente ampliato la portata dell'art. 37-bis del D.P.R. 600/73, estendendone l'operatività ad altri settori impositivi con la tecnica del mero richiamo, confermando in tal modo una scelta di fondo contraria ad una norma antielusiva realmente generale, estesa all'intero ordinamento tributario.
In primo luogo è intervenuto l'articolo 69 comma 7 della legge 21 novembre 2000 n. 342 [nota 12], che arriva addirittura ad ampliare l'area di operatività dell'art. 37-bis in materia di imposta di successioni e donazioni, svincolandola dalle condizioni e dai limiti del comma 3, che permangono solo con riferimento all'imposta sui redditi.
La disciplina viene poi integrata ulteriormente dall'art. 16 comma 3 della legge 383/2001, secondo il quale «le disposizioni antielusive di cui all'art. 69, comma 7, della legge 21 novembre 2000, n. 342, si applicano con riferimento alle imposte dovute in conseguenza dei trasferimenti a titolo di donazione o altra liberalità».
Mentre la prima novella intendeva colpire i meccanismi elusivi propri dell'imposta sulle successioni e sulle donazioni, quella più recente è rivolta all'elusione di qualsiasi tipo di imposta, pur essendo la sua applicazione condizionata alla ricorrenza di fattispecie: a) che contemplino una donazione; b) che tendano a evitare l'imposizione conseguente alla liberalità.
Il combinato delle due norme produce il risultato di poter sanzionare con l'articolo 37-bis tutti i comportamenti elusivi, cui consegua un risparmio di imposte (di qualsiasi natura) dovute in seguito all'atto di liberalità.
La mancata inclusione dell'imposta di registro nell'ambito di operatività dell'art. 37-bis del D.P.R. 600/73, è sembrata a quel punto avvalorare ulteriormente la tesi contraria all'esistenza di una clausola generale antielusiva, opponendosi in particolare alla presunta estensione del principio "antiabuso" a tale specifico settore tributario; o quantomeno alla sua applicazione negli ampi termini ipotizzati in qualche pronunzia o documento di prassi, precedenti la novella.
Va sottolineata, al proposito, la particolare applicazione dei principi antielusivi in materia di imposta di registro, consistente nel riconoscere all'amministrazione finanziaria il potere di riqualificare, riconducendola ad (ipotetica) unità, una fattispecie plurima, vale a dire costituita da più negozi separati dal punto di vista documentale, ciascuno di essi di per sé autonomamente imponibile, sulla base del presunto collegamento funzionale, ovviamente al fine di assoggettare tale unica operazione alla maggiore imposta.
Dunque ben oltre il contenuto documentale dell'atto sottoposto alla registrazione, limite fissato con chiarezza dal testo normativo [nota 13].
Come la più attenta dottrina notarile [nota 14] aveva messo in evidenza sulla scorta dell'interpretazione assolutamente prevalente della dottrina tributaria [nota 15], il divieto di interpretazione extratestuale dell'atto ai fini dell'applicazione dell'imposta di registro, appariva all'epoca invalicabile [nota 16].
A ciò si aggiungevano la natura e la particolare funzione dell'imposta, strutturata per colpire le manifestazioni indirette di capacità contributiva ed i trasferimenti di ricchezza una tantum, con irrilevanza di altri indici reddituali di periodo.
Su tale posizione sono rimaste attestate per lungo tempo la Suprema Corte e la giurisprudenza tributaria [nota 17].
A partire dai primi anni 2000, si è invece verificata un'inversione di rotta della giurisprudenza di legittimità che, all'interno della più ampia tendenza antielusiva già in atto, ha iniziato ad accogliere una lettura iperestensiva dell'art. 20 della legge di registro, ritenendo la norma applicabile anche alle ipotesi di collegamento negoziale.
Tale lettura conferisce legittimità alla già citata ricostruzione unitaria di una fattispecie imponibile, diversa ed ulteriore rispetto a quelle singolarmente contenute in più atti separatamente registrati, ciascuna di esse tuttavia perfetta ed autonomamente imponibile, utilizzando lo schema del collegamento negoziale all'espresso fine di applicare il maggior prelievo tributario [nota 18].
Anche in questa sede, neanche a dirlo, l'impostazione giurisprudenziale ha avuto quale approdo naturale il concetto di abuso del diritto, ritenuto operante in materia di imposta di registro all'effetto di rendere inopponibile all'amministrazione finanziaria il frazionamento di un'operazione economica sostanzialmente unitaria che l'intento elusivo del contribuente ha formalmente frazionato in più contesti documentali [nota 19].
Si arriva così all'ultimo intervento di matrice antielusiva del legislatore, che con il comma 24 dell’art. 35 del decreto legge n. 223 del 2006 (c.d. decreto Visco-Bersani), inserendo il nuovo articolo 53-bis, nel D.P.R. n. 131 del 1986 (Tur); arriva ad estendere i poteri di controllo e verifica previsti dagli artt. 31 e seguenti del D.P.R. 600/73 anche ai fini dell’imposta di registro, delle imposte ipotecarie e di quella catastale.
Se ad un'immediata lettura della novella è sembrata chiudersi ogni questione sul punto dell'applicabilità all'imposta di registro del principio generale antielusivo, ad una lettura ragionata la sua portata innovativa appare molto minore; certamente minore, ad esempio, di quella del precedente intervento sull'imposta di donazione.
Tale minore impatto, se non dal testo normativo [nota 20] nel quale è comunque assente un richiamo diretto all'art. 37-bis, può in primo luogo ricavarsi da una lettura "in negativo" dell'art. 53-bis del Tur, che appare riferirsi ai soli, specifici poteri di natura istruttoria, ora azionabili dall'amministrazione finanziaria anche ai fini dell'imposta di registro, con accessi ed ispezioni in luoghi "sensibili", anche al di fuori della sfera soggettiva del contribuente..
Non sarebbe invece coinvolta l'attività di accertamento antielusivo "puro",prevista dall'art. 37-bis, quale ad esempio va ritenuta quella tesa alla riqualificazione tramite collegamento teleologico tra più atti negoziali, autonomi e separatamente registrati.
Occorre riconoscere all'amministrazione finanziaria, nella vicenda legislativa in esame, il merito di aver tenuto un profilo prudenziale e la dovuta cautela nell'esaminare il richiamo alle norme del D.P.R. 600/73 in materia di registro.
In entrambe le circolari appositamente dedicate [nota 21] alla questione, l'Agenzia delle entrate avvalora infatti una lettura restrittiva della nuova disposizione, circoscrivendone l'effetto innovativo al solo profilo istruttorio [nota 22], ed escludendo qualsiasi riferimento testuale all'art. 37-bis ed a problematiche antielusive in generale [nota 23].
In ogni caso, anche ammettendo l'estensione del richiamo contenuto nell'art. 53-bis Tur alla disposizione antielusiva ex art. 37-bis, le conseguenze sarebbero di molto ridimensionate dall'essere, tale riferimento, necessariamente rivolto all'intero contenuto della norma oggetto di richiamo.
Ciò significa che l'attività di accertamento antielusivo ai fini dell'imposta di registro sarebbe esperibile solo in presenza delle fattispecie elencate al terzo comma dell'articolo 37-bis del D.P.R. 600/73 [nota 24].
Va comunque condivisa la considerazione secondo cui proprio la genericità del richiamo contenuto nell'articolo 53-bis agli articoli 31 e seguenti del D.P.R. 600/1973, lasciando indefinito il secondo termine dell'intervallo normativo, non esclude la possibilità di una futura, più libera interpretazione del richiamo [nota 25].
Allo stato, la sicura novità dell'art. 53-bis va individuata nel venir meno del limite strettamente "documentale", precedentemente imposto all'accertamento tributario ai fini dell'imposta di registro [nota 26].
Tale novità non autorizza tuttavia a ritenere abrogato anche l'ulteriore limite imposto dal Tur all'accertamento fiscale, legato alla valutazione dei soli effetti giuridici (eventualmente plurimi) scaturiti dall'atto autonomamente presentato all'ufficio per la registrazione. A condizione che lo stesso contenga un regolamento d'interessi perfetto e completo in tutti gli elementi rilevanti per l'imposizione.
Questo sintetico excursus normativo restituisce all'interprete, come si è già detto, il solito quadro normativo composito e frammentato [nota 27].
Peraltro, qualsiasi lettura delle norme vigenti si voglia dare, il rigido orientamento prevalso in giurisprudenza, e soprattutto l'utilizzo che potrà farne la prassi tributaria sono assolutamente in grado di condizionare le scelte sul piano pratico.
È chiaro, d'altronde, che l'affermata immanenza della clausola generale antielusiva, operante in ambito tributario in forza del divieto di “abuso del diritto”, equivale ad affermare l'esistenza di uno strumento "atipico", utile a colpire qualsiasi scelta "dubbia" del contribuente laddove non soccorrano specifiche disposizioni di legge,
Con buona pace di ogni riserva di legge sancita dalla Costituzione in materia fiscale.
Rimane inevaso, in riferimento a quest'ultima osservazione, l'interrogativo di fondo sulle ragioni che, in presenza di tale ipotetico principio generale antiabuso, portano il legislatore a continue integrazioni del tessuto normativo. Il risultato dal punto di vista dell'operatore giuridico è una defatigante opera di raccordo tra regole disomogenee che, in fin dei conti, potrebbe dimostrarsi inutile di fronte all'intervento formante della giurisprudenza antielusiva ed al conseguentemente riconoscimento all'amministrazione finanziaria di poteri di accertamento praticamente indefiniti [nota 28].
Se poi le implicazioni di tale situazione dovessero coinvolgere anche l'intero ambito dell'imposta di registro, in ottica notarile i termini della questione diverrebbero assai preoccupanti.
Se ci si pone in un'ottica prettamente notarile infatti, il pericolo dell'affermarsi di una costante prassi antielusiva anche in ambito di imposte indirette "non armonizzate" di tipo "documentale" (quali imposta di registro e di donazione), costituisce fonte di grave preoccupazione per la categoria.
In tale specifico ambito tributario, un esteso potere di accertamento antielusivo o antiabusivo come quello ipotizzato dall'attuale giurisprudenza diviene, in sostanza, uno strumento generale di controllo della contrattazione privata, anche e soprattutto di quella non imprenditoriale. In parole povere, qualsiasi compravendita immobiliare diventa atto "a rischio" elusivo, nonché potenziale contenitore di abusi del diritto [nota 29].
Se si considera che la prestazione notarile presuppone l'obbligo di redazione dell'atto e del suo adeguamento alla legge, le conseguenze appaiono dirompenti [nota 30].
Più in generale, in materia di tassazione del negozio di diritto privato, l'attribuzione agli uffici erariali di poteri di accertamento antielusivi esercitabili indipendentemente dalla natura dell'imposta ed indifferentemente per qualsiasi tipologia negoziale, rischia di generare criticità che vanno ben oltre la mera verifica fiscale e la penalizzazione del singolo contribuente. Tale accertamento coinvolge infatti, quasi "naturalmente", valutazioni patologiche dello schema negoziale adottato, fino alla stessa liceità dell'assetto di interessi raggiunto dalle parti, con conseguenze imprevedibili sulla validità civilistica dell'operazione.
Non può escludersi il rischio che un'indagine tesa all'emersione di un intento “esclusivamente” o “essenzialmente” abusivo del contribuente, pur formalmente condotta sul solo piano tributario in funzione antielusiva, si concluda con una valutazione del negozio in termini sostanzialmente causali, sino a rappresentare una sorta di giudizio anticipato nel merito di una simulazione, o nell'accertamento di una causa di nullità del contratto.
Va sottolineato che la questione non riveste interesse esclusivamente teorico, se si considera che l'accertamento dell'intento elusivo del contribuente, ancor più se attuato tramite un presunto abuso di diritti, presenta più o meno i contorni della frode alla legge, quando non addirittura - come ad esempio nell'ipotesi di scopo essenzialmente elusivo dei contraenti - gli estremi del difetto di causa.
Diventa evidente, su tali basi, la "debolezza" civilistica di un contratto soggetto ad imposta di registro, del quale poi l'ufficio "accerti" l'essenziale funzione elusiva per abuso del diritto e ne dichiari quindi l'inopponibilità a fisco.
Se lo scopo è essenzialmente elusivo ed i contraenti abusano del mezzo giuridico, difficilmente il contratto uscirà indenne da un giudizio civilistico di nullità, che qualsiasi terzo interessato avrà ottime ragioni di instaurare ed altrettante probabilità di vedere accolto.
Sempre che la nullità non venga rilevata direttamente nel giudizio tributario come pure, in passato, spesso si è verificato [nota 31].
Dall'anno 2006, invece, con l'adozione generalizzata del principio "antiabuso", dinanzi all'evidente criticità della possibile interazione tra inopponibilità fiscale e invalidità civilistica, la Suprema Corte ha mutato radicalmente prospettiva, affermando ripetutamente l'indipendenza e l'autonomia dei principi tributari rispetto a quelli di diritto civile.
Ciò, naturalmente, per farne discendere l'irrilevanza delle patologie fiscali nella valutazione della validità e dell'efficacia del negozio dal lato civilistico [nota 32].
Il principio, in realtà, sarebbe stato recepito testualmente nell'ordinamento, con l'entrata in vigore dello "Statuto del Contribuente [nota 33] ove (art. 10 comma 3) viene previsto che: «le violazioni di disposizioni di rilevo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto». Ciò nonostante la questione rimane ancora fortemente dibattuta [nota 34].
In questa sede può solo condividersi la diffusa sensazione circa una progressiva perdita di efficacia precettiva di molte disposizioni contenute nello Statuto, incapaci di reggere il confronto con principi condivisi e consolidati da tempo e con norme di contenuto più specifico e dunque più autorevole dei "desiderata" statutari.
Si osservi in questo senso come la norma statutaria in esame, diretta a "proteggere" la validità civilistica del negozio in caso di «violazioni di disposizioni» tributarie, poco si adatti a regolare il fenomeno elusivo in cui va esclusa, per definizione, la violazione di «disposizioni di rilievo esclusivamente tributario».
Non è forse un caso, allora, che tale norma non venga mai richiamata nelle sentenze della S.C. che affermano lo stesso principio in modo apodittico.
Va ancora evidenziata, l'incoerenza di fondo tra l'affermato principio dl indipendenza e autonomia dei due ordinamenti - tributario e civilistico - da un lato e, dall'altro, la ritenuta legittimità della riqualificazione negoziale ex art. 20 Tur estesa sino all'ipotesi del collegamento negoziale, che tuttavia costituisce eminente categoria civilistica [nota 35].
Il rapporto di autonomia tra i due ordinamenti costruito in termini di "compartimenti stagni" - una costante nell'attuale orientamento della Suprema Corte - presuppone l'assenza di qualsiasi condizionamento dei vizi di natura tributaria sull'integrità di ius civile di una determinata fattispecie.
Assenza di condizionamento che tuttavia non è assolutamente ravvisabile. È incontestabile la considerazione secondo cui l'accertamento del carattere elusivo, o addirittura abusivo, di un determinato meccanismo negoziale conduce i privati a ritenere non utilizzabile quel meccanismo nella propria autonomia contrattuale.
Il meccanismo, dunque, diviene sostanzialmente, vietato.
Sul piano strettamente operativo, con particolare riferimento all'imposta di registro, quale dato di fondo rimane la estrema difficoltà di tenere distinti e indipendenti gli aspetti tributari e gli effetti civilistici dell'indagine sull'intento elusivo e, ancor di più, dell'abuso del diritto.
Si tratta evidentemente di una situazione di massima allerta per lo svolgimento delle funzioni notarili.
Come è noto, la funzione di controllo (c.d. "filtro") di legalità attribuitagli dall'ordinamento obbliga il notaio a conformare la propria prestazione alle norme, ai principi giuridici, nonché all'interpretazione che di essi viene accolta in giurisprudenza, specie ove si tratti delle Sezioni unite della Corte di Cassazione.
Preso atto dell'attuale impostazione della giurisprudenza di legittimità, sarà inevitabile fare i conti con il principio "antiabuso".
Di certo tale circostanza non impedisce di evidenziare il percorso critico intrapreso dalla giurisprudenza nell'impostazione della questione elusiva, e di proseguire nel tentativo di delimitare l'ambito di operatività del principio antiabuso, avuto riguardo alla natura, alla funzione ed alle leggi regolatrici delle singole imposte, tenendo altresì presenti le diverse strutture negoziali "a rischio" elusivo, quali di volta in volta esaminata.
Il tentativo di delimitare i confini ed isolare gli elementi costitutivi della fattispecie “abusiva” in materia tributaria, va oltretutto necessariamente esperito se si vuol dare una risposta plausibile al quesito dell'odierno seminario.
Più si dilata il raggio d'azione dell'abuso del diritto, più si restringe il campo per un legittimo risparmio d'imposta, il cui diritto viene comunque riconosciuto al contribuente dalla stessa giurisprudenza di matrice antielusiva [nota 36].
Ma, se esiste, l'affermato diritto al risparmio d'imposta non può che essere definito come il diritto del contribuente a scegliere liberamente, fra più schemi utili ed alternativi, quello che gli consente di raggiungere il suo obiettivo con il minor costo tributario.
Si delinea così l'importanza, per l'operatore del diritto e per il notaio in particolare, di trovare una risposta soddisfacente all'interrogativo di fondo dell'odierno incontro.
Posta la liceità di un determinato risultato economico diverso dal mero vantaggio fiscale e date più soluzioni alternative al suo raggiungimento, in che limiti è oggi consentita l'opzione per quella fiscalmente meno onerosa?
Per il Notariato la questione va affrontata anche in funzione del proprio, legittimo interesse ad una precisa definizione dei contenuti "minimi" della prestazione; in altri termini all'individuazione dettagliata degli obblighi sottesi al mandato professionale.
Solo ove esista una sufficiente "riserva" per la libera programmazione fiscale, accerchiata tra evoluzione legislativa e integrazione giurisprudenziale, avrà ancora un senso parlare di dovere di "consulenza fiscale" in capo al notaio, individuato dalla stessa Suprema Corte nell'obbligo di proporre e consigliare al cliente la strada fiscalmente più "leggera" [nota 37].
A mio modesto avviso la sola strada percorribile in questa direzione conduce ad escludere il ricorso degli uffici tributari ad accertamenti di profilo teleologico che implichino una profonda e difficile indagine sull'intento, reale quanto inespresso, delle parti/contribuenti.
Ove invece l'analisi dell'amministrazione finanziaria, di natura chiaramente amministrativa e non giurisdizionale, si spinga sino all'accertamento di fenomeni patologici della causa negoziale, a prescindere dalla formale veste tributaria, essa assume tutti i caratteri di una valutazione di diritto sostanziale.
In sostanza, l'accertamento condotto ai fini dell'inopponibilità si estende sino a diventare un vero e proprio giudizio sull'invalidità o sulla simulazione negoziale.
Va anche detto, allo stato degli atti e della giurisprudenza, che una soluzione di tipo "garantista" come quella in esame appare percorribile nel solo ambito dell'imposta di registro, con riguardo esclusivo all'attività negoziale privata non riconducibile all'area d'impresa.
L'analisi su aspetti strettamente causali del negozio assoggetto ad imposta di registro può essere legittimamente condotta dall'ufficio solo nei ristretti limiti tracciati dagli articoli 20 e 21 del T.U., nella misura in cui serva a farne emergere gli effetti giuridici sostanziali.
Ritagliare uno spazio di sufficiente libertà all'autonomia privata nella scelta dei meccanismi negoziali, anche in funzione della convenienza fiscale, almeno in riferimento alle operazioni soggette ad imposta di registro, appare essenziale nello stesso interesse pubblico.
Il dato normativo, proprio con riferimento specifico all'attività notarile, sembra favorevole ad una soluzione di questo tipo, anche a seguito dell'introduzione generalizzata dell'obbligo di registrazione telematica degli atti ricevuti o autenticati dal notaio [nota 38].
Va poi aggiunto che una soluzione di questo tipo, non priverebbe in assoluto gli uffici tributari del potere d'iniziativa nel contrasto all'elusione (il sistema dell'imposta di registro non può certo ritenersi apriori estraneo al fenomeno), nè impedirebbe loro di farlo in forza del principio antiabuso. Tale potere d'iniziativa, tuttavia, sarebbe innanzitutto circoscritto al singolo negozio volta per volta presentato dal contribuente e, in secondo luogo, strettamente limitato agli effetti giuridici prodotti (secondo i soli principi civilistici), senza rilevanza alcuna degli effetti economici [nota 39].
Da altro punto di vista, in coerenza con il sistema nel suo complesso, deve essere riconosciuta all'amministrazione finanziaria piena legittimazione ad agire in giudizio per l'accertamento dell'inopponibilità, ma per altra via, cioè tramite azione di simulazione ovvero di accertamento della nullità del negozio per frode alla legge [nota 40].
Da un punto di vista più generale poi, oltre il ristretto ambito dell'imposta di registro, è auspicabile che l'attuale interpretazione iperestensiva della giurisprudenza e conseguentemente il ricorso sempre più frequente al principio "antiabuso" da parte dell'amministrazione finanziaria, siano ricondotti nell'alveo delineato dal sistema positivo vigente, limitando quanto più possibile l'utilizzo di presunti principi generali e clausole, immanenti quanto non scritte,
L'approccio dell'operatore giuridico al problema dell'immanenza della clausola generale antiabusiva potrebbe essere meno problematico qualora si giungesse ad una ricostruzione “in positivo” del fenomeno dell'elusione, se non in termini prefissati dalle norme, quantomeno ancorando il concetto di "abuso del diritto" all'analisi di elementi oggettivamente gravi e univoci in senso elusivo.
Sarebbe in questo senso meno penalizzante per il contribuente, un'evoluzione interpretativa che arrivasse a qualificarne in termini elusivi l'agire solo qualora il negozio, o la serie di negozi posti in essere, appaia indubitabilmente, unicamente (o anche essenzialmente) congegnata per evitare l'imposta, ovvero eroderne la base imponibile, ovvero ancor peggio per conseguirne il credito o infine accedere a un'agevolazione. Di guisa che quello stesso schema negoziale non sarebbe mai esistito senza la presenza di quella finalità, esclusiva o essenziale che lo caratterizza.
Appare eccessiva, a tale proposito, la grande rilevanza attribuita dai giudici nazionali all'ultima versione della Corte di giustizia, con la sostituzione del termine "essenziale" al precedente "esclusivo", nel definire lo scopo che connota l'operazione elusiva [nota 41].
Se si accetta tale impostazione diviene difficile qualificare in termini di elusione la semplice scelta di dar vita ad un tipo di operazione piuttosto che a un altro per raggiungere il proprio scopo economico, a patto naturalmente che tale scopo non consista proprio nel mancato pagamento di un'imposta o nel godimento di un'agevolazione.
Peraltro si è già detto che, in quest'ultima eventualità, il negozio posto in essere dovrà con tutta probabilità ritenersi nullo per difetto assoluto di causa o, a seconda dei casi, per illiceità della causa.
Vi è da chiedersi, in conclusione, come sia possibile accertare l'intento elusivo all'interno di un'operazione in assenza di un preventivo accertamento della simulazione, o dello scopo fraudolento.
Se l'intenzione elusiva delle parti è indipendente dalle evidenziate patologie negoziali, l'unico indice utile all'accertamento "atipico" di un abuso elusivo d'imposta resta il fatto di aver concluso l'affare secondo lo schema fiscalmente meno oneroso.
E se a questa soluzione dovesse davvero giungersi, allora la risposta al quesito sottostante al tema del nostro seminario non potrà che essere negativa.
Casi e questioni
1. In materia di imposta di registro, oltre ai casi già evidenziati nelle precedenti relazioni, si possono ipotizzare diverse fattispecie potenzialmente interessate da un'applicazione di tipo fondamentalista della clausola antiabuso enucleata dalla giurisprudenza in materia fiscale e poi sovente utilizzata dall'amministrazione finanziaria nel sostenere le proprie argomentazioni. Una piccola chiosa sul caso della cessione del 10% di un immobile prima dell'acquisto agevolato: la mia sensazione è che l'operazione denoti un'ingenuità di fondo nello schema contrattuale utilizzato, privo di ogni apparente logica anche di tipo empirico, che probabilmente ha penalizzato oltremisura le parti interessate.
Il consiglio più ovvio, pratico più che giuridico, è quello di evitare meccanismi negoziali che appaiano funzionalmente già di per sé dubbi, dunque difficilmente difendibili al solo vaglio civilistico.
2. Tale, ad esempio, non può considerarsi uno schema negoziale credo molto diffuso nella prassi notarile, che prevede il perfezionamento della donazione (o della vendita) della piena proprietà di un immobile abitativo, a seguito delle quali il donante (o il venditore) viene a trovarsi nelle condizioni di poter fruire dell'agevolazione “prima casa” ai fini del successivo acquisto di altra abitazione.
Vanno infatti considerate nella valutazione complessiva dell'operazione, le conseguenze economiche e giuridiche prodotte nella sfera giuridica patrimoniale del donante o del venditore dalla dismissione del diritto di proprietà immobiliare, che a mio parere mettono comunque in secondo piano la strumentalità dell'atto al successivo godimento dell'agevolazione.
In parole povere, non può considerarsi abuso del diritto a fini elusivi il godimento di un'agevolazione fiscale, se per ottenerla il contribuente deve subire una rilevante modificazione patrimoniale, quale quella determinata dalla cessione della proprietà su un immobile.
La stessa osservazione può valere anche in ordine alla fruizione del credito d'imposta per il riacquisto infrannuale della “prima casa” (art. 66 L. 342/2000), il cui sorgere è comunque sufficientemente legittimato dalla ritenuta validità dell'operazione sottostante. Trattandosi tuttavia di credito d'imposta, istituto di particolare rilevanza negli accertamenti tributari il cui indebito godimento è giudicato con specifico disfavore dalle norme fiscali, non mi sentirei di escludere del tutto la possibilità di accertamenti di tipo antielusivo, anche se probabilmente da circoscriversi a casi-limite o a macroscopiche elusioni.
3. Sempre in tema di imposta di registro, vi sono alcune situazioni in cui un potenziale “abuso del diritto” non è ipotizzabile in nuce, persino nell'ipotesi in cui fosse lampante l'essenzialità del risultato fiscale da conseguire.
Alludo in primo luogo alla pacifica neutralità dell'atto di rinunzia ai diritti, in generale. L'esempio classico è fornito dalla rinunzia al diritto di usufrutto, ma si possono ipotizzare anche i casi di rinunzia ad un termine o ad una condizione apposti ad un atto già perfezionato, seppur ancora inefficace.
Pur se orientati al conseguimento di un risparmio d'imposta di registro, si tratta di negozi che incidono su un assetto d'interessi predisposto a monte dal contribuente in piena autonomia, in merito ai cui effetti quest'ultimo mantiene un legittimo potere di controllo.
In ogni caso, l'eventuale accertamento di abuso elusivo da parte dell'ufficio assumerebbe i contorni dell'attività riservata al giudice ordinario, in quanto implicante una profonda indagine sul profilo teleologico-causale dell'operazione.
Della rinunzia all'eredità si avrà modo di parlare più avanti, esaminando un caso oggetto di apposita risoluzione da parte dell'Agenzia delle entrate in risposta ad uno specifico quesito pervenutole.
Altra fattispecie di frequente applicazione nella pratica notarile è quella in cui due coniugi, comproprietari in regime di comunione legale di un immobile abitativo (situazione che impedisce ad entrambi di godere dell'agevolazione “prima casa” nello stesso Comune), stipulando una semplice convenzione di scelta per il regime di separazione di beni vengono a trovarsi nelle condizioni di godere dell'aliquota agevolata, entrambi ed anche nello stesso Comune in cui è ubicato l'immobile in comproprietà.
Sembra di poter dire che in questa ipotesi parlare di abuso del diritto è del tutto fuori luogo, nonostante emerga con chiarezza l'esclusivo scopo fiscale che caratterizza la convenzione matrimoniale in oggetto.
In particolare, l'atto con il quale i coniugi concordano semplicemente di mutare il regime legale assoggettandosi a regime di separazione di beni, pur avendo natura e forma di convenzione matrimoniale, si caratterizza per il contenuto e gli stessi effetti, entrambi assolutamente predeterminati dall'ordinamento giuridico.
Tale circostanza porta a giudicare la validità e l'efficacia della convenzione in oggetto prescindendo da qualsiasi ulteriore valutazione che non sia legata alla cosciente volontà dei coniugi nel porre in essere l'atto di scelta. Al resto provvede la legge.
Pertanto, il profilo causale della fattispecie appare del tutto irrilevante, sia in ambito civilistico sia in ambito tributario, atteggiandosi sul modello degli actus legitimi, anch'essi da ritenere sottratti ad accertamenti di tipo antielusivo, come si vedrà anche in riferimento alla rinunzia all'eredità [nota 42].
Più in generale, in dottrina è praticamente unanime l'opinione secondo cui è l'intera categoria dei negozi di regolamentazione familiare (c.d. scelte family oriented) ad essere estranea alle problematiche elusive, trattandosi di fattispecie in cui l'attribuzione non è valutabile con criteri meramente economici.
Senza la possibilità di valutare appieno l'esistenza di "valide ragioni economiche", deve escludersi ragionevolmente qualsiasi indagine sull'esistenza di eventuali abusi del diritto.
Nel compimento di atti riconducibili all'area "familiare" (comprendente, oltre alle convenzioni in senso stretto, ad esempio donazioni, atti di natura divisionale, atti di destinazione patrimoniale) rilevano aspetti e valutazioni non solo patrimoniali, ma anche di ordine etico, morale, affettivo, senza certo escludere legittime ragioni di opportunità, e convenienza, anche di tipo fiscale.
4. È possibile, ancora, isolare ed osservare situazioni concrete in cui la convergenza degli interessi contrattuali verso il risultato economico finale può modularsi ab origine secondo una pluralità di schemi negoziali, alternativi quanto tra loro sostanzialmente fungibili, in cui la scelta per uno di essi piuttosto che per un altro può essere influenzata da variabili e contingenze che, seppure coinvolgenti l'aspetto fiscale, non sono mai oggettivamente riconducibili all'unico obbiettivo del mero risparmio d'imposta.
Anche una ricorrente prassi contrattuale o una tendenziale fungibilità fra più schemi negoziali alternativi, essendo circostanze che negano per definizione l'estemporaneità o la stravaganza del mezzo giuridico adottato rispetto al fine economico, costituiscono indici decisivi per escludere la ricorrenza di un abuso del diritto e la ricorrenza di scopi essenzialmente elusivi.
Si pensi, in questo senso, alla tradizionale operazione nella quale il proprietario trasferisce un'area edificabile ad un impresa, ottenendone in corrispettivo alcune delle unità immobiliari che l'acquirente realizzerà su detta area, assumendone il relativo obbligo.
Qui gli schemi negoziali utili, alternativamente, a raggiungere l'obbiettivo finale sono almeno tre: a) la permuta tra bene presente e beni futuri; b) la cessione di quota indivisa del suolo, con contestuale divisione del futuro fabbricato e collegato contratto di appalto, con compensazione dei rispettivi prezzi; c) la vendita del suolo con la riserva in capo al venditore delle aree corrispondenti alle future unità immobiliari, sempre in collegamento con l'appalto all'impresa e compensazione delle rispettive obbligazioni.
Pur essendo evidente il minor carico fiscale che presenta lo schema delineato sub c) e pur essendo la scelta in tal senso sovente dettata dal risparmio di imposte, le superiori considerazioni portano ad escludere un potenziale abuso del diritto che tra l'altro verrebbe ad operare, in modo a dir poco assurdo, rendendo inopponibile all'amministrazione finanziaria lo schema c) per sottoporre ad imposizione lo schema a), in quanto più conveniente per il fisco.
5. Si è verificato invece che l'amministrazione finanziaria abbia reputato indebitamente elusivo, in quanto integrante abuso del diritto, il conferimento di un bene immobile gravato da mutuo ipotecario in società di capitali, seguito dalla successiva cessione delle quote dal conferente agli altri soci, sul presupposto che l'operazione dissimulasse una semplice vendita del bene alla società, non stipulata direttamente dai contraenti in quanto soggetta ad una maggiore imposizione fiscale.
Il caso è stato specificamente affrontato nel già richiamato studio CNN a firma di Gaetano Petrelli, nel quale viene confutata con dovizia di motivazioni e fondamento la pretesa estensione dei poteri di accertamento dell'amministrazione finanziaria in materia di imposta di registro, giunti sino all'utilizzo di istituti teorici come il negozio indiretto ed il collegamento negoziale.
Nel rimandarsi a tale studio, va qui ricordata la decisiva considerazione dell'autore in merito alla rilevanza ed alla diversità degli effetti prodotti nella sfera giuridica soggettiva dei contraenti dall'utilizzo di uno schema contrattuale (ad esempio il conferimento e la cessione di quote) piuttosto che dell'altro (la cessione diretta del bene alla società).
Va comunque ribadita la legittimazione dell'amministrazione finanziaria ad esperire gli ordinari rimedi civilistici per tutelare le proprie ragioni; in queste ipotesi, sembra quanto mai necessario che il contenzioso sia condotto su un piano di parità con il contribuente.
Va inoltre sottolineato che, sempre in ipotesi di questo tipo, vi è una grande disponibilità di strumenti utili a colpire l'elusione o addirittura l'evasione, anche se con riferimento ad imposte diverse da quella di registro. Si pensi ad esempio all'accertamento delle plusvalenze generate dal trasferimento del cespite o delle stesse quote successivamente cedute, che potrebbero legittimamente colpire eventuali abusi elusivi, senza alcuna necessità di operare alquanto dubbie riqualificazioni ex art. 20 Tur.
6. Per terminare la carrellata in tema di imposta di registro, non ci si può esimere da un rapido accenno alla struttura del negozio a favore del terzo, caratterizzata da un lato dalla deviazione degli effetti economici della stipulazione verso un soggetto estraneo alle parti contrattuali (verso il quale si pone dunque l'ulteriore questione della responsabilità d'imposta) e dall'altro dalla riconosciuta “neutralità” della clausola dal punto di vista causale, che la rende adattabile a molteplici tipologie contrattuali.
In ambito civilistico il controllo di legittimità causale opera in duplice direzione con riferimento, cioè, sia al contratto concluso tra promittente e stipulante, sia alla specifica clausola di deviazione degli effetti economici verso il terzo, che deve fondarsi su un apprezzabile interesse, anche non patrimoniale, dello stipulante.
Se il contratto regge al controllo di legittimità causale di matrice civilistica e la deviazione degli effetti economici risponde ad un apprezzabile, meritevole interesse dello stipulante, anche in presenza del probabile risparmio d'imposta un principio di ragionevole coerenza interna all'intero sistema normativo imporrebbe di escludere un potere di accertamento anti elusivo teso, ad esempio, all'imposizione del duplice trasferimento promittente - stipulante e stipulante - terzo.
Per quanto ampia sia la portata da riconoscersi alla clausola fiscale antielusiva, credo sia impossibile arrivare ad attribuirle assoluta preminenza rispetto ad altri principi generali, peraltro ben più affermati ed universalmente accolti, quali possono considerarsi il potere di libera autonomia contrattuale e il valore positivo che riveste per l'intero ordinamento il criterio di economia dei mezzi giuridici.
La supposta indipendenza dei principi tributari da quelli civilistici e delle rispettive patologie, d'altronde, dovrà pure trovare un limite superiore di sistema. In questo senso ritengo che il limite sia nell'inammissibilità del condizionamento dei primi sui secondi. In parole povere, la scelta di autonomia privata verso un determinato strumento negoziale non può essere compromessa dalla minaccia di una patologia fiscale che rischi di comprometterne l'effetto giuridico-economico.
Sempre che, nel nostro caso, non si accerti che lo scopo essenziale che ha portato all'utilizzo della clausola ex 1411 c.c. sia stata l'elusione di un passaggio fiscale.
Se ad esempio un trasferimento immobiliare viene concluso con attribuzione del bene ad un terzo apparentemente favorito, ma in realtà sub-acquirente a titolo oneroso, al solo scopo di eludere il doppio passaggio di proprietà, non può escludersi la rilevanza fiscale di un abuso del diritto in senso elusivo.
Si ritiene pertanto fondamentale dal punto di vista notarile che nel contesto letterale dell'atto venga dato ampio risalto alla c.d. expressio causae, oltre che con riguardo al rapporto di valuta tra promittente e stipulante, anche a quello di provvista tra stipulante e terzo favorito.
7. In ordine alle fattispecie negoziali attratte nell'orbita dell'imposta sulle successioni e sulle donazioni, si evidenzia ictu oculi una vasta area di interazione e contiguità con l'imposta di registro.
Ovviamente il riferimento è diretto in primo luogo alle fattispecie donative, di matrice contrattuale.
Dal punto di vista normativo tale interazione si manifesta evidentemente con la condivisione dei principi generali e delle norme compatibili dettate dal D.P.R. 131/86.
A fronte della potenziale semplificazione derivante dalla unicità di principi e regole tra i due settori d'imposta, si è già esaminata la criticità derivante dalle divergenze esistenti nella rispettiva disciplina dei controlli e delle verifiche, anche di tipo antielusivo.
L'attuale impianto normativo, infatti, in materia di imposta sulle donazioni attribuisce all'amministrazione finanziaria poteri di accertamento molto più ampi di quelli previsti per l'imposta di registro e per qualunque altra imposta.
Nell'interesse generale alla tutela del traffico giuridico e dell'affidamento degli operatori sarebbe fortemente auspicabile, in questo particolare ambito impositivo, l'utilizzo del già evidenziato criterio che, nell'accertamento di potenziali elusioni o abusi del contribuente, impone di valutare in termini di oggettiva “esclusività/essenzialità” la ricorrenza dell'intento elusivo, colpendolo solo quando esso arrivi ad integrare al tempo stesso la funzione economica del negozio e la ragione pratica dell'operazione.
Una volta però che tale valutazione oggettiva abbia restituito esito negativo, lo stesso criterio impone di escludere un accertamento tributario che, forte dell'abuso del diritto, invada le competenze del giudice naturale.
Dovrà pertanto escludersi, in mancanza di oggettivi indici di essenziale elusività dell'operazione, integranti abuso del diritto (e riservando un minimo spazio vitale alla presunzione di buona fede) un'attività di accertamento tesa a penalizzare il legittimo interesse del contribuente alla scelta del mezzo giuridico più idoneo al raggiungimento del proprio, lecito, programmato obiettivo.
Va qui sottolineata con particolare rilievo che, nella valutazione della esclusività o della essenzialità dell'intento elusivo, deve escludersene la ricorrenza ogni qual volta il contribuente abbia optato per un determinato strumento negoziale, anche per la sua convenienza fiscale.
Era già stato evidenziato, in questo senso, come al giudizio di abuso si possa arrivare solo in presenza di una scelta del contribuente orientata essenzialmente o esclusivamente al risparmio d'imposta, senza il quale il negozio non avrebbe avuto modo di esistere [nota 43].
Ciò va detto anche per l'esigenza di richiamare l'attenzione degli “addetti ai lavori” sui già paventati effetti negativi che nel medio periodo appaiono molto probabili, ove si arrivasse alla sostanziale scomparsa del diritto al risparmio d'imposta ed alla c.d. “programmazione fiscale”.
Nello specifico ambito delle imposte indirette “documentali” (registro e donazioni) questo aspetto va rilevato con ancora maggior cura, dal momento che in questo settore dell'ordinamento tributario non si tratta tanto di verificare se il contribuente ha posto in essere un'operazione elusiva in luogo di quella tipicamente prevista per lo scopo; qui si tratta piuttosto di comprendere che, negando il diritto di operare con lo strumento fiscalmente meno oneroso ed imponendo il mezzo giuridico più conveniente per l'erario, il contribuente con tutta probabilità non porrà in essere alcuna operazione economica.
Diversi sono gli schemi negoziali che operano, apparentemente, sull'ipotetico confine che separa l'abuso elusivo da un lecito risparmio d'imposta, sempre che un tale confine possa quantomeno ipotizzarsi.
a) La precedente donazione di denaro, ovvero la donazione indiretta mediante adempimento del terzo, in luogo dell'acquisto e della successiva donazione dell'immobile;
b) La rinunzia all'eredità effettuata per far operare la rappresentazione in favore dei discendenti, evitando in tal modo il doppio passaggio;
c) la rinunzia all'eredità nella successione legittima, effettuata da tutti i chiamati in concorso per far ottenere l'intero asse ad uno solo di essi;
d) la conferma di disposizioni testamentarie nulle che evita la comunione ereditaria e la successiva divisione;
e) l'acquiescenza a testamento divisionale che pretermette un legittimario o non apporziona uno degli eredi, in modo da evitare anche qui la comunione ereditaria.
8. Vi è poi una fattispecie che forse più di altre mette in risalto la debolezza di una costruzione teorico-giuridica tesa ad estremizzare la portata dei principi anti elusivi in materia di imposte indirette non comunitarie, tesi a sottrarre all'autonomia privata ed al libero traffico giuridico, anche il più semplice meccanismo decisionale del contribuente.
Si fa riferimento all'ipotesi di comunissima ricorrenza, la c.d. divisio inter liberos, nella quale uno o entrambi i genitori intendono ripartire, in vita, il patrimonio immobiliare della famiglia fra più figli, destinando rispettivamente, a ciascuno di essi la proprietà esclusiva di singoli e distinti cespiti, evitandosene fra l'altro la caduta in successione.
Due, almeno, le strade percorribili:
a) un atto che contenga una serie di separate ed autonome donazioni, il cui numero ed il cui relativo carico fiscale sarà determinato dalla rispettiva appartenenza dei beni a ciascun donante in relazione alla loro destinazione all'uno o all'altro dei due o più figli. In pratica, il numero delle donazioni da perfezionare è determinabile secondo lo schema dell'unità negoziale autonoma, previsto dalla attuale normativa sulla pubblicità immobiliare.
b) un singolo atto (o più atti, sempre secondo l'appartenenza dei beni a ciascun donante) di donazione, in comune e pro indiviso in favore di tutti i figli, avente ad oggetto l'intero compendio immobiliare di famiglia, seguito da un unico atto di divisione consensuale che apporzioni i singoli donatari secondo la ripartizione prefissata ab origine.
Quid iuris nel caso che la famigliola si rechi dal Notaio Romolo Romani e, una volta da questi edotta sulle varie opzioni percorribili, gli richieda di stipulare l'atto fiscalmente meno oneroso?
Le domande sono anche qui almeno due:
a1) Opera correttamente il Notaio che, dinanzi all'intento empirico manifestato dalle parti (il cittadino medio sarà indirizzato verso una pluralità di donazioni, piuttosto che per lo schema b), suggerisce anche la via alternativa (donazione + divisione), tra l'altro meno onerosa?
a2) Opera correttamente il notaio che, illustrate le varie opzioni, accoglie la richiesta delle parti e riceve l'atto meno oneroso?
La risposta positiva sembra scontata eppure, facendo astratta applicazione della teoria dell'abuso elusivo, di fronte al condizionamento che l'aspetto fiscale spiega sulla decisione dei contribuenti, qualche dubbio può sorgere.
Correggendo l'impostazione e valutando la fattispecie con un criterio oggettivo, in effetti la risposta è affermativa, il notaio può suggerire, consigliare ed accogliere la richiesta delle parti.
La funzione economica essenziale dell'atto non è il conseguimento di un risparmio fiscale; inoltre si tratta di un atto la cui configurazione schematica è assolutamente ragionevole ed appropriata in relazione all'obbiettivo del contribuente. Si tratta oltretutto, nel caso della divisione, di atto che i figli, una volta divenuti eredi, avrebbero comunque dovuto stipulare, ove non vi fosse stata l'attribuzione inter vivos.
9. Con riguardo specifico alle fattispecie successorie ed alla corrispondente disciplina fiscale, per quanto scontata la conclusione potesse sembrare, di fronte alla delineata impostazione della questione antielusiva credo vada accolta con un certo sollievo l'affermata sottrazione a qualsiasi potere di indagine tributaria della volontà manifestata in vita dal de cuius, tanto se riferibile a strutture negoziali tra vivi quanto se espressa in forma testamentaria. In questa unica, possibile direzione vanno le pronunzie e gli interventi della prassi tributaria.
Vanno dunque considerati estranei alla problematica antielusiva i diversi, possibili riflessi tributari della fattispecie successoria, che siano in qualche modo legati alla volontà negoziale, non solo testamentaria, espressa in vita dal defunto.
Indipendentemente da qualsiasi eventuale risparmio d'imposta conseguito; addirittura a prescindere, dall'eventuale riferimento testuale che il de cuius abbia rivolto al risparmio d'imposta.
Il caso più evidente è forse la divisione del testatore, che esclude il successivo carico tributario della divisione consensuale o giudiziale dell'eredità.
Stesso discorso naturalmente per il legato di usufrutto e nuda proprietà, per la costituzione di Onlus testamentaria, per il riconoscimento di debito o il legato a favore del creditore e così via di seguito.
L'irrilevanza elusiva delle fattispecie di interposizione testamentaria doveva già considerarsi acquisita e indiscutibile dinanzi all'univoco e imperativo precetto contenuto all'articolo 627 del codice civile; nonostante qualsiasi preteso disallineamento tra i principi civilistici e quelli fiscali.
Vanno ancora, a fortiori, escluse da ogni possibile rilevanza elusiva le manifestazioni di volontà non negoziale, ovvero quelle caratterizzate da un pregnante contenuto personale, che va oltre il solo effetto patrimoniale dispositivo-attributivo, o comunque economico.
In tal senso sono del tutto fuori dal raggio d'azione dell'abuso del diritto ipotesi come le dichiarazioni di scienza, gli atti giuridici in senso stretto, i negozi di tipo familiare (ad esempio la costituzione di fondo patrimoniale per testamento), i titoli di credito, le promesse unilaterali, sino ad arrivare al riconoscimento di figlio naturale ed alla stessa adozione, a prescindere dal vantaggio fiscale che ne consegua.
Si pensi, ad esempio, al de cuius non coniugato, senza figli legittimi o naturali la cui successione sia soggetta all'evidente minor carico tributario per effetto dell'adozione legittimante effettuata nei confronti di uno o più successibili.
10. Per chiudere la carrellata sulle fattispecie di natura successoria e, con essa, il presente intervento, va esaminato brevemente un caso, oggetto di recente risoluzione da parte dell'Agenzia delle entrate [nota 44], su impulso proveniente da un atto di interpello del contribuente.
Si tratta di un caso riguardante l'istituto della trasmissione della delazione ereditaria, disciplinato dall'art. 479 del codice civile.
Ritengo il caso esemplificativo degli effetti, "perversi" che la linea argomentativa della Suprema Corte è in grado di generare sul modus operandi degli uffici finanziari.
La problematica concerne l'individuazione del carico tributario dal punto di vista soggettivo - ma anche oggettivo come si vedrà - dipendente dalla morte di un chiamato ad una successione già aperta, senza che questi abbia accettato o comunque acquistato il titolo di erede.
Al quesito posto dal contribuente, nella sua posizione di unico chiamato tanto all'eredità del primo de cuius quanto a quella del trasmittente, in merito alla possibilità di presentare un'unica dichiarazione - relativamente alla sola prima successione - e dunque di corrispondere l'imposta solo per il primo (ed unico come si vedrà) trasferimento di beni e diritti mortis causa, l'amministrazione finanziaria ribadisce la soluzione negativa, ritenendo sussistenti gli obblighi tributari per entrambe le vicende ereditarie.
Per quanto preceduta da altri interventi della prassi ed addirittura della stessa giurisprudenza di legittimità [nota 45] sulla medesima questione attinente il rilievo tributario dell'articolo 479 c.c., la soluzione adottata pare del tutto insostenibile e giuridicamente errata, anche in considerazione del particolare atteggiarsi del caso concreto.
Illuminante, in senso negativo, appare ancor di più la risposta dell'amministrazione finanziaria alla seconda parte del quesito presentato dal contribuente che, sul paventato presupposto di una risposta negativa sul primo punto, aveva ipotizzato una rinunzia alla prima eredità, addirittura non a proprio nome, ma “in nome e per conto” (sic) del trasmittente, onde poter comunque acquisire in accrescimento e per intero la prima eredità, in difetto di rappresentazione.
L'insipienza tecnico-giuridica della risoluzione in esame e prima ancora, occorre dirlo, dell'interpello si manifesta proprio nella soluzione negativa fornita anche in ordine a questo interrogativo.
Sull'immaginario presupposto della configurabilità giuridica di tale rinunzia all'eredità del primo de cuius da parte del trasmissario "in nome e per conto" del trasmittente, l'amministrazione finanziaria arriva a teorizzarne l'inopponibilità all'erario in quanto integrante abuso del diritto in funzione elusiva.
Prescindendo dunque dalla specifica questione dell'intento elusivo di una rinunzia “in nome e per conto” che, per quanto ne sappiamo sarebbe con tutta probabilità giuridicamente inesistente oltre che potenzialmente lesiva del divieto di accettazione parziale dell'unica delazione conseguente all'unicità del soggetto chiamato, è in primo luogo da ribadire l'estraneità di ogni indagine teleologico-funzionale delle fattispecie negoziali rientranti nella categoria generale dei cosiddetti actus legitimi.
Più in generale, laddove il profilo volontaristico dell'agente è limitato ab imis alla semplice, cosciente dichiarazione (in senso positivo o negativo), di esercizio o meno di un potere o di una facoltà (accettazione, adesione, rinunzia, rifiuto), cui l'ordinamento riconduce e predetermina sia contenuto che effetti, deve escludersi la rilevanza di ulteriori aspetti economico-funzionali che quella volontà hanno contribuito a determinare.
E questo limite non può certo valere solo per l'ordinamento civile. Non si vede, in definitiva, come la rilevanza delle sole patologie che viziano la dichiarazione di volontà negli actus legitimi possa ritenersi un limite operante nel solo ordinamento civile, onde giungere al riconoscimento di un ben più ampio potere di valutazione dell'intento funzionale ed economico dell'agente in ambito tributario.
Ritengo pertanto che la dichiarazione di rinunzia all'eredità sia negozio del tutto svincolato dal profilo causale nell'ambito dell'intero ordinamento giuridico,
Anche dall'unico punto di vista giuridicamente apprezzabile dal quale può esaminarsi il caso (pur non strettamente attinente l'odierna problematica), e cioè il supposto obbligo di duplice dichiarazione per il chiamato iure trasmissionis, la risoluzione appare priva di basi giuridiche condivisibili.
È certamente corretta, se si guarda alla lettera della legge, l'affermazione secondo cui i presupposti impositivi in materia successoria si discostano dalle regole civilistiche.
Ma è affermazione che vale solo con riferimento all'elemento soggettivo dell'imposizione, vale a dire all'individuazione del soggetto obbligato alla dichiarazione ed al successivo pagamento dell'imposta, che nel Tus viene individuato nel chiamato all'eredità che non abbia rinunziato o non abbia chiesto la nominato del curatore dell'eredità giacente nei termini di legge (un anno, coincidente con il termine di presentazione della denunzia).
Dal punto di vista oggettivo, viceversa, lo stesso testo unico (D.P.R. 346/90) stabilisce il presupposto impositivo nel «trasferimento di beni e diritti per causa di morte».
Orbene, la risoluzione non coglie nel segno da ambedue i punti di vista.
Dal primo punto di vista, in quanto deve considerarsi “soggetto obbligato” solo il chiamato che abbia ancora la possibilità di accettare l'eredità, non colui che tale facoltà abbia perduto a seguito di rinunzia o, nel nostro caso, di morte.
Al limite, ma rimangono diversi argomenti contrari, potrebbe considerarsi definitivamente sorto l'obbligo tributario solo per il chiamato che sia a sua volta deceduto, dopo però che sia trascorso l'anno dall'apertura della prima successione, analogamente a quanto previsto dalla legge per la rinunzia. Se il debito tributario si consolida definitivamente sul primo chiamato potrebbe anche ammettersi la sua trasmissibilità, in uno con la trasmessa delazione.
Ma nel caso di specie il primo chiamato era deceduto dopo nemmeno due mesi dall'apertura della successione dell'originario de cuius, dunque con la morte dell'obbligato era già venuto l'obbligo di dichiarazione e di pagamento dell'imposta.
Ma è dal punto di vista oggettivo che il ragionamento dell'amministrazione finanziaria non convince, ed il discorso vale con riferimento a tutte le ipotesi di trasmissione della delazione, trattandosi di istituto sotteso al mancato acquisto dell'asse ereditario, con conseguente impossibilità di trasferire ulteriormente alcun bene o diritto.
Analogamente alla rappresentazione ed alla sostituzione, ed a differenza dell'accrescimento, la trasmissione della delazione ex articolo 479 c.c. opera solo ed esclusivamente sul presupposto che il primo chiamato non abbia acquistato l'eredità.
Se l'imposta in questione ha il suo presupposto nel trasferimento di beni o diritti per causa di morte, allora il chiamato che decede senza aver acquistato l'eredità non può trasmettere alcun bene o diritto in senso giuridico patrimoniale, tale non essendo il diritto di accettare l'eredità che concerne la sola posizione soggettiva, il solo potere di accettare e divenire erede.
Nessun trasferimento, nessun obbligo, nessuna imposta.
Del resto nessuno dubita sull'unicità di dichiarazione nei casi di rappresentazione o di sostituzione, in cui a prescindere dalla natura della delazione, si ha il subentrare di un chiamato al precedente che non può o non vuole accettare.
Da un punto di vista tecnico giuridico, a smontare definitivamente l'improbabile ricostruzione dell'ufficio in merito all'obbligo di una duplice dichiarazione (e naturalmente di pagamento dell'imposta) vi è infine la considerazione, praticamente unanime in dottrina, nel sostenere l'unicità della delazione ereditaria per il chiamato all'eredità che divenga destinatario, ad ulteriore titolo, della delazione alla stessa eredità,
Ciò equivale a dire che nonostante la pluralità di titoli, quando coincidono i soggetti della vicenda ereditaria, la delazione deve considerarsi unica ed indivisibile.
Il chiamato iure proprio, che lo divenga successivamente anche iure trasmissionis, sarà sempre e comunque erede dell'originario de cuius.
Il fatto che accettando l'eredità contenuta si divenga eredi anche del trasmittente, implica esclusivamente l'obbligo di dichiarare l'ulteriore successione ma solo con riguardo ai beni e diritti presenti nell'eredità contenente, sempre che ve ne siano.
[nota 1] Nonostante il principio di tendenziale eguaglianza che pervade lo "Statuto del contribuente".
[nota 2] Trattasi delle recenti pronunzie n. 30055, n. 30056 n. 30057 del 23 dicembre 2008 e n. 15029 del 26 giugno 2009).
[nota 3] Il sostantivo è utilizzato praticamente in tutte le pronunzie della giurisprudenza di legittimità e di quella tributaria per rafforzare, in senso quasi definitivo e irretrattabile. ll concetto più semplice e di lessicalmente comprensibile di "esistenza" riferito alla presunta clausola generale antielusiva vigente, secondo questo orientamento, anche in ambito tributario.
[nota 4] È un dato di fatto incontrovertibile che, ad oggi, nel nostro ordinamento tributario non esiste una norma espressa antielusiva di carattere generale; Neppure l'ultimo intervento del 2006 ad opera del decreto Visco-Bersani, dunque in un contesto decisamente orientato al recupero di gettito fiscale, si è ritenuto di introdurre una norma generale antielusiva optando per l'ennesimo richiamo all'art. 37-bis del D.P.R. 600/1973, più oltre esaminato. Eppure tale clausola generale è diffusa negli ordinamenti tributari dei maggiori Stati dell'Unione, sia di diritto anglosassone (Regno Unito), che di genesi romanistica (Francia, Germania), naturalmente con sostanziali differenze nella relativa disciplina.
[nota 5] Vedi art. 23 Cost.
[nota 6] Il riferimento è ai principi di capacità contributiva e progressività d'imposta di cui all'art. 53 della Costituzione.
[nota 7] Sopra tutte l'ormai famosa sentenza Halifax della Corte di giustizia C-255/02 del 21 febbraio 2006.
[nota 8] Al principio in esame la giurisprudenza di merito e legittimità ha fatto ampio ricorso nell'esame di fattispecie appartenenti a diverse aree del nostro ordinamento giuridico, in particolare nell'analisi dei fenomeni patologici nella buona fede contrattuale, nel rapporto di lavoro subordinato, nelle decisioni assembleari di società, nel comportamento processuale delle parti, sino all'ingresso in pianta stabile anche nel campo tributario.
[nota 9] Il concetto di "valide ragioni economiche" è espresso nell'art. 37-bis del D.P.R. 600/1973.
[nota 10] Per evitare il rischio di "abuso" elusivo dell'operazione sarebbe infatti sufficiente la sola presenza di una qualsiasi ragione economica, purchè ulteriore rispetto al mero vantaggio fiscale oltre che, naturalmente, valida.
[nota 11] Non potendosi considerare tali i precedenti legislativi, costituiti dall'art. 10, comma 1, della legge n. 408 del 29 dicembre 1990 («È consentito all’amministrazione finanziaria disconoscere ai fini fiscali la parte di costo delle partecipazioni sociali sostenuto e comunque i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di fusione, concentrazione, trasformazione, scorporo e riduzione di capitale poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta»), e dalle successive modifiche operate per mezzo dell’art. 28 della legge n. 724 del 23 dicembre 1994 e dall’art. 3 della legge n. 662 del 23 dicembre 1996 («È consentito all’amministrazione finanziaria disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di concentrazione, trasformazione, scorporo, cessione di azienda, riduzione di capitale, liquidazione, valutazione di partecipazioni, cessioni di crediti o cessione o valutazione di valori mobiliari poste in essere senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta»);
[nota 12] In base al quale «Le disposizioni antielusive di cui all' articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, si applicano, ad esclusione delle condizioni contenute nel comma 3 del medesimo articolo, anche con riferimento all'imposta sulle successioni e donazioni».
[nota 13] Il riferimento, naturalmente, è all'art. 20 del D.P.R. 131/86 (T.U. in materia di imposta di registro) che impone all'ufficio una valutazione limitata ai soli effetti "intrinseci" dell'atto presentato per l'imposizione. Detta norma va letta obbligatoriamente in combinato con la successiva, che contiene le regole d'imposizione dei documenti plurinegoziali.
[nota 14] Il riferimento è al pregevole studio del CNN n. 95/2003/T, approvato dalla commissione studi tributari il 26 marzo 2004, «Imposta di registro - Elusione Fiscale - Interpretazione e riqualificazione degli atti», a firma di G. PETRELLI.
[nota 15] Tra molti, vedi F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, II, Torino, 1998, p. 248 e ss.; A. FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 1998, p. 786 e ss.; G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Milano, 1997, p. 486 e ss.; P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano 1996, p. 726; L. RASTELLO, Il tributo di registro, Roma 1955, p. 282 e ss.; V. UCKMAR, La legge del registro, I, Padova, 1958, p. 197 e ss.; A. BERLIRI, Le leggi di registro, Milano, 1961, p. 137 e ss.; G. DONNAMARIA, L’imposta di registro nel testo unico, Milano, 1987, p. 50; V. UCKMAR - F. DOMINICI, voce Registro (imposta di), in Nov. Dig. it., Appendice, VI, Torino, 1986, p. 553; B. SANTAMARIA, voce Registro (imposte di), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, p. 545; A. URICCHIO, Commento all’art. 20 T.U., in N. D’AMATI, La nuova disciplina dell’imposta di registro, Torino, 1989, p. 180; FERRARI, voce Registro (imposta di), in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991, p. 9; L. NASTRI, L’imposta di registro e le relative agevolazioni, Milano, 1993 p. 100;
[nota 16] In effetti, dal combinato disposto degli articoli 20 e 21 del Tur, il potere dell'ufficio di riqualificare lo schema negoziale sembra evidentemente ancorato all'unicità del contesto documentale, all'interno del quale esso può poi spingersi sino all'accertamento di fattispecie negoziali plurime, per isolare ciascuna singola disposizione e sottoporla a separata tassazione.
[nota 17] Nello stesso senso è la giurisprudenza, finora assolutamente prevalente: Cass., S.U., 15 luglio 1972, n. 2349, in Riv. legisl. fisc., 1975, p. 1079; Comm. trib. centr. 2 dicembre 1976, n. 1041, in Comm. trib. centr., 1976, I, p. 666; Cass. 17 maggio 1976, n. 1737, in Comm. trib. centr., 1976, II, p. 318, ed in Riv. legisl. fisc., 1976, p. 1457; Cass. 9 maggio 1979, n. 2658, in Rass. avv. Stato, 1979, I, p. 757; Cass. 16 ottobre 1980, n. 5563, in Boll. trib., 1981, p. 888, ed in Riv. legisl. fisc., 1981, p. 762; Comm. trib. centr. 4 marzo 1981, n. 2549, in Comm. trib. centr., 1981, I, p. 294; Cass. 29 marzo 1983, n. 2239, in Comm. trib. centr., 1983, II, p. 892; Cass. 26 giugno 1984, in Riv. legisl. fisc., 1985, p. 722; Cass. 9 gennaio 1987, n. 75, in Riv. legisl. fisc., 1987, p. 624; Cass. 2 dicembre 1993, n. 11959, in Giust. civ., 1994, I, p. 337, ed in Riv. giur. trib., 1994, p. 117; Cass. 9 maggio 1997, n. 4064, in Giur. it., 1998, c. 1068; Cass. 8 maggio 1997, n. 4057, in Giur. it., 1997, I, 1, c. 1161; Comm. trib. II grado Bolzano 31 luglio 1998, in Fisco, 1999, p. 11059, con nota di Formentin; Comm. trib. centr. 8 ottobre 1998, n. 4787, in Comm. trib., 1998, I, p. 832. Esemplificativa, in questo senso una delle massime più ricorrenti in materia: «Ai fini dell'imposta di registro gli effetti giudici dell'atto presentato alla registrazione devono essere individuati unicamente attraverso l'interpretazione dei patti negoziali ottenuti nell'atto stesso e non attraverso elementi desumibili da forme diverse, come ad esempio negozi giuridici precedenti o successivi. L'uso legittimo da parte dei contribuenti dello strumento giuridico che risulti fiscalmente meno oneroso è qualificabile come lecito risparmio d'imposta e non è quindi censurabile. In mancanza di una specifica norma antielusiva, infatti, vige il principio dell'autonomia negoziale e vengono pienamente tutelate le precise determinazioni negoziali dei contraenti».
[nota 18] Tra le altre si vedano le sentenze della Corte di Cassazione n. 14900 del 23 novembre 2001, n. 2713 del 4 dicembre 2001, n. 10660 del 16 aprile 2003; da ultimo la sentenza n. 4269/2010.
[nota 19] Vedi - sia pur incidenter tantum - Cass., sez. trib., n. 8772/2008, nonchè in ambito tributario: Comm. trib. prov. di Ravenna, sez. V, sentenza n. 5 del 13 febbraio 2006, Comm. trib. prov. di Forlì, sez. VI, sentenza n. 441 del 2 ottobre 2006; Comm. trib. reg. di Bologna, sez. II, sentenza n. 7 del 19 febbraio 2007, dep. il 26 marzo 2007; Comm. trib. reg. di Bologna, sez. X, sentenza n. 34 del 4 dicembre 2006, dep. il 17 gennaio 2007 - v. Fisco oggi del 10 febbraio 2007.
[nota 20] Che, nell'indicare le norme del D.P.R. 600/73 valide anche ai fini dell'imposta di registro, parla genericamente di «articoli 31 e seguenti», senza fissare con certezza i termini iniziale e finale del richiamo, in tal modo potenzialmente riferibile all'articolo 31 ed a tutti gli articoli successivi del D.P.R. Questo il testo dell'art. 53-bis del Tur, rubricato "Attribuzioni e poteri degli uffici": «Le attribuzioni e i poteri di cui agli articoli 31 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, possono essere esercitati anche ai fini dell'imposta di registro, nonchè delle imposte ipotecaria e catastale previste dal testo unico di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347».
[nota 21] Con l'emanazione delle due circolari 2/E del 23 gennaio 2007 e 6/E del 6 febbraio 2007.
[nota 22] Sostanzialmente coincidente con il richiamo agli articoli 32 e 33 del D.P.R. 600/73.
[nota 23] Anche se dal punto di vista topografico l'inserimento dell'art. 37-bis all'interno del titolo IV del D.P.R. 600/73 dedicato ad "Accertamenti e Controlli" porterebbe a includerla nel richiamo dell'art. 53-bis del Tur, un esame del contenuto sostanziale della norma rubricata "Disposizioni antielusive" la rende concettualmente estranea all'area del potere istruttorio. Va altresì tenuto conto, nell'attribuire alla norma ragionevoli (ma non ultronei) effetti innovativi, che l'obbiettivo di fondo del legislatore del 2006, più che il contrasto all'elusione, è stato l'accertamento dei reali valori di transazione, con l'emersione del "nero", fenomeno evasivo ritenuto frequente nelle compravendite immobiliari.
[nota 24] Questo il dettato del terzo comma dell'art. 37-bis del D.P.R. 600/73; «Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano a condizione che, nell'ambito del comportamento di cui al comma 2, siano utilizzate una o più delle seguenti operazioni: a) trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e distribuzioni ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle formate con utili; b) conferimenti in società, nonché negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende; c) cessioni di crediti; d) cessioni di eccedenze d'imposta; e) operazioni di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 544, recante disposizioni per l'adeguamento alle direttive comunitarie relative al regime fiscale di fusioni, scissioni, conferimenti d'attivo e scambi di azioni; f) operazioni, da chiunque effettuate, incluse le valutazioni, aventi ad oggetto i beni e i rapporti di cui all'articolo 81, comma 1, lettere c), c-bis) e c-ter), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del presidente della repubblica 22 dicembre 1986, n. 917; f-bis) cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate tra i soggetti ammessi al regime della tassazione di gruppo di cui all’art. 117 del Tuir; f-ter) pagamenti di interessi e canoni di cui all’art. 26-quater qualora detti pagamenti siano effettuati a soggetti controllati direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non residenti in uno stato dell’unione europea».
[nota 25] È quanto condivisibilmente si sottolinea nello studio CNN n. 68-2007/T, approvato dalla Commissione Studi Tributari il 20 aprile 2007, intitolato «I nuovi poteri di controllo dell’amministrazione finanziaria nelle imposte di registro, ipotecaria e catastale», cui si rimanda per una esauriente disamina sulla novità normativa in esame.
[nota 26] A seguito della novella, infatti, l'ufficio tributario deve ritenersi legittimato a ricercare anche aliunde qualsiasi elemento rilevante ai fini dell'accertamento dell'imposta dovuta, potendo ad esempio utilizzare i poteri istruttori del D.P.R. 600/73 nell'indagine tesa a svelare un occultamento di corrispettivo.
[nota 27] Di norma "quasi generale" si parla argutamente, con riferimento all'estensione progressiva dell'art. 37-bis alle imposte indirette, nello Studio CNN 68/2007/T, cit.
[nota 28] Non soddisfacente appare la risposta a tale interrogativo, fornita a più riprese dalla Suprema Corte nelle ultime decisioni a Sezioni unite del 2008 (n. 30055, 30056 e 30057) in materia di abuso elusivo, con le apodittiche affermazioni secondo cui «Non contrasta con l’individuazione nell’ordinamento di un generale principio antielusione la constatazione del sopravvenire di specifiche norme antielusive, che appaiono, anzi, come questa Corte ha osservato, mero sintomo dell’esistenza di una regola generale (cfr. anche Cass. 8772/08)». Ed ancora «Né siffatto principio può in alcun modo ritenersi contrastante con la riserva di legge in materia tributaria di cui all’art. 23 Cost., in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali».
[nota 29] I fenomeni di tipo societario "puro", pur costituendo forse la più ampia "riserva di caccia" nel contrasto all'elusione fiscale, vengono considerate generalmente a forte rischio elusivo ai fini di altre imposte, come quelle sui redditi e sul valore aggiunto.
[nota 30] La percezione da parte del Notariato circa l'impatto negativo delle problematiche antielusive sulla prestazione notarile, è testimoniata dal tenore del protocollo n. 16, regola di best practice contenuta nel più ampio corpus di regole comportamentali dirette alla categoria, elaborato dal Consiglio nazionale del Notariato, da considerarsi parte integrante della normazione deontologica. Il protocollo non sembra tuttavia soccorrere, nonostante il pregevole contenuto nel suo complesso, quando al secondo comma presuppone che il notaio fornisca alle parti la propria consulenza e consigli lo strumento giuridico idoneo all'interesse delle parti «avendo presente la distinzione tra programmazione, elusione ed evasione fiscale». Non sembra che il quadro testè descritto autorizzi a ritenere acquisita la prospettata distinzione. Il protocollo è viceversa apprezzabile e merita particolare attenzione quando, al primo inciso del secondo comma, precisa che: «Nel prestare la propria opera professionale … il notaio svolge l’incarico fornendo alle parti la sua peculiare consulenza in materia tributaria, fermo restando che la valutazione del notaio attiene agli aspetti giuridici della operazione e non alle sue ragioni economiche».
[nota 31] Diverse decisioni della Suprema Corte in materia tributaria, nel periodo antecedente al 2006, al fine di colpire il fenomeno elusivo arrivano a dichiarare espressamente l'esistenza della fattispecie simulatoria ovvero ad eccepire la nullità del negozio “mezzo” per difetto di causa, quando l'unico suo scopo sia stato il conseguimento di un indebito risparmio d'imposta o il godimento di un'agevolazione. Si vedano per tutte: Cass., sez. V, 21 ottobre 2005, n. 20398 e Cass., sez. V, 14 novembre 2005, n. 22932 in entrambe le quali si afferma che «… non può negarsi l'emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale. In riferimento all'ipotesi … l'applicazione del predetto principio si traduce nella individuazione di un difetto di causa che dà luogo alla nullità dei contratti collegati di acquisto e di rivendita delle azioni, non conseguendo dagli stessi alcun vantaggio economico per le parti, all'infuori del risparmio fiscale»; In altre pronunzie, la Corte arriva ad affermare espressamente la rilevabilità d'ufficio della nullità da parte del giudice tributario.
[nota 32] Vedi, fra molte: Cass., sez. V, del 04 aprile 2008, n. 8772: «Il principio secondo cui, in forza del diritto comunitario, non sono opponibili alla amministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente che costituiscano "abuso del diritto", cioè che si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale, deve estendersi a tutti i settori dell'ordinamento tributario, e dunque anche all'ambito delle imposte dirette, prescindendosi dalla natura fittizia o fraudolenta della operazione»; Cass., sez. V, 21 aprile 2008, n. 10257 nella quale la Corte ha ravvisato l'uso distorto del meccanismo del credito di imposta collegato a minusvalenze derivanti da un contratto di usufrutto di azioni, immune da invalidità, stipulato tra la società contribuente e una società avente sede all'estero; Cass., sez. V, del 15 maggio 2008, n. 12237; «L'elaborazione giurisprudenziale comunitaria e nazionale in tema di "abuso di diritto", inteso come ricorso a forme o strumenti giuridici che, seppure legali, consentono di eludere il Fisco, mediante operazioni non simulate ma realmente volute ed immuni da invalidità, effettuate, però, essenzialmente allo scopo di trarne un vantaggio fiscale, impone di cogliere la vera natura della prestazione ...»; ed ancora Cass., sez. V, 08 aprile 2009, n. 8487: «La norma antielusiva prevista dall'art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 non presuppone un comportamento fraudolento, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante (perchè non sorretto da valutazioni economiche diverse dal profilo fiscale) di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l'applicazione del regime fiscale proprio dell'operazione che costituisce il presupposto d'imposta».
[nota 33] L. 27 luglio 2000, n. 212;
[nota 34] Per un'ampia disamina delle problematiche attualmente coinvolte nel dibattito, vedi V. PAPPA MONTEFRTE. «Violazioni tributarie e validità del contratto», in Notariato, 2009 , 2, p. 189-195.
[nota 35] Sintomatica di tali difficoltà appaiono: Cass. 27 ottobre 1998, n. 10686, ove viene affermato espressamente il principio vigente in materia di imposta di registro, consacrato nell'art. 21 del T.U., secondo cui a differenza del negozio complesso che dà luogo ad unica tassazione, le disposizioni oggetto di collegamento negoziale, ciascuna retta da autonoma causa, vanno assoggettate alla rispettiva, separata ed autonoma tassazione, dal momento che tale autonomia causale impedisce di considerare la singola disposizione come derivante, per sua intrinseca natura, da uno o più delle altre; e, prima ancora Cass. 4645/1995, che sottolinea espressamente come le problematiche di derivazione civilistica non possono non condizionare l'analisi condotta dall'interprete in ambito tributario, in specie nell'applicazione dell'imposta di registro.
[nota 36] Cfr. Cass. 21221/2006; Cass. 10257/08; Cass. 25374/08; Cass. 1465/2009.
[nota 37] Vedi per l'ulteriore conferma dell'orientamento di legittimità, Cass. 309/2003, ove si afferma che «il notaio che non svolga un'adeguata ricerca legislativa (ed una successiva consulenza) al fine di far conseguire alle parti il regime fiscale più favorevole è responsabile di negligenza professionale ai sensi dell'art. 1176 secondo comma del codice civile».
[nota 38] La regola che vieta l'interpretazione extratestuale del documento sottoposto a registrazione telematica tramite modello unico, peraltro in specifico riferimento all'attività notarile e limitatamente alla liquidazione dell'imposta principale, è ribadita con estrema chiarezza dal disposto dell'art. 3-ter del D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 463 (come introdotto dall’art. 1 del D.lgs. 18 gennaio 2000, n. 9), vincolando l'attività di autoliquidazione del notaio ed il controllo dell'ufficio, espressamente agli «elementi desumibili dall’atto». Sul punto vedasi lo Studio CNN 66/2003, «Adempimento unico - Dichiarazioni da rendersi in atto notarile ai fini tributari», a firma di G. PETRELLI.
[nota 39] A questo proposito va ricordato che con l'entrata in vigore del T.U. 131/86 si è affermato definitivamente il principio, già accolto in dottrina sotto il vigore del precedente T.U. secondo cui, nell'interpretazione degli atti sottoposti ad imposta di registro, il controllo sulla corretta liquidazione del tributo va effettuato con esclusivo riferimento agli effetti giuridici, con esclusione quindi di quelli economici; cfr. anche G. PETRELLI, op. ult. cit.
[nota 40] Nel senso del necessario ricorso all'accertamento giudiziale della simulazione, ritenendosi tale accertamento precluso all'’ufficio tributario nell’attività di liquidazione del tributo, A. URICCHIO, op. cit.; DOLIA, voce Simulazione (dir. trib.), in Enc. giur. Treccani, XXVIII, Roma, 1990; Ris. Min. fin. 22 dicembre 1989, n. 461696, in Corr. trib., 1990, p. 501; Comm. trib. centr. 2 giugno 1982, n. 2943, in Comm. trib. centr., 1983, I, p. 17; Cass. 27 luglio 1982, n. 4328, in Dir. prat. trib., 1983, II, p. 665, con nota di VIGLIOTTI, «Simulazione ed elusione fiscale»; Cass. 1 dicembre 1994, n. 10247, in Corr. trib., 1995, p. 463. Contra, per il potere dell’ufficio di accertare la simulazione, Cass. 12 luglio 1984, n. 4097, in Foro it., 1984, I, c. 2463; Cass. 12 novembre 1998, n. 11424, in Riv. giur. trib., 1999, p. 756.
[nota 41] Dal punto di vista lessicale affermare che un'operazione è elusiva quando compiuta con lo scopo "esclusivo" di ottenere un risparmio fiscale, non è qualcosa di molto diverso dall'affermare che l'elusione di imposta costituisce l'essenza di un'operazione. Né vi è grossa differenza, dal punto di vista giuridico, tra l'affermare che un determinato carattere costituisce la "sostanza" di una cosa e l'affermare che lo stesso carattere ne costituisce "l'essenza". In sintesi, identificare lo scopo elusivo come "essenziale" ad un determinato atto giuridico, significa che in assenza di tale scopo l'atto non sarebbe stato posto in essere.
[nota 42] In termini di diritto sostanziale, ad esempio, non è ipotizzabile un'azione revocatoria esercitata dai creditori di uno dei coniugi, eventualmente pregiudicati dalla scelta per il regime di separazione, anche se tale scelta sia convenuta per l'unico scopo di privare detti creditori della garanzia sussidiaria sui beni personali.
[nota 43] Si può ipotizzare, come fattispecie tipicamente abusiva, un'operazione di trasferimento immobiliare tra parenti in linea collaterale in terzo grado (es. zio e nipote) che, liberale nella sostanza, venga "formalizzato" come cessione onerosa ai soli fini di conseguire un risparmio d'imposta, Come è noto, infatti, la seconda ipotesi sconta la minore aliquota del 3%, in luogo del 6% previsto per la prima. Allo stesso tempo, in casi come questo si evidenzia ulteriormente come l'indagine condotta sul piano fiscale non possa prescindere dall'utilizzo delle regole civilistiche e - sia pur in minor misura - viceversa.
[nota 44] Agenzia delle entrate, ris. n. 234/E del 24 agosto 2009, sulla quale è intervenuto anche uno Studio CNN a firma Susanna Cannizzaro e Simone Ghinassi
[nota 45] Cfr. in particolare Cass. 11320/1995, secondo la quale «in tema di imposta sulle successioni, presupposto dell'imposizione tributaria è la chiamata all'eredità e non già l'accettazione» e conseguentemente laddove «la successione riguardi anche l'eredità devoluta al dante causa e da costui non ancora accettata, l'erede è tenuto al pagamento dell'imposta anche relativamente alla successione apertasi in precedenza a favore del suo autore, la cui delazione sia stata a lui trasmessa ai sensi dell'art. 479 c.c.». Nella prassi cfr. ris. del 27 marzo 1991, n. 350115. E se a questa soluzione dovesse davvero giungersi, allora la risposta al quesito sottostante al tema del nostro seminario non potrà che essere negativa.
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