Note su trust, negozi di destinazione e abuso del diritto
Note su trust, negozi di destinazione e abuso del diritto [nota *]
di Daniele Muritano
Notaio in Empoli

Considerazioni generali

Il presente contributo ambisce a impostare un dibattito in merito all’applicabilità del principio del divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario all’istituto del trust.

Le considerazioni che seguono (e i relativi casi pratici) possono essere estesi, sia pure tenendo conto della diversità strutturale degli istituti, ai negozi di destinazione regolati dall'art. 2645-ter c.c. nonchè all’istituto, di recente teorizzato dalla dottrina, dei negozi di affidamento fiduciario [nota 1].

E’ È noto come il trattamento tributario del trust sia stato e sia vicenda che ha affaticato e affatica non poco gli operatori giuridici nella ricerca della soluzione più equilibrata e corretta, che tenga conto di tutti gli interessi in gioco e che a tutt'oggi, quantomeno con riferimento all'imposizione indiretta, non vi sia in Italia una disciplina normativa che si riferisca espressamente al trust [nota 2].

È innegabile, inoltre, che l'ormai quotidiano interesse per tale figura sia, come da taluno autorevolmente affermato [nota 3], l'esito di una tendenza politico-culturale di un determinato momento storico, che ha in un certo senso quasi "costretto" l'Italia a dover fare i conti con un istituto che, nato e utilizzato nel mondo di common law da decenni, è ormai ampiamente diffuso anche in paesi culturalmente lontani sia dalla nostra tradizione giuridica che da quella propria di common law [nota 4].

L'individuazione del trattamento tributario del trust, in assenza di chiare disposizioni normative, non può che essere allora il frutto dell'interpretazione, che però deve rifuggere dall'appiattire la figura su altre proprie della nostra tradizione giuridica (come ad esempio il negozio fiduciario, diversissimo dal trust), dovendo invece tenere conto delle specificità proprie di tale istituto [nota 5].

Nessuna considerazione sul piano strettamente fiscale può essere quindi elaborata senza valutare l'articolarsi del fenomeno "trust" sul piano operativo e, in particolare sul piano civilistico della causa e degli effetti [nota 6].

Né si deve discutere del trattamento tributario sulla base di pregiudizi, quali ad esempio quello di ritenere che il trust sia finalizzato a null'altro se non a sottrarre materia imponibile all'erario ovvero a frodare i creditori ovvero, ancora, a pregiudicare diritti ereditari.

La questione dell’applicabilità del c.d. principio del divieto di abuso del diritto in materia tributaria si pone in modo particolare rispetto a tale istituto, in quanto esso gravita nell’ambito impositivo dell’imposta di donazione. I casi esaminati dalla giurisprudenza in tema di abuso del diritto riguardano invece l’Iva e le imposte dirette. Tuttavia non pare dubbio che i trust possano avere rilievo anche ai fini delle imposte dirette e dell’Iva e quindi a essi possa essere – - in ipotesi – - esteso il principio. Quanto all’eventualità che l’Agenzia delle entrate possa procedere a una “riqualificazione“ del negozio istitutivo del trust al fine di determinare l’imposta applicabile, la stessa circolare n. 3 del 2008 afferma che l’imposta di donazione è collegata all’intrinseca natura e agli effetti giuridici degli atti da tassare, secondo il principio dettato dall’art. 20 del Tur, il quale, sebbene enunciato in materia di imposta di registro, deve considerarsi applicabile in linea di principio anche alle altre imposte indirette. Salvo poi smentirsi laddove accomuna tutti i trust sotto un’unica causa (fiduciaria) prescindendo dalla loro singolarità e specificità. Va inoltre considerato che sia i trust che i negozi di destinazione presuppongono l’atto scritto (i secondi, ex art. 2645-ter, addirittura l’atto pubblico) per cui non sarà certo ammissibile tassare un atto che i contribuenti avrebbero dovuto stipulare e non hanno stipulato [nota 7]. Inoltre non bisogna confondere, sovrapponendole, l’interpretazione dell’atto che le parti hanno stipulato, che è questione rientrante nell’ambito del diritto civile, e la riqualificazione tributaria dell’atto stesso, che è il risultato della contestazione della violazione del principio del divieto di abuso del diritto.

Ribadito che, dal punto di vista testuale, nel testo unico dell’imposta sulle successioni e donazioni non esiste alcuna norma che disciplina il trattamento tributario dei trust, può osservarsi che essi sono ricondotti in tale ambito impositivo sulla base delle note circolari dell’Agenzia delle entrate, che nella sostanza, lungi dallo svolgere la funzione che dovrebbe essere loro propria, di strumento di chiarimento di una vigente disciplina, si traducono in vera e propria fonte normativa. Quanto ciò contribuisca alla certezza e dei rapporti giuridici è inutile sottolinearlo, tanto più che la stessa Suprema Corte – - a Sezioni unite - ha definito le circolari meri "pareri di parte", come tali inidonee a fondare alcuna pretesa tributaria [nota 8].

Che la disciplina dei trust in materia di imposte indirette non esista non è revocabile in dubbio: sfido a individuare, in tale materia, una norma in cui compaia la parola "trust".

In realtà l’Agenzia delle entrate determina le modalità di tassazione dei trust sulla base di una – - a mio avviso discutibile - loro collocazione nell'ambito dei vincoli di destinazione, espressamente indicato nel Tusd, senza peraltro interrogarsi sulla correttezza concettuale di tale collocazione e finendo, così, per fare di tutta un'erba un fascio, imponendo agli uffici modalità uniformi di applicazione dell'imposta per tutti i trust, indipendentemente dalla loro funzione specifica, ciò che, con maggior rigore terminologico, potremmo definire come "causa".

Di tale erronea impostazione ha iniziato a fare giustizia la giurisprudenza tributaria, che ha escluso l'applicabilità dell'imposta di donazione ai trust definibili, con espressione meramente descrittiva, come "commerciali" [nota 9].

Non pare inoltre condivisibile il ragionamento di coloro che affermano che le modalità di tassazione prefigurate dalle circolari sono da condividere in quanto, in definitiva, favorevoli al contribuente, atteso che esse conducono a una tassazione solo "in entrata" (cioè al momento dell'istituzione) e non "in uscita" (cioè al momento del trasferimento dei beni ai beneficiari). Tale ragionamento non pare essere concettualmente rigoroso, perché assume quale angolo visuale il solo risultato economico, senza riguardo alla coerenza dell'ordinamento, informato a principi, anche di rango costituzionale, che devono essere rispettati in ogni ambito di tassazione. Mi riferisco, in particolare, alla riserva di legge di cui all'art. 23 Cost. e al principio di capacità contributiva che si ricava dall'art. 53 Cost.

L’analisi relativa a possibili reazioni dell'amministrazione avverso i trust fondata sull'abuso del diritto deve avvenire tenendo presente tale sfondo normativo, di prassi e concettuale.

Il problema è, evidentemente, molto complicato e in tale sede non potrà essere integralmente “sviscerato” ma solo impostato. L’ambito di riferimento sarà limitato agli atti tra vivi non potendo certo la morte essere apprezzata come comportamento finalizzato all’elusione fiscale …

Va in primo luogo osservato che, con riferimento all’imposta di donazione, il divieto di abuso del diritto parrebbe doversi fondare sulla clausola generale antiabuso, che com’è noto la giurisprudenza individua nell’art. 53 Cost.

L'applicabilità dell'art. 37-bis del D.P.R. 600/73 alle donazioni appare invero dubbia, sia perché l’estensione dei poteri di controllo di cui agli artt. da 31 a 45 dello stesso D.P.R. è testualmente prevista per le sole imposte di registro, ipotecaria e catastale, ai sensi dell'art. 53-bis del Tur, mentre analoga norma non è prevista nel Tusd; sia perché, se è vero che tuttora esiste una norma (l'art. 69, comma 7, della L. 21 novembre 2000, n. 342) che prevede l'applicabilità dell'art. 37-bis alle donazioni e alle altre liberalità, non è meno vero che tale norma era stata introdotta contestualmente all'abolizione dell'imposta sulle successioni e donazioni, in un contesto normativo, pertanto, diverso da quello attuale. In altri termini, a seguito della reintroduzione dell'imposta sulle successioni e donazioni, avvenuta nel 2006, e in assenza di coordinamento tra le nuove norme e la norma introdotta nel 2000, potrebbe anche argomentarsi nel senso dell'incompatibilità di quest'ultima con l'attuale sistema.

La ritenuta immanenza nel sistema della clausola generale antiabuso, consente di estenderne l'applicazione a tributi diversi da quelli “coperti” dalla clausola antielusiva codificata nell'art. 37-bis, compresa quindi l'imposta di donazione [nota 10].

La giurisprudenza inoltre, nel precisare che il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, afferma che esso non trova applicazione in presenza di «ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione», diverse dalla mera aspettativa di vantaggi fiscali [nota 11]. Tale formula replica, in sostanza quella delle «“valide ragioni economiche»” contenuta nell’art. 37-bis del D.P.R. 600/73.

Tuttavia sia l’art. 37-bis del D.P.R. 600/73 che le vicende che hanno dato luogo agli arresti giurisprudenziali delle Sezioni unite in tema di abuso del diritto si collocavano [nota 12] in un contesto imprenditoriale, dove è ben possibile ragionare in termini di “economicità” di un’operazione negoziale [nota 13]. E anche le sentenze successive a quella delle Sezioni unite, che peraltro giungono a conclusioni diverse circa l'esistenza o meno, nelle vicende esaminate, di ragioni apprezzabili economicamente, così non consentendo al contribuente di operare con certezza e affidabilità, riguardano operazioni negoziali poste in essere da imprese, [nota 14].

Tenuto conto di ciò, c'è da dubitare che di “valide ragioni economiche” possa parlarsi in materia di rapporti familiari, contesto nel quale prevalentemente operano i trust e i negozi di destinazione, utilizzati prevalentemente (se non esclusivamente) quali strumenti di predisposizione successoria, con causa liberale quindi.

La più recente ricostruzione dottrinale [nota 15] vede infatti la liberalità come effetto, o come risultato giuseconomico degli atti ad essa riconducibili, superandosi così la tradizionale tesi dell’intento liberale (o animus donandi), come causa caratterizzante una categoria ampia di figure negoziali, perché aspecifica (se lo si fa coincidere con la spontaneità dell’atto), o tautologica (laddove lo si identifica con la volontà di donare), o impropria (quando se ne fa un semplice motivo soggettivo) e sempre che l'attribuzione senza corrispettivo in favore del beneficiario avvenga «“allo scopo di soddisfare direttamente un interesse di natura non patrimoniale del disponente»”.

Il trust familiare liberale pare quindi a pieno titolo rientrare nell'ambito delle liberalità non donative, poiché l’arricchimento di un soggetto (il beneficiario) viene realizzato dal disponente mediante un meccanismo indiretto, prevedente la creazione di un ufficio di diritto privato (quello del trustee) il titolare del quale (titolare, altresì, del patrimonio separato costituente la dotazione del trust) dovrà far pervenire al beneficiario i vantaggi patrimoniali che l’atto istitutivo prevede [nota 16].

Sulla base di tale ragionamento occorre chiedersi come possa il contribuente “resistere“ a un’eccezione di uso distorto del trust o di sue singole clausole [nota 17], ciò che integrerebbe, appunto, abuso del diritto, dimostrando che alla base dell’operazione esistono valide ragioni economiche. In questi casi, mi pare, per definizione non esistono valide ragioni economiche, almeno sul versante civilistico.

D'altro canto l'esame della giurisprudenza comunitaria ritiene che al fine di integrare la fattispecie dell'abuso l'operazione negoziale, oltre a essere motivata da ragioni "essenzialmente" fiscali deve anche essere una «costruzione di puro artificio...» e che si ponga in contrasto con gli obiettivi perseguiti da norme specifiche [nota 18]. E' È vero che la nostra giurisprudenza non richiama la "artificiosità" della condotta bensì "l'uso distorto" dello strumento giuridico, ma non è men vero che discorrere di "uso distorto" in materia di rapporti familiari pare eccessivo.

Si potrebbe allora giungere a una soluzione tranchant: di fronte a trust o a negozi di destinazione liberali nessun abuso è configurabile in quanto si tratta di negozi che non possono che essere motivati, in modo “essenziale”, da ragioni extrafiscali [nota 19]. Essi sarebbero infatti compiuti a prescindere dai vantaggi fiscali, che di essi costituiscono solo un riflesso che non può essere colpito dal fisco mediante lo strumento dell’abuso del diritto.

E’ È una tesi volutamente provocatoria, potendosi invece interpretare l’espressione “valide ragioni economiche” in modo tale da consentirne l’applicazione anche al di fuori del mondo dell’impresa. In tale prospettiva si potrebbe parlare di “valide ragioni economiche” quando lo strumento giuridico utilizzato (e ritenuto abusivo) in realtà consente di raggiungere un risultato economico/giuridico che non era raggiungibile con altri strumenti. In tal caso, l’eventuale risparmio fiscale ottenuto per il tramite dello strumento giuridico utilizzato può ritenersi “voluto” dal sistema e non abusivo. Nel trust, allora, le valide ragioni economiche dovrebbero tendere a identificarsi nella dimostrazione che con il suo utilizzo è possibile ottenere un risultato (in termini giuridici) non ottenibile diversamente. E se tale risultato non confligge con lo spirito o la ratio delle norme tributarie, cioè è un risultato che il sistema non disapprova, non dovrebbe essere ammissibile contestare la violazione del divieto di abuso del diritto.

In altri termini, eccepire la violazione di tale divieto parrebbe dover passare attraverso la compresenza di due presupposti: non solo l'obiettivo di ottenere un risparmio fiscale, che di per sé non può ritenersi contrario al sistema, il quale non può certo imporre al contribuente, tra una pluralità di alternative negoziali, l'obbligo di scegliere quella fiscalmente più onerosa, ma anche, e principalmente, direi, la violazione della ratio della norma tributaria che si assume aggirata. Solo in presenza di entrambi tali presupposti dovrebbe ritenersi legittimo contestare l'abuso. In caso contrario, cioè laddove si assumesse quale unico requisito costitutivo dell'abuso l'obiettivo di ottenere un risparmio fiscale, qualsiasi operazione negoziale potrebbe essere qualificata come abusiva, così determinandosi un'applicazione, questa sì distorta, del principio stesso.

Peraltro, anche tale prospettiva non è certo risolutiva, perché rimane comunque un’area di discrezionalità dell’Agenzia delle entrate e della giurisprudenza che può lasciare il contribuente senza difese. Con riferimento al trust, inoltre, la questione diventa ancora più complicata, perché gli atti istitutivi sono spesso altamente sofisticati e la differenza di risultato che l'uso del trust consente di ottenere rispetto all'uso di un diverso strumento giuridico è talvolta sottile, senza contare che un ruolo dirimente, spesso, è costituito dal fatto che il trust produce l'essenziale effetto della separazione patrimoniale (basterebbe la presenza di tale effetto – - non replicabile usando altri istituti - a giustificare le valide ragioni economiche, allora?) [nota 20].

Un’ulteriore approccio interpretativo, anch’esso provocatorio, muove invece dal ritenere che la norma utilizzabile dal fisco per colpire il trust in quanto fiscalmente abusivo non sia l’art. 53 Cost., bensì l’art. 13 Conv. Aja.

Tale norma stabilisce che «Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l'istituto del trust o la categoria del trust in questione».

L'art. 13 viene correntemente interpretato come “norma di chiusura”, la quale consente al giudice di non riconoscere il trust regolato da legge straniera nel caso in cui, pur non trovando applicazione le norme di salvaguardia previste agli articoli 15, 16, 18 della Convenzione stessa, il giudice ritenga ugualmente il trust non meritevole di riconoscimento in quanto realizzi, appunto, un “abuso di diritto”, venga utilizzato “in frode alla legge”, o comunque realizzi effetti valutati dal giudice ripugnanti all'ordinamento in cui dovrebbe essere riconosciuto. Il riconoscimento dovrà pertanto essere negato solo in mancanza di qualsiasi ragionevole e legittima giustificazione del ricorso all'istituto.

Per il fisco la strada certo sarebbe più impervia ma per il contribuente le conseguenze potrebbero essere ben più gravi, perché “mancato riconoscimento” significa “mancata produzione di effetti”, tra cui, fondamentalmente, la separazione patrimoniale, con conseguente “dissoluzione” del trust anche sotto il profilo civilistico.

Ciò significherebbe però ritornare, per queste fattispecie, all'indirizzo giurisprudenziale che riteneva necessario valutare l'operazione sotto il profilo civilistico, accertando se esso fosse carente di causa in concreto [nota 21] ovvero compiuto in frode alla legge [nota 22] e quindi nullo, in quanto l'applicazione della norma dell'art. 13 Conv. non consente certo di distinguere tra effetti civilistici del negozio, che restano inalterati, ed effetti tributari, inopponibili all’amministrazione.

E’ È evidente che tale soluzione va “oltre il segno”, perché non solo il trust non sarebbe opponibile al fisco ma “salterebbe” anche civilisticamente. Da tale angolo visuale è allora preferibile continuare a ragionare nell’ottica - squisitamente tributaria – - dell’abuso del diritto.

Restano da risolvere, in ogni caso, altri problemi, sia di natura sostanziale che processuale, che non possono essere trattati in questa sede, e precisamente quelli relativi all'applicabilità delle sanzioni e degli interessi; al rispetto dell'obbligo di richiesta di chiarimenti al contribuente e dell'obbligo di motivazione rafforzata, previsti espressamente nel caso di accertamento ex art. 37-bis del D.P.R. 600/73, ma non previsti da nessuna norma nei casi di accertamento fondato sulla clausola generale [nota 23].

I casi

I casi qui di seguito esposti sono stati ipotizzati da chi scrive, atteso che, per quanto concerne l’uso abusivo del trust dal punto di vista tributario, non esistono decisioni giurisprudenziali edite.

Caso 1

Il primo caso, in materia di imposte indirette, trae spunto dalla vicenda che ha dato luogo alla sentenza della Commissione tributaria provinciale di Firenze del 2009 [nota 24], cui è seguito un filone giurisprudenziale, attualmente unitario, che respinge l'impostazione proposta dall'Agenzia delle entrate nelle sue circolari. Questa sentenza, in estrema sintesi, ha affermato che laddove le posizioni beneficiarie di un trust familiare, istituito allo scopo di attribuire il trust fund per spirito di liberalità, sono sottoposte a condizione sospensiva, il trasferimento dei beni in favore del trustee è soggetto all'applicazione dell'imposta in misura fissa, poiché al momento dell'istituzione del trust, non è integrato il presupposto impositivo dell'imposta di donazione, costituito dall'arricchimento del beneficiario. Non è infatti configurabile arricchimento nè in capo al trustee (sebbene l'Agenzia delle entrate, andando contro la lettera della legge, lo individui come soggetto passivo dell'imposta), nè in capo ai beneficiari, atteso che essi diverranno tali solo se si verificherà la condizione sospensiva prevista nell'atto. Di conseguenza la tassazione dovrà avvenire al momento del trasferimento dei beni ai beneficiari, perché solo allora si verificherà il relativo arricchimento [nota 25].

Ora, ammesso che, ma c'è da dubitarne, l'Agenzia delle entrate si adegui al dettato delle CTPCommissioni tributarie provinciali, è immaginabile che essa possa eccepire la "strumentalità" dell'apposizione della condizione, finalizzata esclusivamente al raggiungimento del vantaggio fiscale costituito dal "rinviare" la tassazione al momento in cui si verificherà l'effettivo trasferimento dei beni ai beneficiari?

La risposta non può che essere, in linea di principio, negativa, per ragioni di natura prettamente civilistica, che si ricavano dall’analisi delle regole che governano i trust.

Vige infatti un principio giurisprudenziale sorto nel diritto inglese, applicato anche in altre giurisdizioni e in alcuni casi anche codificato [nota 26], noto come regola Saunders v. Vautier [nota 27], in forza del quale i beneficiari di un trust che siano tutti capaci d’agire e definitivamente individuati, possono concordemente chiedere la cessazione anticipata del trust a prescindere dalla durata stabilita dal disponente nell’atto istitutivo.

La regola si spiega con la considerazione che, essendo il trust per definizione istituito nell’interesse dei beneficiari, una volta che costoro siano esattamente individuati non v’è ragione di costringerli ad attendere il termine finale del trust fissato dal disponente per ricevere i beni in trust [nota 28].

Costoro, pertanto, se sono capaci d’agire, ben possono concordemente decidere di costringere il trustee a distribuire loro immediatamente la trust property.

Appare importante sottolineare che la regola si applica solo se i beneficiari sono (oltre che capaci d’agire) absolutely entitled”, cioè se essi – - complessivamente considerati - vantano un diritto certo sulla totalità del trust fund.

La regola è stata ritenuta non applicabile nel caso in cui vi sia un beneficiario contingent” (cioè sotto condizione sospensiva) [nota 29], come pure nel caso in cui il disponente abbia indicato quali beneficiari una rosa o categoria di soggetti congegnata in modo tale che, fino al termine del trust, non è possibile sapere chi ne farà effettivamente parte [nota 30] ( si pensi ad un trust destinato a durare 80 anni e del quale dovranno essere beneficiari i discendenti del disponente che siano viventi al termine del trust stesso [nota 31]).

E’ È evidente, allora, che l’apposizione della condizione sospensiva ha una funzione ben specifica, quella di evitare, appunto, che i beneficiari chiedano la cessazione anticipata del trust, in spregio a quanto stabilito dal disponente nell’atto istitutivo, e che il vantaggio fiscale nascente dalla sua apposizione non ne costituisce certo la ragione “essenziale”.

Caso 2

Una coppia di coniugi senza figli, titolare di un discreto patrimonio, istituisce un trust, delle cui utilità essi sono beneficiari vita natural durante e con reciproco diritto di accrescimento fra loro. Beneficiario finale del trust, essendo la coppia senza figli, è una Onlus. L’atto istitutivo contiene una clausola che consente la variazione dei beneficiari.

Secondo la lectio dell’amministrazione finanziaria la tassazione del trasferimento dei beni al trustee avviene immediatamente, ma nel caso specifico, poiché il beneficiario è una Onlus, trova applicazione l’art. 3 del testo unico sull’imposta applicabile alle donazioni, che prevede l’esenzione dall’imposta. Analoga esenzione prevista dal testo unico delle imposte ipotecaria e catastale.

Successivamente i coniugi cambiano idea e nominano beneficiario un loro nipote, con atto scritto non sottoposto a registrazione, operazione, questa, del tutto lecita dal punto di vista del diritto dei trust.

Poiché secondo l’Agenzia delle entrate la tassazione è dovuta solo “in entrata”, “in uscita”, cioè al momento del trasferimento al nipote, l’atto non sconterebbe alcuna imposta di donazione [nota 32], salvo, appunto, contestare l’abuso del diritto.

Questo caso è paradigmatico di come la tesi dell’Agenzia delle entrate, sintetizzabile nel “pochi, maledetti … e subito”, non possa essere accolta. Chiunque, in ipotesi, potrebbe operare in questo modo.

Occorre chiedersi, però, se in questo caso sia corretto svolgere l’analisi in termini di abuso del diritto ovvero sia preferibile ragionare in termini di simulazione della nomina del (primo) beneficiario, con i relativi problemi probatori.

Caso 3

Si costruiscono le posizioni beneficiarie del trust come discrezionali, ma con il caveat [nota 33] della discrezionalità “vincolata “ (es. il reddito andrà versato al beneficiario da un minimo dell’x% al massimo dell’y%). Questo è un trust “semitrasparente”, perché il beneficiario può solo pretendere il minimo. Se il trustee, nel periodo d’imposta T, eroga [nota 34] al beneficiario solo il minimo, le imposte sono dovute dal beneficiario, mentre sulla differenza le imposte sono a carico del trust (soggetto Ires).

Se, poi, la differenza, venisse erogata nel periodo d’imposta T+1, essa sarebbe esente da imposizione in capo al beneficiario, perché l’imposta è stata già assolta dal trust.

In questo caso il trust ha assolto l’imposta (Ires), ma potrebbe eccepirsi o che la previsione della discrezionalità dissimula in realtà una clausola che prevede la devoluzione al beneficiario dell’intero reddito, colpito da un’aliquota più elevata, nel qual caso però la prospettiva è diversa da quella dell’abuso, trattandosi più propriamente di un caso di evasione e non di elusione; oppure, ancora una volta, l’abuso del diritto, perché il meccanismo consente di “trasformare” abusivamente il reddito in capitale (per ciò che riguarda il beneficiario), realizzando un arbitraggio sulle aliquote.

Caso 4

La (frequente) situazione in cui un soggetto è proprietario di reddito da pensione, ma anche di immobili che, se messi a reddito, potrebbero determinarne la riduzione.

Il soggetto istituisce un trust conferendovi gli immobili. Il trustee li mette a reddito. L’atto di trust prevede l’accumulazione del reddito ma contiene anche una clausola secondo cui il trustee, qualora il disponente non sia in grado di mantenere l’ordinario tenore di vita, può impiegare il reddito del trust in favore del disponente.

Si prevede che il trust duri fino alla morte del disponente e che al termine del trust il trust fund sia trasferito ai beneficiari indicati in atto.

Non v’è dubbio che il bene in trust non è più di proprietà del disponente e che il trust abbia una duplice funzione: “previdenziale” per ciò che riguarda il disponente, potendo il trustee sovvenirlo con somme di denaro in caso di bisogno; ma anche “liberale” per ciò che riguarda il futuro trasferimento ai beneficiari (il trust, in questo caso, opera come una donazione proiettata nel tempo).

Dove risiede il possibile abuso?

Dal punto di vista tributario il trust evita l’accumulazione del reddito in capo al disponente (reddito da pensione + reddito da locazione). Il reddito viene “splittato” tra disponente e trustee e la pensione rimane intera.

Senza trust, invece, il disponente avrebbe una pensione ridotta e pagherebbe l’Irpef sul reddito da locazione.

Occorrerebbe fare i conti, e non è detto che alla fine il fisco ci rimetta.

Ipotizzando che con il trust il fisco ci perda, ed eccepisca al disponente di avere abusato dell’istituto, come si difende il disponente?

Questo trust è, in un certo senso “misto”, perché oltre a essere “previdenziale” dal punto di vista del disponente, è anche “liberale”, perché prevede i beneficiari finali.

Tornano anche in questo caso in gioco le questioni riguardanti la dimostrazione delle “valide ragioni economiche” sottostanti a un trust liberale.

Il caso dimostra come non si possa ragionare in maniera generale ma occorra analizzare le specifiche situazioni. Se in questo caso ad esempio il disponente acquisisse dal trustee, nell’anno d’imposta T1, il reddito accumulato dal trustee nell’anno T, si ritorna all’ipotesi dell’arbitraggio abusivo (salvo dimostrare che la separazione è solo apparente perché il disponente non si è realmente privato dei beni e quindi c’è simulazione del trust). Se così non è, le valide ragioni economiche, anche in questo caso, dovrebbero essere in re ipsa, nel senso che il trust in questione opera come se fosse una società di comodo [nota 35].

Caso 5

Alfa Srl ha due soci persone fisiche, che la partecipano al 98,75% e all’1,25%.

I soci intendono istituire un trust liberale (con beneficiari, quindi) avente a oggetto le intere loro partecipazioni.

Alfa Srl ha però maturato discreti utili e intende distribuirli ai soci.

Qualora Alfa Srl deliberasse la distribuzione degli utili in capo alle persone fisiche prima dell’istituzione del trust [nota 36], si applicherebbero le elevate aliquote dell’Irpef.

Qualora invece l’istituzione del trust fosse precedente, alla distribuzione degli utili in favore del trustee si applicherebbe l’aliquota dell’Ires pari all’1,375% (27,5% - aliquota Ires x 5% - quota degli utili soggetta a tassazione) ovvero l’aliquota Irpef del 2,15% (43% - aliquota Irpef massima x 5% - quota degli utili soggetta a tassazione) secondo che il trust sia “opaco” o “trasparente” [nota 37].

Sono ipotizzabili tre diversi scenari.

1 - I dividendi vengono distribuiti "in acconto" sulla base di una delibera assunta dagli attuali soci (per cui le partecipazioni verrebbero trasferite al trustee con il credito già sorto) o dal trustee quale nuovo socio. In questo caso, essendo il trust istituito a ridosso (subito dopo o subito prima) della distribuzione dei dividendi il rischio di contestazione dell’abuso è alto.

2 - Il trustee, quale nuovo socio, vota in sede di approvazione del bilancio 2010 la distribuzione dei dividendi: la situazione sembra un pò meno rischiosa ma sempre pericolosa.

3 - Il trustee, quale nuovo socio, approva - in sede di approvazione del bilancio 2010 - una delibera nella quale gli utili vengono appostati a riserva straordinaria. Successivamente, in sede di approvazione del bilancio 2011 delibera di distribuirsi l'utile accantonato. Qui la situazione potrebbe essere valutata ben diversamente da tutti i punti di vista ed eventuali contestazione in chiave di abuso mi parrebbe spuntata.

Tuttavia, qualunque scenario si prenda in considerazione, potrebbe essere dubitabile, per le ragioni già sopra esposte, ritenere che la ragione “essenziale” dell’istituzione del trust sia costituita dall’obiettivo di ottenere il vantaggio fiscale. Ciò che viene in questione in questa situazione non è il trust in sé considerato – - salvo che se ne eccepisca la simulazione o la nullità [nota 38] - quanto il fattore “tempo”, cioè il fatto che esso venga istituito prima della materiale distribuzione degli utili ai soci. Occorre allora interrogarsi e chiedersi se, tra gli elementi che possono essere presi in considerazione dall’Agenzia delle entrate per eccepire l’abuso del diritto, rientri anche il “tempo”. In altri termini l’Agenzia delle entrate dovrebbe eccepire ai disponenti, riprendendo a tassazione la distribuzione degli utili a loro carico e non a carico del trust di avere stipulato un atto (il trust) che non avrebbero dovuto stipulare o, comunque, che avrebbero dovuto stipulare dopo l’avvenuta distribuzione degli utili. Con buona pace della libertà negoziale.


[nota *] Nel corso del presente scritto si utilizzeranno le seguenti abbreviazioni: “Tusd” è il D. lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (“Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni”); “Tur” è il D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (“Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro”); “Tuir” è il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (“Testo unico delle imposte sui redditi”); D.P.R. 600/73 è il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (“Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi”); “AE” è l’Agenzia delle Entrate.

[nota 1] L’istituto dei negozi di affidamento fiduciario è stato teorizzato da M. LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008. Di M. LUPOI Cfr. anche l’approfondimento dal punto di vista operativo contenuto nel volume di M. LUPOI, Atti istitutivi di trust e contratti di affidamento fiduciario, Milano, 2010, p. 419 e ss. Dal punto di vista normativo vanno inoltre segnalati la recente legge della Repubblica di San Marino, che norma espressamente tale istituto (L. 1 marzo 2010, n. 43, su “L’istituto dell’affidamento fiduciario”), nonché lo schema di disegno di legge recante disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee (c.d. legge comunitaria 2010), presentato al Senato (S 2322) ma non ancora assegnato, il quale prevede, all'art. 10, la "Delega al Governo per la disciplina della fiducia”, sebbene, dal punto di vista del “veicolo normativo” utilizzato per introdurre tale disciplina (la legge comunitaria) va osservato che, in verità, nessun obbligo di introdurre la disciplina della fiducia discende dall'appartenenza all'Italia all'Unione europea, non avendo quest'ultima emanato alcuna direttiva in merito.

[nota 2] L'art. 2, comma 47, del D.l. 3 ottobre 2006, n. 262 (in G.U. 3 ottobre 2006, n. 230), convertito con modificazioni nella L. 24 novembre 2006, n. 286 (in G.U. 28 novembre 2007, n. 277, S.O.) si limita ad affermare che la costituzione di "vincoli di destinazione" è attratta nell'ambito impositivo dell'imposta sulle successioni e donazioni, senza spingersi oltre circa le concrete modalità applicative dell'imposta (ciò che invece fanno due circolari dell'Agenzia delle entrate: la n. 48/E del 7 agosto 2007 e la n. 3/E del 22 gennaio 2008). Quanto alle imposte dirette il trust trova esplicita (se pur non completa, essendo anch’essa integrata dalle circolari interpretative) disciplina nel D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir), mentre per il negozio di destinazione vi è assenza di disciplina.

[nota 3] M. LUPOI, Sistemi giuridici comparati, Napoli, 2001.

[nota 4] Ad es. sia la Cina che la Russia si sono dotati -- ormai da anni -- di una legge sul trust (cfr. per una efficace sintesi, AA.VV., World Trust Survey 2004, in Trusts & Trustees, 2004, vol. 10, issue 7, 53 e 148, nonchè, per un commento alla legge cinese E. TOTI - L. FORMICHELLA, «La legge sul trust della Repubblica popolare cinese», in Giust. civ., 2004, II, p. 449). Un tentativo, in verità è stato fatto in Italia in occasione della discussione della legge finanziaria per il 2008, attraverso la presentazione di un emendamento (presentato dal deputato Leddi Maiola) volto ad introdurre nel codice civile una disciplina "Della fiducia", dichiarato inammissibile dalla Commissione bilancio della Camera dei deputati per estraneità di materia a quella propria della legge finanziaria. Il d.disegno D.l. citato alla nt. 1 riprende, nei principi e criteri direttivi cui si dovrà attenere il legislatore delegato, il ddisegno .DD.l. del 2007.

[nota 5] Per una disamina dello "stato dell'arte" in materia ci sia consentito di rinviare a D. MURITANO, Trust e diritto italiano: uno sguardo d'insieme (tra teoria e prassi ), in AA.VV., I trust interni e le loro clausole, AA.VV., I trust interni e le loro clausole a cura di E.Q. Bassi – - F. Tassinari, Roma, 2007, p. 1 e ss.

[nota 6] Sul punto cfr. T. TASSANI, «I trust: trattamento tributario, in Analisi interpretative e novità della circolare 3/E 2008 dell’Agenzia delle entrate», Atti del Convegno di Roma 1° marzo 2008, Milano, 2008,p. 49, ove si ribadisce che «i diversi aspetti costringono, necessariamente, a differenziare il trattamento impositivo a seconda della configurazione del trust, distinguendo tra trust di scopo, trust liberali, trust onerosi, trust con beneficiari diretti, trust auto-dichiarato, e considerando, altresì, le specifiche clausole negoziali».

[nota 7] Faccio mia, estendendola all’imposta di donazione, l’affermazione di F. TESAURO, «Elusione fiscale. Introduzione», in Giur. it., 2010, p. 1721, circa l’inapplicabilità dell’art. 37-bis del D.P.R. 600/73 all’imposta di registro.

[nota 8] Cass., S.U., 2 novembre 2007, n. 23031, in Notariato, 2008, p. 129. Va osservato, tuttavia, che dal punto di vista dei funzionari chiamati ad applicare il tributo la circolare è da ritenersi vincolante, trattandosi di direttive dei superiori gerarchici dell’amministrazione finanziaria centrale, con rischio di responsabilità a carico dell’amministrazione del funzionario firmatario.
Valgano in tal senso i seguenti riferimenti giurisprudenziali (reperibili nella banca dati Pluris):
- L’osservanza delle circolari amministrative può rilevare ai fini dell’esclusione della colpa grave dell’agente in quanto l’osservanza delle circolari adottate dall’organo gerarchicamente sovraordinato costituisce per l’amministrazione destinataria, un vero e proprio obbligo, trattandosi di atti dotati di efficacia esclusivamente interna all’ordinamento nel quale sono emanati, contenenti istruzioni, ordini di servizio, direttive impartite dalle autorità amministrative centrali, o gerarchicamente superiori, agli enti o organi periferici o subordinati (Corte Conti Veneto, sez. giur., 30 giugno 2009, n. 529);).
- Laddove con pluralità di atti (circolari esplicative, risposte a quesiti e verbali di constatazione e sopralluogo) l’amministrazione finanziaria abbia avallato e comunque non formalmente contestato la regolarità ed ortodossia del contegno tenuto dal contribuente, deve riconoscersi formato il legittimo affidamento di quest’ultimo nella correttezza del proprio operato. Conseguentemente è preclusa all’Erario la possibilità di pretendere il pagamento del tributo ovvero l’irrogazione di sanzioni costituendo l’enunciato principio criterio ispiratore dell’ordinamento tributario di rango costituzionale (Comm. trib. reg. Veneto, Venezia Mestre, sez. XXIX, 9 gennaio 2009, . n. 1);).
- Sussiste il presupposto della colpa della pubblica amministrazione nel caso di erronea interpretazione di norme effettuata nonostante che sussistessero due circolari (una statale ed una regionale) che suggerivano la stessa esegesi poi ritenuta corretta in sede giurisdizionale dal giudice amministrativo: la possibilità di un’erronea interpretazione deve, infatti, ritenersi incolpevole soltanto nell’ipotesi in cui il testo normativo sia insuscettibile di ogni comprensibilità da parte della pubblica amministrazione in assenza di un intervento giurisdizionale (Cons. Giust. Amm. Sic., 20 aprile 2007, n. 361).

[nota 9] Cfr. Comm. trib. prov. Lodi, 8 gennaio 2009, in Trusts, 2009, p. 296 e Notariato, 2009, p. 508, con nota di D. Muritano - A. Pischetola; Comm. trib. prov. Caserta, 11 giugno 2009, in Trusts, 2010, p. 71; Comm. trib. prov. Treviso, 30 aprile 2009, in Trusts, 2010, p. 73; Comm. trib. prov. Bologna 30 ottobre 2009, in Trusts, 2010, p. 177.

[nota 10] Cfr. Cass. 25 maggio 2009, n. 12042, in materia d’imposta di registro dovuta in un caso di cessione di azienda, nonché la risoluzione dell’Agenzia delle entrate 24 agosto 2009, n. 234/E, in tema di imposta di successione e “abuso” della rinunzia all’eredità.

[nota 11] Cass. 13 maggio 2009, n. 10981, in banca dati Pluris.

[nota 12] Si tratta di operazioni stipulate circa vent'anni addietro.

[nota 13] Ciò che, a sua volta, apre all’incertezza in merito all’individuazione di quando, e sulla base di quali indici o criteri, un’operazione giuridica può dirsi sorretta da valide ragioni economiche. E se tali indici o criteri debbano essere giuridici o si debba fare ricorso – - come parrebbe - a concetti di tipo aziendalistico.

[nota 14] Si tratta di Cass. 21 gennaio 2009, n. 1465, in Corr. trib., 2009, p. 823; Cass. 8 aprile 2009, n. 8481 e Cass. 8 aprile 2009, n, 8487, entrambe in Dir. e prat. trib., 2009, rispettivamente p. 251 e 258.

[nota 15] Quanto di seguito riportato costituisce la sintesi di G. AMADIO, «La nozione di liberalità nel codice civile», in in AA.VV., Liberalità non donative e attività notarile, I Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, Milano, 2008, p. 10 ss.

[nota 16] E’ È il caso di aggiungere qualche osservazione, tenuto conto dei principiali destinatari di questo lavoro, ai profili formali dell’atto istitutivo di trust e dell’atto traslativo dei beni dal disponente al trustee. Poiché i vantaggi patrimoniali previsti dall'atto istitutivo in favore del beneficiario pervengono non in via diretta dal disponente, ma indirettamente, per il tramite del trustee, sembra corretto ritenere che in un trust liberale (ferma l’esigenza dell’adozione, per esso, di una forma non solo scritta, come impone l’art. 3 della Convenzione de L’Aja, ma anche idonea a consentire la pubblicità del vincolo e, con essa, l’opponibilità ai terzi) non sia necessaria la forma prescritta dagli artt. 782 c.c. e 48 l. notL.N. in tema di donazione, con particolare riguardo alla presenza dei testimoni. È infatti diffusa la tesi secondo cui le liberalità non donative sono esenti dalle prescrizioni formali proprie della donazione, soggiacendo in punto di forma alle regole proprie del negozio effettivamente utilizzato. Va inoltre dato conto – - brevemente - della tesi secondo cui vi sono casi (e il trust sarebbe uno di questi) in cui nel caso di liberalità realizzata tramite trust potrebbero ritenersi applicabili le regole formali proprie del mandato a donare, contenute nell'art. 778 c.c. Tale opinione (cfr. L. GATT, La liberalità, II, Torino, 2005, p. 59 e nt. 110) si fonda sulla distinzione, nell’ambito delle fattispecie che determinano in via indiretta l'arricchimento di un terzo, tra intermediazione «patrimoniale» e intermediazione «gestoria». Secondo tale dottrina, nel caso del trust non si dovrebbe parlare di donazione indiretta bensì di donazione diretta a prestazione indiretta, nel senso che il carattere indiretto atterrebbe solo al coinvolgimento di un soggetto diverso dal donante nel perfezionamento della donazione e nell'esecuzione della prestazione donativa, mentre con l'espressione donazione indiretta ossia attuata indirettamente si indicherebbe non la realizzazione di una causa diversa da quella della donazione, ma la realizzazione di quest'ultima in assenza di un accordo qualificabile come donazione e mediante un contratto avente appunto una causa non donativa. Ne dovrebbe conseguire che solo in queste ultime fattispecie, qualificate da tale dottrina, appunto, di «intermediazione patrimoniale» (ad es. il contratto a favore di terzo), la forma pubblica dell'atto non sarebbe richiesta, in quanto il beneficio giunge al terzo per il tramite del patrimonio di un soggetto diverso dal disponente (es. quello del promittente nel caso di contratto a favore di terzo); nelle fattispecie di intermediazione gestoria (ad es. negozio fiduciario, trust) il patrimonio personale del soggetto che effettua l'attribuzione (es. il trustee) non è coinvolto e costui agisce, appunto, da mero «intermediario gestore». Da qui l'interrogativo circa la possibile applicazione dell'art. 778 c.c. in tema di mandato a donare, con conseguente obbligo di forma solenne sia per l'atto dispositivo disponente-trustee che per il successivo atto attributivo trustee-beneficiari. In sostanza, un trust che, per esempio, prevedesse l'attribuzione al trustee di un bene immobile con l'obbligo di versare le relative rendite ad un terzo, andrebbe ricostruito in modo analogo ad un mandato ad amministrare cui acceda un mandato a donare le rendite, con conseguente obbligo di rispetto della forma solenne.

[nota 17] Ciò in quanto, come si vedrà in alcuni dei casi di seguito esposti, il vantaggio fiscale discende, appunto, dalla presenza di specifiche clausole nell'atto istitutivo di trust (per esempio quelle aventi a oggetto l’individuazione dei beneficiari), qualora esse vengano “costruite“ “ in modo tale da minimizzare il carico fiscale gravante sull’operazione rispetto a quello risultante dall’applicazione delle circolari dell’Agenzia delle entrate del 2007 e del 2008.

[nota 18] Cfr. Corte giust. CECe, 21 febbraio 2006, C-255/02, Halifax, § 81; Corte giust. CECe, 21 febbraio 2008, C-425/06, Part Service s.r.l.Srl.

[nota 19] La ragione “essenziale” “extrafiscale è ritenuta idonea a escludere l’elusione dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte giust. CECe, 21 febbraio 2006, C-255/02, Halifax, spec. §§ 73, 79-86, 94).

[nota 20] Se la mera separazione patrimoniale possa considerarsi causa sufficiente a porre in essere un trust è questione complessa, su cui non ci si può diffondere in questa sede. per alcune considerazioni al riguardo cfr. S. BARTOLI -– D. MURITANO, Le clausole dei trusts interni, Torino, 2008, p. 138.

[nota 21] Cass. 21 ottobre 2005, n. 20398, in Corr. trib., 2005, p. 2379 e Cass. 14 novembre 2005, n. 22932, in Notariato, 2006, p. 123.

[nota 22] Cass. 26 ottobre 2005, n. 20816, in Mass. Giur. it., 2005.

[nota 23] Su tali problemi cfr. E. MARELLO, «Elusione fiscale ed abuso del diritto: profili procedimentali e processuali», in Giur. it., 2010, p. 1731 e ss.; M. SCUFFI, «Il sindacato antiabuso del giudice tra elusione, frode e oneri probatori», in Corr. trib., 2009, p. 1580 e ss.

[nota 24] Comm. trib. prov. Firenze, 12 febbraio 2009, in Trusts, 2009, p. 425 e Notariato, 2009, p. 505.

[nota 25] Si tratta, in sostanza, della tesi sostenuta in D. MURITANO - A. PISCHETOLA, «Considerazioni su trust e imposte indirette», in Notariato, 2008, p. 320 e ss., cui si rinvia per ulteriori riferimenti. Aderisce a tale tesi, da ultimo, V. FARINA, «Rilevanza dell’atto di destinazione nel trust con riguardo alle imposte sulle successioni e donazioni. Profili civilistici e fiscali», in Trusts, 2010, p. 484.

[nota 26] Per esempio nelle leggi di Jersey e Guernsey.

[nota 27] Cfr. Saunders v Vautier (1841) 4 Beav. 115 ovvero Cr. & Ph. 240. Sul principio cfr. A. UNDERHILL-D.J. HAYTON, Law relating to trusts and trustees, Londra, 2003, p. 729 e ss.; M. LUPOI, L’atto istitutivo di trust, Milano, 2005, pp. 97-99.

[nota 28] La regola in questione esiste (ed è inderogabile) non solo nel diritto inglese, ma anche in quello di numerosi altri Stati che vi si sono conformati: cfr. ad esempio Jersey, art. 43 (3) Trust Law 1984 (as amended 2006); Malta, art. 17 (3) Trusts and Trustees Act 2004; San Marino, art. 52 comma terzo legge n. 37 del 2005. Quanto agli U.S.A.,sa sino dalla fine del XIX secolo la maggior parte degli Stati (si pensi, ad esempio, al Texas) tende invece a discostarsi dall’impostazione della legge inglese, dando prevalenza ad un’eventuale volontà del disponente contraria ad una siffatta cessazione anticipata del trust, sulla scia del famoso precedente del 1889 Claflin v Claflin 20 N.E. 454. Sulla questione cfr. altresì, in giurisprudenza, High Court of Justice, Chancery Division 20.3.2002 [In the Matter of Professor Sir Derek Harold Richard Barton (dec.)], in Trusts, 2003, p. 272 e ss.; in dottrina M. LUPOI, L’atto istitutivo,…, cit., pp. 230-231; E. BARLA - DE GUGLIELMI, «Il potere dei beneficiari di porre fine al trust tra diritto inglese e diritto texano», in Trusts, 2003, p. 236 e ss.

[nota 29] Cfr. Re Lord Nunburnholme [1912] 1 Ch 489: in quel caso un soggetto era stato indicato come beneficiario se avesse raggiunto l’età di 30 anni e si è pertanto escluso che costui potesse reclamare la quota di beni in trust spettantegli prima che la condizione si fosse avverata.

[nota 30] Cfr. Re Jefferies [1936] 2 All ER 626.

[nota 31] Su questa clausola, conforme al diritto inglese ma non altrettanto al nostro diritto, cfr. S. BARTOLI - D. MURITANO, Le clausole dei trusts interni, Torino, 2008, p. 43.

[nota 32] Le imposte ipotecaria e catastale sugli eventuali immobili sarebbero invece dovute.

[nota 33] Sulle cui ragioni cfr. S. BARTOLI - D. MURITANO, Le clausole, op. ult. cit., p. 45 e ss.

[nota 34] Ma la regola si applicherebbe anche se il trustee non erogasse alcunchè.

[nota 35] La disciplina delle società di comodo è nata per contrastare l’abuso del reddito d’impresa, non delle società immobiliari in sé. Mutatis mutandis, nella fattispecie in questione non si abuserebbe del trust in sé ma del trust in quanto soggetto Ires.

[nota 36] Gli utili stessi verrebbero poi trasferiti al trustee del trust successivamente istituito, unitamente alle partecipazioni.

[nota 37] Le nozioni di trust “opaco” e “trasparente” sono state introdotte dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 48 del 2007.

[nota 38] Ciò che aprirebbe altri problemi, dei quali non è possibile discorrere in questa sede.

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