Intervento alla tavola rotonda: Per quali ragioni il bisogno delle imprese italiane di crescere facendo rete non ha ancora trovato un'adeguata risposta?
Intervento alla tavola rotonda: Per quali ragioni il bisogno delle imprese italiane di crescere facendo rete non ha ancora trovato un'adeguata risposta?
di Domenico Palmieri
Presidente Associazione Italiana Politiche Industriali
Questa nota traccia le linee guida dell'intervento di Domenico Palmieri al Convegno del Notariato nazionale in tema di "contratto di rete" e vuole ricostruire lo scenario da cui, secondo Aip, che è testimone "autentico", è partita la necessità manifestata dalla comunità economica e dalle imprese italiane di ricerca di vie attraverso cui superare l'handicap della piccola dimensione per poter competere sui mercati ormai globalizzati. Esigenza colta da Aip e trasfusa nel libro Reti d'impresa: profili giuridici, finanziamento e rating, edito da Gruppo 24 Ore, 2011, come quarto di una serie.
Innanzitutto va chiarito, dopo tre volumi [nota 1] già pubblicati in tema di reti, il perché di questa quarta edizione ed il perché Aip considera questi contributi molto innovativi e assolutamente non ripetitivi.
L'esigenza di un ulteriore approfondimento è nata dal campo sulla base di due nette evidenze: un ampio riscontro, forse anche al di là delle stesse attese, di adesioni concettuali e di volontà attuative che hanno vieppiù sottolineato la criticità delle tesi, dapprima, e una troppo ampia diffusione di interpretazioni imprecise e talora superficiali che alla lunga potrebbero semplificare eccessivamente, se non banalizzare del tutto, l'istituto e, soprattutto, l'impianto normativo del contratto di rete sino a rischiare di rendere quest'ultimo quasi ridondante rispetto alle leggi già esistenti.
Ciò che non è.
Ormai tutti gli addetti ai lavori nel mondo della economia industriale parlano di reti nella maniera più differenziata possibile.
Ciò crea confusione e fa correre il rischio di cui si è detto: degli esempi? è presto fatto: dalla interpretazione più ricorrente ma solo parzialmente corretta la rete viene considerata come rete di filiera o di fornitura, nata e attuata, da chi ha fatto industria, già a metà degli anni '90, come evoluzione dei sistemi orientati dalla qualità totale, con il superamento del "conto terzismo".
La rete, in questo caso, ha una sua innegabile funzione oggettiva, ma resta un fenomeno regolato da un "contratto di scambio", di scambio di merci o servizi.
Siamo di fronte, quindi, ad una realtà interessante già nota da oltre 15 anni e non tale da stravolgere e arricchire più di tanto il ruolo della piccola industria rispetto alle aziende grandi e medie al cui servizio esse si organizzavano.
Trattasi, dunque, di una interpretazione corretta ma molto riduttiva che non può essere di certo veicolata come una grande novità.
Eppure fonti autorevoli insistono nel confondere questo che è un modello, di nove individuati da Aip, con la collaborazione di Professori del Politecnico di Milano, con il "modello" per antonomasia, ignorando la vera novità delle reti d'impresa di nuova generazione, che non sono più solo di integrazione verticale di filiera, ma orizzontali, cioè composte da concorrenti o aziende complementari.
E questo è il primo e forse più incisivo errore o insufficienza degli approcci attuali, anche da parte del Notariato che pensa soprattutto al contratto di scambio.
Ma altre sono le affermazioni di cui va sottolineata la totale distonia rispetto alle reti di impresa di nuova generazione di cui Aip si è fatta carico nel proporne i connotati già nel volume Reti di impresa oltre i distretti (2008, ed. Il Sole 24 Ore) per rispondere alle esigenze da cui si è partiti.
Innanzitutto si parla infatti spesso di reti come se si parlasse di reti di infrastrutture (la rete autostradale, quella telefonica, le Ferrovie dello Stato, le stessa rete informatica genericamente intesa, ecc.), per finire alla rete come sistema di collegamento di più che si consultano, che hanno qualche occasione di incontro e scambio di informazioni, ma niente di più. E ciò è troppo poco perché si facesse una legge in proposito.
Ma esistono ancora altre, più tecniche, errate interpretazioni: si confondono le reti di impresa con noti istituti specifici ed esistenti e utili per altra finalità. Intendiamo riferirci alle Ati (associazioni temporanee di impresa), ai consorzi industriali a rilevanza interna o a quelli a rilevanza esterna, e anche ai distretti Industriali: tutti istituti prestigiosi e noti [nota 2], molto differenti dalle reti di impresa di nuova generazione, di cui è opportuno invece evidenziare meglio le funzioni e le caratteristiche se non si vuole perdere la grande opportunità che esse offrono al sistema industriale italiano, a cui evidentemente gli altri istituti non hanno risposto, essendo inadeguati intrinsecamente o perché con altre finalità. Va detto prima di tutto che le reti di impresa superano, pur senza voler annullare, nel suo valore, la dimensione fondamentale della territorialità, della localizzazione e della specializzazione, i pilastri del distrettualismo.
Trans-territorialità e, talora, ibrido merceologico sono i connotati delle reti nel tentativo di catturare sinergie soprattutto, ma non solo, di conoscenza e di interessi comuni, dovunque essi si trovino localizzati.
Le reti di impresa che Aip ha evidenziato e proposto già dal 2006, si è detto, nascono come rimedio alla piccola dimensione del sistema industriale italiano, e perché possano esserlo devono essere volute esplicitamente dagli imprenditori e stabili nel tempo, anche se con vincoli meno cogenti di quelli che si realizzano con le joint-venture e le fusioni o acquisizioni: e con ciò si evidenzia subito e automaticamente la differenza dalle Ati, che sono per definizione temporanee e strutture per progetti, e parzialmente la differenza dai distretti industriali, che sono sufficientemente informali e senza particolari vincoli.
Ma c'è di più: le reti di impresa si caratterizzano in maniera molto diversa anche dai consorzi e dagli stessi distretti, che sono entrambi prevalentemente di scopo e non lucrativi, ma esclusivamente con finalità mutualistiche, e quindi non possono assumere quel significato di risposta alla piccola dimensione di impresa, che da sola nel mercato globale, anche se sviluppa qualche efficienza in qualche settore, non riesce a competere per realizzare reddito. Per far questo, oggi, bisogna essere più grandi e avere più massa critica sia sul fronte costi sia sul fronte attività di mercato nonché come capacità complessiva di sviluppare prodotti a multifunzionalità e quindi pluritecnologici e multisettoriali merceologicamente, che è quanto è richiesto dal mercato.
Siamo molto lontani dalla specializzazione tecnologica e territoriale, che ovviamente conservano un loro valore di per sé non più sufficiente, e siamo quindi molto lontani ancora dai distretti e dagli stessi consorzi, ma anche dai cluster del centro/nord europa, che sono realtà intermedie tra i nostri distretti industriali e le nostre reti di impresa.
Ma non bastano, per ciò, le fusioni e le joint-venture, ci si potrebbe chiedere?
Certo, si potrebbe rispondere, ma le reti di impresa di nuova generazione si differenziano per una fondamentale caratteristica: partecipano a creare la più grande dimensione con legami stabili ma su aree parziali; salvaguardano, quindi, la autonomia parziale dei singoli. Non fanno scomparire imprese o imprenditori, ma mettono in condizione i più piccoli per comportarsi da grandi e assicurano ai più grandi innovazioni e approvvigionamenti sicuri dai più piccoli, di solito molto creativi e dinamici.
Queste reti di impresa, quindi, sono anche una palestra che potrebbe essere considerata l'anticamera a lungo termine delle fusioni vere e proprie.
Trattasi, quindi, di una soluzione che cerca di coniugare la crescita dimensionale e la autonomia dei singoli; trattasi di una soluzione intermedia tra libero mercato dei piccoli e rigida integrazione verticale di stile fordista. è quindi una soluzione sofisticata che non deve essere banalizzata, pena la sua non significatività.
Fin qui, sostanzialmente, l'eziologia delle reti, come proposte, dal 2006/2007, a partire dal campo, interpretato da Aip e accettato dalle maggiori associazioni di categoria.
Ma la formulazione della legge 30 luglio 2010, n. 122, art. 42 comma 4-ter, come norma questo tipo di rapporto giuridico con cui si è inteso innovare il diritto commerciale italiano?
La prima versione della legge, che risale alla disciplina dettata dai commi 4-ter e ss. dell'art. 3 della legge 9 aprile 2009, n. 33, naturalmente è sufficientemente vicina alle esigenze indicate, anche se non del tutto conforme, e ciò è significativo ai fini delle successive elaborazioni che hanno portato alla formulazione finale della legge n. 122/2010 e a molte interpretazioni succedutesi, comprese quelle notarili, che hanno introdotto distacchi importanti dalle primarie esigenze, che si sono indicate, e quindi favoriscono alcune distorsioni che rischiano di rendere del tutto inutile la legge stessa.
Senza alcuna pretesa di esegesi giuridica, che lasciamo ai tecnici del diritto e in particolare ai Professori universitari di diritto commerciale specificamente (vedi il volume Reti d'impresa: profili giuridici, finanziamento e rating, Milano, 2011), piuttosto che di altre specializzazioni del diritto e delle professioni, pensiamo sia utile leggere pedissequamente il dettato della norma che è il seguente:
"4-ter. Con il contratto di rete più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all'esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell'oggetto della propria impresa. Il contratto può anche prevedere l'istituzione di un fondo patrimoniale comune e la nomina di un organo comune incaricato di gestire, in nome e per conto dei partecipanti, l'esecuzione del contratto o di singole parti o fasi dello stesso".
Già in questa formulazione si caratterizza una norma estremamente elastica e flessibile che consente molteplici interpretazioni: e qui il pregio e il difetto della legge.
è una norma molto poco prescrittiva che lascia molto spazio alle volontà negoziali delle parti: la prescrittività maggiore è che i partecipanti devono essere imprenditori, e ciò è fortemente limitativo per la funzionalità e l'esigenza del campo, che necessiterebbe, al contrario, di presenze, sempre e solo minoritarie e magari transitorie, di enti di Ricerca o di enti territoriali in posizione di stimolatori/facilitatori per la creazione di realtà che mettano in contatto di collaborazione soggetti abituati ad operare sempre e unicamente come singoli.
Ma a parte questo limite, che potrebbe anche essere accettato senza stravolgere le esigenze di base, la legge, in forma alquanto generica, parla di imprenditori che si mettono insieme per l'accrescimento individuale e collettivo della propria capacità innovativa e della propria competitività e che per questo si obbligano a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, ecc., e, da ultimo, "ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell'oggetto della propria impresa".
Trattasi, come si noterà, di concetti molto diversi, da cui deriva, per la maggior parte, la confusione oggi presente.
Con questi obiettivi indicati, chi si ferma alle prime due formulazioni può essere portato a dire che non è necessario un fondo patrimoniale. Infatti la legge 122/2010 dice che esso è facoltativo, arrivando attraverso varie semplificazioni concettuali a ritenere che la rete che il legislatore norma è una rete light con pochissimi vincoli e, nella migliore delle ipotesi, una rete "di scambio" della categoria rete di filiera, come potrebbe suggerire la seconda opportunità che si riferisce a scambi industriali, ecc., cui molti commentatori restano legati dalla metà degli anni '90. Ma se fosse solo così ci sarebbe da domandarsi del perché di una nuova legge, considerato che queste reti già si organizzavano e che nel codice civile italiano sono già previste varie figure di contratti commerciali a cui poter attingere.
Se invece si considera il terzo obiettivo della formulazione normativa, si vede subito dov'è la vera innovazione e la vera ragione della nuova norma. Perché una impresa svolga attività in comune con un'altra, è necessario che entrambe si traguardino all'obiettivo comune delle attività di impresa, che notoriamente è il reddito. Due o più imprenditori si collegano per realizzare un reddito in comune.
Allora il contratto di rete non può essere considerato solo un contratto di scambio, ma deve essere considerato un "contratto associativo" che crea obblighi e diritti tra i partecipanti che vanno ben al di là del puro profilo commerciale della definizione di prezzi e quantità.
Il discorso, quindi, diventa un po' più complesso di quanto si sente e si legge in giro e suscettibile di approfondimenti che, ribadendo il suo significato innovativo, lo arricchiscano anche di nuovi contenuti, che rendono la norma adeguata anche alle esigenze che ne avevano spinto la richiesta e suggerito l'introduzione nel diritto commerciale italiano.
Non si può trascurare questo passaggio e considerarlo troppo avanzato o inutile: è solo la non conoscenza delle reti di nuova generazione proposte e delle diverse implicazioni e dei diversi profili che possono essere previsti, a non far cogliere la grande novità giuridica insita già nella legge e tutta la sua portata e tutto il suo significato potenziale. Senza questa considerazione la legge è praticamente inutile. In un sistema di leggi ampio in tema di cooperazione tra imprese e che ha già l'istituto del consorzio con attività esterna, sarebbe stato inutile prevedere un nuovo istituto con obiettivi similari.
La posizione di Aip nasce con tale consapevolezza e mira a contribuire a queste chiarificazioni spingendosi anche a suggerire, nei fatti, le implicazioni migliorative che sarebbe utile prevedere per la legge da una parte (basti pensare, come si è detto, al taciuto e invece indispensabile ruolo minoritario di enti ed istituzioni non direttamente lucrativi, sia per lo sviluppo tecnologico, sia per l'attivazione e sollecitazione delle aggregazioni stesse), e dall'altra agli accorgimenti e alle attenzioni che bisognerà prestare sul piano applicativo, per riempire tutti gli spazi che la legge volutamente lascia scoperti.
La legge, molto utile, nei successivi rifacimenti tra il 2009 e il 2010 lascia infatti spazio a molte possibilità e a molti equivoci, che solo la attenta considerazione dei contributi di più profili professionali può evidenziare.
La legge, cioè, consente certamente reti snelle o leggere che dir si voglia, ma consente anche e anzi obbliga a reti "pesanti", ossia a reti "associative", se si vuole fare attività in comune, che poi è l'obiettivo che corrisponde all'istanza di base, come si è più volte sottolineato, proveniente dal campo e fatta propria dalle prime razionalizzazioni.
E che il legislatore avesse chiare queste finalità risulta evidente anche dalla terminologia che usa quando parla del fondo patrimoniale, indicando conferimenti (tipici delle società di capitale) e contributi successivi alla costituzione, tipico linguaggio per le alleanze mutualistiche (i consorzi primariamente).
E qui si incontra la vera novità giuridica delle reti di impresa di nuova generazione: la creazione di una aggregazione con fini mutualistici e lucrativi. Siamo di fronte ad una nuova figura giuridica di grande interesse che alcuni professori di diritto commerciale, segnatamente dell'Università del Molise e della Sapienza di Roma, dicono chiaramente avere la flessibilità organizzativa delle società di persone e la responsabilità limitata delle società di capitale.
Con questa interpretazione della legge così come formulata, pur con qualche carenza che andrà colmata, si risponde all'esigenza di base da cui si è partiti e si evita il grande rischio che le reti senza fondo comune siano interpretate dai creditori come società di fatto e quindi a responsabilità illimitata per i singoli.
E per la verità, i primi contratti di rete che si cominciano a vedere presentano questi rischi.
è il rischio che si corre anche con la adozione in Italia dello Small Business Act: se non si conosce a fondo la nuova realtà delle reti, l'accumulo di vecchio e nuovo, e il desiderio di combinare cose diverse con diverse finalità, non gioverà alla economia del nostro sistema di Mpmi, né ad una politica industriale del prossimo e ormai incoming futuro.
Aip si pone in questa prospettiva: come si può valorizzare una importante innovazione economico-giuridica attuata dal legislatore senza banalizzarla e allo stesso tempo evitando future confusioni, mai utili alla economia, e anzi rendendola più pregnante e in grado di far cogliere vantaggi finora non visti e studiati, soprattutto per quanto concerne le valutazioni patrimoniali di asset, spesso inespressi e nascosti, non solo intangibili, e il più generale rapporto banche/imprese e in particolare il rating di rete, che è cosa assai diversa dal rating delle singole imprese, ancorché appartenenti a reti?
In questa prospettiva Aip ha presentato in collaborazione con Professori della Bocconi una prima ipotesi, del tutto nuova, per calcolare e collocare il valore aggiunto di rete nella rete in quanto tale e non nei vari soggetti.
è facile immaginare il potenziale interesse per questo aspetto sia per gli imprenditori, tradizionali prenditori del credito, sia per le banche, tradizionali erogatori.
Ostinarsi nel non riconoscere questa realtà penalizza fortemente la valenza dell'istituto: siamo di fronte ad una legge che consente più possibilità, facciamo sì che queste e tutte possano esplicarsi realizzando reti leggere, con i rischi di cui si è detto, e realizzando però anche reti pesanti finalizzate alla attività in comune a fini di reddito.
Smettiamo di rifarci solo ai modelli degli anni '90 delle reti di filiera e fornitura e cogliamo la novità giuridica che ci è offerta.
Perché ciò si realizzi sarebbe sufficiente riconoscere la soggettività tributaria e quindi la partita Iva alle reti, ciò che l'amministrazione finanziaria aveva persino previsto per i distretti nella legge 266/2005, quando parlava di consolidato fiscale per gli stessi, e la stessa Agenzia delle entrate con l'art. 73 del testo unico delle imposte sui redditi approvato con D.P.R. del 22 dicembre 1986 n. 917, al secondo comma, individua persino nelle associazioni non riconosciute e nei consorzi la soggettività passiva, tesi ribadita anche dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 77/52 del 1999 e n. 12097 del 2003.
è un grave errore pensare anche che con ciò si perderebbe la valutazione positiva della Commissione europea sugli incentivi fiscali, per due ordini di motivi.
Il primo, il più banale, perché un'innovazione di questa portata non si può fare per prendere gli incentivi, peraltro modestissimi e per ora transitori; e in seconda istanza perché la delibera europea n. 343/2010 – Italia del 26 gennaio 2011, che sembra prendere solo atto di una affermazione dell'amministrazione italiana, ribadisce che il criterio guida per riconoscere gli incentivi fiscali è quello fornito dall'art. 107 del Tfeu, che nel caso delle reti italiane con fondo patrimoniale non viene assolutamente infranto.
Si può quindi dire con sufficiente sicurezza che al riconoscimento della soggettività giuridica e tributaria in favore della rete di tipo associativo e all'applicazione delle agevolazioni fiscali non ostano né gli artt. 101 e 107 n. 1 del Tfeu né la decisione C(2010) 8939.
Infatti, per il Tfeu le agevolazioni fiscali possono essere riconosciute ed applicate dai singoli Stati membri solo se queste sono volte alla generalità delle imprese e delle categorie merceologiche e non sussiste alcun criterio discrezionale di attribuzione del beneficio da parte dello Stato membro, ed è solo in assenza di tali requisiti che la Comunità definisce dette misure come incompatibili con il mercato interno.
Nel caso che ci occupa, l'agevolazione non è selettiva, in quanto prevista per tutte le categorie merceologiche, senza distinzione territoriale, ne possono essere beneficiarie tutte le imprese rete che ne facciano richiesta e per il solo fatto di essere costituite in rete.
Al contempo la ratio del Tfeu è anche quella di garantire la libera concorrenza nel mercato e di evitare, pertanto, l'abuso di posizione dominante da parte delle imprese e delle aggregazioni di imprese, e di ogni altra pratica concordata che possa pregiudicare il commercio tra gli Stati membri o che possa falsare il gioco della concorrenza. In caso di rete di imprese non sussistono le suddette condizioni, ancorché le aziende partecipanti costituiscano una rete di tipo associativo ed essendo prevedibile addirittura l'adesione alle reti anche di soggetti esteri. Sul tema della regolamentazione della concorrenza e del divieto di turbativa della concorrenza in materia di reti di imprese si è già espressa favorevolmente l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, secondo la quale l'istituto del contratto di rete può essere ritenuto compatibile con i principi e le leggi in materia antitrust laddove venga realizzato in senso pro-concorrenziale e con finalità pro-competitive, idoneo quindi a migliorare le condizioni di efficienza e sviluppo del mercato.
Ciò posto il riconoscimento della soggettività giuridica e, quindi, tributaria alle reti di impresa non altera le ordinarie regole di concorrenza nei mercati e non comporta da parte degli aderenti pericoli di abuso di posizione dominante nelle aggregazioni di imprese e nei mercati, ove il principio ispiratore del contratto di rete è quello di incrementare la produttività delle Pmi mediante l'incremento dimensionale delle aderenti nei confronti di determinati mercati e con il naturale coinvolgimento della prospettiva dell'internazionalizzazione delle stesse.
Per tutto quanto sopra si può agevolmente concludere che il contratto di rete di tipo associativo non comportando violazioni di cui agli artt. 101 e 107 del Tfeu è pienamente compatibile con il regime delle agevolazioni fiscali previste dalla legge 122/2010, pertanto l'erogazione delle stesse anche in favore di reti di tipo associativo non costituisce aiuto di Stato, nel pieno rispetto del Tfeu.
In mancanza delle correzioni modeste indicate, da parte dell'amministrazione, nell'interpretazione della legge nella fase di de iure condendo, come dice il Notariato, bisognerà attuare, in fase attuativa, degli accorgimenti operativi attraverso società di capitale veicolo da affiancare alle reti. Sarebbe un assurdo, perché tratterebbesi di complicare una cosa semplice rendendola complicata, ma sarebbe inevitabile.
E il tutto va fatto in fretta, perché un'ulteriore errata tentazione va affiorando: che le interpretazioni finali siano a valle di ciò che indicherà la prassi: ma se la prassi è portata a comportamenti errati allo start up, è facile prevedere che il prodotto finale sarà proprio un aborto.
Aip si impegna a continuare il suo lavoro di approfondimento e proposta, anche perché non sono affatto chiare le ragioni che spingono a negare alcune evidenze e a opporre resistenza all'estrinsecarsi delle potenzialità totali del nuovo strumento legislativo, riducendone il campo di applicazione ai soli contratti leggeri: se la legge ha delle incompletezze, tra l'altro, si suppone, volute, come si ricava nei passaggi tra la prima formulazione del 2009 e la definitiva del 2010, perché non battersi per le integrazioni piuttosto che per il rifiuto? Non sarebbe meglio avere una legge completa e soddisfacente, aperta a tutte le possibilità piuttosto che lavorare per la difesa delle incompletezze?
In questo, il Notariato potrebbe svolgere un ruolo essenziale se accanto alla interpretazione tecnica e vincolante del de iure condito, come si sente dire spesso, si esprimesse anche un'azione adattativa per soddisfare tutte le vere esigenze emergenti dal campo.
I due precisi obiettivi di politica industriale connessi allo sviluppo di nuove modalità di rapporto banche/imprese e ad un potenziamento delle possibilità di finanziamento per le Pmi e allo sviluppo dell'internazionalizzazione, riducendo drasticamente gli investimenti diretti all'estero, non meritano questo sforzo?
Aip, nel continuare nel suo ruolo di innovazione e migliore interprete delle esigenze economiche del sistema delle micro e piccole/medie imprese, ritiene di sì e continuerà ad adoperarsi perché la sua prima formulazione delle reti di impresa di nuova generazione possa finalmente essere opportunamente compresa ed attuata. Una serie di segnali di accostamento a questa prospettiva da parte di chi si è finora opposto lascia ottimismo, perché la logica prima o poi comunque prevale nella prassi.
[nota 1] Modelli di crescita delle Pmi, Milano, 2007; Reti di impresa oltre i distretti, Milano, 2008; Fare reti di impresa, Milano, 2009.
[nota 2] A maggiore utilità di chi legge, si possono schematicamente evidenziare alcune delle caratteristiche fondamentali tipiche di questi istituti:
a. Le Fusioni e acquisizioni fanno perdere ogni e qualunque indipendenza soprattutto ai più piccoli e più deboli, anche se hanno innegabili aspetti di semplificazione a tutti evidenti.
b. I Consorzi sono entità consolidate ed efficaci: normalmente, tuttavia, nascono con fini mutualistici, e quindi non lucrativi, e sono di scopo, cioè hanno una funzione definita (gli acquisti, lo sviluppo di un prodotto, la tutela del marchio e così via). Nel consorzio ci si associa per un obiettivo specifico e, nella generalità, per ottenere una riduzione di costo: i partecipanti quando operano al di fuori del consorzio restano competitori e quindi non hanno obiettivi comuni soprattutto per quanto concerne l'obiettivo di reddito. Per tali motivi essi sono spesso portatori di conflitti di interessi, sono talora visti con sospetto e hanno portata limitata.
c. Le Ati sono aggregazioni temporanee di imprese per la realizzazione di specifici progetti. Prevale la logica del tempo limitato nel senso che il progetto, per sua natura, ha una data di nascita e una data di conclusione: incide quindi su un segmento di attività dell'impresa e per un tempo limitato.
d. I distretti industriali: hanno rappresentato la formula vincente per l'economia industriale del nostro Paese per più di 40 anni: a partire dall'inizio degli anni 2000, tuttavia, hanno perduto capacità trainante non essendo più sufficiente il legame territoriale localistico per competere nel mercato globale. Non è in discussione il cosiddetto "vantaggio di distretto", e quindi non hanno più grande valore le analisi econometriche per investigare se l'appartenenza al distretto dia maggiore reddito o meno. Pur se in attenuazione e, talora, in maniera contraddittoria, le evidenze sembrano indicare che permane un "effetto distretto" positivo. Il problema di oggi è, tuttavia, che essi non appaiono più sufficienti come risorsa o leva per la competizione globale che è diversa da quella del passato.
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