Reti di imprese e consorzi tra imprenditori: interessi coinvolti e modelli operativi
Reti di imprese e consorzi tra imprenditori: interessi coinvolti e modelli operativi
di Federico Tassinari
Notaio in Imola
Le aspettative finora deluse del contratto di rete
La nascita del contratto di rete come istituto di diritto positivo italiano, ad opera dell'art. 3 comma 4-ter e seguenti del D.l. 10 febbraio 2009, n. 5, convertito con modificazioni nella L. 9 aprile 2009, n. 33, appare frutto di una scelta quasi casuale, finalizzata ad estendere a tale nuova figura, definita in maniera incerta dal legislatore, alcune delle agevolazioni di tipo pubblicistico previste dall'art. 1 comma 468 L. 23 dicembre 2005, n. 266, in tema di distretti produttivi.
Definizione del contratto di rete ed individuazione delle concrete agevolazioni pubblicistiche ad esso applicabili sembrano, nell'ottica del legislatore italiano, due tematiche destinate a procedere di pari passo.
Così, lo stesso legislatore:
- con l'art. 1 della L. 23 luglio 2009, n. 99, è intervenuto al fine di modificare i commi 4-ter, 4-quater e 4-quinquies dell'art. 3 del citato D.l. 5/2009, convertito nella L. 33/2009, altresì introducendo nel medesimo articolo, tra l'altro, i due nuovi commi 4-ter 1 e 4-ter 2, e ha riformulato, unitamente alla definizione ed alla disciplina sostanziale del contratto (commi 4-ter, 4-ter 1, 4-ter 2, 4-quater), anche il tipo di agevolazioni pubblicistiche applicabili (comma 4-quinquies);
- con l'art. 42 D.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni nella L. 9 aprile 2010, n. 122, è intervenuto una seconda volta al fine sia di sostituire integralmente la norma definitoria e modificare la disciplina del contratto (art. 42, comma 2-bis, per modificare il citato comma 4-ter, e comma 2-ter, per modificare il citato comma 4-quater), sia di ridefinire, ed ampliare, l'ambito applicativo delle agevolazioni pubblicistiche (art. 42 comma 2 e, soprattutto, commi 2-quater e seguenti, al fine di introdurre una rilevante - seppure temporanea: fino al 31 dicembre 2012 - agevolazione fiscale in materia di detassazione degli utili di esercizio dalle imprese che costituiscono una rete destinati al fondo comune di quest'ultima).
La disciplina introdotta, in tutti e tre i casi, lascia nell'interprete il dubbio circa la natura pubblicistica o privatistica della normativa in materia di reti d'impresa.
Non è chiaro, infatti, se lo scopo del legislatore sia stato quello di promuovere un intervento pubblico agevolativo ed assistenziale nell'economia, in cui la "definizione civilistica" vale solo a circoscrivere il perimetro delle agevolazioni stesse, oppure quello, certamente in teoria più ambizioso, di introdurre un nuovo tipo contrattuale, in cui la previsione delle varie agevolazioni di tipo pubblicistico vale solo a promuovere un modello scelto comunque in forza di considerazioni di tipo prettamente giusprivatistico.
La mera lettura delle norme, indubbiamente, non aiuta, per la loro formulazione generica, confusa e stratificata, a sciogliere il dubbio.
Il fatto che l'incipit normativo sia rappresentato dalla definizione civilistica non può infatti in alcun modo essere considerato decisivo al fine di sciogliere il dubbio nel senso che si tratti di una normativa di tipo privatistico.
Non aiuta neppure, a risolvere il dubbio, il riconoscimento della natura privatistica dell'istituto - un po' scontatamente, trattandosi dell'obiettivo certamente più ambizioso - da parte di quei giuristi che, d'intesa con alcune associazioni imprenditoriali, hanno promosso l'attuale testo legislativo come un insieme inscindibile di norme privatistiche e di agevolazioni pubblicistiche, e, così facendo, hanno cercato di fissare comunque il contenuto e la funzione dell'istituto in un'ottica squisitamente privatistica.
Un po' più di aiuto, forse, può provenire dal recente studio approvato dalla Commissione di impresa del Consiglio nazionale del Notariato [nota 1], secondo cui, più che una difficile ricerca delle intenzioni del legislatore, deve piuttosto sottolinearsi l'assenza, nelle presunte norme di tipo civilistico, di elementi caratterizzanti al fine della individuazione di uno specifico tipo contrattuale [nota 2].
Con la conseguenza che l'interprete, neppure volendo, potrebbe riconoscere nel c.d. contratto di rete un nuovo tipo contrattuale caratterizzato da elementi autonomi e specifici rispetto ai tipi contrattuali già previsti in altre norme dal legislatore, a cominciare dagli artt. 2602 e ss. c.c. in tema di consorzi tra imprenditori.
Secondo quest'ultimo studio, come il legislatore [nota 3], quando disciplinò - introducendo nell'ordinamento, indubbiamente, anche norme di tipo privatistico - l'istituto delle Onlus (organizzazioni non lucrative di utilità sociale), si è preoccupato, per interpretazione ormai consolidata, di individuare i requisiti per assumere una veste idonea a fruire di agevolazioni pubblicistiche, senza che le norme civilistiche medesime potessero introdurre e connotare un nuovo tipo contrattuale, così, allo stesso modo, il più recente legislatore del 2009 - 2010 avrebbe, volente o nolente, viste le caratteristiche di merito, per così dire, delle norme dettate, introdotto agevolazioni pubblicistiche fissandone i presupposti, senza riuscire a creare alcun nuovo tipo contrattuale, nonostante lo sforzo, che certamente traspare, di distinguere contratto di rete e contratto di consorzio tra imprenditori.
In questo dubbio non risolto - e, più chiaramente, in quest'ultimo sforzo distintivo tra contratto di rete e contratto di consorzio tra imprenditori - si può rinvenire una prima spiegazione dell'insuccesso fino ad oggi dell'istituto.
Secondo la stampa finanziaria, infatti, il numero dei contratti di rete sottoscritti ai sensi della normativa al vaglio sarebbe, per una fonte [nota 4], pari a 118 unità fino al giorno 28 settembre 2011, e, secondo una diversa fonte [nota 5], pari a 162 unità fino al giorno 12 ottobre 2011 (le due informazioni non sono incompatibili, dal momento che il 30 settembre 2011 è scaduto il termine rilevante al fine di ottenere le agevolazioni fiscali, con la conseguenza che alcune decine di reti potrebbero essere state costituite proprio il 29 o il 30 settembre 2011).
Si tratta, senza ombra di dubbio, di un palese insuccesso, soprattutto se si riflette che alcune reti, almeno nell'esperienza di chi scrive, sono state costituite, purtroppo, senza alcuna preoccupazione e consistenza civilistica, al solo, quasi dichiarato, fine di potere comunque fruire delle agevolazioni pubblicistiche previste.
L'interprete che non si rassegni a questa conclusione "all'italiana", allora, non può fare altro che riprendere l'istituto ab imis, partendo dalle sue necessarie, e forse finora non sufficientemente sottolineate, premesse economiche.
Le premesse economiche
è un dato fin troppo evidente che l'Italia, per restare competitiva nel panorama economico internazionale, e così garantirsi qualità di vita e futuro, ha un urgente, drammatico bisogno di crescere dal punto di vista del prodotto interno lordo.
Che rapporto ci può, o deve, essere tra tale bisogno di crescita ed il c.d. contratto di rete?
Gli economisti, a partire da quegli studiosi anglosassoni che, già nel corso già degli Anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso, hanno dedicato i loro studi all'organizzazione economica dell'impresa concentrandosi sull'analisi dei costi di transazione [nota 6], ritengono di potere dare una risposta abbastanza chiara.
Solo crescendo di dimensioni l'impresa può restare competitiva sul mercato, dal momento che la crescita è lo strumento per ottimizzare i costi di transazione, ovvero quei costi che l'impresa deve sostenere per procurarsi i fattori produttivi necessari per la produzione dei beni o dei servizi.
Aumentando la propria dimensione, infatti, l'impresa si mette in condizione di creare economie di scala, ovvero situazioni in cui l'aumento dei volumi dei beni e dei servizi prodotti determina la riduzione dei costi medi necessari per la loro produzione, ed economie di scopo, ovvero situazioni in cui il costo totale della produzione congiunta di due o più beni o servizi è minore della somma dei costi sostenuti in caso di produzione separata.
La necessità da parte di ogni impresa di perseguire con ogni sforzo un percorso continuo di crescita, anche attraverso processi di diversificazione, selezione e specializzazione, è particolarmente sottolineata da quegli economisti che seguono, anche in materia economica, il principio evoluzionista proposto da Charles Darwin in materia biologica [nota 7].
Anche l'evoluzione economica, come quella biologica, è un processo che richiede continuamente, e con ogni energia disponibile, sperimentazione di nuovi e differenziati prodotti, verifica delle performances di ciascuno, selezione conseguente e specializzazione attraverso la replica su larga scala dei prodotti vincenti.
L'imprenditore è condannato alla c.d. Red Queen Race, in cui "in this place it takes all the running you can do, to keep in the same place".
Quali sono, dal punto di vista dei modelli organizzativi dell'impresa, e dell'impatto che ciascun modello determina con riguardo ai costi di transazione, i percorsi per favorire tale necessaria crescita delle imprese?
La dottrina economica individua due percorsi classici, ovvero la crescita attraverso il "mercato" e quella attraverso la "gerarchia".
Chi vuole crescere attraverso il mercato acquisisce i fattori produttivi di cui ha bisogno attraverso contratti di scambio, alle condizioni del mercato stesso (es., in tema di ricerca e sviluppo, attraverso consulenze esterne).
Chi invece vuole crescere attraverso una soluzione gerarchica, assume come dipendente il prestatore d'opera che gli serve (es., in tema sempre di ricerca e sviluppo, assumendo un professionista intellettuale al proprio servizio).
Rispetto a tali due modelli organizzativi di base, esiste un terzo modello teorico, messo appunto a fuoco dalla dottrina economica anglosassone soprattutto negli Anni Ottanta del secolo scorso, in forza del quale il fattore produttivo viene messo a disposizione dell'impresa che ne ha bisogno attraverso un'operazione di network (parola inglese la cui corretta traduzione italiana è "rete"), in cui più imprese, siano o meno tra loro concorrenti, si uniscono per creare assieme la massa critica necessaria, in termini di volumi, per potere "fare assieme" e garantire in tale modo, grazie all'economia di scala che si viene a creare, l'ottimizzazione dei costi di transazione.
Grazie alle economie di scala, ed eventualmente anche di scopo, che il network può garantire ai propri partecipanti, questi possono perseguire attività che da soli non potrebbero perseguire né attraverso il mercato, né attraverso la gerarchia, così potendo praticare, in termini quantitativamente ed anche qualitativamente migliori, processi di differenziazione, sperimentazione, selezione e replica della propria gamma produttiva.
La rete, allora, si identifica con un preciso modello organizzativo di impresa, caratterizzato dai due inscindibili elementi della cooperazione interimprenditoriale (per fare rete occorrono due o più imprenditori) e della flessibilità (l'attività concreta della rete si sviluppa spesso non a priori, da un'idea astratta già definita, ma a posteriori, quale esito del continuo confronto che si è venuto a creare tra gli imprenditori partecipanti e della sperimentazione che ne deriva).
Impiegando le parole di un giurista che ha recentemente studiato, e bene messo a fuoco, l'interesse economico sottostante ai fenomeni consortili intesi in senso ampio [nota 8], si deve dire che "ciascuna impresa consorziata è interessata ad appropriarsi … del valore d'uso delle utilità generate dall'azione comune, piuttosto che del valore di scambio dei risultati conseguiti".
L'interesse consortile consiste, normalmente, nello sfruttare il valore d'uso generato dall'organizzazione comune attraverso nuove possibilità di ricavo direttamente in capo all'impresa che partecipa all'organizzazione comune stessa, che, in tale modo, impiega le idee e le facilitazioni da questa proposte, senza che si ponga in essere alcun trasferimento di risorse dall'organizzazione comune alla singola impresa consorziata [nota 9].
Nulla vieta, tuttavia, come la concreta operatività delle organizzazioni comuni consortili dimostra, che l'interesse consortile venga realizzato, per libera scelta delle parti, anche, o addirittura soltanto, come valore di scambio, ovvero attraverso operazioni di trasferimento di risorse dall'organizzazione comune all'impresa partecipante, come effettivamente avviene in tutti quei casi in cui i servizi vengono formalmente offerti dalla medesima organizzazione comune al mercato (o i beni vengono direttamente acquistati da quest'ultima sul mercato) per poi procedere alla distribuzione economica dei risultati ottenuti tra le singole imprese partecipanti, secondo regole operative dettagliatamente previste a livello di contratto o di regolamento interno, realizzando un fenomeno di "interposizione reale" della struttura consortile tra le singole imprese partecipanti ed il mercato.
In tale ottica, allora, la rete di imprese è un fenomeno tipicamente economico, trattandosi di una pura modalità organizzativa, del quale il giurista deve semplicemente, prima di tutto, prendere consapevolmente atto.
Parallelamente, il promotore della rete non è l'avvocato o il notaio, bensì l'aziendalista, nella misura in cui, dialogando con l'imprenditore, è capace di individuare per ciascuna impresa le possibili forme di crescita attraverso il modello del network, inteso nel senso da ultimo precisato.
Nello stesso tempo, la rete è anche:
- una dimensione psicologica dell'imprenditore, che presuppone attitudine e consapevolezza in primo luogo nei confronti della necessità dei processi di crescita relativamente alla propria impresa ed in secondo luogo, data la necessità di perseguire tale crescita, con riguardo al valore aggiunto che il modello reticolare può offrire rispetto al modello di mercato ed a quello gerarchico;
- un modello suscettibile di valutazione politica e legislativa da parte di ciascun ordinamento giuridico, anche al fine di promuovere strumenti giuridici ed incentivi di tipo pubblicistico per favorirne la diffusione, nella consapevolezza tuttavia, sulla quale occorrerà ritornare in seguito, che gli aspetti giuridici non possono che seguire quelli economici e psicologici testé evidenziati.
Una digressione sui professionisti intellettuali
Non vi è alcun dubbio, de iure condito, che, per il codice civile italiano (non, come è noto, per il diritto europeo), stante la chiara disposizione dell'art. 2238, comma 1 c.c., il professionista intellettuale iscritto ad un ordine non è un imprenditore ai sensi dell'art. 2082 c.c.
Non vi è alcun dubbio neppure in merito alle ragioni storiche e politiche, legate alle specificità della prestazione d'opera intellettuale, ed alla rilevanza anche sociale che la sua corretta applicazione nei confronti del pubblico comporta, che sostengono tuttora tale conclusione, a prescindere dal fatto che il singolo interprete condivida o meno le ragioni medesime.
Ciò che stupisce, piuttosto, una volta posta tale premessa, è la scelta drastica compiuta dal legislatore italiano al fine di escludere tali professionisti intellettuali dalla possibilità di applicare gli strumenti giuridici confezionati dal legislatore stesso per realizzare modelli organizzativi di tipo reticolare [nota 10].
Ciò è accaduto, prima di tutto, nel 1976, quando il legislatore, con l'art. 1 della L. 10 maggio 1976, n. 377, sostituì l'originario art. 2602 c.c. ampliando, con apprezzabile lungimiranza, l'ambito applicativo dell'istituto consortile dalla materia della concorrenza a quella, ben più rilevante per le ragioni sopra esposte, dello svolgimento mediante organizzazione comune di determinate fasi delle proprie "imprese".
Infatti, una volta che il legislatore del 1976 ha ridefinito il consorzio come il contratto mediante il quale "più imprenditori istituiscono un'organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese", risulta difficile attribuire ai due termini imprenditore e impresa un significato diverso da quello tecnico - non inclusivo, come si è visto, del professionista intellettuale ordinistico - definito dall'art. 2082 c.c., ovvero da altra norma contenuta nel medesimo codice civile [nota 11].
Ciò si è ripetuto anche con gli interventi legislativi del 2009 e del 2010 citati nel paragrafo iniziale in tema di "contratto di rete", nei quali, costantemente, si sancisce che si tratta di un istituto destinato agli imprenditori ed attinente all'esercizio di imprese.
Con la conseguenza che, quand'anche si riuscisse a dimostrare - come sostenuto dalla dottrina finora maggioritaria, e come chi scrive cercherà peraltro di confutare nel prosieguo - che l'ambito applicativo del contratto di rete è più ampio, e comunque diverso, da quello del consorzio ex art. 2602 c.c., risulterebbe comunque difficile, anche laddove si sottolinei che la nuova definizione, in quanto extracodicistica, non sarebbe vincolata dalla definizione di cui all'art. 2082 c.c., aprire l'istituto alle professioni intellettuali di tipo ordinistico.
Eppure, qualunque sia la posizione personale in merito alla questione dei rapporti tra professioni intellettuali ed attività di impresa ex art. 2082 c.c., non dovrebbero esservi dubbi sul fatto che, dal momento che anche il professionista intellettuale di tipo ordinistico, in quanto soggetto che percepisce il corrispettivo delle proprie prestazioni direttamente dai clienti, è un operatore economico, le esigenze organizzative per la quali il modello reticolare può essere in grado di offrire una valida risposta ricorrono anche, e per certi versi soprattutto, per il professionista intellettuale stesso.
Un esempio relativo alla professione di notaio, più agevole per chi scrive, può essere di qualche aiuto, tanto più se si considera che tale professione, per la funzione pubblica che la connota, appare decisamente più regolamentata rispetto, forse, a tutte le altre professioni ordinistiche e, pertanto, ben si presta a fungere da benchmark della proposta estensiva che si sta ipotizzando de iure condendo.
Chi scrive fa parte dal 2008, anno della sua costituzione, di una struttura giuridica costituita in forma di associazione non riconosciuta che raggruppa studi notarili ubicati in varie zone d'Italia.
L'esigenza che ha determinato una trentina di notai a promuovere o ad aderire a tale associazione è tipicamente quella del modello reticolare.
Ovviamente, trattandosi di notai, per i quali l'art. 82 L.N. prevede un divieto assoluto di qualsiasi forma di associazione interdistrettuale, il modello organizzativo reticolare non attiene a qualsivoglia attività che possa intendersi compresa nell'esercizio diretto dell'attività notarile, ma si limita, consapevolmente, a quegli aspetti di tipo tecnico - culturale ed organizzativo - gestionale che, in teoria, potrebbero essere altresì affidati (scegliendo il modello organizzativo gerarchico) ad una società di servizi, oppure (scegliendo il modello organizzativo di mercato) a consulenti esterni.
Dal punto di vista tecnico-culturale, l'associazione si propone due obiettivi, ovvero, da un lato, la creazione di centri di ricerca ed approfondimento con assunzione di giuristi da varia specializzazione al fine di offrire un supporto scientifico e bibliografico alla prestazione professionale dei singoli professionisti associati (con notiziari, pareri, commenti, riflessioni sistematiche e redazionali con riguardo ad atti notarili già sottoscritti dai singoli associati, preparazione di convegni, raccolta di materiali, aggiornamento di un sito internet, ecc.), nella consapevolezza che le limitate dimensioni dei singoli studi professionali renderebbero difficilmente praticabile la soluzione gerarchica individuale, mentre la specificità dell'attività notarile renderebbe a sua volta difficilmente praticabile la soluzione di mercato del consulente esterno (dal momento che un mercato siffatto, per l'attuale organizzazione dell'attività notarile, in realtà non esiste), dall'altro lato la creazione di un supporto formato da giuristi di madrelingua straniera, per fare sì che i notai associati possano essere in condizione di trovare ausilio nel seguire la clientela straniera e nel formulare con adeguato linguaggio tecnico le clausole degli atti redatti direttamente in lingua straniera dal notaio o, in assenza di un'adeguata conoscenza linguistica diretta da parte di quest'ultimo, tradotti a cura di tale struttura.
Dal punto di vista organizzativo-gestionale, l'associazione, pure trattandosi di attività ancora sulla carta, in attesa che l'assoluta meritevolezza (ed urgenza) di tale percorso sia condivisa senza riserve dall'intera categoria, si propone, attraverso addetti specialisti della materia statistica e gestionale appositamente assunti dal network, da un lato, di elaborare statistiche sull'attività svolta da ciascuno studio associato, al fine di disporre di adeguati ed aggiornati dati numerici sull'evoluzione della domanda di servizi notarili e, più specificamente, sulle nuove prospettive di espansione di tali servizi, dall'altro, di eseguire un costante controllo della gestione dei singoli studi notarili associati, comprensivi dei relativi flussi economici, e delle scelte organizzative compiute in totale autonomia dai notai associati, al fine di mettere in evidenza, attraverso l'analisi di un materiale quantitativamente significativo, le eccellenze e le criticità di ciascun modello individuale.
Pure nella consapevolezza che si tratta di aspetti specifici, non attinenti direttamente alla prestazione notarile, che resta interamente affidata all'attività personale di ciascun notaio associato, pare a chi scrive che tali aspetti, francamente non secondari per migliorare la qualità della prestazione professionale, costituiscano un tipico esempio del vantaggio offerto, in termini di economia di scala, ed anche di scopo, dall'applicazione del modello reticolare anche alle professioni ordinistiche.
Se così stanno le cose, allora, è fondamentale, in attesa di un legislatore più consapevole ed effettivamente interessato a favorire processi di crescita delle organizzazioni produttive italiane, che si scongiurino interpretazioni della normativa di cui alle leggi del 2009 e 2010 in tema di "contratto di rete" che finisca, magari involontariamente, con l'impedire che anche soggetti che non sono imprenditori, ma che, in quanto operatori economici [nota 12], presentano le esigenze proprie della crescita secondo modelli organizzativi reticolari, di praticare effettivamente, e già da oggi, tale processo di crescita.
In altre parole, ciò che importa, nell'ottica del professionista appartenete ad un ordine, non è di garantire a tutti i vantaggi pubblicistici del nuovo "contatto di rete", si tratti di vantaggi di tipo amministrativo, fiscale o creditizio, bensì di evitare che si affermi l'idea che il nuovo "contratto di rete" sia l'unico contenitore entro il quale è possibile veicolare un percorso di crescita delle organizzazioni produttive mediante lo strumento del network.
Paradossalmente, nell'ottica di tale professionista, che cerca non assistenza pubblica, ma solo più libertà organizzativa finalizzata alla propria crescita qualitativa, le nuove norme in tema di "contratto di rete" rischiano di essere, più che un'opportunità, una nuova barriera che qualcuno potrebbe anche considerare insormontabile [nota 13].
L'esegesi del nulla: la normativa sul "contratto di rete"
Una delle ragioni del fallimento, fino ad oggi, del nuovo "contratto di rete", anche se, come si vedrà, non la sola, e forse neppure la principale, può individuarsi nella scadente tecnica normativa impiegata dal legislatore.
Poiché si sono succeduti in poco più di un anno, come sopra si è visto, ben tre diversi interventi normativi, è singolare, anche se sconfortante, dovere constatare come la versione successiva abbia ogni volta creato più problemi nuovi, che risolto problemi posti dal testo preesistente [nota 14].
è bene mettere subito in chiaro su quali considerazioni si fonda l'affermazione testé fatta.
La prima norma inappagante è quella, contenuta nell'art. 3 comma 4-ter D.l. 5/2009, convertito nella L. 33/2009, nel testo interamente sostituito risultante dalla modificazione introdotta con il D.l. 78/2010, convertito nella L. 122/2010, che cerca di dare una definizione del "contratto di rete".
La dottrina [nota 15] ha sottolineato che tale norma individua innanzitutto due tipi di scopo, definibili, rispettivamente, quale scopo-fine e scopo-mezzo.
Lo scopo-fine, per ciascuna impresa partecipante, è quello di "accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato".
Si tratta, è doveroso riconoscerlo, di una definizione - in sé considerata - certamente migliore di quella contenuta nella originaria versione della norma, in quanto cerca di seguire, come è ad avviso di chi scrive necessario quando si parla di reti di imprese, il c.d. metodo dell'economia.
La norma sembra infatti riconoscere, in qualche modo, là dove parla di risultati che si devono ottenere individualmente e collettivamente, che la specificità della rete è quella di creare, come normale ipotesi operativa, valore d'uso, anziché valore di scambio.
Così facendo, la norma stessa sembra decisamente avvicinare il "contratto di rete" al contratto di consorzio ex art. 2602 c.c.; affinché quest'ultimo contratto sia legittimamente eseguito, infatti, come già accennato, occorre: i) che l'organizzazione comune, e cioè la dimensione collettiva, crei idoneo e nuovo valore d'uso (in termini non solo di nuove occasioni di lavoro, ma anche di una migliore esecuzione delle occasioni di lavoro già esistenti nella sfera dei singoli consorziati); ii) che tale valore d'uso sia destinato - mediante ciò che in termini operativi viene definito come "ribaltamento" - ad accrescere il volume d'affari dell'impresa partecipante, indipendentemente dal fatto che la fatturazione verso il cliente finale provenga direttamente dal consorzio medesimo oppure dall'impresa consorziata che esegue di volta in volta la prestazione; iii) che il valore d'uso creato vada a beneficio, almeno tendenzialmente, di tutti i consorziati, e non soltanto di alcuni di essi.
In tale ottica, è necessario, anche per il "contratto di rete", che l'espressione legislativa contenuta nel citato comma 4-ter sia interpretata attribuendo alla congiunzione "e" il suo significato letterale copulativo, facendo sì che i due aspetti del valore d'uso individuale, di cui supra sub i) e ii), e collettivo, di cui supra sub iii), ricorrano sempre e necessariamente in maniera congiunta.
La lettera della norma, giustifica una conclusione più rigorosa rispetto alla definizione del contratto di consorzio, e cioè che, per aversi "contratto di rete", a differenza di quanto accade per aversi consorzio ex art. 2602 c.c., sia necessario non solo che ciascun imprenditore partecipante abbia il diritto di ottenere individualmente valore d'uso tramite l'organizzazione comune, ma anche che egli effettivamente partecipi all'attività della rete, non verificandosi, in assenza di tale partecipazione, il requisito del vantaggio collettivo.
Rilevato ciò, occorre tuttavia sottolineare come il problema della definizione legislativa di quello che si è chiamato scopo-fine consista nel fatto che, a ben vedere, quello indicato è in realtà lo scopo di ogni impresa lucrativa [nota 16], con la conseguenza che il requisito posto dal legislatore - non autorizzando l'interprete a collegare la definizione stessa con il modello organizzativo che si è sopra definito come reticolare, in quanto contrapposto ai modelli alternativi di mercato e gerarchico - non può in realtà svolgere alcun filtro selettivo rispetto ad ipotetici diversi scopi finali, risultando quindi, in termini operativi, del tutto pleonastico.
Per cercare di dare un senso alla formulazione legislativa, potrebbe ipotizzarsi, come recentemente prospettato [nota 17], che il precetto legislativo abbia la funzione di escludere, tra i legittimi scopi-fine del "contratto di rete", tutte le intese poste in essere allo scopo di limitare la reciproca concorrenza, pure rientranti, in linea teorica, sia nell'ambito dei possibili scopi-mezzo del medesimo contratto di rete, sia nella definizione stessa del contratto di consorzio ai sensi dell'art. 2602 c.c.
Una simile lettura, tuttavia, non potrebbe considerarsi del tutto appagante, dal momento che, se il contratto di rete non potrà in ogni caso costituire lo strumento per eludere le regole in materia di concorrenza previste dagli ordinamenti europeo ed italiano [nota 18], nulla vieta che, laddove l'intesa anticoncorrenziale consenta di creare, nel caso concreto, strutture di dimensioni competitive nel mercato, e quindi di svolgere un ruolo pro-concorrenziale, anche tali scopi-fine meritano riconoscimento e appoggio da parte del legislatore.
Comunque sia, "a tal fine", ovvero al fine di perseguire lo scopo-fine anzidetto, con il "contratto di rete" gli imprenditori partecipanti assumono reciproche obbligazioni, relativamente ad uno o più di tre specifici ed individuati scopi-mezzo, ovvero, stando alle parole del legislatore:
a. "a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all'esercizio delle proprie imprese";
b. "a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica";
c. "ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell'oggetto sociale".
L'ampiezza del perimetro tracciato dal legislatore per quanto riguarda tale scopo-mezzo sembra, più ancora dello scopo-fine, priva di qualsiasi capacità selettiva, tanto più se si considera che, come messo in luce in maniera praticamente unanime dai primi commentatori, per aversi "contratto di rete" è sufficiente che il network svolga uno dei tre anzidetti scopi-mezzo.
Sembra invero difficile ipotizzare che un qualsivoglia contratto tra imprese destinato ad avere una esecuzione continuata o periodica, quale in definitiva deve essere un contratto di rete, qualunque sia l'estensione che si ritiene di dare alla nozione, possa prescindere da una o più delle attività che il comma 4-ter in commento annovera tra i possibili scopi-mezzo.
Anche il requisito dello scopo-mezzo, pertanto, al pari di quello dello scopo-fine, non può in alcun modo aiutare l'interprete per individuare gli elementi tipologici e, quindi, l'ambito applicativo del "contratto di rete".
Inoltre, ai sensi del medesimo comma 4-ter, le obbligazioni devono essere assunte "sulla base di un programma comune di rete".
Se si può comprendere come il legislatore abbia preteso una "specificazione" caso per caso del disegno organizzativo che si vuole attuare tramite rete, non si può non sottolineare come, data ancora una volta la formulazione della norma, possa bastare un programma qualsiasi, anche ripetuto "a stampone" o prelevato di peso da modelli contrattuali preconfezionati, dal momento che non è chiaro chi possa esprimere un controllo o una valutazione di merito che faccia da filtro rispetto a quei programmi che appaiono privi della capacità di individuare un percorso concreto tailored made per le imprese che vi partecipano.
Detto ciò, il comma 4-ter prevede, ancora, che due elementi ulteriori, ovvero il "fondo patrimoniale comune" e l'"organo comune incaricato di gestire, in nome e per conto dei partecipanti, l'esecuzione del contratto o di singole parti o fasi dello stesso", entrambi necessari invece, per quanto riguarda il contratto di consorzio ex artt. 2602 e ss. c.c., siano soltanto eventuali, non valendo la mancanza di uno di essi o di entrambi a fare venire meno il "contratto di rete".
Tutto il resto, ovvero quei sei ulteriori elementi che il "contratto di rete" deve indicare secondo la legge, senza entrare in questa sede nel merito delle varie ambiguità di ciascuna di tali ulteriori norme [nota 19], è richiesto, come emerge dall'analisi del testo normativo del medesimo comma 4-ter, soltanto ai fini della pubblicità, ovvero dell'iscrizione del contratto stesso, una volta redatto in forma pubblica o privata autenticata, nel Registro delle imprese, secondo le norme di cui al successivo comma 4-quater, come sostituito dal D.l. 78/2010, convertito in L. 122/2010 (sulle quali si avrà modo di ritornare nel paragrafo finale).
Tali elementi, quindi, non sono elevati a requisiti di validità del contratto e, per tale motivo, non possono assolvere alcun ruolo, comunque si interpretino i singoli precetti legislativi, al fine di individuare gli elementi tipologici, e quindi la stessa identità, del "contratto di rete" medesimo.
Le conclusioni sopra prospettate, per la verità, sono condivise, pure tra mille sfumature ed "attenuanti" a beneficio del legislatore, dalla parte forse maggioritaria della dottrina che ha fino ad oggi commentato le norme in oggetto.
Tuttavia, a parte la conclusione molto netta dello studio del Consiglio nazionale del Notariato sopra accennata - secondo cui il "contratto di rete" (in cui l'espressione, in tale ottica, è giustamente posta tra virgolette) non può costituire, allo stato della legislazione in materia, un tipo contrattuale a se stante - e di qualche altro autore che riconduce in ogni caso la rete al contratto di consorzio ex art. 2602 c.c., la dottrina si è per lo più limitata a definire il contratto di rete come un contratto "transtipico", ovvero come un contratto che, in quanto tipizzato dal legislatore in maniera debole, stante quanto sopra rilevato, può sia appartenere ad un diverso tipo contrattuale, associativo o di scambio (consorzio, Geie, somministrazione, subfornitura, franchising, ecc.), sia divenire esso stesso tipo contrattuale autonomo, laddove l'autonomia privata scelga di strutturarlo fuoriuscendo dai requisiti tipologici di tali diversi contratti.
Una siffatta conclusione non può in realtà condividersi, se è vero che, se si può accettare l'idea che una determinata normativa possa applicarsi a contratti appartenenti a più distinti tipi (si pensi alla già richiamata normativa in materia di Onlus; si pensi, per fare un altro esempio, alla normativa in materia di cessione dei crediti di cui agli artt. 1260 e ss. c.c., applicabile sia a contratti di scambio, come la vendita o la donazione, sia a contratti associativi, come la società lucrativa in cui si conferisce un diritto di credito), non si può parimenti accettare l'idea che possa esistere un tipo contrattuale fondato su norme, quali quelle di cui al comma 4-ter al vaglio, prive di qualsiasi capacità di connotazione di un qualsiasi tipo negoziale.
Si può comprendere agevolmente, per la verità, quale sia stata la ragione per cui il legislatore ha dettato norme con maglie così larghe da compromettere il risultato finale, ovvero l'obiettivo di non costringere l'autonomia privata entro schemi rigidi, consentendo alla stessa di fare rete in tutti i modi da essa ritenuti più opportuni.
Il timore del legislatore del 2009 - 2010, invero, è stato quello di appiattire il contratto di rete tra i consorzi ex art. 2602 c.c. o, comunque, tra i contratti associativi, nella convinzione che l'inapplicabilità dello schema reticolare ai contratti di scambio avrebbe messo a repentaglio il successo dell'istituto e lo stesso sviluppo economico che esso intende promuovere.
Il problema, al di là delle critiche di merito che seguiranno nel successivo paragrafo, è che l'indiscriminata apertura voluta dal legislatore mal si concilia con la previsione di importanti agevolazioni che mettono in gioco le risorse pubbliche, le quali hanno ragione di essere non solo in presenza di un obiettivo di politica legislativa prioritario e meritevole, senz'altro ricorrente nel caso di specie, ma anche in presenza di norme in grado di selezionare le iniziative idonee a raggiungere l'obiettivo da quelle che invece non lo sono.
Un legislatore serio prima detta queste ultime norme, poi introduce le agevolazioni pubbliche.
Nel caso della normativa sul "contratto di rete", purtroppo, sorge il sospetto, alla luce delle considerazioni che precedono, che ciò che ha determinato l'emanazione della nuova normativa sia stato, più che un'adeguata visione dell'interesse generale delle imprese italiane (rectius: degli operatori economici italiani) - e dei presupposti economici e psicologici che condizionano la scelta del modello organizzativo reticolare - il desiderio di garantire vari sussidi pubblici (da ultimo anche fiscali) a beneficio, visti i numeri di cui al primo paragrafo, oltre che delle organizzazioni imprenditoriali che del contratto di rete si sono fatte in Italia ufficialmente promotrici, che nel proprio ruolo di tramite tra imprese associate ed agevolazioni pubbliche hanno una delle proprie ragioni d'essere, di un numero limitato di imprese, che, per di più, per quanto testé rilevato, non è dato sapere fino a quale punto siano veramente interessate alla crescita tramite un modello di network.
La rete non può mai essere un "contratto di scambio", ma è sempre un "contratto associativo"
La dottrina giuridica italiana ha da quarant'anni, data di pubblicazione dello studio monografico fondamentale sul tema [nota 20], messo chiaramente in luce la distinzione tra contratti di scambio e contratti associativi.
I primi - anche quando i tratta di contratti plurilaterali con comunione di scopo [nota 21] - si limitano a costituire, modificare o estinguere rapporti patrimoniali tra le parti, secondo la definizione dell'art. 1321 c.c., e, quindi a disciplinare trasferimenti di risorse tra due o più economie o, in un'ottica strettamente giuridica, diritti, obblighi e - più in generale - posizioni soggettive tra le parti.
I secondi, oltre che prevedere, almeno normalmente, i trasferimenti propri dei contratti di scambio, si caratterizzano per il fatto di prevedere lo svolgimento di una futura attività, individuandone da un lato le regole di produzione, dall'altro le regole di imputazione; poiché l'esercizio di tale attività è un fatto metaindividuale, o organizzativo, ovvero un fatto non riconducibile a posizioni soggettive individuali, si è soliti, per ricondurre le dinamiche dell'attività stessa entro l'alveo dei contratti di scambio, "entificare" l'organizzazione che produce l'attività e ne imputa i risultati, creando le nozioni teoriche di "personalità giuridica" e, successivamente, di "soggettività giuridica".
In tale ottica, è bene sottolinearlo, si ha contratto associativo anche quando, come accade (rectius, come già sopra rilevato: può accadere) nel caso dei consorzi interni di cui all'art. 2602 c.c., l'organizzazione comune crea in favore dei partecipanti un semplice valore d'uso, e non un vero e proprio valore di scambio, dal momento che anche in tale caso resta comunque la necessità di disciplinare sia la produzione, sia - soprattutto - l'imputazione dell'attività comune.
Pure trattandosi di una costruzione teorica propria della dottrina italiana, occorre avere consapevolezza che la distinzione tra contratti di scambio e contratti associativi, nel senso testé definito, è in realtà propria di tutti gli ordinamenti giuridici, coincidendo, in defintiva, con la dicotomia contratto-ente.
Il valore aggiunto della teorica italiana dei contratti associativi deve rinvenirsi, in tale contesto, soprattutto nella spiegazione delle ragioni per le quali, quando si intende svolgere un'attività in comune, di gruppo organizzato, o metaindividuale, lo strumento del contratto di scambio, in quanto tipicamente individuale, appare per definizione inidoneo ad offrire una compiuta spiegazione del fenomeno sottostante, nella misura in cui non riesce a cogliere la specificità del procedimento che determina la produzione (prima) e l'imputazione dei risultati (poi) di tale attività.
Non può non stupire, allora, tanto "accanimento" nel volere escludere [nota 22], con tutti gli accorgimenti a tale fine possibili nella formulazione delle norme in tema di "contratto di rete", che attraverso tale contratto si possa creare un autonomo soggetto giuridico (o ente), contrapposto ai singoli imprenditori contraenti.
Gli scopi-mezzo e lo scopo-fine previsti dal legislatore, oltre al c.d. programma di rete, pure con la rilevata vaghezza, non possono, proprio perché programma, prescindere dalla previsione di norme per lo svolgimento di una futura attività, individuandone da un lato le regole di produzione, dall'altro le regole di imputazione [nota 23].
Ipotizzare che con il "contratto di rete" si crei una mera contitolarità di diritto comune dei beni che costituiscono l'eventuale fondo patrimoniale, che l'organo comune sia l'equivalente del mandatario di cui agli artt. 1703 e ss. .c.c., che il programma di rete possa essere qualcosa di diverso di un'attività nel senso precisato dagli studiosi del contratto associativo, significa condannarsi ad impiegare uno strumento inadatto (il contratto di scambio), anziché quello pertinente (il contratto associativo).
In senso contrario non è lecito invocare né, sul piano giuridico, la negatività che la nozione stessa di soggettività giuridica evoca negli operatori, per il solo fatto di comportare l'applicazione di una normativa speciale, né, sul piano economico, l'aumento di costi legato alla complessità della struttura autonoma che si verrebbe in tale modo a creare.
Non è un caso, allora, che gli stessi fautori - in linea teorica - della necessità di ricondurre il contratto di rete al paradigma dei contratti di scambio, debbano poi riconoscere - sul piano pratico - che tra le ragioni del fallimento del contratto di rete vi sia "il problema della non ammissibilità della fatturazione della rete" (in quanto priva di qualsiasi soggettività giuridica) oppure "l'incertezza … sulla responsabilità patrimoniale oltre il fondo della rete" (in quanto il contratto di scambio, a differenza del contratto associativo o ente, non consente alcuna limitazione di responsabilità) [nota 24].
Se si condividono le premesse della dottrina sopra citata in tema di contratto associativo, la questione se il contratto di rete sia un contratto di scambio oppure un contratto associativo oppure ancora l'uno o l'altro non è una questione economica, di costi-benefici, come tale liberamente gestibile dal legislatore, bensì una questione prettamente giuridica, relativa alla ricognizione di ciò che la rete deve fare, e la cui risposta dipende dal fatto che la rete si limiti a scambiare risorse tra gli imprenditori che vi partecipano (allora è un contratto di scambio) oppure si proponga altresì di programmare un'attività in comune, anche se non necessariamente rivolta a soggetti terzi (allora è un contratto associativo).
Se si condivide la conclusione da ultimo prospettata, è agevole concludere che, sul piano della tecnica giuridica, il principale errore del legislatore è stato proprio quello di volere a tutti i costi reti in forma di contratti di scambio, anziché prendere atto che la rete è sempre attività, e, come tale, non può non richiedere la stipulazione di un contratto associativo [nota 25].
Le norme esistenti, dunque, cozzano con la realtà e, per tale ragione - salvo qualche tentativo di acquisire, al di là della coerenze e della funzionalità civilistica dell'istituto, i benefici pubblicistici concessi - restano inevitabilmente sulla carta.
Che cosa si dovrebbe fare de iure condendo?
Da molte parti si parla della ineludibile necessità che le norme in materia di "contratto di rete" siano completamente riscritte, quasi a sottolineare che l'obiettivo è valido e merita di essere perseguito con determinazione ed urgenza (sul che si può convenire facilmente), essendo solo sbagliata la strada che si è cercato fino ad oggi di percorrere per raggiungere tale obiettivo (sul che si può parimenti convenire).
Al di là dell'indiscutibile correttezza di tale rilievo, ad avviso di chi scrive, prima di riscrivere le norme, occorre:
- in primo luogo, chiarire come lo sviluppo del modello organizzativo del network sia l'obiettivo unico da perseguire, essendo ogni agevolazione soltanto uno dei mezzi a tale fine utilizzabili (con tutte le garanzie del caso);
- in secondo luogo, riflettere, previa ricognizione ed analisi dei contratti di rete fino ad oggi effettivamente sottoscritti e delle loro clausole, sulle ragioni per cui fino ad oggi una normativa in fondo così generosa, quale quella privatistica e (soprattutto) pubblicistica in tema di "contratto di rete", abbia ottenuto un successo così limitato tra gli imprenditori italiani.
Quest'ultimo punto merita un'ulteriore breve riflessione.
Quali sono, in concreto, le ragioni di tale fallimento? Quante tra tali ragioni sono imputabili al giurista?
Attingendo all'esperienza professionale e culturale di chi scrive, e quindi con il beneficio del campione limitato che ne deriva, e della soggettività dell'approccio, si potrebbe ipotizzare che le cause del fallimento siano sostanzialmente tre, e che nessuna di esse, in fin dei conti, coincida con le critiche sopra sollevate nei confronti della normativa adottata.
La prima (non imputabile al giurista): gli imprenditori italiani, stante la struttura dimensionalmente esigua e per di più spesso familistica delle imprese del Paese, molto più accentuata rispetto a ciò che accade all'estero, sono fortemente individualisti, e vedono quindi con sospetto ogni tentativo di fare dipendere dal rapporto con altri imprenditori, siano o meno attuali o potenziali concorrenti, le proprie prospettive di crescita.
Non a caso, uno dei pochi aspetti che appaiono normalmente regolati nel dettaglio, pure in mancanza di norme di legge che lo richiedano, nei contratti rete ad oggi sottoscritti è dato proprio dagli obblighi di riservatezza e di rispetto del segreto aziendale gravanti sul singolo partecipante anche in caso di fuoriuscita, per recesso, esclusione o cessione di azienda o partecipazioni sociali, dalla rete stessa.
La seconda (parimenti non imputabile al giurista): l'imprenditore medio, anche una volta che ha compreso l'importanza di crescere tramite modello reticolare, non riesce a fidarsi di altri colleghi che possono, se già non lo sono, diventare suoi concorrenti.
Tale aspetto, che rappresenta solo uno degli infiniti casi in cui si deve purtroppo rilevare come l'iniziativa economia italiana sia fondata sulla ricerca di sottrarsi il più possibile ad ogni forma di concorrenza in un libero mercato, è testimoniato dalla circostanza che molti dei contratti di rete fino ad oggi sottoscritti hanno come parti imprenditori che, attraverso il contratto, non mettono in alcun modo a rischio di concorrenza le proprie attuali posizioni di mercato, vuoi perché si tratta di imprenditori in posizione di forza economica troppo diversa tra loro, in cui il "piccolo" non potrà mai creare problemi di tale genere al "grande" (franchising, subfornitura), vuoi perché si tratta di imprese tra loro correlate, in cui uno solo è in realtà il soggetto esposto sul mercato (quando lo è).
La terza (imputabile, questa volta, anche al giurista): i professionisti intellettuali italiani, oltre agli stessi accademici ed alle stesse organizzazioni imprenditoriali, non sono fino ad oggi riusciti, stante l'obiettiva difficoltà della materia, derivante anche dai suoi rilevati aspetti interdisciplinari, a spiegare adeguatamente il "contratto di rete", e, quindi, a convincere gli imprenditori stessi.
Tale ulteriore aspetto deriva principalmente, ad avviso di chi scrive, dal contesto protetto in cui tali soggetti operano oggi in Italia, che, a sua volta, determina come conseguenza la scarsa attitudine di tale ceto professionale a confrontarsi con le novità e a farle proprie assumendo un atteggiamento propositivo ed innovativo.
Non è un caso, sempre attingendo alla struttura dei contratti di rete effettivamente sottoscritti, che gli stessi replichino, con sconcertante e pedissequo approccio, alcuni formulari inizialmente proposti da alcuni notai in occasione di convegni pubblici, anche se, per espressa ammissione degli stessi estensori, si trattava di semplici ipotesi di lavoro.
Ancora più significativo, in tale ottica, è il fatto che scopi-mezzi e scopo-fine sono quasi sempre indicati riproducendo pedissequamente le parole del legislatore, e quindi rinunciando ad ogni selezione e personalizzazione, e che il programma di rete non è mai tale, un po' come gli oggetti sociali delle società, da consentire di comprendere effettivamente ciò che quella rete vuole in concreto fare; il tutto senza che, come invece spesso accade - per fortuna - nei consorzi ex art. 2602 c.c., a questa mancata scelta supplisca un efficace e riservato regolamento interno.
Il quadro che emerge attingendo all'accennata esperienza personale è sconfortante, tanto da indurre a prospettare che, in mancanza di profonde riforme del sistema Italia, il "contratto di rete", qualunque sia il testo di legge che verrà, resterà, al netto delle agevolazioni pubbliche, un fenomeno di nicchia ed elitario.
Tale quadro non consente però, stante il tipo di contributo che ci aspetta ancora da un notaio, di evitare di prendere posizione in merito a quella che, sempre ad avviso di chi scrive, dovrebbe essere la strada da suggerire al legislatore.
In estrema sintesi, e con riserva di migliore motivazione e approfondimento dei singoli punti in altre occasioni, il legislatore dovrebbe:
1. rinunciare a costruire un contratto di rete inteso come nuovo negozio dotato di tratti tipologici suoi propri, dal momento che la funzione della rete è prettamente economica e non è in alcun modo riducibile ad elementi tipologici di rilievo giuridico e che, comunque, appare impossibile che la funzione economica propria della rete non possa già essere svolta, oggi come ieri, dai consorzi ex artt. 2602 e ss. c.c.;
2. rinunciare a costruire un contratto di rete inteso come "negozio transtipico" utilizzabile con riferimento a tipi contrattuali sia associativi, sia di scambio, dal momento che l'impiego di contratti di scambio quali modelli di network sembra strumentale più a controllare l'impresa più debole da parte dell'impresa più forte che a stimolare l'impiego del network medesimo in funzione della crescita delle imprese partecipanti;
3. riservare la qualificazione di un contratto come contratto di rete ai soli contratti di tipo associativo che, dal punto di vista giuridico, istituiscono un'organizzazione comune (ove tale termine deve assumere un significato estremamente lato, idoneo a comprendere, per esempio, la valutazione in comune di dati statistici o organizzativi, così come l'utilizzazione in comune di una determinata piattaforma informatica) e disciplinano l'esercizio in comune di una o più determinate fasi dell'impresa, senza mai coincidere con l'impresa nel suo insieme (perché, altrimenti, si rischia di avallare come network un modello organizzativo in realtà di tipo gerarchico);
4. specificare che solo il consorzio tra imprenditori ex artt. 2602 e ss. c.c., sia esso interno o esterno, e le società con funzioni consortili, si tratti di società consortili ex art. 2615-ter c.c., di società cooperative tra imprenditori o di società lucrative tra imprenditori, possono, ricorrendo determinati requisiti, assumere la veste di "contratto di rete";
5. approfittare della nuova prospettiva attraverso la quale viene ripensato il consorzio tra imprenditori, nelle sue varie forme testé menzionate, affinché siano riscritte le norme in tema di consorzio di cui agli artt. 2602 e ss. c.c. che, fino ad oggi, per l'incertezza che hanno generato, hanno in concreto ostacolato lo sviluppo dell'istituto, con particolare riguardo ai due commi dell'art. 2615 c.c.;
6. precisare che il consorzio (inteso nel senso ampio sopra indicato) è il genere e il contratto di rete è la specie, così rendendo chiaro che, se non può esistere un contratto di rete che non sia riconducibile ai tipi consortili, può benissimo esistere un consorzio che non intenda divenire contratto di rete;
7. riservare la qualificazione di un determinato consorzio (sempre inteso nel senso ampio sopra indicato) quale contratto di rete al fine della fruizione delle agevolazioni pubbliche di volta in volta ritenute applicabili.
Che cosa si può fare de iure condito?
Quanto rilevato nel precedente paragrafo induce a sostenere che, nel vigore dell'attuale normativa in tema di "contratto di rete", la funzione propria di tale istituto deve essere attuata scegliendo il contratto di consorzio, in una delle sue varie forme sopra indicate e redigendo, con adeguate cautele e modalità, il relativo statuto.
La rete diventa una sorta di "applicativo" del consorzio, con la conseguenza che, al di là del pensiero del legislatore del più volte citato comma 4-ter, di rendere tali elementi solo facoltativi, non esisterà alcun "contratto di rete" che non abbia un fondo comune o un organo comune incaricato di gestire l'esecuzione del contratto.
Sul piano professionale, chi intende promuovere un contratto di rete dovrà farsi carico, anche ricorrendo a professionalità esterne all'uopo più attrezzate, di superare i tre ostacoli sopra evidenziati, essendo consapevole della difficoltà di tale profilo, soprattutto laddove si debba ammettere che il contratto di rete è soltanto l'inizio di un eventuale percorso di crescita organizzativa delle imprese coinvolte, e non una garanzia di risultato.
Sul piano della concreta applicazione delle norme di diritto positivo oggi dettate per il contratto di rete, non può non sottolinearsi un infelice corollario della scelta compiuta dal legislatore storico del 2009 - 2010, derivante a sua volta dall'idea che il "contratto di rete" debba essere transtipico ed applicarsi anche a contratti di scambio, per i quali il legislatore non prevede l'iscrizione del negozio stesso, come atto costitutivo di un soggetto giuridico autonomo, presso il Registro delle imprese.
La norma di cui all'attuale art. 3 comma 4-quater del D.l. 5/2009, convertito nella L. 33/2009, come sostituita dal l'art. 42 comma 2-ter del D.l. 78/2010, convertito nella L. 122/2010, è una norma sbagliata, anche se frutto di un errore comprensibile.
Fatta la scelta di imporre che la pubblicità avvenga con riferimento agli imprenditori partecipanti, e non alla rete in sé, è giocoforza, se non si vuole avallare una pubblicità ingannevole, pretendere che anche ogni vicenda modificativa del gruppo originario sia resa pubblica nelle medesime forme.
Ora, se una delle caratteristiche del processo economico di crescita secondo il modello organizzativo reticolare è dato dalla continua variabilità, soprattutto in aumento, dei soggetti aderenti alla rete, non è in alcun modo pensabile, in termini operativi, richiedere che la pubblicità avvenga ogni volta separatamente sotto il nome di ciascun imprenditore che aderisce o esce e di ciascun imprenditore che rimane.
Alla luce dell'attuale comma 4-quater, invece, stando all'interpretazione letterale delle norme, anche tale vicenda modificativa dovrebbe essere resa pubblica mediante autonoma iscrizione presso il Registro del imprese a nome di ciascun partecipante, con ciò moltiplicandosi costi e tempi del relativo adempimento e, in definitiva, condannando la rete ad operare soltanto in relazione a gruppi di imprenditori ristretti o tendezialmente invariabili.
Già de iure condito, allora, dovrebbe essere prospettata un'interpretazione sistematica restrittiva della norma, tale da legittimare la pubblicità soltanto a nome dell'ente, sia in fase costitutiva, sia in fase di successive modificazioni soggettive, laddove la rete sia costituita in forma di consorzio con attività esterna ex artt. 2612 e ss. c.c., o comunque di altra figura associativa di tipo consortile già assoggettata come tale ad autonoma iscrizione presso il Registro delle imprese.
[nota 1] M. MALTONI - P. SPADA, "Il contratto di rete", studio n. 1-2011/I, in Studi e materiali, 2011, 4.
[nota 2] In merito alla nozione giuridica di tipo contrattuale ed alla contrapposizione logica delle due nozioni di tipo e di concetto, cfr., per tutti, nella dottrina italiana, anche per i necessari riferimenti alla dottrina tedesca che ha precedentemente elaborato entrambe le nozioni, G. DE NOVA, Il tipo contrattuale, Padova, 1974.
[nota 3] Artt. 10 e ss. del D.lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, in tema di "Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale". L'accostamento nel senso precisato tra contratto di rete ed Onlus appare a chi scrive del tutto pertinente, anche in considerazione del fatto che, sia nel 1997, sia nel 2009-2010, il legislatore ha mostrato un certo horror vacui - ovvero una certa sfiducia circa l'idoneità delle poche norme esistenti in merito ai due richiamati istituti di risolvere i numerosi problemi posti dalla pratica e, nel contempo, la difficoltà di ipotizzare un intervento normativo organico in tali medesime materie politicamente sensibili - riferito nel primo caso alle norme del libro I del codice civile in tema di associazioni non riconosciute e nel secondo caso alle norme del libro V del codice in tema di consorzi tra imprenditorie, preferendo "aggirare il problema" mediante introduzione di nuove norme privatistiche comunque collegate, differenza di quelle del codice civile, a determinate agevolazioni di tipo pubblicistico.
[nota 4] Rapporti, in Il Sole24Ore, 29 settembre 2011, p. 18.
[nota 5] Diritto & Fisco, in ItaliaOggi, 13 ottobre 2011, p. 23.
[nota 6] Per tutti, cfr. O. WILLIAMSON, L'organizzazione economica, Scritti vari, in I grandi classici dell'economia, Il Sole24Ore, 2010, con presentazione di Paolo Menti; W. W. POWELL, Neither Market Nor Hierarchy: Networks Forms of Organization, in Research in Organizational Behavior, Greenwich a cura di Cummings-Shaw, 1990, p. 305 e ss.
[nota 7] Un eccellente volume in materia è il recente lavoro di E. D. BEINHOCKER, The Origin of Wealth. Evolution, Complexity, and the Racial Remaking of Economics, in Harvard Business School Press, 2006, soprattutto p. 323 e ss.
[nota 8] G. PERONE, L'interesse consortile, Milano, 2008, p. 29.
[nota 9] Nel modello normale, invero, non vale la conclusione opposta, dal momento che ciascuna impresa consorziata sostiene la quota parte dei costi necessari per fare funzionare l'organizzazione comune, attraverso trasferimento di risorse dall'impresa stessa al consorzio.
[nota 10] La constatazione del testo consente di ulteriormente sottolineare che, quando si parla di pretesi "privilegi", non esistono soltanto le norme previste dal legislatore per determinate professioni ordinistiche, a tutela della rilevanza anche sociale che la corretta applicazione della prestazione d'opera intellettuale nei confronti del pubblico comporta, ma anche le norme che riservano alle imprese, secondo la definizione del codice civile, determinati istituti privatistici con le varie agevolazioni pubblicistiche che di volta in volta il legislatore ritiene di introdurre, a tutela della migliore diffusione di modelli organizzativi ritenuti di utilità generale.
[nota 11] La dottrina giuridica è praticamente unanime nel sostenere tale conclusione; in senso contrario, in posizione isolata, si segnala E. SIMONETTO, "Consorzi. Primi appunti sulla legge 10 maggio 1976, n. 377", in Riv. soc., 1977, p. 789, secondo cui la nozione di imprenditore posta dal nuovo art. 2602 c.c. doveva intendersi quale sinonimo di operatore economico.
[nota 12] Il ragionamento fatto nel testo per i professionisti intellettuali potrebbe essere replicato, probabilmente con effetti economici ancora più rilevanti, anche per quegli enti pubblici non economici - si pensa soprattutto agli enti pubblici locali, oggi chiamati ad intraprendere rilevanti processi di dismissione e di riduzione dei propri servizi - che, al di fuori dell'eventuale esercizio di un'attività di impresa in senso tecnico, non potranno non avvertire a loro volta l'esigenza di realizzare economie di scala e di scopo attraverso forme di collaborazione reticolare di diverso livello e tipo (es.: studi ed approfondimenti - anche in vista di possibili o necessarie dismissioni - sulla sussidiarietà in vari tipi di servizi locali, soprattutto di rilevanza non economica, quali asili, assistenza agli anziani, contributi scolastici, trasporti locali, ecc.).
[nota 13] La necessità per le professioni ordinistiche di potere utilizzare già de iure condito strutture associative riconducibili al contratto di rete è stata sottolineata, da ultimo, nel Convegno organizzato a Parma dall'Unione nazionale dei giovani dottori commercialisti ed esperti contabili (Ungdcec), secondo quanto riportato da I. MARINO - V. STROPPA, "Professionisti specializzati e in rete", in ItaliaOggi, 28 ottobre 2011, p. 32.
[nota 14] Assai perspicuo, in tale senso, è M. D'AURIA, Dal concetto di rete di imprese al contratto di rete, in I contratti di rete, di F. Cirianni, V. Cuffaro, M. D'Auria, G. Marasà, L. Salvini, Le Rassegne del Corriere di merito, Milano, 2010, p. 17 e ss., secondo cui "da fenomeno evolutivo del distretto industriale, la rete di imprese è sfociata in qualcosa di non troppo dissimile rispetto al tradizionale istituto del consorzio, con l'aggravante che la definizione data prospetta all'interprete più problemi che soluzioni".
[nota 15] Per tutti, cfr. G. PALMIERI, Profili generali del contratto di rete, in Reti di imprese. Profili giuridici, finanziamento e rating a cura dell'Associazione italiana delle politiche industriali, Milano, 2011, p. 3 e ss.
[nota 16] Resterebbero escluse da tale scopo-fine, eventualmente, le sole imprese strumentali ad attività non profit o di interesse pubblico.
[nota 17] In tale senso, perspicuamente, anche se assai benevolmente verso il legislatore, V. CARIELLO, nella Conclusione dei lavori del Convegno "Cooperative: problemi giuridici ed operatività", organizzato dall'Associazione di cultura giuridica Insignum, tenutosi a Milano il 22 ottobre 2011.
[nota 18] In tale senso, cfr. la presa di posizione in un intervista da parte del Presidente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato di cui dà notizia A. GERONI, "Sulle reti d'impresa i paletti dell'Antitrust", ne Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2011, p. 27.
[nota 19] Non può non menzionarsi, tuttavia, il richiamo alle disposizioni degli artt. 2614 e 2615 c.c. in materia di consorzi tra imprenditori con attività esterna, contenuto nella parte finale della lett. c, del citato comma 4-ter, applicabili però solo "in quanto compatibili". L'ambiguità di tale richiamo normativo colpisce soprattutto per i seguenti aspetti: i) il richiamo riguarda le due norme forse più controverse e criticate dell'intera normativa dettata dal legislatore in tema di consorzi; ii) il richiamo riguarda due norme dettate per un istituto, quale quello dei consorzi con attività esterna, al quale viene pacificamente riconosciuta un'autonoma soggettività giuridica (ed autonoma iscrivibilità nel Registro delle imprese), laddove tutta la disciplina del contratto di rete è stata scritta, come già accennato nel testo e come si cercherà meglio di spiegare in appresso, accuratamente cercando di escludere tale soggettività (ed iscrivibilità autonoma); iii) non è chiaro se il giudizio di compatibilità a cui è chiamato l'interprete si fondi sul mero fatto che nel caso concreto sia prevista l'istituzione di un fondo patrimoniale comune, oppure, più cripticamente, su altri non meglio identificati criteri di valutazione.
[nota 20] P. FERRO - LUZZI, I contratti associativi, Milano, 1971.
[nota 21] Si sottolinea che un parte della dottrina (cfr., per tutti, G. MOSCO, "Frammenti ricostruttivi del contratto di rete", in Giur. comm., 2010, I, p. 839 e ss., secondo cui, se ogni rete è in ogni caso un contratto plurilaterale con comunione di scopo, possono esistere sia "reti non entificate", derivanti da contrati di scambio, sia "reti entificate", derivanti da contratti associativi) cerca in tale istituto il tratto caratterizzante del nuovo contratto di rete.
[nota 22] Le norme in tema di contratto di rete sono state scritte con tale pre-giudizio, nel senso letterale, in testa; per una conferma, tra i tanti, cfr. G. VILLA, "Reti di imprese e contratto plurilaterale", in Giur. comm., 2010, I, p. 944 e ss.; D. SCARPA, "La responsabilità patrimoniale delle imprese contraenti per le obbligazioni assunte a favore di una rete tra loro costituita", in Resp. civ., 2010, p. 406 e ss. e, con maggiore pragmatismo e attitudine a sottolineare l'ambivalenza della normativa, F. CAFAGGI - P. IAMICELI, "Contratto di rete. Inizia una nuova stagione di riforme?", in Obbl. contr., 2009, p. 595 e ss. e, dopo la riforma del 2010, con una maggiore apertura all'eventualità di reti con "modello organizzativo consortile", F. CAFAGGI, "Il nuovo contratto di rete: "learning by doing"?", in I Contratti, 2010, p. 1143 e ss.
[nota 23] Ciò vale anche per quelle reti che coinvolgono imprenditori di una filiera produttiva o distributiva che opera attraverso contratti certamente di scambio, quali la sub-fornitura o il franchising, dal momento che, se non si vuole concludere che ogni contratto di tale tipo è sempre anche un contratto di rete, occorre immaginare che le parti di tale contratto, quando si mettono tra loro in rete, decidano di fare qualcosa di più, e cioè di individuare lo scopo fine, uno o più scopi mezzo e, soprattutto un programma di rete, ovvero, altrimenti detto, prevedere regole per una futura attività, seppure, eventualmente, di tipo interno, e quindi non destinata a tradursi in scambi con soggetti terzi.
[nota 24] Così l'intervista a Fabrizio Cafaggi riportata da F. BARBIERI - R. REGGIO, "Sfuma il new deal delle Pmi", in Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2011, p. 6.
[nota 25] Anche il consorzio interno ex artt. 2602 e ss. c.c. è un contratto associativo nel senso evidenziato nel testo.
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