Il nome
Il nome
di Guido De Rosa e Emanuele Calò
La legge italiana, ancorché in modo non lineare, attribuisce ai figli il cognome del padre. La Corte Costituzionale, con sentenza del 16 febbraio 2006, n. 61, ebbe ad affrontare le questioni concernenti la disciplina del nome. La Corte Costituzionale prese atto anzitutto che la Corte di cassazione, sez. I civile, dubitava della legittimità costituzionale della norma desumibile dagli art. 143 bis, 236, 237, 2° comma, 262, 299, 3° comma, c.c., e dagli art. 33 e 34 d.p.r. 3 novembre 2000 n. 396 (regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, 12° comma, l. 15 maggio 1997 n. 127), nella parte in cui prevede che il figlio legittimo acquisti automaticamente il cognome del padre, anche quando vi sia in proposito una diversa volontà dei coniugi, legittimamente manifestata. Ad avviso della Cassazione, la predetta normativa si poneva in contrasto con gli art. 2, 3 e 29, 2° comma, Cost., in quanto la tutela costituzionale offerta dal primo degli invocati parametri ai diritti dell’uomo «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» esige che il diritto di cui si tratta sia garantito, nell’ambito di quella formazione sociale primaria che è la famiglia, nella duplice direzione del diritto della madre di trasmettere il proprio cognome al figlio e di quello del figlio di acquisire segni di identificazione rispetto ad entrambi i genitori, testimoniando la continuità della sua storia familiare anche con riferimento alla linea materna; ed ancora, in quanto l’attribuzione, automatica ed indefettibile, ai figli del cognome paterno si risolverebbe in una discriminazione ed in una violazione del principio fondamentale di uguaglianza e di pari dignità. Sennonché, la Corte Costituzionale decise che la questione è inammissibile.
La Corte Costituzionale rileva che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principî dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna, soggiungendo che neanche può obliterarsi il vincolo — al quale i maggiori Stati europei si sono già adeguati — posto dalle fonti convenzionali, e, in particolare, dall’art. 16, 1° comma, lett. g), della convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 14 marzo 1985 n. 132, che impegna gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari e, in particolare, ad assicurare «gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome ...». In proposito secondo la Corte, vanno, parimenti, richiamate le raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998, e, ancor prima, la risoluzione n. 37 del 1978, relative alla piena realizzazione dell’uguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome dei figli, nonché una serie di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, che vanno nella direzione dell’eliminazione di ogni discriminazione basata sul sesso nella scelta del cognome (16 febbraio 2005, affaire Unal Teseli c. Turquie; 24 ottobre 1994, affaire Stjerna c. Finlande; 24 gennaio 1994, affaire Burghartz c. Suisse).
Tuttavia, sempre secondo la Corte, l’intervento che si invocava con l’ordinanza di rimessione richiedeva un’operazione manipolativa esorbitante dai poteri della corte, e che avrebbe creato un vuoto di regole.
La Corte di giustizia delle Comunità europee con la sentenza 2 ottobre 2003, in causa C-148/02, Carlos García Avello (77) aveva a suo tempo disposto che “gli artt. 12 CE e 17 CE devono essere interpretati nel senso che ostano al fatto che, in circostanze come quelle della causa principale, l'autorità amministrativa di uno Stato membro respinga una domanda di cambiamento del cognome per figli minorenni residenti in questo Stato e in possesso della doppia cittadinanza, dello stesso Stato e di un altro Stato membro, allorché la domanda è volta a far sì che i detti figli possano portare il cognome di cui sarebbero titolari in forza del diritto e della tradizione del secondo Stato membro”.
Questa sentenza ha gettato le basi per il ridimensionamento delle norme che, in caso di bipolidia, fanno prevalere la propria cittadinanza (nell’ordinamento italiano, l’art. 19 d.i.p.).
(77) Edita in: Europa e Diritto Privato, 2004, p. 217 (sola massima), con nota di G. Palmeri, Doppia cittadinanza e diritto al nome; Giust. Civ., 2004, p. 1 ; Revue Trimestrielle de droit européen, 2004, p. 559, con nota di A. Iliopoulou, What’s in a name? Citoyenneté, égalité et droit au nom; Famiglia e Diritto, 2004, p. 437, con ampia nota di M.N.Bugetti, L’attribuzione del cognome tra normativa interna e principi comunitari, e ivi una aggiornata descrizione comparatistica, reperibile anche in Carbone, Quale futuro per il cognome?, cit. Per ulteriori commenti P. LAGARDE, Revue critique DIP, 2004, p. 192 e S. TONOLO, La legge applicabile al diritto al nome dei bipolidi nell’ordinamento comunitario, Riv. Dir. Internaz .Priv. e Proc., 2004, 957, ove si rinviene un’analisi approfondita delle possibili ricadute internazionalprivatistiche della pronuncia.
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