La fisionomia del bene culturale
La fisionomia del bene culturale
di Marcello M. Fracanzani
Professore ordinario di Diritto amministrativo, Università del Friuli
Diverse sono le relazioni tra diritto amministrativo e diritto civile attraverso l’opera del notaio che, come ci ricorda lo scopo della Fondazione di cui siamo ospiti, è posto a garanzia dei diritti dei cittadini e del pubblico interesse.
Nella materia specifica dei beni culturali, intersezioni vi sono nella procedura di formazione del vincolo, espresso o tacito, quindi sulla sua trascrivibilità; sulle procedure di autorizzazione, denuncia e prelazione, che costituiscono presupposto negoziale del trasferimento; sulle conseguenze della violazione delle formalità amministrative e sul ritrasferimento dei beni. Oppure ancora sui rapporti tra disciplina urbanistica e sui vincoli conformativi del Prg. Ebbene, tutti questi temi costituiscono titoli di altrettante relazioni puntuali in programma per questo pomeriggio e nella mattina di domani. Ed io non cadrò nella tentazione propria di chi ha il privilegio della relazione introduttiva, la tentazione cioè di toccare un po’ tutti questi argomenti, con assaggi presuntuosi e maldestri, come quegli invitati maleducati che nei buffet arrivano per primi e intaccano le guarnizioni di tutti, proprio tutti, i piatti di portata. Anche perché ho fresco il ricordo di quand’ero giovane assistente, chiamato a tenere una relazione specifica, col terrore che chi mi precedeva o presiedeva potesse “cannibalizzare” - questo è il termine che si usa in ambiente accademico - il mio povero scritto, anticipando, banalizzando e facendo strame di quanto io ero riuscito a preparare.
Ora, però, che da qualche anno mi trovo a tenere la relazione principale o una delle relazioni di apertura - per l’età mia e la benevolenza degli organizzatori, piuttosto che per i meriti acquisiti - sperimento il rischio di fare un riassunto, in quanto tale, fisiologicamente incompleto e non originale di cose note. Si corre il rischio di annoiare l’uditorio in attesa degli interventi più succosi dei pratici, con questo gettando discredito - se ancor più si potesse - sulla categoria degli accademici.
Il che mi spinge alla sfida e, senza mancare al ruolo accademico, in ragione del quale mi avete invitato, ma prendendo spunto dalla mia anima pratica, di oltre ventennale esperienza nel foro amministrativo del complesso Tar - Consiglio di Stato e Corte Costituzionale a fianco di enti locali, ma anche di privati, imprenditori, società pubbliche e private, secondo l’insegnamento del compianto maestro Feliciano Benvenuti, alla cui bottega (nel senso rinascimentale del termine) ebbi la fortuna di ri- formarmi, intendo muovere da alcuni casi pratici per intrattenere la loro intelligenza con un itinerario sulla fisiologia dei beni culturali, muovendo dalla “durezza” del provvedimento di vincolo, cioè dalla consistenza, ora severa ed affidabile, ora diafana e sfuggente, di quegli atti o comportamenti delle pubbliche amministrazioni che spesso costituiscono presupposti negoziali (nel senso proprio della presupposizione negoziale elaborata dai civilisti) nel trasferimento dei beni culturali.
All’inizio della carriera inventavo i casi oggetto di relazione, ora debbo riconoscere che la realtà supera la fantasia e quanto mi accingo ad esporre è tutto realmente accaduto. In nota i riferimenti dottrinali e giurisprudenziali.
Caso n. 1
Le parti convengono per la compravendita di un compendio immobiliare signorile soggetto a vincolo trascritto e, fissato il prezzo, addivengono alla stipula. Ritualmente il notaio provvede alla segnalazione che, attraverso la Soprintendenza, la regione e la provincia, giunge ad incontrare l’interesse del comune. La municipalità infatti conosce ed apprezza l’immobile, ritiene il prezzo di stipula più che congruo per esercitare la prelazione e, disponendo anche delle risorse patrimoniali accantonate in anni di oculata gestione, manifesta la propria volontà di vedersi assegnata la villa. Convoca quindi il Consiglio comunale per il primo pomeriggio utile in base a termini statutari per la diramazione degli inviti e dell’ordine del giorno: ricordiamo infatti che la competenza per le questioni relative a diritti reali su beni immobili spetta unicamente al Consiglio comunale a mente dell’art. 42, comma II, del Tuel e che il comma III dello stesso articolo dispone che nessun altro organo, neppure in via d’urgenza, può adottare misure provvisorie o anticipatorie su materie riservate al Consiglio(1). Non c’è modo quindi di ottenere un’immediatezza degli effetti, neppure con ordinanza sindacale contingibile ed urgente: occorre aspettare il giorno in cui si riunirà il Consiglio comunale.
La mattina di quello stesso giorno, le parti originarie si ritrovano davanti al medesimo notaio per stipulare il contrarius actus, per sciogliere cioè la compravendita del bene vincolato; sicché in occasione dell’apertura pomeridiana dell’assemblea comunale, un consigliere - di minoranza - può trionfalmente affermare che non vi sia più luogo a deliberare, perché il contratto di compravendita è venuto meno in mattinata e, quindi, non vi è più alcuna prelazione su cui decidere: le proprietà resteranno come erano.
Per contro, il Consiglio comunale, su conforme avviso del segretario all’uopo saggiamente informatosi, procede ugualmente deliberando l’esercizio della prelazione, motivando - ecco quello che ci interessa - sul profilo per cui la compravendita di bene vincolato, contiene ope legis un patto a favore del terzo, ovvero l’amministrazione, a vantaggio della quale viene riservato un termine per esercitare un diritto, il diritto di prelazione appunto. Prima della scadenza di quel termine, cioè prima che la P.A. abbia deciso se esercitare o meno la prelazione, le parti non possono tornare nella disponibilità del bene. E su questo motivo il Consiglio delibera, esercita la prelazione, e procede nell’iter amministrativo di acquisizione. Insorge la parte venditrice (che sarebbe comunque stata saldata e non la compratrice che non avrebbe visto il bene?)(2)chiedendo al Tar l’annullamento della delibera per plurimi vizi, tutti in realtà sullo sviluppo di due sostanziali argomenti: il municipio ha proceduto su una falsa rappresentazione della realtà, poiché il diritto di prelazione, legato com’era al negozio originario, era venuto meno con quello. In ogni caso, non c’era mai stato veramente vincolo, perché la situazione era confusa, malamente trascritta ed il notaio, solo per tuziorismo aveva avviato la procedura di comunicazione ai fini della prelazione, ma in realtà mancando comunque il vincolo, nemmeno la prelazione avrebbe mai potuto esserci.
Con questi presupposti si va dunque in giudizio. Ma prima di dare conto dell’esito e delle ragioni delle sentenze di primo e secondo grado, nonché dell’indirizzo giurisprudenziale che ne è scaturito, occorre ricostruire con precisione e nelle loro conseguenze, le posizioni sulla natura della prelazione e sulle situazioni giuridiche soggettive che la P.A. può vantare su un bene vincolato, una volta che sia stato comunque stipulato un atto di trasferimento inter vivos.
Una prima teoria, quella più nota e che riterrei favorevole alla P.A., argomenta nel modo seguente.
Il contratto di compravendita di un bene immobile assoggettato a vincolo contiene in sé un patto a favore di terzo, cioè la costituzione a favore della P.A. di un diritto di prelazione da esercitarsi in un certo tempo. Per converso, dopo aver stipulato la compravendita sospensivamente condizionata all’esercizio (o mancato esercizio) della prelazione, le parti perdono totalmente la disponibilità sulla res, dovendo aspettare le determinazioni dell’ente. Diversamente opinando - si dice - gli attori della compravendita potrebbero inibire in ogni momento l’esercizio della prelazione, poiché quando la P.A. sarebbe pronta e con la capienza monetaria sufficiente, le parti potrebbero sottrarle il bene, sciogliendo a piacimento il contratto da cui era sorto il diritto di prelazione. Di più, le parti potrebbero anche non dichiarare tutto il prezzo, poiché ove la P.A. fosse attirata dalla convenienza dell’affare, non vi sarebbe mai alcun rischio di prelazione, potendo sottrarre la preda all’ente pubblico, con un contrarius actus in prossimità dell’esercizio di prelazione. E siccome la volontà negoziale negli enti territoriali (quelli ancora dotati di una certa capienza patrimoniale) passa attraverso un percorso lungo e procedimentalizzato, sarebbe abbastanza agevole vanificarne gli sforzi, facendo venir meno la materia del contendere prima che un qualsivoglia provvedimento si formi.
Ebbene, proprio questa è la posizione ritenuta legittima dalla tesi che sta evolvendo nella giurisprudenza amministrativa degli ultimi tempi(3).
Si viene argomentando infatti che non vi sia alcun patto a favore di terzo, né alcun diritto di prelazione autonomo da un valido contratto di compravendita. In altri termini, le parti mantengono sempre la signoria sulla cosa, anche in pendenza del termine per la prelazione, tanto da godere di una sorta di ius poenitendi in ogni momento, fino a che non sia adottato l’atto di prelazione. Qui le opinioni si dividono fra chi vede il momento che stabilisce l’irreversibilità della prelazione nella comunicazione alle parti del provvedimento; altri che ritengono si debba far riferimento al momento in cui il provvedimento assume efficacia (delibera di immediata esecutività, ovvero dopo dieci giorni di pubblicazione all’albo pretorio).
L’argomento principale di questa posizione è quello per cui la P.A. non deve prendere a tutti i costi quel determinato bene, ma solo essere preferita al compratore. Se il bene resta in capo al venditore, com’è stato fino al momento del negozio, la P.A. non ha nulla da obbiettare. Di più, se alla P.A. non piace che il bene sia del venditore, com’era fino a quel momento, ma ritiene che stia meglio in mano pubblica, allora può ben avviare la procedura ablativa: l’indennizzo per l’espropriazione è comunque dal 2007 parametrato al valore venale o al prezzo di mercato, sicché comunque l’importo erariale da esborsare non sarebbe comunque tanto lontano da quanto occorrerebbe per esercitare la prelazione. Di qui la conclusione che in assenza di un valido contratto di compravendita sottostante non sorga il potere della P.A. di provvedere, tanto da ritenere il relativo provvedimento amministrativo non solo annullabile, ma radicalmente nullo(4).
A chi sosteneva questa teoria, quella che potremmo chiamare del far franare il terreno sotto ai piedi della P.A. in fase di prelazione ebbi a sollevare un’obiezione: se è lecito adottare un contrarius actus nel momento in cui si ha notizia dell’intenzione, per esempio, comunale di esercitare la prelazione sul bene, allora si potrebbe già dedurre tale evento in contratto come condizione risolutiva: il contratto di compravendita di bene immobile vincolato si avrà per mai stipulato se la P.A. adotterà provvedimenti di interesse sul bene ai fini dell’esercizio della prelazione. Tesi provocatoria, ma che è estrema conseguenza logica di quella qui avversata. Se il comportamento della P.A. può essere pacificamente dedotto in contratto come condizione, essendo per definizione atto futuro ed incerto(5), allora perché non anticiparlo direttamente in sede di compravendita? La risposta, a mio avviso scontata, che tale comportamento avrebbe il solo significato di frodare la legge, vanificandone la portata, dimostra in realtà l’intrinseca debolezza della costruzione. Trattasi di condizione risolutiva viziata e forse anche viziante se si dimostra che è le parti non sarebbero venute alla stipula in sua assenza. Se è pacificamente elusivo della norma porre come condizione negoziale l’effetto risolutivo dell’eventuale interesse alla prelazione, altrettale dovrebbe essere il contrarius actus adottato in pendenza del termine per esercitare la prelazione e, magari, proprio nel momento in cui è palese l’intento di esercitarla. E l’intento elusivo e vanificante non mi sembra possa essere anestetizzato sul presupposto che comunque la P.A. potrebbe apprendere il bene - prelazione o non prelazione - mediante procedura ablatoria e verosimilmente allo stesso costo della prelazione. E ciò dico per due motivi: il primo, poiché - come anticipato - siamo di fronte ad un’interpretazione abrogatrice che svilisce un istituto così disciplinato da oltre settant’anni, rendendolo inservibile; il secondo più specifico perché la procedura espropriativa non è alternativa, fungibile o sovrapponibile alla prelazione. Quando si espropria occorre imprimere una destinazione pubblicistica al bene, secondo il piano annuale e triennale delle opere pubbliche e con rigidi vincoli di bilancio, introdotti proprio per evitare le “grandi incompiute”. Tutto questo non c’è nella prelazione, ove lo scopo della norma è quello di attrarre al patrimonio pubblico un bene di rilevanza storico culturale poiché si ritiene che possa venir meglio tutelato che non dai privati cui vien sottratto. L’espropriazione toglie per far qualcosa d’altro; la prelazione toglie per non lasciarlo in mano ai privati, non forzatamente, ma nel momento in cui il proprietario ha deciso di disfarsene ed allo stesso prezzo per cui è pronto a cederlo all’acquirente.
Ma tant’è, la giurisprudenza sembra orientata in questo senso, sicché i notai sembrano autorizzati a far evaporare la compravendita nel momento in cui l’acquirente rischia di perdere il bene. Il che spinge forse le parti a non alzare nemmeno troppo il prezzo per evitare la prelazione, magari neanche a dichiararlo tutto, rassicurati che comunque vi sono altri modi per cautelarsi.
Caso n. 2
Nella compravendita di un compendio vincolato ci si chiede se il vincolo insista sul plesso principale o si estenda anche alle pertinenze. Il dubbio origina dal tenore letterale del provvedimento e dall’incertezza della rappresentazione grafica catastale, entrambi risalenti. La questione non è irrilevante per le parti e per il notaio in ragione delle limitazioni dei diritti sul bene e della responsabilità, anche di natura penale, che assiste la tutela delle cose di pregio. Orbene, qui l’orientamento prevalente in giurisprudenza sembra quello di invocare l’interpretazione “autentica” dell’ente tutorio. In altri termini, la Soprintendenza è ritenuta soggetto capace in via esclusiva ad interpretare estensione e portata di un provvedimento di vincolo per quanto datato possa essere.
La posizione sembra essere riassunta nei modi seguenti: il vincolo può assumere veste di provvedimento amministrativo o di effetto diretto per prescrizione di legge. Nel primo caso si tratta di atto riferibile all’amministrazione, cui viene riconosciuta tradizionalmente una discrezionalità tecnica difficilmente sindacabile in sede di processo; se ne deduce che in caso di dubbio possa farsi ricorso solo all’interpretazione autentica, intendendo come tale non propriamente quella dell’amministrazione che ha adottato il provvedimento di vincolo, ma anche di quella che ne sia il successore nella tutela, specie quando si tratti di provvedimenti risalenti. Non v’è chi non veda come in questo modo sotto l’usbergo dell’interpretazione autentica si celi in realtà un provvedimento nuovo peraltro con efficacia retroattiva che viene rinnovato o adottato proprio nel momento in cui ci si chiede se debba essere denunciata la compravendita ai fini della prelazione pubblica.
Lo stesso dicasi nel caso di vincolo imposto direttamente dalla legge su determinate categorie di immobili. Trattandosi di categorie generali ed astratte, anche in questo caso l’applicabilità al singolo caso avviene tramite un giudizio di sussunzione della fattispecie concreta all’astratta, giudizio demandato in via esclusiva e pressoché insindacabile all’ente tutorio, che anche in questo caso si trova a dover riconoscere la sussistenza o meno del vincolo in zone d’ombra(6).
Quale insegnamento ne andiamo traendo? Che sta perdendo sempre più di significato l’indagine sul momento della notifica o sulla sua rilevanza, sul suo carattere costitutivo o dichiarativo. Non è più il provvedimento, nella sua precisione, notificazione e trascrizione a creare e nemmeno a riconoscere il vincolo; non è nemmeno più il baricentro della tutela dei beni culturali ed ambientali. La legislazione, la prassi delle amministrazioni e l’orientamento del plesso Tar - Consiglio di Stato si sta muovendo dall’effetto costitutivo all’effetto dichiarativo, verso la sostituzione del provvedimento di vincolo con provvedimenti interinali atipici di carattere anticipatorio della tutela: la comunicazione dell’avvio del procedimento di apposizione di vincolo o le modalità di conservazione di un bene.
Di questo la pratica se ne è già accorta; ne è testimone l’ottimo contributo di Adriano Pischetola(7), ove dopo aver rimagliato le fila della giurisprudenza civile e penale, propone una serie di clausole da inserire negli atti a garanzia delle parti e del notaio, tra cui quella di far dichiarare in atto che il venditore non ha (ancora) avuto comunicazione di avvio del procedimento per la dichiarazione di interesse storico o artistico del bene compravenduto. Queste cautele sono poi in sintonia con alcune riflessioni che si vanno facendo nel diritto amministrativo, fra tutte quella per cui viene ribaltata sul proprietario la responsabilità amministrativa del giudizio di rilevanza del bene. Il proprietario come custode presuntivamente informato della rilevanza dei beni che ha a casa. Se infatti, dal provvedimento puntuale e concreto andiamo verso elencazioni non esaustive ma esemplificative di natura legislativa, altro non facciamo che chiedere a chi è nella materiale disponibilità del bene di essere attore responsabile della loro custodia: responsabile nel senso di assumersi tutte le conseguenze di natura amministrativa e penale connesse ad un comportamento non conforme alle prescrizioni di legge a tutela delle cose pregevoli. Di più, responsabile perché presuntivamente edotto dei suoi obblighi: alla certezza della notifica e trascrizione di un provvedimento amministrativo con carattere costitutivo del vincolo, temporalmente fissato, andiamo sostituendo la presunzione di conoscenza del vincolo e del modo di trattarlo, in forza di una previsione (esemplificativa) di legge che per definizione non ammette ignoranza. È purtroppo tendenza generale del diritto amministrativo quella della rinuncia al provvedimento espresso a fronte di una pretesa semplificazione, che non esito a definire banalizzazione. La rinuncia al provvedimento trasferisce l’obbligo del giudizio di conformità sul privato e/o sul professionista che lo assiste, generando mancanza di affidamento, incertezza e l’incertezza produce immobilismo o grave rallentamento dei traffici(8).
C’è quindi da chiedersi se l’elevazione del cittadino a tutore presuntivamente istruito delle cose di pregio comporti anche un dovere del notaio nel verificare in concreto questa attitudine o ad ammonirlo, quasi dovesse saggiare la sua reale capacità a disporre. L’osservazione non è peregrina ove si ponga mente alla circostanza che in caso di difficoltà il privato eccepirà l’ignoranza incolpevole ed impossibile da vincere, lamentando di non essere stato ammonito sul significato delle cose pregevoli e sulla sua attitudine a disporne validamente, ovvero sulle procedure necessarie per disporne. In estrema sintesi, il processo di semplificazione/banalizzazione amministrativa che si sta concretando nella smaterializzazione del provvedimento amministrativo di vincolo verso elenchi generali di cose tutelate e di aspettativa di comportamenti conseguenti si traduce in un trasferimento di responsabilità che aggrava i compiti del notaio, in considerazione del suo ruolo di custode della legittimità (sempre più pubblica, che privata) degli atti inter vivos o mortis causa.
Caso n. 3
L’acquirente di un immobile sito in prossimità di un pregevole monumento, nel momento in cui chiede un titolo edilizio per dei lavori sul suo bene, apprende non poterne modificarne la sagoma ed il colore, perché soggetto al rispetto dei coni visuali del monumento; né poterne mutare l’uso da residenziale in ricettivo.
Poche parole dunque sui profili indiretti del vincolo e coni visuali, sugli effetti conformativi della proprietà dei terzi e recepimento nel Prg.
Il tema è di grande attualità perché attiene alla pianificazione urbanistica con rilevanza ambientale, quale orienta gli strumenti in corso di perfezionamento in diverse regioni ove le diverse leggi regionali hanno sostanzialmente adottato tutte la soluzione veneto-toscana di scindere il piano strutturale di natura vincolistica protettiva da quello che viene chiamato il piano del sindaco, cioè il numero di interventi effettivi o verosimili nell’arco di un mandato amministrativo(9).
Il problema si pone in questi termini: con l’apposizione del vincolo il proprietario del bene storico vede da un lato ridursi il suo potere sulla cosa, ma dall’altro la vede valorizzarsi in ragione della certificazione di interesse culturale. Al di là di eventuali (sempre più magri) sgravi fiscali sulle cose di pregio, egli può vantare un sostanziale pareggio, perché destinatario degli effetti di svantaggio e di vantaggio connessi all’apposizione del vincolo. Ma il vicino, il titolare di un bene non di pregio che subisce le limitazioni nella disponibilità del proprio immobile per effetto della tutela dei coni visuali, quale beneficio trae dal provvedimento di tutela del monumento? Forse quello di avere la vista su un pezzo celebre?
In verità qui emerge in tutta la sua virulenza la natura dei vincoli urbanistici connessi alla protezione del bene pregevole: si tratta di vincoli di natura conformativa del diritto di proprietà o di vincoli a carattere sostanzialmente espropriativo? La propensione va alla seconda ipotesi, cioè quella del carattere espropriativo, in ragione che nessuna utilità può individuarsi in capo al bene tenuto al rispetto dei coni visuali, se non proprio la sua limitazione in ragione di un superiore interesse pubblico. Il che si concreta in una c.d. espropriazione orizzontale, cioè nella perdita di alcune facoltà connesse al diritto di proprietà: e ciò può avvenire solo previo giusto indennizzo, a carico dell’ente impositivo del vincolo che, per il bene limitato al rispetto dei coni visuali, non è più la Soprintendenza, bensì il comune che - pur con atto dovuto - ha recepito la prescrizione in Prg. Questi sarà tenuto all’indennizzo. Per i vincoli già esistenti da tempo, ormai la pretesa indennitaria è prescritta, ma per i vincoli nuovi il problema si pone. Ed una soluzione consiste spesso nell’assegnazione di credito edilizio(10)al proprietario del bene non storico ma limitato dai coni visuali, da realizzare in altro luogo, ovvero nell’ampliamento delle destinazioni d’uso nei limiti di compatibilità con il vincolo visuale.
Ed il discorso ci porta sul tema della destinazione d’uso degli immobili vincolati in modo diretto o in modo indiretto. La questione trascende i profili notarili se non per la presupposizione negoziale, cioè per l’aspettativa che l’acquirente della villa ha nel ricavarci un ristorante, piuttosto che una residenza d’epoca o degli appartamenti di lusso. Qui mi fermo, rinviando ad un bel convegno, promosso dall’Istituto regionale Ville Venete, celebratosi nella sala dello scrutinio in Palazzo Ducale a Venezia il 16 ottobre 2010, ai cui atti faccio rinvio(11).
Per trarre le fila e dare alcuni consigli pratici, come si addicono ad un convegno di questo tipo, espongo qui di seguito, a mo’ di sequenza le conclusioni cui pervengo.
1) Il plesso normativo sui beni culturali D.lgs. n. 42/04 ed il testo unico sull’ambiente, D.lgs. n. 152/06, risentono dell’impronta europea di cui (soprattutto il secondo) sono figli. Il riferimento puntuale e concreto di un vincolo trascritto che ancora governava il sistema R.D. 1089/39 e 1497/39, poi trasfusi nel D.lgs. n. 490/99 cede il passo al criterio teleologico funzionale proprio del sistema comunitario: non più il ruolo centrale del vincolo notificato e trascritto, ma categorie generali con definizione ampia e presuntiva sulla base di criteri oggettivi (l’età del bene) ovvero lo scopo servente alla cultura.
2) In questo senso, le amministrazioni tutrici del vincolo ne diventano viepiù arbitri, con ampi poteri di intervento anticipatorio, mediante comunicazione dell’avvio del procedimento di costituzione del vincolo, ma, più radicalmente, come uniche interpreti anche ex post dell’estensione, della portata e, addirittura, dell’esistenza di un vincolo, ove vi sia incertezza nei pubblici registri.
3) Il notaio che dà notizia nelle forme di legge dell’avvenuta compravendita di bene vincolato non rende alcuna certificazione dell’esistenza, attualità ed estensione del vincolo. Parimenti, un bene apparentemente non vincolato può essere ritenuto attratto alla disciplina dei beni di interesse storico sulla semplice interpretazione dell’Autorità tutoria.
4) La discrezionalità tecnica di apprezzamento delle Soprintendenze è considerata dalla giustizia amministrativa di particolare ampiezza, tanto da essere difficilmente sindacabile in sede di legittimità, salvo i casi di patente contraddittorietà manifesta.
5) Il processo di semplificazione/banalizzazione amministrativa che si sta concretando nella smaterializzazione del provvedimento amministrativo di vincolo verso elenchi generali di cose tutelate e di aspettativa di comportamenti conseguenti si traduce in un trasferimento di responsabilità che aggrava i compiti del notaio, in considerazione del suo ruolo di custode della legittimità (sempre più pubblica, che privata) degli atti inter vivos o mortis causa.
6) La posizione tradizionale in dottrina e giurisprudenza vede nel contratto di compravendita di un bene vincolato l’origine di un patto a favore di terzo, consistente nell’attribuzione di una prelazione a favore della P.A. da esercitarsi in un dato termine; tanto il diritto di prelazione, quanto il termine per il suo esercizio non vengono dalla volontà delle parti, ma trovano origine direttamente dalla legge, da norma imperativa, con tutto quanto ne segue in caso di sua violazione.
7) Ne consegue che una volta stretto il patto e fatto sorgere l’effetto di legge, la questione esce dalla disponibilità delle parti, cui non resta che attendere le determinazioni della P.A. o lo spirare del termine. Né può essere opponibile alla P.A. ogni diversa determinazione delle parti, temporalmente private del potere di disporre del bene, né, altresì, alcun soggetto terzo, pubblico o privato, può valersi dell’eventuale negozio che le parti abbiano stipulato in dipendenza del termine per la prelazione, trattandosi di negozio nullo per contrarietà a norma imperativa o di atto in fronde alla legge. Ne consegue l’irrilevanza di qualsivoglia atto privato e la sua inattitudine ad arrestare l’esercizio della prelazione una volta che sia stata tempestivamente e ritualmente esercitata.
8) Per contro, nella giurisprudenza amministrativa si va consolidando l’orientamento per cui il diritto di prelazione scaturisce da un valido contratto di compravendita e ne segue le sorti, questo unicamente prescrivendo la legge. Di talché è sempre nella disponibilità delle parti stipulare la compravendita e poi affrancarsene. Sicché la P.A. dovrebbe sempre verificare la sussistenza del valido contratto da cui scaturisce il suo potere di prelazione. Con la conseguenza che il provvedimento che esercita la prelazione in assenza di valido contratto è adottato in difetto assoluto di attribuzione, ed è quindi nullo a’ mente dell’art. 21-septies delle L. n. 241/90, come novellata dalla L. n. 15/2005.
9) Il vincolo, espresso o tacito, si concreta in una limitazione della disponibilità del bene a fronte però di un incremento di valore in ragione dell’accertata e proclamata rilevanza storico culturale. I due profili sono visti sostanzialmente in parità. Al contrario, l’asimmetria odiosa emerge nel confronto con il vincolo indiretto, quali il cono visuale. Se ne sostiene il carattere sostanzialmente espropriativo con necessità di indennizzo e infungibilità di un provvedimento espresso e trascritto.
10) Tenuto all’indennizzo è ritenuto essere il comune che appone il vincolo in Prg, pur se atto dovuto per recepimento di vincolo superiore. La forma di indennizzo è recentemente individuata in assegnazione di credito edilizio, da realizzare aliunde rispetto al bene tenuto al rispetto dei coni visuali, ovvero tramite ampliamento delle categorie del mutamento di destinazione d’uso, profili rilevanti da dedurre in atto quali condizioni dell’acquisto.
Altre relazioni ci potrebbero essere tra il diritto amministrativo e la pratica notarile, come quelle tra un giovane assistente ed una promettente e bellissima praticante, poi valido notaio.
Ma questa è un’altra storia.
(1) L’art. 42 D.lgs. n. 267/00 dispone: «1. Il Consiglio è l’organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo. 2. Il Consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: omissis l) acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nell’ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del segretario o di altri funzionari; omissis 3. Il Consiglio, nei modi disciplinati dallo statuto, partecipa altresì alla definizione, all’adeguamento e alla verifica periodica dell’attuazione delle linee programmatiche da parte del sindaco o del presidente della provincia e dei singoli assessori. 4. Le deliberazioni in ordine agli argomenti di cui al presente articolo non possono essere adottate in via d’urgenza da altri organi del comune o della provincia, salvo quelle attinenti alle variazioni di bilancio adottate dalla Giunta da sottoporre a ratifica del Consiglio nei sessanta giorni successivi, a pena di decadenza». La giurisprudenza precisa come l’art. 42, comma 2, del D.lgs. n. 267/2000 (T.U. Enti locali) stabilisca che il Consiglio comunale abbia competenza, tra l’altro, in materia di acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del Segretario o di altri funzionari. Il seguente art. 48 stabilisce, al comma 2, che la Giunta compie tutti gli atti, rientranti, ai sensi dell’art. 107, commi 1 e 2, nelle funzioni degli organi di governo, che non siano riservati dalla legge al Consiglio e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del Sindaco o del Presidente della Provincia o degli organi di decentramento (Riforma della sentenza del Tar Abruzzo - L’Aquila, n. 71/2008). Così Cons. Stato, sez. V, 26 gennaio 2012, n. 338, (ud. del 15 novembre 2011), In.Fr. c. Comune di Celano. Sulla stessa linea, Sempre il supremo consesso di Palazzo Spada, ha precisato che i provvedimenti di acquisizione ai sensi dell’art. 43 T.U. n. 327/2001 sulle espropriazioni rientrano a pieno titolo nelle competenze consiliari di cui alla lett. l, dell’art. 42, comma 2, del Tuel, la quale elenca «acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del segretario o di altri funzionari», così ricomprendendo anche l’ipotesi di acquisto di servitù pubblica mediante lo strumento di diritto pubblico in esame (Riforma della sentenza del Tar Liguria - Genova, sez. I, n. 2048/2008; sez. V, 13 ottobre 2010, n. 7472 - ud. del 15 giugno 2010 -, Comune di Savona c. P.V. e altri). Più propriamente sulla titolarità della volontà negoziale atta al trasferimento immobiliare, la stessa Quinta sezione, ha recentemente stabilito che la delibera con la quale la Giunta comunale, rilevati i presupposti per la decadenza di una convenzione stipulata dal Consiglio comunale recante atti di disposizione del patrimonio immobiliare, dà doverosa applicazione alla convenzione stessa (nella specie provvedendo a revocarla), lungi dal connotarsi come esercizio dei poteri di disposizione del patrimonio medesimo, che ai sensi dell’art. 42 del Tuel è di stretta competenza del Consiglio comunale, si pone come mero atto esecutivo dell’indirizzo generale che il Consiglio stesso (posto che non manifesta alcuna diversa e contraria volontà rispetto a quella propria di quest’ultimo) ha emanato sulle modalità di esecuzione, nel caso specifico, del Programma di edilizia economica e popolare poi trasfuse nella convenzione. In applicazione dell’art. 48 del Tuel, infatti, la Giunta è competente, in via residuale, per tutti gli atti che non attengono alla competenza consiliare o al singolo, nonché, ed è questo il profilo che rileva, per l’attuazione degli indirizzi generali del Consiglio. Così, Cons. Stato, sez. V, 17 settembre 2010, n. 6982, (ud. del 22 giugno 2010), Liquidazione coatta amministrativa soc. coop. ad. Srl c. Comune di Portoscuso. In dottrina, si veda con profitto G. CAIA, Beni culturali e paesaggio nel recente codice: i principi e la nozione di patrimonio culturale, in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, vol. III, Padova, 2007, p. 161; altresì S. AMOROSINO, Beni culturali, energie rinnovabili, paesaggio. Studi “in itinere”, Napoli, 2012, specialmente p. 57 e ss.
(2) È, in effetti, singolare che l’eccezione prima ed il ricorso poi sia stato proposto dal venditore: egli infatti si priva comunque del bene, irrilevante dovendo essere a chi lo cede, posto che è comunque destinato a ricevere la medesima somma, sia che contragga con il privato, sia che contragga con la P.A. in seguito all’esercizio della prelazione. Caso mai, dovrebbe essere l’acquirente ad avere un interesse differenziato, sostanziale e, quindi, processuale, per opporsi alla sequenza procedimentale della prelazione che gli inibisce il perfezionamento del negozio intessuto con il venditore. L’acquirente è venuto a contrarre infatti per avere il bene e si trova estromesso per la precedenza accordata dalla legge alla P.A. Non si vede quale interesse differenziato abbia invece il venditore per agire in giudizio avverso gli atti amministrativi che portano alla prelazione, quale motivo per voler contrattare con l’acquirente privato. Legittimo il sospetto che stipulando con il privato il venditore ci guadagni un quid pluris, anzi che l’abbia già lucrato al momento dell’esercizio della prelazione e che si veda così costretto a doverlo restituire ove la procedura amministrativa andasse a buon fine. Si tratta di profili non dimostrabili se non per indizi, uno dei quali ci sembra proprio l’esperimento di azione giurisdizionale a tutela di una posizione che non appare (che non deve apparire), in luogo di quella che dovrebbe essere la posizione dell’acquirente. Sul punto cfr. A. CIOFFI, Illiceità penale, invalidità amministrativa, “antigiuridicità”, introduzione ed ipotesi, in L’invalidità amministrativa a cura di V. Cerulli Irelli, L. De Lucia, Torino, 2009, p. 339.
(3) Così, Tar Veneto, sez. II, 18 luglio 2005, n. 2838; conforme Cons. Stato, sez. VI, 23 febbraio 2010, n. 1052 (udienza del 19 gennaio 2010), Comune di Romano d’Ezzelino, c. Bortolazzo Clara - Mibac.
(4) Si potrebbe in questo caso parlare di nullità dell’atto amministrativo a mente dell’art. 21-septies della L. n. 241/1990 novellata, per mancanza degli elementi essenziali, nella specie mancando il negozio che la legge eleva a presupposto dell’esercizio del potere, o addirittura presupposto per il sorgere del potere a provvedere. Più propriamente a noi pare esser di fronte a un’ipotesi di falsa rappresentazione della realtà, cioè nell’errore ostativo che lascia intendere per valido ed efficace un negozio tra privati che in realtà non è avvenuto, concretando un’ipotesi di annullabilità, o che è stato risolto con efficacia retroattiva, producendo l’invalidità sopravvenuta dell’atto amministrativo. In verità, la questione è di scarsa importanza pratica poiché nel diritto amministrativo anche l’annullabilità ha efficacia retroattiva, rappresentandosi come un’ipotesi in cui l’atto non doveva e quindi non poteva essere assunto, sicché l’intervento in autotutela o da parte del giudice tenta il ripristino dello status quo ante nei limiti dell’irreversibilità degli effetti interinalmente prodotti. Cfr. D. CORLETTO, Sulla nullità degli atti amministrativi, in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, vol. II, Padova, 2007, p. 51.
(5) Tutti gli atti amministrativi sono per definizione atti futuri ed incerti, poiché la tesi opposta comporta che qualcuno possa controllare o prevedere gli atti della P.A., comportamento che integra fattispecie penale. Cfr. L. DELLO RUSSO, L’invalidità dell’atto amministrativo davanti al giudice penale. I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in L’invalidità amministrativa, cit., p. 369.
(6) Devesi però ricordare come il nuovo codice che dall’anno scorso governa il processo amministrativo ammetta un sistema probatorio più ampio con possibilità per le parti di un ruolo più incisivo nell’accertamento dei fatti e nelle valutazioni tecniche. Cfr. L. GIANI, La fase istruttoria in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, II ed., Torino, specialmente p. 377.
(7) A. PISCHETOLA, Circolazione dei beni culturali ed attività notarile, Milano, 2006.
(8) L’affidabilità di un provvedimento espresso è palese ed immediatamente percepibile solo che su di esso si debba appoggiare qualsivoglia atto privato, dal banale plesso compravendita-mutuo, in cui il certificato di destinazione urbanistica esplica importanza centrale, fino alle attestazioni camerali per le più complesse operazioni societarie o bancarie. In questo senso, cfr. D. VAIANO, La valorizzazione dei beni culturali, Torino, 2011, ma più profondamente, ID., Pretesa di provvedimento e processo amministrativo, Milano, 2002.
(9) Valga per tutte l’esempio del Legge urbanistica veneta, L.r. n. 11/04, ove all’art. 12 disegna la differenza tra struttura ed operatività: «1. La pianificazione urbanistica comunale si esplica mediante il piano regolatore comunale che si articola in disposizioni strutturali, contenute nel piano di assetto del territorio (Pat) ed in disposizioni operative, contenute nel piano degli interventi (Pi). 2. Il piano di assetto del territorio (Pat) è lo strumento di pianificazione che delinea le scelte strategiche di assetto e di sviluppo per il governo del territorio comunale, individuando le specifiche vocazioni e le invarianti di natura geologica, geomorfologica, idrogeologica, paesaggistica, ambientale, storico-monumentale e architettonica, in conformità agli obiettivi ed indirizzi espressi nella pianificazione territoriale di livello superiore ed alle esigenze dalla comunità locale. 3. Il piano degli interventi (Pi) è lo strumento urbanistico che, in coerenza e in attuazione del Pat, individua e disciplina gli interventi di tutela e valorizzazione, di organizzazione e di trasformazione del territorio programmando in modo contestuale la realizzazione di tali interventi, il loro completamento, i servizi connessi e le infrastrutture per la mobilità. 4. Il piano di assetto del territorio intercomunale (Pati) è lo strumento di pianificazione intercomunale finalizzato a pianificare in modo coordinato scelte strategiche e tematiche relative al territorio di più comuni. 5. L’approvazione del piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc), del piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp) e delle loro varianti comporta l’obbligo per i comuni di adeguarsi adottando apposite varianti al piano di assetto del territorio (Pat) ed al piano degli interventi (PI) entro il termine massimo di un anno. 6. Le varianti di adeguamento di cui al comma 5: a) sviluppano le direttive attraverso opportune analisi ed approfondimenti pianificatori; b) attuano le prescrizioni e adattano la individuazione dei vincoli in relazione alla diversa scala di rappresentazione». Analoghe disposizioni si trovano, fra le altre, nelle leggi regionali dell’Emilia Romagna, della Toscana e del Friuli Venezia Giulia.
(10) Sul punto sia consentito il rinvio a M.M. FRACANZANI,
Il credito edilizio: emissione di carta moneta?
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(11) See at: www.irvv.net sotto il banner eventi.
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