Note sulle verifiche d’interesse e le alienazioni nel codice dei beni culturali. Norma, applicazione e criticità
Note sulle verifiche d’interesse e le alienazioni nel codice dei beni culturali. Norma, applicazione e criticità
di Carla Di Francesco
MiBac Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici dell’Emilia-Romagna

Premessa

I notai nello svolgimento delle loro attività hanno consuetudine di contatti con le strutture periferiche del Ministero per i beni e le attività culturali, in particolare con le Soprintendenze per i beni architettonici e paesaggistici, e le Soprintendenze archeologiche; quegli uffici, cioè, che esercitano le funzioni di tutela dei beni culturali di settore, e che costituiscono la spina dorsale di una organizzazione periferica del Ministero che dai primi del novecento si era mantenuta pressoché identica fino al 2001. In quell’anno vennero istituite le Soprintendenze regionali, e a partire dal 2004, soppresse le Soprintendenze regionali, sono presenti sul territorio, ancora a base regionale, le Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici.

Nell’ultimo decreto di organizzazione del MiBac (il D.P.R. 233/2007, che a sua volta ha sostituito il D.P.R. 173/2004) le Direzioni regionali sono inserite tra gli uffici di livello dirigenziale generale, otto centrali e diciassette periferici: si tratta in sostanza delle Direzioni generali che al centro sono di tipo tematico (personale e affari generali, beni architettonici e paesaggio, archeologia, cinema, spettacolo ecc.), mentre in periferia, una in ogni regione, svolgono molteplici funzioni anche su temi intersettoriali di tutela, avendo in generale compiti di «direzione, indirizzo, coordinamento, e controllo delle Soprintendenze (Bap, Ba, Psae, Archivistica), biblioteche statali, archivi, presenti in regione».

Tra le numerosissime competenze dettagliate dall’articolo 17 del già citato D.P.R. 233/2007, le Direzioni regionali svolgono in materia di dichiarazioni di interesse ed autorizzazioni all’alienazione quelle funzioni che una volta, vigente la legge 1089/1939, erano attribuite alle strutture centrali; ma con alcune più che significative aggiunte di compiti e procedimenti apportati dalle modifiche legislative del 2004.

La verifica dell’interesse

Con il codice dei beni culturali e del paesaggio, decreto legislativo 42/2004, nasce la “verifica dell’interesse culturale”: l’articolo 12 del codice obbliga lo Stato, le Regioni, tutti gli enti pubblici territoriali, enti ed istituti pubblici, le persone giuridiche private senza fini di lucro (che d’ora in poi chiameremo qui “pubblici”) a sottoporre ciascun bene immobile di proprietà che abbia più di cinquanta (dal 2011 settanta) anni ad un procedimento preciso, la verifica dell’interesse culturale. La novità è davvero importante: fino a quel momento infatti la norma che regolava i beni delle proprietà come sopra definite era l’art. 4 della legge 1089/1939, riassorbito sostanzialmente identico nel testo unico 490/1999, art. 5. L’art. 4 dunque stabiliva che «i rappresentanti delle province, dei comuni, degli enti istituti legalmente riconosciuti» dovevano presentare gli elenchi descrittivi dei beni ultracinquantennali di proprietà degli enti da loro rappresentati, e che rimanevano sottoposti a tutela anche i beni con i medesimi requisiti che non fossero compresi negli elenchi: la norma, di fatto, non avendo mai nessun ente presentato e quindi tanto meno aggiornato gli elenchi, si era risolta nella consuetudine di ritenere ogni bene immobile che avesse più di cinquanta anni e fosse di proprietà “pubblica” sottoposto a tutela; applicazione assolutamente generica e ricca di insidie ed incertezze, soprattutto se si considera che per circa un secolo è stata ampiamente elusa. Si stabilisce dunque con l’articolo 12 del codice una procedura uguale per tutte le proprietà eccetto quelle private, ma soprattutto si stabilisce che solo le strutture ministeriali (la Direzione regionale su proposta della Soprintendenza competente per territorio) possano decidere se un bene immobile di proprietà “pubblica”, che abbia più di settanta anni sia da considerarsi tutelato o no. La proprietà e la vetustà sono requisiti fondamentali, ma solo la verifica della qualità storico-artistica del bene e quindi il pronunciamento tecnico-discrezionale dell’Amministrazione dei beni culturali può dichiarare il bene come parte della speciale categoria dei beni culturali, e lo deve fare attraverso un preciso atto che è il decreto di tutela emanato dal Direttore regionale, da notificare alla proprietà e trascrivere alla Conservatoria dei RR.II.

La norma, finalizzata a dare certezza ed esercitare un controllo capillare sui beni culturali “pubblici”, soprattutto nell’ambito delle alienazioni dello Stato e degli enti territoriali (che, bisogna ricordare, risultavano inalienabili fino all’entrata in vigore del D.P.R. 283/2000, disciplina delle alienazioni dei beni del demanio storico-artistico) è importante anche per l’impatto che ha avuto sugli uffici delle Soprintendenze, in particolare per i beni architettonici, e sulle Direzioni regionali. Si è infatti sviluppata a con l’entrata in vigore del codice una mole di lavoro in precedenza impensabile: ad esempio, la Direzione dell’Emilia-Romagna tra il 2005 ed il 2011 ha emanato 1766 decreti di interesse storico artistico, una media di 252 l’anno, tra beni privati e pubblici; tra questi non più di 40 ogni anno sono gli immobili di proprietà privata, con dati che sono in accordo con i numeri dei decreti di tutela degli anni precedenti al 2004, quando appunto la notifica era utilizzata solo per i beni privati; il numero dei decreti di tutela quindi si è incrementato di una media di 210 circa ogni anno.

Vale inoltre la pena di ricordare che la proporzione tra i beni presentati alla verifica dagli enti proprietari e quelli effettivamente dichiarati varia da 4/1 e 3/1; con riferimento ai dati precedenti, dunque, questo significa che la Direzione nel corso degli anni considerati, ha valutato tra i 4.500 e i 6.000 immobili di enti “pubblici”.

È facilmente intuibile la difficoltà degli uffici, che seguono i tempi assegnati dalla legge alla chiusura dei procedimenti (oggi 120 giorni) con enormi difficoltà; e a poco giova il vantaggio della creazione delle procedure informatizzate, e della possibilità di ricerca nella banca dati. Vincolinrete ovvero Carta del rischio è aggiornato al 2007 per il Lazio, e al 2004 per tutte le altre regioni; così ancora oggi in caso di dubbi bisogna chiedere direttamente agli Uffici (Soprintendenze e Direzioni) una certificazione di vincolo o di non interesse.

Le alienazioni

La verifica dell’interesse, secondo il codice, è propedeutica all’alienazione, nel senso che un bene “pubblico” per il quale non sia conclusa la verifica dell’interesse culturale è e rimane inalienabile (art. 54, comma 2 a). La procedura di autorizzazione all’alienazione potrà essere avviata quindi solo dopo che la verifica sia risultata positiva: perché il bene possa essere alienato l’ente proprietario dovrà produrre una specifica domanda corredata dei documenti necessari alla esatta individuazione dell’immobile e contenenti quanto la norma stessa richiede; l’argomento è trattato dall’articolo 55 (immobili appartenenti al demanio culturale) e 56 (altre alienazioni soggette ad autorizzazione, in sostanza altri soggetti pubblici e persone giuridiche private senza fini di lucro) e dall’articolo 57 (procedura). A meno che il bene non rientri tra quelli che sono inalienabili per legge ai sensi dell’articolo 54 comma 1 del codice, si inizia quindi un nuovo procedimento, che deve arrivare a stabilire le condizioni affinché il bene non subisca danno dall’alienazione.

Nell’autorizzare l’alienazione la Direzione deve, in generale, accertarsi che l’immobile non sia destinato a usi incompatibili, che se ne preveda la valorizzazione e la pubblica fruizione. Si indicano qui con molta sommarietà i punti fondamentali della questione, che avrebbero viceversa bisogno di uno schema assai complesso distinto per tipologie proprietarie, gradualità di assicurazioni da parte del venditore, e di condizioni da parte dell’Amministrazione dei beni culturali. Di fatto le numerose, dettagliate e diversificate assicurazioni che l’ente richiedente deve fornire e gli accertamenti che l’amministrazione deve compiere rendono la norma generica ma allo stesso tempo sovrabbondante, e quindi di difficile applicazione, anche nella formulazione del decreto legislativo 62/2008, che specifica gli elementi da accertare: la casistica di beni e situazioni che si presenta realmente è infatti davvero infinita, e troppi dettagli hanno spesso il sapore di un percorso ad ostacoli che poco porta al fine principale del nostro lavoro, cioè alla tutela intesa nel senso più ampio. Faccio solo un esempio: l’articolo 55 comma 2 dice che il richiedente deve presentare oltre che indicazioni sulla destinazione d’uso attuale e quella prevista, anche «programma delle misure necessarie ad assicurare la conservazione del bene» (lett. b) «indicazione degli obiettivi di valorizzazione che si intendono perseguire con l’alienazione del bene, delle modalità e dei tempi previsti per il loro conseguimento» (lett. c); su questi si deve pronunciare l’autorizzazione. In realtà però si tratta di indicazioni e pronunciamenti del tutto teorici, che sarebbero facilmente sostituibili con i due punti davvero essenziali ai fini della tutela, pure essi già previsti nelle condizioni per l’autorizzazione:

a) Il bene rimane sempre e comunque sottoposto a regime di tutela: ogni programma di misure... (b) o obiettivi di valorizzazione... (c) saranno quindi posti al vaglio della Soprintendenza in sede di progetto presentato dall’acquirente. Tra l’altro bisogna dire che queste due voci hanno talvolta dato luogo a ricorsi ad autorizzazioni nelle quali le condizioni si addentravano in criteri ed indicazioni tecniche ai quali si sarebbe dovuto attenere il progetto delle future opere; ricorsi che, naturalmente, hanno visto l’Amministrazione soccombere in quanto le prescrizioni sono state a ragione giudicate pertinenti alla successiva e diversa fase di applicazione dell’art. 21 del codice, ovvero l’autorizzazione a lavori.

b) La destinazione d’uso: questo è un punto da chiarire subito, e deve indicare quale utilizzo può essere ammesso e quale invece è incompatibile.

I beni “pubblici”, almeno quelli degli enti territoriali, sono venduti mediante asta pubblica e quindi, una volta posto il principale condizionamento della destinazione d’uso sarà il progetto presentato alla Soprintendenza a chiarire effettivamente e non teoricamente obiettivi e modalità di conseguimento di valorizzazione e della conservazione. Non esiste infatti il progetto teorico fatto a tavolino sulle intenzioni, ma la realtà di infinite proposte progettuali compatibili con il bene e la sua consistenza architettonica e storico-artistica.

L’impressione, ma non è solo una impressione, è che il rapporto tra dichiarazione d’interesse e alienazione, soffra nel Codice dei beni culturali un eccesso di regole, certo finalizzate ad impedire la “dismissione” o, come si usa dire in termini mediatici la “svendita” dei beni pubblici. Ma i beni “pubblici” per buona parte non sono sotto il profilo della qualità storico artistica diversi da quelli privati, o diversi se demaniali, di altri enti, o di soggetti privati senza scopo di lucro (possono essere scuole, appartamenti, palazzine, fabbriche, opifici, palazzi, ex caserme, conventi, ville, chiese, canoniche, cimiteri, …); in moltissimi casi poi si tratta di edifici di proprietà miste (enti diversi e privati) il che fa si che l’accertamento delle qualità culturali del bene debba essere compiuto sull’intero immobile, con l’applicazione delle procedure di dichiarazione anche nei confronti delle altre proprietà.

Sul tema dichiarazioni d’interesse/alienazioni il codice indica, in generale, comportamenti e procedure diversificati a seconda delle proprietà: se un edificio è privato, perché possa essere tutelato bisogna accertare un «particolarmente importante interesse», mentre la alienazione è soggetta solo a prelazione, senza necessità di autorizzazione. Se un immobile invece ricade nella proprietà “pubblica” l’interesse è “semplice”, e per la vendita è necessaria una autorizzazione piuttosto articolata, solo dopo aver effettuato l’accertamento ex articolo 12, e successivamente la prelazione.

Negli ultimi anni da più parti si è chiesta la contrazione dei tempi per la conclusione delle procedure, ed il decreto legge 5 del 9 febbraio (convertito in legge 4 aprile 2012, n. 35), sulle “semplificazioni”, imponeva al Ministro per i beni e le attività culturali di emanare, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, un decreto atto a definire modalità operative idonee ad accelerare le procedure di verifica dell’interesse culturale ai sensi dell’art. 12 del codice, nell’ambito delle procedure di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico. In sede di commissione per la scrittura del decreto sopra detto è stata avanzata una proposta di revisione del ciclo verifica dell’interesse/autorizzazione che sostanzialmente riunifica la procedura, tornando a quanto era previsto nel D.P.R. 283/2000. I lavori della Commissione, tuttavia, non si sono conclusi.

Mi sembra tuttavia necessario osservare che il problema dei tempi dei procedimenti non può e non dovrebbe essere affrontato per emergenze, per casi ed occasioni particolari, ma dovrebbe essere occasione per una più profonda riflessione sul senso ed il concetto stesso di “bene culturale”, in relazione alla dichiarazione di interesse, che offra la possibilità di applicare per le alienazioni un regime appropriato da un lato alla reale consistenza del bene, dall’altro alla necessità di far sì che il patrimonio architettonico “pubblico” non esca dal circuito dell’uso, o, se già abbandonato, possa essere recuperato.

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