Gli aspetti penalistici nella circolazione dei beni culturali
Gli aspetti penalistici nella circolazione dei beni culturali(1)
di Nicola Proto
Sostituto Procuratore della Repubblica, Tribunale di Ferrara
Le problematiche che oggi si andranno ad affrontare rivestono un ruolo secondario nel territorio ferrarese. Infatti, non sono molte le notizie di reato nel settore della circolazione dei beni culturali. La normativa penale è estesa - in ragione delle finalità perseguite dal legislatore: manutenzione, tutela, fruizione, intervento, uso del bene - e individua tutte quelle condotte che offendono il bene culturale. Sono contemplate infatti l’uso illecito, danneggiamento ecc.
In questa sede si ci soffermerà sulla disciplina dettata dall’art. 173 codice dei beni culturali che è norma specifica sulla circolazione interna dei beni culturali (mentre l’art. 174 codice dei beni culturali si occupa dell’esportazione del bene) cercando di evidenziare le possibili implicazioni per i notai che partecipano all’atto. In alcuni casi concreti, infatti, sono emerse delle responsabilità del notaio in questa fattispecie specifica; si procederà, pertanto, ad analizzare l’orientamento della giurisprudenza sul punto.
L’art. 173 codice dei beni culturali, anche se redatto in maniera abbastanza semplice, sottende diverse problematiche di non facile risoluzione.
Innanzitutto prevede tre diverse ipotesi: 1) l’alienazione di beni pubblici senza autorizzazione; 2) l’omessa denuncia alla Sovrintendenza degli atti di trasferimento della proprietà ovvero la detenzione dei beni pubblici (condotta omissiva); 3) possesso e consegna del bene in pendenza del termine di prelazione.
Tutte e tre le fattispecie hanno ad oggetto (del reato) il bene culturale. Pertanto, l’operatore del diritto penale deve porsi preliminarmente l’interrogativo su che cosa esso sia.
I beni culturali sono di due tipi: pubblici e privati. I primi sono quelli individuati dalla legge mentre i beni privati sono quelli sottoposti alla dichiarazione di cui all’art. 13.
La norma sembrerebbe chiara e tale da non lasciare spazi a dubbi interpretativi, tuttavia, così non è sotto il profilo penalistico. La Cassazione, invero, nelle poche pronunce in materia ha sempre affermato il principio secondo cui il bene è da considerarsi culturale non soltanto quando è presente una dichiarazione ex art. 13, ma anche quando in assenza di dichiarazione il bene ha un valore intrinseco (storico, artistico) tale da farlo rientrare nell’alveo dei beni culturali. In altre parole si fa riferimento ai valori intrinseci del bene che lo rendono soggetto a tutela indipendentemente dalla dichiarazione ex art. 13.
L’interpretazione della Cassazione tende a dare la massima tutela - data l’importanza che riveste il bene culturale - ma rischia di lasciare l’individuazione del reato a delle considerazioni soggettive, con evidenti ricadute di incostituzionalità sotto il profilo della tassatività che rappresenta un cardine della dottrina penalistica.
La sentenza di riferimento è la 21400/2005 [per la verità essa riguardava dei beni mobili - ma il principio va al di là del bene specifico - in particolare a seguito del sequestro di alcuni reperti archeologici, in sede di riesame avverso il decreto di convalida del pubblico ministero, il Tribunale aveva confermato il sequestro, l’indagato perciò aveva proposto ricorso in Cassazione sotto il profilo di legittimità del provvedimento] in cui si fa leva sull’art. 2 comma 2 del codice dei beni culturali che li individua in tutte le cose - immobili o mobili - che ai sensi degli artt. 10 e 11 presentino determinate caratteristiche tipiche. L’art. 2 prevede inoltre che sono beni culturali anche le altre cose, al di fuori di quanto previsto dagli artt. 10 e 11, individuate dalla legge ovvero caratterizzate dal fatto di essere portatrici di valori di civiltà. Ed è proprio questa seconda parte dell’art. 2 che viene presa a fondamento della decisione della Cassazione individuandola come norma di chiusura in forza della quale si può prescindere dalla dichiarazione ex art. 13 per ritenere un bene “culturale” e quindi per avere la sussistenza del reato in caso di vendita senza aver prima adempiuto all’obbligo della denuncia ex art. 59 del codice dei beni culturali secondo il quale occorre mettere l’amministrazione in condizione di esercitare la prelazione o comunque di venire a conoscenza della circolazione del bene.
Quella appena citata è una giurisprudenza risalente che sembrava dovesse essere superata da un’altra e successiva pronuncia della sezione III della Cassazione. Il caso è pressoché lo stesso e benché nella motivazione si sia dato atto dell’orientamento giurisprudenziale prevalente (che ritiene ci si trovi in presenza di un bene culturale, ancorchè in assenza dichiarazione, con la sola presenza del valore intrinseco), in un passaggio la Corte afferma che alla «stregua di queste previsioni deve essere rivalutato l’orientamento già espresso»; in altre parole la Corte fa un ulteriore passo nel senso di ritenere “culturale” un bene soltanto quando sul punto insiste un provvedimento di tipo amministrativo. Ciò è evidente quando la Corte prosegue dicendo che «deve affermarsi che i beni culturali di cui all’art. 10 comma 3 del codice dei beni culturali sono tali solo quando siano stati qualificati da un provvedimento formale dell’autorità». Sembra, pertanto, che si ci trovi di fronte ad un allontanamento dal principio generale. Senonché la Corte prosegue affermando che (ed è questo il punto più delicato della questione) anche se manca la dichiarazione il reato non può essere escluso perché occorre mettere l’autorità amministrativa nelle condizioni di intervenire, verificare se c’è l’interesse ed eventualmente giungere alla dichiarazione ex art. 13; in tale ricostruzione, il fatto antecedente, sostanzialmente, diventa penalmente perseguibile.
Il ragionamento della Corte non è così chiaro perché è evidente che nel momento in cui si sequestra un bene non dichiarato, si attiva la procedura e questa abbia esito negativo nelle more potrebbero arrecarsi gravi danni all’interessato.
Il problema è ancora aperto perché la corretta qualificazione del bene culturale è assolutamente necessaria per dare realizzazione al principio di tassatività della norma penale - che deve essere chiara e far sì che l’ambito del penalmente lecito sia individuato in maniera sicura - che è il cardine di un sistema in garanzia.
Nel caso all’esame però si è fuori da questi canoni perché il giudice penale che si trova di fronte al sequestro di un bene non dichiarato culturale non può che affidarsi ad un consulente tecnico facendo sì che la sussistenza o meno del reato dipenda da un’interpretazione di un soggetto terzo.
Quando la determinazione di una condotta penalmente rilevante viene individuata da un terzo che non è il legislatore, tra l’altro in un campo così delicato ed incerto [c’è una percentuale di beni che viene identificata come culturale mentre altri rimangono fuori da tale qualificazione], sicuramente si ci trova in un terreno pericoloso perché fuori da quello delimitato dai principi (tassatività) posti a garanzia del sistema.
Questa problematica riguarda tutte e tre le ipotesi di reato.
Inoltre, occorre tener presente che è in discussione un disegno di legge che inasprisce ulteriormente le pene (fino a 3 anni) per questa tipologia di reati per i quali, oggi, è prevista la reclusione fino ad un anno (ex art. 173 codice dei beni culturali).
Altro aspetto problematico della norma all’esame riguarda l’individuazione del soggetto attivo del reato, quindi, chi commette il reato con particolare riferimento alla fattispecie prevista dalla lett. b dell’art. 173 del codice dei beni culturali che prevede l’omessa denuncia. La norma, infatti, riferendosi a “chiunque” sembrerebbe collocarsi nella categoria dei reati comuni, salvo poi proseguire con l’inciso “essendovi tenuto”. Essendo questo un reato omissivo che per natura presuppone un obbligo previsto dalla legge la cui violazione costituisce reato, è evidente che tale ultimo inciso risulta essere superfluo poiché è già assorbito dalla natura dei reati omissivi. La norma, inoltre, rimanda ai fini dell’individuazione del soggetto attivo all’art. 59, comma 2 del codice dei beni culturali e quindi, il combinato disposto di questi due articoli permette di individuare il soggetto attivo e fa sì che il reato possa considerarsi non più reato comune bensì reato proprio in quanto l’art. 59 indica i soggetti in modo evidente: l’alienante in caso di cessione a titolo oneroso o gratuito e trasferimento della detenzione, l’acquirente nei casi di vendita a seguito di esecuzione immobiliare o di procedura fallimentare ovvero l’erede o il legatario nei casi previsti dalla lettera c.
È evidente, quindi, che i soggetti sono individuati dalla norma e che il reato possa essere compiuto solo da tali soggetti.
Detto ciò il problema che si pone è se contrattualmente sia possibile trasferire l’obbligo dal soggetto che la legge individua (l’alienante) ad un soggetto terzo e nella specie il notaio. Infatti, il cliente che va dal notaio ed espone la problematica - in qualche maniera - si rimette al notaio per la preparazione dell’atto e per l’adempimento degli obblighi susseguenti. Nella pratica, si è verificato che il soggetto obbligato alla denuncia abbia eccepito che tali adempimenti fossero stati demandati al notaio e che il giudice abbia chiamato quest’ultimo in aula come testimone per verificare tali affermazioni.
Nella dottrina penalistica la fonte dell’obbligo può essere sia di natura legale che di natura contrattuale. Occorre verificare però se tutti i tipi di contratto possano trasferire l’obbligo di garanzia che sta a monte del reato omissivo proprio. Ad esempio la badante che prende l’incarico di seguire i figli quando i genitori sono assenti si assume l’obbligo di custodia che può dar luogo anche a profili penalmente rilevanti.
Pertanto teoricamente l’obbligo è trasferibile attraverso atti di natura negoziale.
Tuttavia, non in questo caso, perché altrimenti si snaturerebbe quanto previsto dal legislatore nei confronti di un soggetto ben determinato. Siamo di fronte ad un reato cosiddetto di manu propria che non può essere commesso da altri soggetti se non quelli espressamente indicati. La giurisprudenza è di conforto a tale ultima conclusione e perlopiù riguarda casi di commercialisti incaricati di redigere la dichiarazione dei redditi che mai sono stati perseguiti penalmente in queste situazioni salvo i casi di concorso. La stessa Cassazione in materia ha affermato che nei casi di reati di manu propria non si può snaturare il carattere della norma e quindi estendere la fattispecie a soggetti che non sono indicati, nemmeno se rispetto a questi vi sia un tipo di atto negoziale di trasferimento dell’obbligo.
Pertanto, penalmente, il soggetto attivo è e rimane l’alienante e nel caso di specie questa forma di responsabilità non si estende.
Per quanto riguarda invece il problema della prescrizione del reato, l’art. 173 lett. b, indica dei termini precisi entro i quali fare la denuncia. Sotto la vigenza della legge del ’39 non vi era alcun termine (introdotto per la prima volta nel ’99) e la giurisprudenza riteneva che in assenza di questo si ci trovasse di fronte ad un reato permanente.
Oggi non v’è dubbio che essendoci un termine ben preciso alla scadenza del quale sussiste il reato questo sia qualificabile come reato istantaneo con effetti permanenti, ergo la prescrizione decorre nel momento in cui scade il termine.
La sovrintendenza è molto attenta e segnala alla Procura della Repubblica episodi di violazione delle norme poste a tutela dei beni culturali ma la denuncia è necessario che sia prodotta nel termine utile perché nel momento in cui si focalizza la data dell’alienazione a distanza di tempo troppo ampia il reato può risultare prescritto.
I problemi sin qui sollevati non sono di poco conto perché accanto alla responsabilità penale esistono altri tipi di responsabilità per cui ci si chiede, in particolare, se in presenza di un mandato del cliente nei confronti del notaio ad effettuare la denuncia sussista una responsabilità di tipo civilistico. Per altro verso se possa essere paventata una responsabilità di tipo disciplinare. Le sanzioni sono molto gravi, gli atti sono colpiti da nullità e comportano conseguenze economiche non indifferenti. Sono questi, interrogativi su cui, a fronte del delicato tema della responsabilità, occorre indagare.
Le problematiche maggiori sono legate all’art. 173 lett. b, codice dei beni culturali mentre le altre fattispecie sono da ritenere più semplici in punto di accertamento e di prova posto che il problema fondamentale, come esposto precedentemente, è e rimane l’individuazione del bene culturale.
Occorre infine ribadire che i casi di violazione trattati nella zona di Ferrara, nonostante sia ricchissima di beni culturali, sono abbastanza rari, ciò significa che la Sovrintendenza effettua correttamente i propri controlli e che le norme sono rispettate.
(1) Trascrizione autorizzata dell’intervento al Convegno “La funzione del notaio nella circolazione dei beni culturali” organizzato dalla Fondazione Italiana del Notariato e tenutosi a Ferrara il 20 aprile 2012.
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