Tipologia di clausole negoziali e relativi adempimenti
Tipologia di clausole negoziali e relativi adempimenti
di Adriano Pischetola
Notaio in Perugia
Clausola in materia di concetto di ‘beni culturali’
Una delle problematiche di maggior impatto per ogni operatore giuridico, nella materia che ci occupa, è quella afferente la corretta qualificazione dei beni quali culturali o meno. È quindi lecito porsi la domanda se nel codice dei beni culturali e del paesaggio(1)siano rinvenibili con relativa facilità criteri di esatta individuazione di siffatta qualificazione.
Orbene sul punto va fatto rilevare in via preliminare che il codice ha l’indubbio merito di aver tentato una reductio ad unitatem di concetti distinti e sia pure tra loro complementari, quali quelli di ‘beni culturali’ da un lato e di ‘beni paesaggistici’ dall’altro; il che costituisce un’indubbia innovazione rispetto alla pregressa normativa(2).
Il comma 1 dell’articolo 2 del codice infatti sottolinea che il “patrimonio culturale” risulta costituito dagli uni e dagli altri, e il comma 2 rimanda, per la loro concreta individuazione, rispettivamente agli articoli 10 e 11 per i beni culturali (cose, immobili e mobili, che presentino l’interesse ‘qualificato’ ivi indicato, e cioè interesse artistico, storico archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico) e all’art. 134 per i beni paesaggistici (identificati a loro volta grazie ad ulteriori coordinamenti normativi con gli articoli 136 - 138 - 141 e 142 del codice).
Ma se si vuole offrire un criterio “oggettivo” e non solo normativo di qualificazione, è bene dire che mentre i primi (i beni culturali) suppongono l’espressione di un’attività creativa da parte dell’uomo, quelli paesaggistici attengono al cd. “bello di natura” che a sua volta «si contrappone con il bello d’arte. Nel comune sentire, infatti, il concetto di bello d’arte implica lo svolgimento di un’attività umana di tipo creativo, e soltanto a quest’ultima sembra possibile riferire la nozione di bene culturale»(3).
Detto subito che solo quanto alla circolazione dei beni ‘culturali’ e non di quelli ‘paesaggistici’ si pongono peculiari limitazioni legali, è peraltro degno di nota che - oltre i beni di cui s’è detto - sono beni culturali, a tenore del comma 2 del detto articolo 2, anche «le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà»; e analoga previsione è contenuta nel comma 3 in riferimenti ai beni paesaggistici. La peculiare formulazione adottata dal legislatore sembra riecheggiare il concetto di ‘bene culturale’ emerso fin dal 1966, quando la Commissione Franceschini, istituita con legge 26 aprile 1964, n. 310 al fine di svolgere un’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, definì bene culturale appunto ogni bene «che costituisce testimonianza materiale avente valore di civilità».
In particolare è stato ritenuto(4)dalla Cassazione penale che l’espressione sopra riportata costituirebbe una formula di chiusura idonea a qualificare quale bene giuridico protetto dalle disposizioni del codice sui beni culturali e ambientali non soltanto quello appartenente al patrimonio storico- artistico-ambientale dichiarato, ma anche quello “reale”, ovvero quei beni protetti in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento da parte delle autorità competenti.
Ciò implicherebbe che, ad esempio, ai fini della configurabilità del reato di omessa denuncia degli atti di trasferimento di beni culturali, previsto dall’art. 173, comma 1, lett. b, del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, non occorrerebbe che si tratti di beni (se appartenenti a privati) per i quali sia intervenuta la dichiarazione di interesse culturale di cui all’art. 13 del medesimo decreto legislativo. Il riferito orientamento giurisprudenziale ritiene di poter trovare argomentazioni giustificative e fondamento in una particolare accezione del concetto di “civiltà”, intesa, secondo un ‘interpretazione qualificata “comune”, come il complesso degli aspetti culturali, spontanei ed organizzati, relativi ad una collettività in una determinata epoca. Sicché(5)l’attitudine a “testimoniare” aspetti siffatti sarebbe agevolmente desumibile dalle caratteristiche della res, dal suo valore comunicativo spirituale, dai requisiti peculiari attinenti alla tipologia, alla localizzazione, alla rarità, ecc.
Si è però rilevato in dottrina(6)come, anche per siffatte cose, in relazione alle quali non sia intervenuta una dichiarazione formale di culturalità ma che dovrebbero reputarsi beni culturali per il loro valore reale intrinseco, il comma 2 dell’articolo 2 sopra ricordato (così come il comma 3 per i beni paesaggistici) richiede sempre che siffatto valore sia riconosciuto “dalle legge o in base alla legge”. E d’altra parte tale circostanza appare chiara anche per quanto affermato nella Relazione al ‘codice’ ove si legge che «Oltre alle cose immobili e mobili, individuate in base all’elenco tipologico dell’art. 10 o indicate direttamente dalla legge (all’art. 11), resta aperta la possibilità che “altri” beni vengano individuati dalla legge o in base alla legge ... quali testimonianze aventi valore di civiltà».
Detto questo va qui rilevato - per amore della verità, soprattutto di quella che emerge dalla lettura dei repertori della giurisprudenza della Cassazione penale - che spesso, proprio per fondare una responsabilità in ambito penale di soggetti che avessero posto in essere condotte penalmente rilevanti con riferimento a cose o beni di indubbio interesse artistico, benchè non formalizzato in alcun vincolo - la Suprema Corte ha di buon grado sostenuto l’idea per così dire della ‘culturalità virtuale’. Emblematico quanto ha formato oggetto dell’attenzione dei giudici nella sentenza 8 marzo 2011 n. 8988, a fronte della sottrazione di una statuetta lignea di S. Antonio Abate del XVIII secolo; la Corte in quella circostanza ha stabilito il principio per cui «... quanto alla “culturalità” dei beni, secondo l’indirizzo interpretativo, già formatosi sotto la vigenza dell’abrogato D.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 ... ed anche successivamente con riferimento al D.lgs. n. 42 del 2004, ... per l’impossessamento illecito di beni appartenenti allo Stato, non è necessario che i beni siano qualificati come tali da un formale provvedimento della pubblica amministrazione, essendo sufficiente la desumibilità della sua natura culturale dalle stesse caratteristiche dell’oggetto, non essendo richiesto neppure un particolare pregio».
Non occorrerebbe quindi alcun provvedimento formale che dichiari l’interesse artistico, storico, archeologico e etnoantropologico delle cose di cui il privato sia stato trovato in possesso. E sarebbe quindi sufficiente «un interesse culturale oggettivo, derivante da tipologia, localizzazione, rarità o altri analoghi criteri, e la cui prova può desumersi o dalla testimonianza di organi della P.A. o da una perizia disposta dall’autorità giudiziaria».
Ma si tratta a ben vedere, a giudizio di chi scrive, piuttosto di affermazioni dettate dall’esigenza di addivenire in qualche modo alla formulazione di un principio di giustizia o di responsabilità in ambito penale(7)in relazione a singoli fattispecie concrete, quanto di una convinta asserzione del principio di culturalità in assenza di vincolo formale su di un piano generale.
Le osservazioni sopra svolte suggeriscono allora che, qualora possa ipotizzarsi la possibile esistenza di un presunto intrinseco valore storico-artistico di un bene, peraltro mai oggetto di un formale procedimento di verifica né di una dichiarazione di interesse culturale, si possa adottare una clausola del tipo «Le parti dichiarano che il fabbricato/la rata di terreno sita in ... alla via/loc.tà ... non presenta alcuno dei requisiti richiesti dal D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 per potersi qualificare ‘bene culturale’, e segnatamente che in relazione ad esso non si è mai formalizzato con esiti positivi alcun procedimento di verifica dell’interesse culturale ex art. 12, non è stata pronunciata alcuna dichiarazione dell’interesse culturale ex art. 13, non presenta alcun particolare interesse storico-artistico-archeologico né trattasi di immobile da considerarsi testimonianza avente valore di civiltà, in tal modo individuato dalla legge o in base alla legge ai sensi dell’art. 2 del detto decreto».
Clausola in materia di ‘terreni e sottosuolo’
Di regola i terreni in superficie, privi di qualunque manufatto di rilevanza storico-archeologica e comunque per niente ‘modificati’ per effetto dell’intervento e dell’opera umana, così come il sottosuolo non possono avere rilevanza quali ‘beni culturali’ ai fini dell’applicazione della relativa disciplina stabilita dal codice.
Si deve però rilevare che qualche Soprintedenza regionale talora ha ritenuto di non poter escludere che anche semplici terreni possano diventare oggetto di tutela per l’interesse culturale posseduto (così ad es. la Soprintendenza dell’Emilia Romagna giusta comunicazione in data 18 maggio 2004, prot. 445, adducendo come esemplificazione il caso della ‘Riviera del Conero’, di cui parte è stata riconosciuta ‘Monumento nazionale’ con atto avente forza di legge).
Eppure gli immobili detti - e segnatamente i terreni in superficie privi di manufatti e non trasformati dall’opera umana - non possono essere considerati degni di un interesse culturale ‘semplice’ o intrinseco. Lo si desume dal fatto che il codice, ai sensi del comma 5, art. 10, ha escluso dal proprio ambito applicativo le cose prodotte dall’opera di autori viventi o eseguite in epoca non superiore al cinquantennio, se beni mobili, o al settantennio, se immobili, e nel contempo al comma 1 art. 12 ha stabilito che la cd. “verifica” della culturalità del bene va effettuata solo per le cose «che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni, se beni mobili, o ad oltre settant’anni, se immobili». Il che denota la irrilevanza a questi fini (e cioè ai fini dell’esperimento della verifica per la enucleazione dell’interesse culturale) dei terreni nudi: questi sono sì immobili, ma non rappresentano una “cosa” nel senso di entità realizzata o prodotta dall’uomo o con il suo concorso in relazione alla quale i competenti organi ministeriali possano verificare la «sussistenza dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico» (come richiede il comma 2 art. 12).
Diverso è ovviamente il discorso laddove il terreno, per il collegamento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere o quale testimonianza dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose, abbia o possa avere un particolare interesse ‘qualificato’(8)); così come quando il terreno risulti essere ricompreso in un parco (appositamente previsto da una legge statale o regionale) o consista in uno spazio urbano di interesse storico o artistico (nell’ambito di un più ampio e complessivo intervento edilizio).
Ma è evidente che in tutte queste ipotesi la eventuale rilevanza culturale del terreno o dell’area dovrà essere “riconosciuta” con apposita dichiarazione di culturalità secondo le procedure previste dall’art. 13 e ss. del codice e non potrà desumersi ex se dalla natura intrinseca del terreno.
Parimenti neppure la presenza di reperti archeologici (secondo quanto affermato nella nota n. 12089 prot. del 30 giugno 2004 dell’Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali ed ambientali trasmessa alla Direzione generale per i beni architettonici e il paesaggio) può essere elemento determinante per l’attribuzione di un interesse culturale intrinseco; ed infatti in tal caso i reperti eventualmente rinvenuti - dei quali lo scopritore deve fare denuncia agli organi competenti ai sensi dell’art. 91 del codice - sarebbero di proprietà statale e, se non asportabili agevolmente, potrebbero giustificare un procedimento espropriativo ex art. 95 del codice, senza che ciò implichi la necessaria qualificazione ‘culturale’ del terreno in cui sono situati (nella nota ministeriale da ultimo ricordata si precisa anzi che, anche qualora i reperti non siano visibili, è sempre possibile procedere a indagini o prospezioni geologiche ai sensi dell’art. 97 del codice, non essendo all’uopo necessario che il bene venga configurato come ‘culturale’).
Peraltro proprio in relazione a detta ultima problematica, va qui rilevato l’orientamento perseguito da parte della Giurisprudenza amministrativa secondo la quale, ad esempio con riferimento alla realizzazione di un impianto di energia rinnovabile da parte di una società (Wind service Srl) con installazione di aerogeneratori in una determinata area formalmente non soggetta ad alcun vincolo, ha ritenuto comunque che, pur in assenza di specifici vincoli, risultava attestata «la presenza di seri indizi di culturalità, ossia di elementi di rilevante interesse archeologico». A questa posizione ‘liberista’, ma alquanto preoccupante, assunta dal Tar della Puglia sez. distaccata di Lecce, con sentenza del 18 luglio 2009 n. 1890 sez. I, ha fatto eco peraltro la sentenza del Consiglio di Stato n. 2756 del 10 maggio 2010 per cui il fatto che l’area stessa fosse stata anticamente colonizzata e che, conseguentemente, si potessero individuare eventuali reperti archeologici, era «fatto puramente astratto che non determina la presenza normativa di alcun vincolo, fino a quando appunto lo stesso non è concretamente apposto».
In riferimento al sottosuolo (anch’esso per ipotesi mai modificato per effetto dell’attività dell’uomo) vanno ripetute le stesse considerazioni svolte in riferimento ai terreni nudi in superficie, e quindi va ribadita la possibilità che solo per effetto del procedimento dichiarativo della culturalità possa essere accertata la sussistenza del particolare interesse storico.
Ciò non esclude che in zone o aree notoriamente considerate di sicuro interesse storico-artistico, in mancanza di un formale procedimento amministrativo finalizzato alla dichiarazione di culturalità, e se risultino essere dette aree in mano pubblica o di persone giuridiche private senza scopo di lucro, possa essere quanto meno opportuno provocare la ‘verifica’ ex art. 12 del codice «su richiesta dei soggetti cui le cose appartengono».
Tanto più considerando che il Ministero stesso nella nota sopra ricordata ha affermato che, poiché non si può escludere che rimangono ancora fattispecie di terreni ascrivibili a categorie rilevanti da un punta di vista culturale e non monitorate, «sarà onere dell’ente che intende procedere alla vendita dei propri beni chiedere la verifica su quelle aree agricole che ... possano considerarsi ‘cose’, ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 12».
Ad ogni buon conto una clausola negoziale che volesse far emergere la irrilevanza dell’area o del sottosuolo sotto il profilo della culturalità (particolarmente nell’ipotesi di circolazione di terreni o aree di proprietà pubblica o di persone giuridiche private non lucrative) potrebbe contenere «una dichiarazione di parte circa l’inesistenza di qualsiasi circostanza od opera riconducibile all’azione umana che abbia in qualche modo (direttamente o indirettamente, in tutto o in parte) attribuito al terreno o al sottosuolo la natura di ‘cosa’, nel senso di entità alla cui realizzazione o alla cui conformazione abbia appunto contribuito l’uomo».
In appendice a quanto sopra rilevato, pare opportuno qui precisare che la culturalità di un’area, nel senso e nell’accezione qui intesa (e cioè della sua rilevanza o meno nell’ottica dei limiti alla sua circolazione), non è nemmeno quella desumibile dagli strumenti urbanistici. Talvolta, come è noto, è possibile che lo strumento urbanistico generale di un Comune (più raramente quello esecutivo) preveda che una determinata area sia interessata da non meglio precisati ‘vincoli storico-archeologici’. Va qui detto decisamente che siffatti sono vincoli previsti appunto dagli strumenti urbanistici di governo ed assetto del territorio di promanazione comunale ed istituiti in considerazione delle particolari destinazioni funzionali di determinate aree; essi di certo non sono riferibili agli organi del Ministero per i beni e le attività culturali, i soli che possano emanare provvedimenti istitutivi dei vincoli realmente limitativi della circolazione dei beni culturali secondo quanto dispone la parte seconda del codice.
Clausola per il trasferimento di bene immobile infrasettantennale, non ancora vincolato, ma in relazione al quale sia avviato il procedimento di istituzione del vincolo
Qualora intervenga la ‘dichiarazione’ di culturalità disciplinata dall’art. 13 - finalizzata ad accertare la sussistenza di un interesse culturale qualificato, notificata al proprietario (soggetto pubblico o privato) e trascritta nei Registri immobiliari ai sensi dell’art. 15 del codice -, essa potrà ben riguardare anche un immobile di vetustà inferiore ai 70 anni, quando abbia a riferimento cose che rivestano particolare importanza per il loro collegamento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere ovvero costituisca una testimonianza dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive e religiose.
E ciò in quanto il comma 5 art. 10, nell’escludere l’applicazione della normativa di cui al codice alle opere di autore vivente o alle cose infrasettantennali, se immobili, non richiama espressamente queste ultime di cui si diceva(9), lasciando così intendere che - almeno per esse - bisogna prescindere dal limite della vetustà.
Ciò potrebbe comportare la eventualità che al proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo della cosa di vetustà non ultrasettantennale (ma comunque avente un particolare interesse a causa del riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere o che costituisca una testimonianza dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive e religiose) possa essere data comunicazione da parte del Soprintendente dell’avvio del procedimento finalizzato alla dichiarazione di interesse culturale. Il che comporterà l’applicazione da subito e in funzione ‘cautelare’ (secondo quanto statuisce il comma 4, art. 14 del codice) delle disposizioni portanti limitazioni alla circolazione dei beni culturali (e pertanto necessità dell’autorizzazione preventiva e obbligo di denuncia, ancorchè non il diritto di prelazione dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali(10)), senza attendere la conclusione del procedimento amministrativo di dichiarazione di culturalità con correlativa notifica e trascrizione nei Registri immobiliari.
Quanto sopra suggerisce l’opportunità di inserire negli atti negoziali aventi ad oggetto la circolazione di beni immobili, sia pure di vetustà infrasettantennale, ma aventi un interesse particolarmente importante per un possibile riferimento con la storia, la dichiarazione di parte attestante che, sino al momento della stipula, essa non abbia ricevuto alcuna comunicazione di avvio di quel procedimento amministrativo, fermo restando che al notaio rogante non potrà essere imputata alcuna responsabilità in ordine alla veridicità della dichiarazione stessa né tanto meno potrà ritenersi sussistente a suo carico alcun onere di verificarne l’attendibilità.
Clausola per il trasferimento di immobile recante solo un ‘particolare’ architettonico soggetto a vincolo culturale o di porzione immobiliare cui competono diritti millesimali di comproprietà su detto ‘particolare’
Peculiare è poi il discorso afferente l’alienazione di un “particolare” architettonico soggetto (ed esso solo) a vincolo artistico e/o archeologico: ipotesi classica è quella della facciata - vincolata - facente parte di un edificio non soggetto a vincolo. Una delle possibili ipotesi in cui tale ‘particolare’ rilevi potrebbe essere - ad esempio - quella dell’alienazione di un immobile cui competono diritti di comproprietà millesimale sul ‘particolare’ stesso.
È intuitivo che in siffatta fattispecie non sarebbe concepibile l’esercizio del diritto di prelazione artistica perché esso si porrebbe in insanabile contrasto innanzitutto con un razionale principio di conservazione del bene (non potendo quel particolare essere separato e sopravvivere per così dire ‘distaccato’ rispetto al resto), e d’altra parte non avrebbe senso che lo Stato o altro ente pubblico territoriale soggiacesse all’onere dispendioso di acquistare l’intero immobile o l’intera porzione non ‘culturale’ (cui non è interessato) compresa nel fabbricato con particolare “vincolato”.
Di tanto si trova conferma anche in una risposta(11)del 20 ottobre 2004 fornita dalla direzione generale per i beni architettonici e paesaggistici (Dir. Ragni), secondo cui - a proposito di un immobile in Roma con vincolo gravante esclusivamente sulla porta del fabbricato e acquistato per quota indivisa - «l’esercizio della prelazione di quota parte indivisa di un particolare architettonico - cosa ben diversa dall’acquisto di quota indivisa di immobile vincolato per intero - sia... inattuabile nel concreto, risultando … inimmaginabile per lo stesso un qualunque fine pubblico che giustifichi l’acquisizione, tramite detto istituto, di quel solo particolare, per di più in quota indivisa».
Non va qui però sottaciuto che quanto qui esposto non sempre pare trovare rispondenza negli arresti della giurisprudenza della Cassazione. In un sentenza del 2006, emessa dalla sezione tributaria(12), la Suprema Corte, chiamata a stabilire se si potesse o meno ritenere applicabile il regime fiscale di favore previsto per il trasferimento dei beni culturali anche all’alienazione di un immobile il cui solo ‘portale’ risultava soggetto a vincolo, ha argomentato in termini di ritenuta «immedesimazione strutturale esistente tra il “portale” stesso e il fabbricato, non vincolato». Il ragionamento della Corte è semplice: essa osserva come sembri difficilmente sostenibile, su un piano logico, che possa concepirsi la tutela di un “portale” indipendentemente dalla necessitata tutela del fabbricato di cui esso costituisce parte strutturale essenziale. Orbene se dette entità (portale e intero fabbricato) non sono separabili né “fisicamente”, né “economicamente”, bisogna allora argomentare, prosegue la Suprema Corte, nel senso che quel portale possa costituire non l’oggetto, ma la “ragione” (giustificatrice) del vincolo ex L. n. 1089 del 1939, gravante pertanto su tutto il fabbricato che dall’esistenza di quel “portale” (di riconosciuto particolare pregio) sarebbe qualificato sotto il profilo storico-artistico (la sentenza ha quindi ritenuto possibile applicare il regime fiscale agevolato previsto per la cessione di bene culturale al trasferimento dell’intero fabbricato).
È evidente l’insidia che si nasconde in un siffatto ragionamento: se infatti il ‘particolare’ è di tal pregio da connotare addirittura tutto l’immobile di cui pur costituisce una sola parte (ancorché di valore), ciò significa che si verificherebbe una sorta di ritenuta ‘estensione’ di fatto del vincolo dal particolare al tutto, con buona pace dei principi di necessaria specificazione oggettiva del vincolo culturale e di contenimento dei limiti alla circolazione dei beni da esso scaturenti, in considerazione della loro natura ‘eccezionale’, avuto riguardo anche al disposto dell’art. 42 della Cost. dettato in materia di riconoscimento della proprietà privata(13).
Se si volesse tramutare quanto sopra in una possibile clausola negoziale si potrebbe pensare che a fronte dell’alienazione di un immobile recante avente un solo particolare vincolato, magari per ragioni di comproprietà millesimale, i contraenti rendano idonea attestazione afferente l’assoluta marginalità (strutturale e funzionale) del particolare stesso rispetto al fabbricato di cui è porzione e nel contempo la sua inseparabilità dal tutto (pena la impossibilità di ottimale protezione e conservazione del medesimo) con espresso richiamo ai contenuti della precitata Nota del Ministero per i beni e le attività culturali del 20 ottobre 2004.
Clausola per il trasferimento di immobili culturali già di proprietà delle Scip e successivamente ritrasferiti agli enti pubblici originari proprietari ai sensi del D.l. n. 207/2008
È nota la problematica che si pone in relazione agli immobili ex-Scip ritrasferiti ai soggetti pubblici originari proprietari (in applicazione del disposto dell’art. 43-bis del D.l. 30 dicembre 2008, n. 207 convertito in legge 27 febbraio 2009, n. 14), a seguito della soppressione delle Scip, già a suo tempo costituite per le operazioni di cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri enti pubblici.
Ricordiamo che l’art. 43-bis del cit. decreto al comma 2 stabilisce che «I beni immobili che alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto sono di proprietà della Scip sono trasferiti in proprietà ai soggetti originariamente proprietari degli stessi, nello stato di fatto e di diritto in cui si trovano e senza garanzia per vizi ed evizione».
Il comma 12 del medesimo articolo precisa poi che, in caso di vendita diretta di tali immobili, si applicano, tra le altre, le disposizioni di cui al comma 17 dell’art. 3 del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351(14), a tenore del quale per il trasferimento a favore delle Scip e per le successive rivendite di immobili interessati alle operazioni di cartolarizzazione non si applicano le norme del T.U. n. 490/99 (e quindi è da intendersi ora quelle di cui al vigente codice Urbani) in materia di autorizzazione all’alienazione.
Il problema che si è posto è stato allora: nonostante il richiamo alla esimente ora ricordata e contenuta del D.l. n. 251/2001, trova o meno applicazione alla fattispecie specifica che qui ci occupa (e quindi, ripetesi, al trasferimento di immobili culturali dagli enti pubblici che ne erano già originariamente proprietari e che li hanno riacquistati dalla società veicolo dopo l’epilogo delle operazioni di cartolarizzazione) il disposto dell’art. 57-bis del codice Urbani (introdotto dal D.lgs. 26 marzo 2008, n. 62) e che prevede con formula apparentemente insuscettibile di alcuna deroga la necessità dell’autorizzazione ministeriale per «ogni procedura di dismissione o di valorizzazione e utilizzazione, anche a fini economici, di beni immobili pubblici di interesse culturale, prevista dalla normativa vigente e attuata, rispettivamente, mediante l’alienazione ovvero la concessione in uso o la locazione degli immobili medesimi»?
È altrettanto noto forse come di fronte ad una linea di pensiero più rigida finalizzata a valorizzare la funzione - come dire - di ‘norma-quadro’ che il detto art. 57-bis dovrebbe assolvere (ricomprendendo anche la fattispecie ora esaminata)(15)e all’altra diversa e meno drastica opinione per cui il decreto n. 207/2008 si pone in ogni caso come eccezione rispetto alla regola (consentendo così di ritenere tuttora non richiesta l’autorizzazione ministeriale(16)), si è espresso da parte di altra autorevole dottrina(17)il convincimento per cui debba ritenersi tutt’oggi in vigore e non abrogato da altre norme ad esso succedute il disposto di cui all’art. 7 comma 2-quinquies del D.l. 28 marzo 1997, n. 79(18), per il quale «Per i beni immobili vincolati ai sensi della legge 1° giugno 1939, n. 1089, si applicano le disposizioni di cui agli articoli 24 e seguenti della stessa legge. Sono invece alienabili, anche senza autorizzazione, i beni immobili non vincolati di proprietà degli enti previdenziali, compresi quelli la cui esecuzione risale ad oltre 50 anni e per i quali non sia intervenuto un provvedimento di riconoscimento di interesse artistico e storico».
In buona sostanza, si potrebbe ritenere secondo questa ulteriore opinione che se l’immobile appartenente all’ente pubblico e ad esso trasferito dalla Scip è culturale, si debba richiedere l’autorizzazione ministeriale doverosamente; ma se l’immobile non risulta vincolato, anche in assenza di un procedimento di verifica dell’interesse culturale ex art. 12 del codice, sarebbe possibile alienarlo senza richiedere alcuna autorizzazione preventiva in forza del precitato disposto dell’art. 7 del D.l. n. 79/1997.
L’opinione così espressa è suggestiva e sarebbe davvero dirimente della problematica in oggetto se però non dovesse fare i conti, ad avviso di chi scrive, con il disposto dell’art. 15 disp. prel. e alla possibile abrogazione tacita della ricordata norma proprio ad opera dell’art. 57-bis del codice, stante la sua formulazione ampia ove fa riferimento ad «ogni procedura di dismissione ..., di beni immobili pubblici di interesse culturale, attuata ... mediante l’alienazione».
Forse per poter salvare la fondatezza della esposta opinione si dovrebbe far richiamo al principio della ‘eccezionalità’ della norma ex art. 14 delle disp. prel. stesse rispetto alle norme ‘di sistema’.
Ad ogni buon conto se si volesse concepire una clausola negoziale che tenga in debito conto le opinioni più permissive ai fini dell’alienazione sopra esposte, si potrebbe ipotizzare che nella fattispecie particolare al vaglio da parte del legale rappresentante dell’ente pubblico alienante sia resa idonea attestazione circa la superfluità dell’autorizzazione ministeriale richiesta dall’art. 56 del codice Urbani, stante il combinato disposto di cui all’art. 43-bis comma 2 del D.l. 30 dicembre 2008, n. 207 convertito in legge 27 febbraio 2009, n. 14, e dell’art. 3 comma 17 del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410.
Inoltre laddove si ritenesse ancora vigente l’art. 7 del D.l. n. 79/1997 e semprechè si trattasse di bene immobile non vincolato di vetustà ultrasettantennale, la dichiarazione, con espresso riferimento al disposto di legge, potrebbe avere ad oggetto la precisazione della inesistenza di alcun vincolo culturale pregresso e quindi della superfluità del ricorso alla procedura di verifica ex art. 12 del codice Urbani.
Clausole relative agli ‘adempimenti’
Qui è possibile solo dare degli accenni veloci alle svariate clausole negoziali relative agli adempimenti richiesti dal codice Urbani da recepire in sede redazionale nonché agli adempimenti stessi, e così ricorderemo:
1) l’obbligo(19)di riportare le prescrizioni e le condizioni contenute nell’autorizzazione di cui all’articolo 55 del codice (per l’alienazione di beni immobili del demanio culturale) nell’atto di alienazione, del quale costituiscono obbligazione ai sensi dell’articolo 1456 del codice civile ed oggetto di apposita clausola risolutiva espressa. Dette prescrizioni e condizioni sono anche trascritte, su richiesta del soprintendente, nei Registri immobiliari;
2) l’obbligo(20)di riportare le prescrizioni e le condizioni contenute nell’autorizzazione di cui all’articolo 56 del codice (per l’alienazione di beni immobili culturali in mano pubblica che non siano demaniali e in mano a persone giuridiche private senza scopo di lucro): qui le prescrizioni e condizioni non costituiscono oggetto di obbligazione ex art. 1456 c.c. nè di clausola risolutiva espressa; analogamente alle altre però sono soggette a trascrizione nei RR.II.;
3) in caso di mancata allegazione all’atto dell’autorizzazione di cui agli artt. 55 - 56 e 58 (quest’ultimo articolo detta disposizioni in caso di permuta), e laddove si reputi possibile una sorta di sanatoria in tempi successivi alla stipula in forza di un’autorizzazione sia pure postuma, che attribuisca ex tunc ed erga omnes efficacia definitiva al contratto concluso(21), la possibilità della stipula di un atto con funzione appunto ‘ricognitiva’ o - se si vuole - confermativa del precedente atto dismissivo, nel quale si faccia espresso riferimento e richiamo all’autorizzazione postuma poi ottenuta;
4) l’obbligo di denuncia(22)degli atti traslativi della proprietà di immobili (non più della detenzione, il cui trasferimento va denunciato solo in relazione a beni mobili(23)), obbligo che ovviamente prescinde dalla gratuità o meno dell’atto traslativo e che di regola presuppone la culturalità già verificata o dichiarata del bene trasferito. Ciò non ostante la denuncia potrebbe riguardare per avventura anche immobili per i quali sia stata data comunicazione da parte della P.A. dell’avvio del procedimento per la dichiarazione di culturalità ex art. 14 comma 4, senza che questo si sia concluso.
La denuncia va effettuata entro trenta giorni e deve essere presentata al Soprintendente del luogo ove si trovano i beni: al riguardo si segnala una sentenza, sia pure isolata, della Suprema Corte(24)che ha ritenuto valida ed efficace (anche a far decorrere il termine dei 60 giorni per l’esercizio della prelazione) solo la denuncia effettuata non già alla Sopraintendenza, bensì al Ministero. Si tratta peraltro di una interpretazione giurisprudenziale fondata sulla lettera dell’ormai abrogato art. 32 della legge n. 1089/39 e non più giustificabile con riferimento al chiaro dettato normativo vigente.
Circa la possibilità poi che l’invio di copia integrale dell’atto traslativo surroghi validamente la presentazione della formale denuncia, con i medesimi effetti di legge, si è espresso in senso positivo il Consiglio di Stato(25)laddove, beninteso, i dati contenuti nella copia trasmessa consentano ugualmente alla P.A. di effettuare la necessaria valutazione preliminare ai fini dell’esercizio o meno del diritto di prelazione;
5) in caso di omesso espletamento delle formalità necessarie con riferimento al titolo o ai vari titoli di provenienza, possibilità di inoltro della denuncia a suo tempo omessa, con riferimento anche ad atti intermedi (in tal caso l’Amministrazione ha 180 giorni dalla ricezione della denuncia per l’esercizio della prelazione e ovviamente alle condizioni risultanti dal titolo o dai titoli di provenienza pregressi): la denuncia tardiva, alla scadenza del termine dei 180 giorni (senza esercizio della prelazione da parte dello Stato) o anche prima (qualora ricorra una dichiarazione di formale disinteresse all’esercizio della prelazione), consente di stipulare senza affanni l’atto di ritrasferimento (accedendo alla teoria prevalente della inopponibilità relativa allo Stato dell’atto o degli atti di provenienza).
E per quanto attiene al profilo penalmente rilevante di una denuncia tardiva visto il disposto dell’art. 173 lett. b, del codice Urbani che sanziona appunto anche l’ipotesi di una siffatta denuncia effettuata dopo il decoroso dei 30 giorni dalla stipula dell’atto traslativo di un bene culturale(26)? Può forse operare se del caso l’eventuale prescrizione di tale reato?
Qui si può solo dire - data l’economia del presente contributo - che se sono trascorsi i termini prescrizionali di cui all’art. 157 c.p.(27)(e cioè un tempo pari al massimo della pena edittale e comunque non inferiore a sei anni se si tratta di delitto o a quattro se si tratta di contravvenzione) il reato al vaglio (definito in dottrina ‘reato omissivo proprio’(28)) si deve intendere prescritto. Né si può parlare in relazione a tale fattispecie delittuosa di ‘reato permanente’ o addirittura ‘continuato’ per il quale la prescrizione si compie dal giorno in cui è cessata la permanenza della condotta penalmente rilevante(29). Ed infatti se un dubbio poteva esistere sotto l’imperio della legge Bottai (ove all’art. 30 non si stabiliva un termine entro il quale la detta denuncia si doveva formalizzare)(30), ora, in base a quanto dispone l’art. 59 del codice e per il quale la denuncia va presentata entro 30 giorni dalla stipula dell’atto, non si può certo ritenere che l’omessa denuncia sia condotta integrante un reato permanente: essa infatti si esaurisce in un reato istantaneo o comunque ben circostanziato temporalmente.
Sarà invece sempre necessario - per aversi reato - l’elemento psicologico del ‘dolo’ in senso generico, ossia la consapevolezza e la volontà della condotta omissiva, ma non una intenzione ‘qualificata’ di integrare una condotta penalmente rilevante(31).
(1) (Da ora in poi definito con l’espressione ‘codice’ o ‘codice Urbani’), approvato con D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e pubblicato nel Supplemento ordinario alla G.U. 24 febbraio 2004, n. 45.
(2) R. TAMIOZZO, Il codice dei Beni culturali e del Paesaggio, Milano, 2005, p. 7.
(3) D. BOGGIALI - C. LOMONACO, «Ulteriori riflessioni sul codice dei beni culturali», in Studi e materiali, 2004, 2, p. 718.
(4) Cass. pen., 8 giugno 2005, n. 21400, in Fisconline.
(5) Cfr. Cass. pen., Sez. III, 24 dicembre 2001, n. 45814, in Fisconline.
(6) G. PIOLETTI, «Considerazioni sull’obbligo di denunciare per il privato del trasferimento di beni culturali non notificati», in Cass. pen., 2006, 1, p. 49.
(7) Pur qui rilevando che proprio in tale ambito (penale) opera un principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penalmente rilevanti in relazione a condotte e comportamenti talora duramente sanzionati (con pene detentive e pecuniarie, come ad es., per le violazioni di cui all’art. 173 del codice Urbani) quando abbiano riferimento a “beni culturali”; sicché non pare possibile che si possa accedere ad un concetto di ‘bene culturale’ solo ‘reale’ od oggettivo, in quanto ciò potrebbe comportare l’applicazione di sanzioni di tipo penale in relazione a fattispecie non ‘tipicamente’ previste dalla legge (e fors’anche indipendentemente dal necessario elemento del dolo nel soggetto agente), il che si porrebbe in insanabile contrasto proprio con il ricordato principio.
(8) D. BOGGIALI - C. LOMONACO, op. cit., p. 723, ove per esemplificazione si cita “l’ermo colle che ha ispirato Leopardi”.
(9) Ed infatti l’esclusione (per vetustà infrasettantennale) viene riferita nel comma 5 citato nel testo solo alle cose indicate al comma 1 dell’art. 10 e non a quelle riportate al comma 3 lett. d, del detto art. 10.
(10) Ciò perchè l’art. 14, comma 4, del codice stabilisce che la comunicazione di avvio del procedimento per la dichiarazione dell’interesse cautelare comporta l’applicazione, in via cautelare, - tra l’altro - delle disposizioni contenute nella sezione I del capo III (relativa alle misure di protezione) e nella sezione I del capo IV (relativa all’alienazione e altri modi di trasmissione) del titolo I parte seconda del codice, ma non di quelle contenute nella sezione II del detto capo IV, relativa alla prelazione artistica.
(11) Pubblicata sulla rivista Notariato, 2005, 3, p. 338. 12 Sez. trib. 22 maggio 2006, n. 12024.
(13) V. sul punto sia pure in materia di prelazione legale urbana Cass. civ., S.U., 14 giugno 2007, n. 1388.
(14) Convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410.
(15) Sia consentito il richiamo a A. PISCHETOLA, «La “nuova” autorizzazione all’alienazione di beni culturali», in Notariato, 2008, p. 697.
(16) G. CASU - C. LOMONACO, «Dismissione dei beni pubblici e beni culturali alla luce della più recente normativa», studio n. 411-2009/C, in Studi e materiali, 2009, p. 1351.
(17) P. SIRENA, «Autorizzazione all’alienazione dopo le modifiche del 2006 e del 2008: il problema degli immobili ex Scip; in La circolazione dei beni culturali: attualità e criticità», in I Quaderni della Fondazione Italiana del Notariato, 2010, p. 61 ss.
(18) Convertito in legge, con modificazioni, con L. 28 maggio 1997, n. 140 (Gazz. Uff. 29 maggio 1997, n. 123).
(19) Ex art. 55-bis del codice.
(20) Ex art. 56 comma 4-ter del codice.
(21) Soluzione questa che la giurisprudenza ha sempre ritenuto plausibile e lecita con riferimento a fattispecie analoghe di atti inefficaci per l’originaria mancanza dell’autorizzazione poi sopravvenuta cfr. Cass. 30 maggio 1997, n. 4861, in Giust. civ. Mass., 1997, p. 884; Cass. 20 gennaio 1994, n. 464, in Giust. civ. Mass., 1994, p. 48 (s.m.); Cass. 16 novembre 1992, n. 12280, in Giust. civ. Mass. 1992, 11; Cass. 24 gennaio 1992, n. 810, in Giust. civ. Mass., 1992, 1; Cass. 20 febbraio 1988, n. 1781, in Vita not., 1988, p. 259; Cass. 01 febbraio 1985, n. 651, in Giust. civ., 1985, I, p. 1667;
(22) Ex art. 59 del codice.
(23) Ciò per effetto della novella portata dal comma 16, art. 4, lett. d, del D.l. 13 maggio 2011, n. 70 convertito in legge 12 luglio 2011, n. 106, che ha precisato l’ambito oggettivo dell’obbligo di denuncia (atti traslativi della proprietà di beni immobili, e atti traslativi della detenzione dei beni mobili).
(24) Cass. 22 febbraio 2008, n. 4629.
(25) Cons. Stato 27 febbraio 2008, n. 713.
(26) L’art. 173 del codice Urbani recita: «1. È punito con la reclusione fino ad un anno e la multa da euro 1.549,50 a euro 77.469: a) chiunque, senza la prescritta autorizzazione, aliena i beni culturali indicati negli articoli 55 e 56; b) chiunque, essendovi tenuto, non presenta, nel termine indicato all’articolo 59, comma 2, la denuncia degli atti di trasferimento della proprietà o della detenzione di beni culturali; c) l’alienante di un bene culturale soggetto a prelazione che effettua la consegna della cosa in pendenza del termine previsto dall’articolo 61, comma 1».
(27) Recita l’art. 157 c.p. «La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria. Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante Non si applicano le disposizioni dell’articolo 69 e il tempo necessario a prescrivere è determinato a norma del secondo comma. Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva. Quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di tre anni ...».
(28) Cfr. G. MARI, Codice dei beni culturali e del paesaggio a cura di Maria Alessandra Sandulli, 2006, p. 1084: si tratta di reato ‘proprio’ perché può essere consumato solo da soggetti in qualche modo ‘qualificati’, e cioè da chi ‘essendovi tenuto’ non presenta la denuncia al vaglio.
(29) In dottrina F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, 2003, p. 266 e p. 771; cfr. anche C. LOMONACO, «Quesiti in materia di applicazione del codice dei beni culturali (D.lgs. 42/2004): individuazione della disciplina da applicare in materia di beni culturali; decorrenza del termine di prescrizione del reato», in RQ, 2006, 129; in Studi e materiali, 2006, 1, p. 1062 e ss.
(30) Cfr. in tal senso Cass. pen., sez. III, 15 gennaio 2002, n. 12099.
(31) Analogamente per Cass. pen., III, 4 dicembre 1998, n. 1463, per integrare il reato contravvenzionale di cui all’abrogato art. 62 della legge n. 1089/39 (alienazione da parte di province, dei comuni, degli enti e istituti legalmente riconosciuti di cose di antichità e d’arte senza la prescritta autorizzazione) è sufficiente il ‘dolo generico’, «sicché per la esistenza, in capo al relativo autore, dell’elemento psicologico del reato è sufficiente accertare che la alienazione della cosa sia stata effettuata con coscienza e volontà».
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