I beni culturali di interesse religioso: nozione e regole di circolazione
I beni culturali di interesse religioso: nozione e regole di circolazione
di Giuseppe Celeste
Notaio in Latina

I beni culturali di interesse religioso: il dato normativo

L’articolo 9 del codice dei beni culturali e del paesaggio(1), approvato con D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42(2), riproduce, con modificazioni, la disposizione di cui all’articolo 19 del testo unico sui beni culturali(3), approvato con D.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490(4).

La modifica principale contenuta nell’articolo 9 del codice, rispetto al testo di cui all’articolo 19 del T.U., concerne la collocazione sistematica della norma, inserita nella parte prima del codice, intitolata “Disposizioni generali” e collocata, invece, nel previgente testo unico, nella sezione terza del capo I, dedicato all’oggetto della tutela e, quindi, dopo le disposizioni che definiscono la tipologia dei beni. La scelta, non casuale, è finalizzata a sottolineare la particolare rilevanza della disposizione di cui all’articolo 9 del codice che coordina le disposizioni in esso contenute con quelle di fonte pattizia per la Chiesa cattolica e le altre confessioni religiose. Viene messa in rilievo in tal modo la peculiare gerarchia delle fonti che regolano la materia. Il principio generale enunciato con l’articolo 19 del testo unico, trova così un riconoscimento sul piano formale nell’àmbito della redazione del vigente testo legislativo.

La rilevanza delle fonti pattizie è infatti evidenziata già nell’articolo 19 del testo unico con l’espresso richiamo, alla fine del comma 2, dell’articolo 8, comma 3(5), della Costituzione, richiamo finalizzato a rafforzare il ricorso allo strumento delle intese sia nei rapporti con le altre confessioni religiose, sia con la Chiesa cattolica(6).

Ma non può tacersi, ai fini della materia che qui interessa, la rilevanza dell’intero articolo 8, Cost., il quale sancisce per tutte le confessioni religiose il principio della loro uguale libertà di fronte alla legge, così tutelandone l’autodeterminazione a fini di religione anche con riferimento ai beni culturali di loro interesse.

L’articolo 9 del codice rappresenta, dunque, il punto di arrivo di profonda evoluzione normativa rispetto alle disposizioni di cui all’articolo 8 della legge 1 giugno 1939, n. 1089(7), il quale, formulato in epoca anteriore alla Costituzione repubblicana, si limitava a sancire, nell’intento di superare i conflitti tra Stato e Chiesa, la regola secondo cui per le “cose” appartenenti ad enti ecclesiastici il Ministro «procederà per quanto riguarda le esigenze di culto d’accordo con le autorità ecclesiastiche».

La disposizione di cui alla L. 1089/1939 differisce, infatti, profondamente dall’articolo 9 del vigente codice a ragione della ristretta area di operatività della norma del 1939, limitata letteralmente alle sole cose appartenenti ad enti ecclesiastici(8), e della mancanza dell’intero comma 2 di cui alla disposizione ora vigente, che coordina le norme della legge ordinaria con le fonti pattizie. Inoltre, nella norma di cui al citato articolo 9 del codice, l’espressione “procedono” è sostituita con “provvedono”, in modo da rafforzare la regola del ricorso all’esercizio negoziato dei poteri della pubblica amministrazione, ed è inserito il richiamo delle competenze regionali, novità conseguente alla profonda riforma dell’organizzazione amministrativa ed all’attuazione dell’ordinamento delle regioni.

L’evoluzione normativa dallo Stato liberale alla L. 1089/1939

L’esame di tutti i precedenti storici dell’attuale normativa è di fondamentale ausilio al fine di

comprendere la portata della vigente disposizione.

La legislazione italiana a tutela dei beni culturali ha infatti sempre risentito della specificità dell’interesse religioso che essi possono rivestire. La rilevanza di tale interesse non deriva soltanto dall’ingente quantità di beni ecclesiastici di proprietà o committenza ecclesiastica esistenti in Italia, ma soprattutto dal loro uso per il culto e dalla sensibilità di vasti strati della popolazione ai significati ed ai valori trascendenti che tali beni esprimono secondo le intenzioni dei loro autori e committenti.

Nel XIX secolo lo Stato pontificio è stato in qualche modo precursore in materia di tutela dei beni culturali, emanando norme per la conservazione ed il commercio e per prevenire l’esportazione all’estero. In particolare, si segnala l’editto del 1820 del cardinale Poma, al quale poi appaiono ispirarsi le legislazioni di altri Stati preunitari(9).

Successivamente le leggi eversive dell’asse ecclesiastico, oscillanti tra la visione “separatista” e la linea d’azione giurisdizionalista, ma certamente, per quanto riguarda le norme sul patrimonio, chiaramente improntate dal giurisdizionalismo(10), affrontano questa materia attribuendo in via esclusiva allo Stato i compiti di tutela ed escludendo con carattere di generalità ogni diversa soluzione.

In particolare, il D.lgs. 7 luglio 1866, n. 3036, nel sopprimere gli enti religiosi e devolvere al demanio dello Stato i loro beni, detta norme finalizzate, peraltro ma in modo del tutto unilaterale, a salvaguardare la destinazione di taluni edifici di culto e a conservare gli oggetti d’arte (cfr. rispettivamente gli articoli 18 e 24).

Così ancora, la legge delle guarantigie (L. 13 maggio 1871, n. 214) concede in godimento alla Santa Sede, dichiarandoli inalienabili, i beni e le collezioni d’arte che si trovavano nei palazzi apostolici e nella residenza di Castel Gandolfo (art. 5).

Il codice civile del 1865, poi, pone gli enti ecclesiastici sullo stesso piano degli enti pubblici ai fini del godimento dei diritti civili (cfr. art. 2), sottoponendo così il loro patrimonio agli stessi controlli previsti per tali enti, con particolare riguardo all’autorizzazione per gli acquisti.

Successivamente, per la dispersione di beni d’arte conseguenti all’attuazione delle leggi eversive e quando l’accumulo di gravi situazioni di degrado del patrimonio culturale della Chiesa, viene emanata la prima legislazione organica in materia di monumenti e beni d’arte o antichità (L. 12 giugno 1902, n. 185), che sottopone i beni degli enti ecclesiastici a forme rigorose di controllo pubblico.

Subito dopo l’emanazione del provvedimento normativo da ultimo citato, la legge 20 giugno 1909, n. 364, pone rimedio ai principali limiti generali del precedente intervento, carente di una legislazione sull’esportazione e limitato da una visione elitaria che individuava i beni da tutelare in base al pregio artistico o all’importanza storica, richiedendone una preventiva catalogazione. L’oggetto della tutela, tipizzato in ampie categorie, viene infatti individuato in quest’ultima normativa primariamente attraverso la rilevazione dell’interesse che esso riveste per la collettività. Ma il regime dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici resta pur sempre accomunato a quello degli enti autarchici territoriali, piuttosto che degli enti privati come già previsto nell’intervento normativo del 1902. È prevista l’alienabilità dei beni mobili degli enti ecclesiastici (come delle altre persone giuridiche diverse dallo Stato e dagli enti autarchici territoriali), ma solo previa autorizzazione e solo a favore dello Stato o di altri enti (art. 2). Nelle nuove disposizioni di cui alla L. 364/1909, risulta altresì confermato l’assoggettamento completo degli enti ecclesiastici a controlli di diritto pubblico, di esclusiva competenza statale, come confermato dall’articolo 4 della stessa legge, che attribuisce all’apparato amministrativo il potere di adottare provvedimenti conservativi dei beni di tali enti.

Nel regolamento di esecuzione si prende atto peraltro della specificità di tali beni, alla luce delle imprescindibili esigenze del culto, per le quali vengono dettate norme di rango secondario (articoli 26 e 32 del R.D. 30 gennaio 1913, n. 363). In questa fase si contrappongono, dunque, nel quadro degli inevitabili momenti di conflitto generati dalla politica ecclesiastica dello Stato liberale(11), da un lato, l’uso a fini di culto e, dall’altro, l’affermazione della supremazia statale ai fini di tutela. Emerge così una complessa dialettica tra le istanze culturali, delle quali lo Stato si assume quale garante, e quelle religiose(12), le quali si caratterizzano a loro volta per la necessità di non subire limiti alle pratiche del culto e per la richiesta di poter disporre liberamente dei beni conservati dopo le leggi eversive(13). In particolare, l’esigenza di bilanciare l’interesse collettivo alla pubblica fruizione dei beni artistici di proprietà ecclesiastica con quello della comunità dei credenti, di cui gli enti ecclesiastici sono portatori, a destinare tali beni al culto, è colta, anche se in modo approssimativo, nell’intento di sancire il diritto alla pubblica fruizione, dall’art. 28 del citato regolamento, che richiede a tal fine la fissazione di “ore determinate”. Significativamente, la giurisprudenza ha sottolineato che la portata pratica di tali norme è quella di tutelare l’interesse collettivo al godimento del bene culturale, con la conseguenza che l’accesso ai luoghi di culto in cui tali beni si trovano deve essere consentito a tutti(14).

Con riferimento agli Archivi, poi, la situazione appare alquanto diversa per ciò che concerne l’oggetto della tutela statale; detta tutela è infatti limitata agli archivi che afferiscono a enti con giurisdizione civile e non appare finalizzata alla loro tutela in quanto beni culturali.

Nondimeno gli archivi, già soggetti a vigilanza secondo l’art. 22, R.D. 27 maggio 1875, n. 2552, istitutivo dell’Archivio centrale del Regno d’Italia, vengono assoggettati, nei successivi provvedimenti, non più ad una formale vigilanza, ma a poteri anche sostitutivi, comunque penetranti, di controllo a fini di conservazione (cfr. R.D. 9 settembre 1902, n. 484, che introduce il nuovo regolamento degli Archivi di Stato, art. 69; R.D. 2 ottobre 1911, n. 1163, recante nuove disposizioni nella stessa materia). L’articolo 2, R.D. 7 marzo 1920, n. 277, riafferma poi il potere di vigilanza dello Stato sugli archivi ecclesiastici.

I patti lateranensi del 1929, mentre riconoscono con l’articolo 30(15 )l’autonomia della Chiesa nella gestione dei propri beni, non dettano norme specifiche in materia di beni artistici di proprietà degli enti ecclesiastici(16).

In realtà, durante i lavori preparatori è stata ben avvertita l’esigenza della Chiesa cattolica di ricomprendere i beni culturali ecclesiastici tra le res mixtae, proprio in considerazione del netto squilibrio insito nelle soluzioni normative contenute nella legge del 1909 e nel regolamento del 1913 nella direzione della tutela del diritto alla pubblica fruizione rispetto al soddisfacimento dei fini di culto.

Ma la proposta di inserire una disposizione la quale, pur riconoscendo le prerogative dello Stato ai fini della tutela dei beni culturali, sancisce la collaborazione a tali fini tra Chiesa e Stato per edifici sacri, oggetti di culto, arredi e mobili pertinenti ai detti edifici (articolo 33 della bozza del 15 gennaio 1929), dapprima condivisa, viene poi stralciata per l’opposizione del Governo italiano, contrario ad un intervento diretto della Chiesa in materia(17).

È ben vero che, secondo un orientamento dottrinale si può peraltro ravvisare nel già citato articolo 30 dei Patti lateranensi una disposizione idonea ad esentare il patrimonio degli enti ecclesiastici e, segnatamente, dei beni culturali di loro proprietà, dai vincoli imposti dalla legislazione in materia di beni culturali, nella misura in cui tale disposizione attribuisce la vigilanza ed il controllo nella gestione dei beni in genere all’autorità ecclesiastica, escludendo ogni intervento dello Stato(18).

Tuttavia, le successive norme legislative e regolamentari(19 )di esecuzione dei Patti confermano la vigenza delle prerogative statali in materia di beni culturali sancita dalle norme civili anteriori al Concordato del 1929, con riferimento ai beni ecclesiastici(20).

In questo quadro politico, improntato dunque dalla volontà del regime fascista di riaffermare le prerogative statuali nella tutela dei beni culturali(21), si colloca la legge quadro n. 1089/1939, la quale riconosce, con il già citato articolo 8, la rilevanza dell’interesse religioso limitatamente ai beni appartenenti agli enti ecclesiastici e con riferimento alle sole esigenze del culto, ma in un contesto generale che sancisce ancora una volta l’esclusività statuale delle competenze di tutela, assoggettando, poi, gli enti ecclesiastici sotto ogni aspetto alle regole circolatorie ed alle limitazioni dettate per i beni di ogni altro ente di diritto privato(22). E nello stesso quadro è collocata anche la legge 22 dicembre 1939, n. 2006 in materia di archivi.

Più in generale, poi, la normativa di cui alla L. 1089/1939 riafferma in via generale le potestà pubbliche nella materia in esame in contrapposizione ai diritti dei privati, ridefinendo tutti gli strumenti per la tutela dei beni culturali con una incidenza ben maggiore rispetto al passato.

L’articolo 831 del codice civile del 1942 prende atto di questo regime, sancendo espressamente al primo comma la prevalenza delle leggi speciali ai fini della circolazione dei beni ecclesiastici(23 )e tutelando, con la disposizione di cui al secondo comma, la destinazione al culto indipendentemente dall’appartenenza dei beni, destinazione dalla quale essi non possono essere sottratti in caso di alienazione(24).

Degna di nota è, peraltro, nella norma codicistica in esame, la tutela della destinazione al culto, non limitata, come già previsto dalla L. 1089/1939, ai soli beni di proprietà ecclesiastica. Si realizza così l’adeguamento dello statuto della proprietà ai princìpi di cui agli articoli 9 e 10 dei Patti lateranensi con il pieno rispetto della deputatio ad cultum, disposta in virtù di una autodeterminazione ecclesiastica secondo le regole del diritto canonico(25). La ratio della norma di cui all’articolo 831, c.c., viene così fondata non già nella tutela di un generico interesse della comunità dei credenti(26), ma nel rispetto di una specifica determinazione ai fini di culto assunta dall’autorità ecclesiastica sulla base dell’ordinamento canonico.

La formulazione dell’articolo 8 della legge 1089/1939 evidenzia sia la valenza culturale del bene ecclesiastico per l’ordinamento dello Stato, sia la rilevanza che uno stesso bene può assumere ai fini di culto e liturgici per la Chiesa cattolica e ciò con riferimento non solo ai beni mobili, artistici o storici, ma anche con riguardo agli immobili. La genericità dell’espressione “cose”, non accompagnata da alcuna ulteriore specificazione in merito alla natura delle stesse, conduce infatti, senza dubbio, alla conclusione che viene dettata una disciplina applicabile in via generale ai beni sia mobili che immobili.

D’altro canto, il riconoscimento della rilevanza del fine di culto porta poi a restringere l’àmbito applicativo della norma ai soli beni destinati a tale finalità, escludendone ogni altro, seppure di proprietà di un ente ecclesiastico. In tal modo, i beni ecclesiastici destinati a finalità diverse dal culto, se pure di interesse religioso, restano, quindi, esclusi dall’“accordo” in sede procedimentale ed assoggettati alle regole generali.

Non viene, infatti, attribuita alcuna rilevanza ad un interesse religioso che risieda nell’idoneità del bene a rappresentare l’identità culturale e sociale della comunità di credenti in quanto tale(27).

Ma il limite più significativo di questo assetto normativo, secondo la lettura datane dalla giurisprudenza amministrativa, risiede nella scelta di limitare l’accordo tra le due autorità, e quindi la partecipazione dell’autorità ecclesiastica all’esercizio dei pubblici poteri, nel senso che esso può intervenire solo quando si “procede” per l’attuazione dei provvedimenti civili(28). In particolare, nell’economia del testo legislativo in esame, l’espressione “accordo”, secondo un’autorevole dottrina, non indica un atto avente struttura bilaterale, ma un procedimento di interpello dell’autorità ecclesiastica, dopo il quale, in caso di silenzio o di dissenso, l’autorità statale può ben dare corso all’esecuzione del provvedimento come da essa prefigurato(29).

In sintesi, la disposizione di cui all’articolo 8, L. 1089/1939, non contiene alcuna significativa innovazione rispetto ai precedenti interventi, se si prescinde da un ruolo molto limitato dell’autorità ecclesiastica in materia di beni destinati al culto, coerente con il quadro delle competenze legislative in materia di beni culturali consolidatosi con i Patti lateranensi(30).

Restano ancorati a questa logica anche gli ultimi orientamenti della giurisprudenza amministrativa anteriori all’Accordo di revisione del Concordato del 1984, secondo i quali l’autorità statale può tener conto della posizione espressa dalla parte ecclesiastica ai sensi dell’articolo 8 L. 1089/1939, solo se ciò avviene con determinate modalità di tempo e luogo(31).

Nella stessa ottica statalista sembra muoversi la L. 22 dicembre 1939, n. 2006, in materia di archivi, la quale riafferma in via generale il potere di vigilanza dello Stato sugli archivi degli enti privati, senza neppure far esplicito riferimento agli enti ecclesiastici(32).

In termini diversi rispetto al quadro delineato merita segnalazione, invece, il R.D. 30 ottobre 1930, n. 1731, il quale attribuisce, sia pur nel contesto di una regolamentazione dei rapporti promanante dalla parte statuale, all’Unione delle Comunità israelitiche il compito di provvedere alla tutela del proprio patrimonio culturale, storico, bibliografico ed artistico(33), così riconoscendo un ruolo autonomo agli enti di questa confessione religiosa.

La Costituzione repubblicana e i beni culturali

L’assetto normativo dei beni culturali viene profondamente modificato con la Costituzione repubblicana. Le limitazioni ed i vincoli alla proprietà privata, al pari dei poteri riconosciuti allo Stato a tutela dei beni di interesse culturale, trovano nuovo fondamento costituzionale nel perseguimento dei prevalenti fini di pubblico interesse attinenti al patrimonio storico e artistico della nazione(34), secondo il paradigma delineato negli artt. 9, 33 e 34, Cost.(35), in relazione ai limiti imposti alla proprietà privata dall’art. 41, Cost.(36)

In particolare l’art. 9, Cost., letto nel contesto delle altre norme che delineano lo statuto costituzionale della proprietà(37), segna il definitivo passaggio dal regime di polizia che caratterizza le prime norme in materia (si veda in particolare la L. 364/1909), alle finalità di valorizzazione e conservazione che ispirano la legge 1089/1939, sia pur in un’ottica meramente vincolistica, così da pervenire con le nuove norme costituzionali all’affermazione del principio secondo il quale il bene culturale è strumento di promozione della cultura in un contesto di partecipazione del cittadino.

E proprio per una compiuta realizzazione del principio enunciato, che postula una funzione dinamica dei beni protetti dalla norma costituzionale ed una lettura unitaria dell’art. 9, Cost., è stata più volte invocata(38), prima della promulgazione del codice dei beni culturali, una nuova normativa per l’intera materia, specie con riguardo alla ridefinizione delle competenze regionali(39).

L’art. 9, Cost.(40), riconosce infatti tra le funzioni fondamentali assegnate allo Stato per il soddisfacimento delle sue finalità di carattere generale, quello della promozione culturale. Il primo comma di questo articolo introduce una norma programmatica, secondo la quale compito dello Stato è quello di «promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica», riconoscendo in tal modo ampia discrezionalità alla P.A. nelle scelte degli strumenti opportuni per lo svolgimento di tale tipo di attività(41).

Inoltre, l’art. 9, Cost., ricollegandosi all’art. 2, Cost., concorre a fissare, insieme con gli altri valori fondamentali, le condizioni essenziali ed ineliminabili per la piena espansione della persona umana. In tale prospettiva la promozione della cultura risulta strettamente collegata alla persona(42).

Compito dello Stato è, ora, quello di creare i presupposti indispensabili per garantire il pieno sviluppo della cultura ed il pieno formarsi della personalità dell’uomo. A tal fine esso deve provvedere alla tutela ed alla valorizzazione dei beni, che sono testimonianza materiale della cultura, in quanto essi assumono rilievo per il raggiungimento dei fini anzidetti, imposti per il soddisfacimento degli interessi della collettività, sia in relazione al loro valore culturale intrinseco, sia per il loro collegamento alla storia della civiltà e del costume.

L’art. 9, Cost., deve, poi, essere coordinato con le disposizioni di cui agli artt. 33 e 34, Cost. Si delinea così la posizione che lo Stato deve assumere nei riguardi del fenomeno culturale, nella logica sviluppata nell’art. 33, Cost., secondo il quale «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento».

Ne consegue che le libertà culturali sono collegate all’insegnamento, in modo che si possa conseguire lo sviluppo culturale e scientifico e che la promozione culturale, di cui al primo comma dell’art. 9, Cost., è il supporto della libertà artistica sancita dall’art. 33, Cost.

L’art. 9, Cost., comma 2, che afferma il principio secondo il quale la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico, pone dei problemi interpretativi al fine di definire la portata delle espressioni “paesaggio” e “patrimonio storico-artistico”(43). Seppure tali espressioni sembrano essere state mutuate dalla legislazione del 1939 sui beni culturali, l’identificazione dei beni protetti avviene attraverso il ricorso a concetti più ampi e generici di quelli desumibili dalla sistematica della citata legge.

Ma da tale articolo è almeno possibile dedurre, non essendo meglio definiti i beni sottoposti a tutela, che il paesaggio(44 )e il patrimonio storico e culturale della nazione sono sottoposti alla garanzia costituzionale e come tali devono essere tutelati. In tale contesto, peraltro, l’art. 9, Cost., esplica un ruolo fondamentale, in quanto, pur non specificando le nozioni di patrimonio e di paesaggio, identifica i presupposti necessari al fine di definire tali nozioni(45).

Con riferimento specifico alla categoria dei beni del patrimonio storico e artistico, l’unico riferimento che si desume a tal fine dalla norma costituzionale è quello alla Nazione. Ne consegue che oggetto della tutela della Costituzione saranno tutti i beni che compongono il suo patrimonio storico e artistico(46).

Per espressa regola costituzionale, poi, la cultura è un valore primario dell’ordinamento. Pertanto, tutte le pubbliche istituzioni e, quindi, sia lo Stato che le Regioni, sono impegnate a concorrere insieme alla tutela ed alla promozione dei beni culturali. La Corte Costituzionale ha infatti affermato in merito che il regime dei beni di interesse storico-artistico «trova nell’art. 9, Cost., il suo fondamento e si giustifica nella sue specificità in relazione al fine di salvaguardare beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del Paese»(47).

In dottrina si discute anche sul coordinamento sistematico tra l’art. 9, Cost., con particolare riferimento al comma secondo, e il successivo art. 42, Cost.(48)

Entrambe le norme, infatti, hanno per oggetto beni materiali suscettibili di appropriazione e utilizzazione da parte sia dei privati che dello Stato. Ma a differenza dell’art. 42, Cost., l’art. 9, Cost., contempla solo quei beni che hanno un collegamento con il patrimonio della nazione. Il comma 2 dell’art. 9, Cost. ha, infatti per oggetto beni materiali suscettibili di appropriazione e di utilizzazione da parte dei privati e dello Stato, caratterizzati dalla loro natura storico-artistica e dall’inerenza al patrimonio della nazione, ma suscettibili di appropriazione e di utilizzazione allo stesso modo dei beni di cui all’art. 42, Cost. La proprietà “privata e pubblica” di cui all’art. 42, Cost., può infatti avere anche ad oggetto beni culturali. Tuttavia, sembra che l’art. 9, Cost., non prevede un regime proprietario diverso da quanto prefigurato nell’art. 42, Cost.(49)

La disposizione di cui all’art. 9, Cost., concorre invece a determinare, nel caso in cui oggetto della proprietà sia un bene culturale, il contenuto della funzione sociale che può giustificare i motivi di interesse generale ai fini dell’inizio del procedimento ablatorio. La possibilità, quindi, di attribuire, ex art. 42, Cost., secondo comma, alla proprietà privata una funzione sociale, sottoponendola a limitazioni legislative, assume pregnante rilievo nel settore dei beni culturali.

La Corte costituzionale ha affermato in argomento che «la tutela dei beni è determinata dal loro valore culturale, che può essere rappresentato, come nei casi considerati, dal collegamento del loro uso e della loro utilizzazione con accadimenti pregressi della storia, della civiltà, o del costume locale, non potendo essere realizzate separatamente dai beni come si pretenderebbe. Il vincolo di destinazione, che agisce sulla proprietà del bene, non può assolutamente riguardare l’attività culturale, in sé considerata, separatamente dal bene, attività che in quanto tale deve essere libera secondo i precetti costituzionali ...»(50).

La Corte ha affermato, inoltre, che «l’esigenza di protezione culturale dei beni, determinata dalla loro utilizzazione e dal loro uso pregressi, si estrinseca in un vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene e può trovare giustificazione, per i profili costituzionali, nella funzione sociale che la proprietà privata deve svolgere (art. 42, Cost.)».

La pubblica amministrazione, dal canto suo, deve assicurare la conservazione e la fruizione dei beni culturali, e nel compimento di tale attività può compiere tutti gli atti necessari. In tal modo essa può pervenire a incidere sul diritto di proprietà che il singolo ha sul bene, limitandolo(51).

Occorre anche interrogarsi sulla natura dei vincoli imposti ai privati, ivi compresi gli enti ecclesiastici. La Corte Costituzionale, sul punto, ha più volte ribadito che il regime di sottoposizione a vincoli storico-artistico proprio dei beni culturali esula dalla disciplina ordinaria dei procedimenti di tipo ablatorio, ed in particolare di quelli espropriativi. È stato, pertanto, escluso il carattere espropriativo e quindi l’assoggettamento alle procedure di cui all’art. 42 Cost., delle limitazioni attinenti al regime di appartenenza di tali categorie di beni.

Infatti, con il procedimento di assoggettamento di un bene al regime di quelli di interesse culturale, che culmina con la dichiarazione di tale interesse(52), non vengono introdotte limitazioni aventi contenuto espropriativo(53), né si realizzano trasferimenti coattivi di proprietà, ma viene applicato a determinati beni un vincolo a ragione delle loro caratteristiche intrinseche e delle qualità oggettive accertate dagli organi amministrativi deputati al loro controllo.

L’amministrazione, secondo la giurisprudenza costituzionale, «operando nei modi descritti dalla legge ... non ne modifica la situazione preesistente, ma acclara la corrispondenza delle concrete sue qualità alla prescrizione normativa(54)».

A ragione della natura dell’interesse il vincolo è da qualificarsi come di diritto pubblico ed è a carattere reale. Infatti, dopo la dichiarazione riguardante l’esistenza dell’interesse culturale del bene, quest’ultimo diventa culturale indipendentemente dal soggetto che ne è proprietario.

I limiti che derivano dall’esercizio di tale attività da parte della P.A. sui beni di proprietà dei privati(55), considerato che essa non svolge un’attività finalizzata all’espropriazione, non comportano alcun riconoscimento di indennizzo a favore del soggetto che viene privato del bene. Sul punto, la Corte Costituzionale ha affermato che non si pone un problema di indennizzabilità quando i vincoli e le limitazioni derivano dal regime generale di una intera categoria di beni. In tale contesto quindi, l’art. 9, Cost., svolge l’ulteriore funzione di identificare i presupposti costituzionalmente necessari: «l’esclusione dell’indennità è giustificata per la considerazione che trattasi di una categoria di beni originariamente di interesse pubblico, perché naturalmente paesistici e condizionati a limitazioni di godimento secondo un particolare regime al quale rimane del tutto estranea la materia dell’espropriazione»(56).

I rapporti tra lo Stato e la Chiesa e le altre confessioni religiose; il regime dei beni culturali alla luce della Costituzione

La Costituzione repubblicana, d’altro canto, sulla base della centralità della persona umana quale singolo individuo e nelle formazioni sociali (cfr. art. 2, Cost.) e dell’affermazione della libertà di professare liberamente la propria fede religiosa, di cui all’articolo 19, Cost., definisce e riconosce il ruolo dei soggetti di cui agli articoli 7 e 8, Cost., con le garanzie di cui all’articolo 20, Cost.; riconoscendo autonomia ed indipendenza (si veda per la Chiesa cattolica, in particolare, il comma primo dell’articolo 7, Cost.).

Con riferimento precipuo alla Chiesa cattolica, poi, il secondo comma dell’articolo 7 della Costituzione rinvia per i rapporti tra Stato e Chiesa ai Patti lateranensi, i quali regolano le cosiddette res mixtae, tra le quali astrattamente possono ricadere, quale oggetto di comune interesse, anche i beni culturali, sebbene, come si è già visto, in sede di trattative per i Patti lateranensi, la disposizione che prevedeva forme di collaborazione tra le due parti in materia fu stralciata dal testo finale(57).

Sulla base dell’art. 7, comma 2, Cost., sono stati, peraltro, riproposti i dubbi sulla legittimità della legislazione italiana in materia di beni culturali posteriore ai Patti lateranensi, con particolare riguardo alla L. 1089/1939, della quale, sulla base della peculiare posizione che assumono le norme pattizie per effetti del citato articolo 7, comma 2, Cost., è stata affermata l’incostituzionalità nella misura in cui essa riserva allo Stato ogni competenza in materia di beni culturali ecclesiastici in contrasto con l’articolo 30 dei Patti del 1929(58). Ma una diversa lettura della disposizione che si assume violata ha poi portato a circoscrivere la riserva all’autorità ecclesiastica alla sola vigilanza e al controllo sulla gestione del patrimonio degli enti, senza ingerenza da parte dello Stato, con la conseguenza che, una volta terminata la fase deliberativa interna con i relativi controlli canonici da parte di tali enti sui beni compresi nel loro patrimonio, la potestà di tutela di quegli stessi beni nell’àmbito dell’ordinamento civile spetta allo Stato in via esclusiva così superando i dubbi di illegittimità costituzionale(59).

Ma va sottolineato che il principio concordatario impone di ponderare una molteplicità di interessi, tutti costituzionalmente rilevanti, sottesi ai beni di cui si tratta, quali la libertà e l’autonomia delle confessioni religiose, ivi compresa anche la libertà di culto, di cui all’articolo 19, Cost., che coinvolge il valore di testimonianza storico-artistica del bene a ciò destinato. Ne deriva allora che se nel nostro sistema costituzionale, per effetto dell’affermazione della libertà e dell’autonomia delle confessioni religiose, l’apprezzamento degli interessi di cui esse sono portatrici non può essere demandato allo Stato, la ponderazione di quegli stessi interessi con la tutela del patrimonio storico artistico, di cui all’articolo 9, comma 2, Cost., non può che avvenire tramite un componimento concordato con i soggetti che hanno, dal lato delle confessioni, il potere di definire e valutare l’interesse religioso(60).

La revisione dei Patti lateranensi

Il principio concordatario, sancito nella Costituzione, reca un inevitabile impulso all’evoluzione del quadro normativo sancito dalla L. 1089/1939 nella misura in cui, se pure i Patti del 1929 non avevano incluso tra le res mixtae i beni culturali, nondimeno essi appaiono sicuramente tra le materie astrattamente idonee a formare oggetto di regolazione pattizia ed anzi, tra quelle per le quali se ne avverte significativamente la necessità al fine di bilanciare i diversi interessi sottesi alla materia con riguardo in primo luogo, ma non esclusivamente, al contemperamento tra la dicatio ad patriam e la deputatio ad cultum(61).

La regolazione della materia dei beni culturali ecclesiastici diviene così, con la promulgazione della Costituzione repubblicana, un elemento dello sviluppo del sistema democratico nel quadro delineato dagli articoli 7 e 8, Cost. E la revisione del Concordato attuata nel 1984 rappresenta l’esito della nuova fase evolutiva, indotta dalla Costituzione repubblicana.

A tal fine un impulso significativo è venuto anche dalla normativa emanata dalla Conferenza episcopale italiana nel 1974(62). Tali disposizioni, infatti, formano un complesso organico che pone al centro della regolamentazione dei beni culturali ecclesiali il comune interesse della Chiesa e dello Stato, «non nell’esclusiva ottica della titolarità patrimoniale da parte dell’ente ecclesiastico, ma per la sua duplice dimensione immateriale (culturale-cultuale) per i valori di fruizione, di godimento, per le molteplici finalità che esso serve e persegue»(63). In questa logica lo Stato non è un potenziale antagonista per la Chiesa, ma un collaboratore, sia pur nel rispetto della legislazione civile in materia(64).

I primi progetti di revisione dei Patti lateranensi successivi alla nuova costituzione si limitavano a focalizzare l’intervento normativo in materia di beni culturali ecclesiastici sul completamento dell’opera di ricognizione dei beni con la necessaria collaborazione dell’attività ecclesiastica, senza nulla prevedere in merito all’esercizio dei poteri per la tutela di tali beni, che restava interamente demandato all’autorità statale(65).

Maggiore spazio alla collaborazione delle due parti era prevista per gli archivi, per i quali si proponeva l’istituzione di una commissione mista con compiti di studio delle iniziative per il riordino, la conservazione e il restauro(66). In tale logica, alla quale era comunque sotteso l’interesse preponderante dello Stato all’apertura degli archivi ecclesiastici agli studiosi(67), viene almeno superata anche la carenza di qualsiasi disciplina in tale materia che caratterizzava il D.P.R. 30 settembre 1963, n. 1409, che riformava gli archivi di Stato(68).

L’impegno delle parti a collaborare per la tutela del patrimonio artistico, mediante l’istituzione di una commissione incaricata di formulare norme da sottoporre alle due parti, viene per la prima volta proposto, invece, nella bozza di revisione del 1976. Ma la proposta, che ha il merito di riconoscere adeguatamente la rilevanza dell’interesse religioso nei beni culturali(69), viene criticata per gli elementi di atipicità che introduce nella produzione normativa statale(70).

Gli schemi delle successive proposte restano ancorati alla logica di affermare una collaborazione in questa materia, pur senza l’istituzione dell’anzidetta commissione, e la estendono anche al godimento ed alla valorizzazione dei beni di cui si tratta(71).

Nel corso delle trattative per addivenire alle intese attuative delle nuove norme pattizie non mancano difficoltà tecniche(72), unitamente a forti resistenze ideologiche, a far abbandonare la visione sottesa all’articolo 8 della L. 1089/1939(73).

La formulazione del testo definitivo dell’articolo 12, comma 1, felicemente sintetica, prevede che la Santa Sede e la Repubblica italiana, nel rispettivo ordine, collaborino per la tutela del patrimonio storico e artistico, richiamando le espressioni contenute negli articoli 1, comma 1, e 9, comma 2, della Costituzione.

Ai fini della produzione normativa si prevede, poi, che le parti concorderanno le disposizioni opportune per la salvaguardia, la valorizzazione e il godimento dei beni culturali di interesse religioso al fine armonizzare la legislazione italiana con le esigenze sottese a tale interesse.

Per gli archivi si prevedono intese tra gli organi delle due parti.

L’accordo di Villa Madama del 1984, modificativo dei Patti lateranensi(74), rappresenta il punto di arrivo di un confronto pluridecennale(75).

L’articolo 12 dell’Accordo sancisce, infatti, il principio della collaborazione, così innovando l’intero quadro normativo, formatosi con il Concordato del 1929, le disposizioni legislative attuative dello stesso e, soprattutto, la L. 1089/1939, nella quale il ruolo dell’autorità ecclesiastica, come si è visto, è in sostanza ridotto soltanto ad una consultazione non vincolante(76). Il nuovo assetto delineato dagli articoli 7, 8 e 9, Cost., riceve una significativa attuazione.

Ma vi è di più. Le nuove norme pattizie fanno riferimento all’intero patrimonio storico artistico nel suo insieme e non più a beni culturali atomisticamente considerati; e nel prevedere l’armonizzazione dell’applicazione della legge italiana ai beni appartenenti ad enti ed istituzioni ecclesiastiche con le esigenze religiose, ampliano significativamente l’àmbito dell’intervento, non più limitato ai beni destinati al culto, ma esteso a tutti quelli che rivestono tale interesse(77).

Il bene culturale di interesse religioso si pone così, nell’ottica di entrambe le parti, in una prospettiva convergente di valorizzazione della persona umana, rappresentando il risultato di un duplice apprezzamento, civile e religioso, in un sistema che garantisce l’autodeterminazione delle confessioni religiose.

E mentre l’interesse sotteso al bene viene limitato ancora alla liturgia e si rileva la difficoltà di bilanciare adeguatamente i concorrenti interessi, civile e religioso(78), altra dottrina sottolinea, invece, la coerenza dell’interesse religioso posto a base della nuova norma con l’esigenza di favorirne anche la promozione culturale(79). In particolare, la collaborazione dell’autorità religiosa per la tutela del patrimonio storico e artistico viene ricondotta ai suoi legami con l’identità e la memoria storica della Chiesa cattolica(80).

Una parte della dottrina ha messo peraltro in discussione la compatibilità costituzionale dell’articolo 12 dell’accordo di Villa Madama(81), mentre altro orientamento vi ravvisa l’esito coerente del processo di armonizzazione costituzionale delle norme concordatarie(82). Se la cultura non può avere in una società pluralista come unico punto di riferimento lo Stato, l’inclusione dei beni in discorso tra le res mixtae si pone infatti come coerente e logica conseguenza della rilevanza degli interessi di entrambe le parti(83).

L’interesse religioso sotteso ai beni in discorso è poi meglio precisato sul piano sistematico attraverso la legislazione attuativa dell’Accordo di revisione del Concordato. L’articolo 16 della L. 20 maggio 1985, n. 222, definisce, infatti, come attività di religione quelle finalizzate al culto, alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi e all’educazione cristiana(84). La portata della definizione è, dunque, più ampia di quella postulata dall’articolo 8 della L. 1089/1939, che è limitata alle esigenze del culto(85), ed è riferita all’interesse religioso nella sua dimensione globale(86).

Le disposizioni pattizie riguardano l’applicazione della legge statale in materia di beni culturali, non la sua formazione. E ciò consente di fugare ogni dubbio su una pretesa limitazione di sovranità dello Stato, non compatibile con la Costituzione, nella misura in cui la soluzione accolta evita la creazione di un regime differenziato di produzione normativa, ma attiene, invece, all’esercizio dei poteri amministrativi di tutela dei beni in discorso(87).

Incongrua appare, invece, la limitazione della portata della norma di cui all’articolo 12 dell’accordo del 1984 ai soli beni appartenenti ad enti ed istituzioni ecclesiastiche(88), seppur temperata dal riferimento alle istituzioni - ossia a soggetti non riconosciuti dal diritto civile - oltre che agli enti (riconosciuti in sede civile).

La limitazione è sicuramente da ascriversi alla preoccupazione di non discostarsi eccessivamente sul punto dall’impianto dell’articolo 8, L. 1089/1939, anche se il nostro ordinamento non è scevro di ipotesi nelle quali il regime del bene di interesse religioso prescinde dalla su appartenenza ad un ente ecclesiastico(89).

In attuazione dell’articolo 12 dell’accordo di revisione del Concordato, demandata ad una commissione paritetica, istituita il 13 febbraio 1987, vengono in un primo tempo elaborate delle bozze che prevedono ai vari livelli gerarchici conferenze di programma e di servizi per l’attuazione della normativa statale in materia. Dopo le critiche suscitate da esse(90), vengono elaborate ulteriori soluzioni, confluite nel testo definitivo dell’intesa del 13 settembre 1996(91), consistenti nella previsione di riunioni finalizzate a definire i programmi d’intervento alle quali l’amministrazione statale invita l’autorità ecclesiastica - opportunamente vengono individuati ai vari livelli gli organi competenti per ciascuna delle due parti - per una reciproca informazione e per consentire agli organi statali di acquisire le necessarie valutazioni sulle esigenze religiose. L’articolo 3 dell’intesa ipotizza anche accordi tra le parti ai fini organizzativi e finanziari degli interventi.

L’intesa non pone in discussione evidentemente l’esclusività della competenza civile nell’emanazione dei provvedimenti di tutela, evitando forme di cogestione(92), ma segna il definitivo superamento del sistema unilaterale di cui all’articolo 8 L. 1089/1939(93).

Di particolare rilievo ai fini dell’esercizio dei poteri amministrativi è l’articolo 6 dell’intesa, il quale stabilisce che «a norma dell’art. 8 della legge 1° giugno 1939, n. 1089, i provvedimenti amministrativi concernenti i beni culturali appartenenti ad enti ed istituzioni ecclesiastiche sono assunti dal competente organo del Ministero per i beni culturali e ambientali previa intesa, per quel che concerne le esigenze di culto, con l’ordinario diocesano competente per territorio e sono comunicati ai titolari dei beni per il tramite dell’ordinario stesso». L’articolo 8 dello stesso testo, inoltre, prefigura intese stipulate con le regioni e gli altri enti autonomi territoriali.

Molto articolato, a ragione della molteplicità di situazioni da regolare, è il contenuto dell’altra intesa, dedicata alla conservazione e consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche degli enti e istituzioni ecclesiastiche(94), nella quale si prevedono interventi a carico di entrambe le parti con accordi specifici e l’impegno ad una reciproca informazione in merito agli indirizzi da intraprendere.

Le intese stipulate dallo Stato con le altre confessioni religiose, di cui all’articolo 8, comma 3, Cost., evidenziano un analogo orientamento ad estendere l’àmbito dei beni di interesse comune da tutelare, prevedendo anche, talvolta, l’istituzione di commissioni paritetiche, come nel caso di quelle intervenute con l’Unione delle Comunità israelitiche, con la Chiesa Valdese e con la Chiesa Evangelica Luterana. In altre intese è invece sancito solo l’impegno in via generale a collaborare per la tutela del patrimonio storico e artistico.

Per esigenze di sintesi, ci limitiamo qui a rinviare alle disposizioni pertinenti alla materia in esame, contenute in tali intese, che si richiamano in ordine cronologico:

L. 11 agosto 1984, n. 449. - Norme per la regolazione dei rapporti tra Stato e le chiese rappresentate dalla Tavola valdese.

«17. La Repubblica italiana e la Tavola valdese collaborano per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali afferenti al patrimonio storico, morale e materiale delle chiese rappresentate dalla Tavola valdese, istituendo a tal fine apposite commissioni miste.

Tali commissioni hanno tra l’altro il compito della compilazione e dell’aggiornamento dell’inventario dei beni culturali suddetti».

L. 22 novembre 1988, n. 516. - Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7° giorno.

«16. 1. Gli edifici aperti al culto pubblico avventista non possono essere requisiti, occupati, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni e previo accordo con l’Unione delle Chiese cristiane avventiste.

2. Salvi i casi di urgente necessità, la forza pubblica non può entrare per l’esercizio delle sue funzioni, in tali edifici senza averne dato previo avviso e preso accordi con il ministro di culto responsabile dell’edificio.

3. L’autorità civile tiene conto delle esigenze religiose delle popolazioni fatte presenti dall’Unione per quanto concerne la costruzione di nuovi edifici di culto avventisti.

34. 1. La Repubblica italiana e l’Unione delle Chiese cristiane avventiste si impegnano a collaborare per la tutela e la valorizzazione dei beni afferenti al patrimonio storico e culturale delle chiese facenti parte dell’Unione».

L. 22 novembre 1988, n. 517. - Norme per la regolazione dei rapporti tra Stato e le Assemblee di Dio in Italia.

«11. 1. Gli edifici aperti al culto pubblico delle chiese associate alle Adi non possono essere occupati, requisiti, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni e previo accordo con il presidente delle Adi.

2. La forza pubblica, salvo casi di urgente necessità, non può entrare negli edifici aperti al culto pubblico per l’esercizio delle proprie funzioni, senza previo avviso ai ministri delle singole chiese.

26. 1. La Repubblica italiana e le Adi si impegnano a collaborare per la tutela e la valorizzazione dei beni afferenti al patrimonio storico e culturale delle Adi».

L. 8 marzo 1989, n. 101. - Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane.

«15. 1. Gli edifici destinati all’esercizio pubblico del culto ebraico, anche se appartengono a privati, non possono essere sottratti alla loro destinazione, neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata con il consenso della Comunità competente o dell’Unione.

2. Tali edifici non possono essere requisiti, occupati, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni e previo accordo con l’Unione.

3. Salvi i casi di urgente necessità, la forza pubblica non può entrare per l’esercizio delle sue funzioni in tali edifici senza previo avviso e presi accordi con la Comunità competente.

16. 1. I piani regolatori cimiteriali prevedono su richiesta della Comunità competente per territorio reparti speciali per la sepoltura di defunti ebrei.

2. Alla Comunità che faccia domanda di aver un reparto proprio è data dal sindaco in concessione

un’area adeguata nel cimitero.

3. Le sepolture nei cimiteri delle Comunità e nei reparti ebraici dei cimiteri comunale sono perpetue in conformità della legge e della tradizione ebraiche.

4. A tal fine, fermi restando gli oneri di legge a carico degli interessati o, in mancanza, della Comunità o dell’Unione, le concessioni di cui all’articolo 91 del decreto del Presidente della Repubblica 21 ottobre 1975, n. 803, sono rinnovate alla scadenza di ogni novantanove anni.

5. L’inumazione nei reparti di cui al comma 2 ha luogo secondo il regolamento emanato dalla

Comunità competente.

6. Nei cimiteri ebraici è assicurata l’osservanza delle prescrizioni rituali ebraiche.

17. 1. Lo Stato, l’Unione e le Comunità collaborano per la tutela e la valorizzazione dei beni afferenti al patrimonio storico e artistico, culturale, ambientale e architettonico, archeologico, archivistico e librario dell’ebraismo italiano.

2. Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge sarà costituita un Commissione mista per le finalità di cui al comma 1 e con lo scopo di agevolare la raccolta, il riordinamento e il godimento dei beni culturali ebraici.

3. La Commissione determina le modalità di partecipazione dell’Unione alla conservazione e alla gestione delle catacombe ebraiche e le condizioni per il rispetto in esse delle prescrizioni rituali ebraiche.

4. Alla medesima Commissione è data notizia del reperimento di beni di cui al comma 1».

L. 12 aprile 1995, n. 116. - Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia (Ucebi).

«17. Tutela degli edifici di culto. - 1. Gli edifici aperti al culto pubblico da parte delle Chiese aventi parte nell’Ucebi non possono essere requisiti, occupati, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni e previo accordo con l’Ucebi.

2. Salvi i casi di urgente necessità, la forza pubblica non può entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, in tali edifici senza aver preso accordi con i ministri delle singole Chiese.

18. Tutela dei beni culturali. - 1. La Repubblica italiana e l’Ucebi si impegnano a collaborare per la tutela e la valorizzazione dei beni afferenti il patrimonio storico e culturale delle Chiese rappresentate dall’Ucebi.»

L. 29 novembre 1995, n. 520. - Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa Evangelica Luterana in Italia (Celi).

«14. Tutela degli edifici di culto. - 1. Gli edifici aperti al culto pubblico della Celi e delle sue Comunità, nonché le loro pertinenze, non possono essere occupati, requisiti, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni e previo accordo del decano della Celi e dell’organo responsabile della sua Comunità interessata.

2. Salvi i casi di urgente necessità, la forza pubblica non può entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, in tali edifici senza averne dato previo avviso e preso accordi con il ministro di culto responsabile dell’edificio.

3. Lo Stato italiano prende atto che le attività di culto della Celi possono svolgersi anche al di fuori delle chiese della Celi e delle Comunità.

16. Tutela dei beni culturali. - 1. La Repubblica italiana e la Celi collaborano per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali afferenti al patrimonio storico, morale e materiale delle Comunità rappresentate dalla Celi, istituendo a tal fine apposite commissioni miste.

2. Le commissioni di cui al comma 1 hanno tra l’altro il compito della compilazione e dell’aggiornamento dell’inventario dei beni suddetti.

Intesa tra il Governo della Repubblica Italiana e la Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova in Italia.

8. Edifici di culto. - 1. Gli edifici aperti al culto pubblico dei testimoni di Geova non possono essere occupati, requisiti, espropriati o demoliti se non per gravi motivi e previo accordo con la Congregazione centrale.

2. Salvo i casi di urgente necessità, la forza pubblica non può entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, negli edifici suindicati, senza aver dato previo avviso e preso accordi con i ministri di culto responsabili dell’edificio.

3. Agli edifici di culto e alle relative pertinenze si applicano le norme vigenti in materia di esenzioni, agevolazioni tributarie, contributi e concessioni.

4. L’autorità civile tiene conto delle esigenze religiose fatte presenti dalla Congregazione centrale per quanto concerne la costruzione di nuovi edifici di culto dei testimoni di Geova.

Intesa tra il Governo della Repubblica italiana e l’Unione Buddhista Italiana.

15. Tutela degli edifici di culto. - 1. Gli edifici aperti al culto pubblico buddista, di cui l’Ubi tiene apposito elenco trasmesso alle competenti autorità, non possono essere requisiti, occupati, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni, previo accordo con l’Ubi.

2. Salvi i casi di urgente necessità, la forza pubblica non può entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, in tali edifici senza averne dato previo avviso ed aver preso accordi con il legale rappresentante responsabile, del centro cui appartiene l’edificio.

16. Tutela dei beni culturali. - 1. La Repubblica italiana e l’Ubi si impegnano a collaborare per la tutela e la valorizzazione dei beni artistici e culturali facenti parte del patrimonio dell’Ubi e degli organismi da essa rappresentati».

Sulla base dell’accordo di revisione del concordato e delle intese di cui all’articolo 8, comma 3, Cost. gli enti ecclesiastici, come ogni altro soggetto privato, ai quali appartengono beni culturali di interesse religioso, assumono nel nostro ordinamento, in coerenza con l’articolo 41 Cost., la posizione di soggetti “funzionalizzati” che collaborano con i poteri pubblici per perseguire i fini indicati dalla Costituzione mediante accordi che tutelano la specificità degli interessi sottesi nella materia(95).

Il decentramento di competenze a livello regionale ha poi inciso ulteriormente nella materia in esame.

L’articolo 154 del D.lgs. 31 marzo 1998, n. 112(96 )ha istituzionalizzato la scelta di puntare sulla valorizzazione del patrimonio culturale a livello locale prevedendo la costituzione in ciascuna regione a statuto ordinario di una commissione di tredici membri, uno dei quali designato dalla conferenza episcopale regionale con il compito di predisporre un piano pluriennale di valorizzazione e promozione.

Il citato decreto legislativo opera peraltro il trasferimento delle competenze in materia di valorizzazione dei beni culturali sulla base della riserva allo Stato dei compiti di tutela, riserva che viene, per giunta, ridefinita nello stesso decreto, in termini assai ampi, cosicché le commissioni regionali di cui all’articolo 154, D.lgs. 112/1998 non sembrano godere dal legislatore di un adeguato àmbito di operatività. In sostanza, in tale normativa viene accolta una logica che si fonda sulla necessaria assegnazione allo Stato dei compiti di tutela, non considerando che essa non può essere efficiente se prescinde dal governo del territorio a livello locale(97).

Nondimeno, l’importanza dell’intervento legislativo del 1998, per quanto qui interessa, sia pur con il forte limite rappresentato dalla riserva allo Stato dei compiti di tutela, appare risiedere nella rilevanza dell’interesse locale, che pone la necessità di strumenti di raccordo tra Stato e Chiesa, nonchè nel trasferimento di competenze, che viene operato in via generale con il recepimento anche in questa sede del principio di leale collaborazione tra le due parti(98).

Vanno quindi segnalate sempre, quali strumenti attuativi del principio di collaborazione sancito nell’accordo di revisione del concordato, le intese tra le regioni e le conferenze episcopali regionali per la valorizzazione del patrimonio(99).

Tali iniziative rappresentano un significativo momento di crescita della società civile, superando la logica dell’amministrazione statale decentrata con l’affermazione del principio di sussidiarietà orizzontale(100).

La divaricazione tra le funzioni di tutela riservate allo Stato e quelle assegnate alle regioni a statuto ordinario in materia di valorizzazione dei beni culturali, trova, infine, più compiuta realizzazione con la nuova formulazione degli articoli 117 e 118, Cost., di cui alla legge di revisione costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in attuazione della quale, sulla base della legge delega 6 luglio 2002, n. 137, è stato poi redatto il capo II del titolo II del codice dei beni culturali, dedicato alla valorizzazione dei beni culturali(101).

La definizione di bene culturale di interesse religioso contenuta nell’articolo 19 del T.U. 490/1999 e nell’articolo 10 del codice dei beni culturali

Il T.U. 490/1999 porta infine a compimento sul piano della legislazione ordinaria questa complessa evoluzione normativa, in attuazione alla delega di cui all’articolo 1 della L. 8 ottobre 1997, n. 352, coordinando sul piano formale e sostanziale le norme vigenti. In tal modo, si realizza l’adeguamento della legge fondamentale in materia di beni culturali di interesse religioso al dettato costituzionale e alla successiva normativa pattizia.

La categoria enunciata nell’articolo 19 del T.U. è infatti individuata sotto il profilo della rilevanza dell’interesse culturale che i beni in discorso rivestono, sulla base delle classificazioni tipologiche di cui agli articoli 2, 3 e 4(102), limitando peraltro l’area della tutela ai beni provvisti di materialità(103). I soggetti ai quali appartengono tali beni sono pubblici o privati. Si tralascia di specificare nella nuova normativa la collocazione degli enti ecclesiastici, i quali vengono poi inclusi, sul piano interpretativo, tra quelli privati.

Ma è soprattutto la rilevanza attribuita all’interesse religioso a connotare in termini di novità questa disposizione, con la quale vengono recepite le definizioni accolte anche a livello internazionale(104).

La nuova norma, inoltre, tiene nel debito conto le competenze trasferite alle regioni.

L’interesse religioso “connota” i beni appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche. Evidenti sono le differenze tra la nozione di cui alla L. 1089/1939, che fa riferimento alle cose appartenenti ad enti ecclesiastici (non sono qui menzionate le altre “istituzioni”), per le quali occorre procedere d’accordo con le autorità ecclesiastiche solo per esigenze di culto e non anche per gli altri profili che possono connotare l’interesse religioso. Significativamente, invece, il comma 2 della nuova disposizione richiama le intese attuative del nuovo Concordato e quelle concluse con le altre confessioni religiose ai sensi dell’articolo 8, comma 3, Cost., che devono ora essere osservate non solo con riguardo alle esigenze del culto, ma per il perseguimento di un più ampio interesse religioso.

Il bene culturale appartenente all’ente o all’istituzione ecclesiastica rileva nella nuova normativa quando riveste un interesse religioso, a ragione di questo stesso interesse, nella sua totalità, e non soltanto per la necessità di assicurare lo svolgimento del culto. L’interesse collettivo alla fruizione del bene culturale viene così coniugato con quello della comunità dei credenti, che attiene al fattore religioso in un’ottica non più antagonista rispetto allo Stato, ma di valorizzazione della persona umana(105).

E la stessa tutela viene accordata alle altre confessioni religiose, sulla base delle esplicite previsioni contenute nei due commi dell’articolo 19 del testo unico 1089/1939, in perfetta aderenza al primo comma dell’articolo 8, Cost.

Il vigente articolo 9 del codice dei beni culturali e del passaggio sanziona, da ultimo, il risultato di questa evoluzione legislativa riproducendo nella sostanza e con minime modifiche di drafting normativo, la formulazione di cui alla L. 1089/1939. Tale formulazione, a sua volta, coincide con quella dell’intesa attuativa dell’articolo 12 dell’accordo di Villa Madama, per quanto concerne l’adozione della categoria “beni culturali di interesse religioso”.

Problematica appare la rilevanza delle regole procedimentali sancite nell’intesa tra lo Stato e la Chiesa richiamata dall’articolo 9 del codice. Sembra preferibile affermare che si è in presenza di regole finalizzate ad integrare la fase istruttoria dei provvedimenti amministrativi per rendere ancor più efficiente la ponderazione degli interessi sottesi ai beni in discorso nell’esercizio delle potestà amministrative che restano, peraltro, integralmente conservate all’autorità civile, così come resta integra, d’altro canto, l’autodeterminazione degli enti della Chiesa sugli stessi beni.

È soltanto nel caso dei beni destinati al culto che si avverte, sul piano attuativo dei provvedimenti, un rilievo maggiore per le determinazioni provenienti dalla parte ecclesiastica.

Indubbiamente, la necessità di mantenere integre le competenze statali ha limitato fortemente l’àmbito operativo dell’intesa, cosicché il valore principale del recepimento della nozione di interesse religioso va apprezzata soprattutto sul piano del diritto sostanziale, nella misura in cui il dettato normativo esprime il valore globale del bene di interesse religioso e sottolinea la molteplicità e complessità degli interessi che vi sono sottesi e che l’autorità amministrativa è chiamata a ponderare in sede provvedimentale.

Parimenti significativo è l’articolo 6 dello stesso testo pattizio, il quale sancisce che i provvedimenti amministrativi concernenti i beni in esame sono assunti previa intesa con l’ordinario diocesano. Tale previsione è indubbiamente utile al fine di precisare la portata della norma di cui all’art. 8, L. 1089/1939, poi trasfusa nelle citate disposizioni del codice e del testo unico, rispetto alle conclusioni interpretative, assai riduttive, alle quali, come si è già detto, era pervenuta la giurisprudenza in precedenza.

In particolare, può ritenersi che la rilevanza delle procedure delineate nell’intesa richiamata dall’articolo 9 del codice, potrebbe cogliersi con riferimento alle competenze statali a fini di conservazione in sede di definizione delle priorità sulla base delle informazioni trasmesse dall’autorità ecclesiastica. Ai fini circolatori, poi, l’autorizzazione alle alienazioni da parte di enti ecclesiastici dovrebbe essere valutata anche sulla base delle indicazioni provenienti dalla stessa autorità. In questo senso, merita di essere evidenziata la disposizione di cui all’articolo 5 dell’intesa del 1996, la quale così dispone:

«5. 1. Il vescovo diocesano presenta ai soprintendenti, valutandone congruità e priorità, le richieste di intervento di restauro, di conservazione o quelle di autorizzazione, concernenti beni culturali di proprietà di enti soggetti alla sua giurisdizione, in particolare per quanto previsto dal precedente art. 2.

2. Le richieste di cui al comma 1, presentate dagli enti ecclesiastici di cui all’art. 1, comma 2, sono inoltrate ai soprintendenti per il tramite del vescovo diocesano territorialmente competente.

3. Le richieste di intervento riguardanti i beni librari vengono presentate, per il tramite del vescovo diocesano, all’ufficio centrale competente del Ministero per i beni culturali e ambientali».

Il 26 gennaio 2005 è stata sottoscritta una nuova Intesa, applicabile ai beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti ed istituzioni ecclesiastiche, mentre per i beni archivistici resta in vigore l’intesa del 2000(106).

La nuova intesa persegue il fine di adeguare la normativa pattizia alle disposizioni del codice dei beni culturali ed al nuovo regime delle competenze regionali(107), opportunamente richiamate nel preambolo del testo, pur restando ancorata all’impostazione dell’intesa del 1996(108).

Ancora una volta si segnala la mancata definizione di specifici criteri operativi che dovrebbero governare l’attuazione dell’intesa, malgrado la significativa soluzione organizzativa rappresentata dall’istituzione dell’Osservatorio centrale per i beni culturali di interesse religioso(109).

Nondimeno, vengono riconfermati il principio della collaborazione unitamente a quello della programmazione. Restano pressoché invariati nella nuova intesa, rispetto al testo precedente, gli articoli 2, 3, 4 e 7.

L’intesa si articola sui seguenti punti di cui all’articolo 2:

a) inventario e catalogazione dei beni quale necessario strumento conoscitivo e presupposto di ogni altra iniziativa(110);

b) salvaguardia della collocazione dei beni in discorso nel luogo originario o in quello di attuale conservazione;

c) affidamento dell’esecuzione degli interventi di restauro a personale qualificato;

d) garanzia della sicurezza dei beni, accesso alla visita degli stessi.

L’intesa del 2005 individua in maniera articolata una serie di ipotesi nelle quali per gli interventi statali in merito ai beni culturali di interesse religioso di proprietà ecclesiastica si fa ricorso al modello dell’accordo(111). L’articolo 1, comma 4, prevede, ricalcando l’accordo precedente, riunioni periodiche per la predisposizione di un sistema di tutela e fruizione. Sempre sulla scia dell’intesa precedente, l’articolo 5 conferma la regola procedurale della prestazione all’autorità civile delle richieste di autorizzazione per i singoli interventi a cura del vescovo diocesano, così chiamato a svolgere una funzione valutativa e di selezione delle priorità. L’articolo 4, ancora, riconferma la regola della reciproca informazione. L’articolo 2, comma 5, prevede, inoltre, una procedura per la composizione dei conflitti a livello periferico tra le due parti. Gli accordi veri e propri sono, invece, previsti nell’articolo 3 dell’intesa, per interventi ed iniziative comuni sia a fini organizzativi che finanziari. Sono previste regole per le attività che incidono sul culto, quali scavi archeologici (articolo 6, comma 2), trasferimento di beni mobili in altro sito (articolo 6, comma 4), conservazione e restauro di beni in caso di terremoti e calamità (articolo 6, comma 5) e così per l’autorizzazione civile agli interventi di adeguamento dei luoghi di culto alle esigenze della liturgia. Di qui il rilievo della categoria dei beni culturali di interesse religioso, la quale sulla base delle intese assume caratteristiche sue proprie, in quanto regolata da una disciplina specifica(112).

Non certamente a caso si evitano si evitano nella nuova intesa espliciti riferimenti alle regole procedimentali di cui alla L. 7 agosto 1990, n. 241, nella quale, come è noto, sono disciplinate la partecipazione del privato al procedimento e l’accordo procedimentale. Tale omissione non esclude la possibilità di rintracciare in questa legge, in via residuale, le regole per la negoziazione tra le parti. Ma la cooperazione tra le due parti è prevista dagli strumenti pattizi ai quali rinvia un principio costituzionale, con la duplice conseguenza che tali regole hanno una valenza ben maggiore di quelle di cui alla L. 241/90 e che l’autorità ecclesiastica nelle materie che qui interessano non può essere assimilata alla posizione di qualsiasi privato(113). Di qui il mancato richiamo delle suddette regole.

Nello stesso tempo, il modulo dell’accordo, come configurato nella nuova intesa e nella sua pratica attuazione, lascia immutate per lo Stato le sue potestà autoritative(114).

Nella giurisprudenza amministrativa più recente, infatti, la mancanza di un accordo con l’autorità ecclesiastica, prodromico all’adozione del provvedimento, se non sollecitato dall’autorità civile, rappresenta senz’altro un vizio del provvedimento emanato, purché si tratti di bene destinato al culto e risulti concretamente pregiudicata tale destinazione(115).

Ma la giurisprudenza limita poi la portata dell’accordo, precisando che, quando la cooperazione con la parte ecclesiastica è stata richiesta, ma non si è pervenuti all’accordo, il provvedimento successivamente adottato è comunque valido, purché l’autorità civile abbia nelle sue valutazioni rispettato il fine di culto(116).

Il modulo procedimentale dell’accordo con l’autorità ecclesiastica, nelle pronunce giurisprudenziali, trova sempre e soltanto applicazione con riferimento a beni appartenenti ad enti ecclesiastici destinati al culto(117), mentre non risultano orientamenti riferibili ai beni di interesse religioso appartenenti all’autorità ecclesiastica ma non destinati al culto, i quali pure sono contemplati nell’intesa del 2005.

Va, peraltro, sottolineato come l’àmbito operativo degli accordi tra le due parti concerne soltanto i provvedimenti finalizzati alla conservazione, tutela e fruizione del bene di interesse religioso, una volta che lo Stato ne abbia accertato con la propria autonoma determinazione la culturalità. In questa prima fase, infatti, come affermato dalla giurisprudenza nel vigore della L. 1089/1939, non è richiesto alcun accordo(118). Parimenti non necessita di previo accordo l’esercizio di poteri repressivi(119).

La circolazione dei beni culturali di interesse religioso nell’ordinamento civile: autorizzazione e prelazione

Le regole circolatorie dei beni culturali di interesse religioso, proprio in considerazione dell’intento legislativo di non creare un regime speciale, non differiscono, ai fini della valutazione della rilevanza dell’interesse culturale che essi rivestono, da quello dettato per ogni altro bene che riveste lo stesso interesse secondo la valutazione dell’autorità civile. Le disposizioni di cui all’articolo 9 del codice dei beni culturali, come si è appena visto, infatti, interferiscono nel regime circolatorio solo con riferimento alla fase formativa dei relativi provvedimenti amministrativi.

Ci si limita, pertanto, in questa sede, ad un sommaria esposizione della relativa disciplina, che è quella applicabile alle persone giuridiche senza scopo di lucro.

Infatti, una modifica introdotta dal D.lgs. 62/2008 riguarda proprio l’espressa previsione degli enti ecclesiastici riconosciuti ai fini dell’ applicazione della disciplina di cui al codice dei beni culturali. Più precisamente il legislatore, novellando l’articolo 56, commi 1 e 2 del codice, ha espressamente annoverato in tali disposizioni, per superare ogni incertezza, gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti accanto agli enti pubblici e alle persone giuridiche senza scopo di lucro, recependo così l’orientamento interpretativo che si era già formato in precedenza.

Secondo il primo comma dell’art. 10 del codice dei beni culturali, infatti, «sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti»(120). L’idoneità del bene culturale a soddisfare un interesse pubblico comporta, dunque, in via generale e con riferimento anche agli enti ecclesiastici, l’assoggettamento ad uno speciale regime circolatorio(121).

Con le regole detratte dal codice dei beni culturali e del paesaggio si realizza un regime di controllo pubblico degli atti di disposizione(122), che viene esercitato nell’àmbito di una funzione unitaria di tutela e valorizzazione dei beni indipendentemente dalla loro appartenenza.

Tale regime incide sul negozio, traducendosi in un requisito dell’oggetto, che può essere suscettibile di trasferimento solo nel rispetto dello speciale quadro normativo e, quindi, solo dopo che siano esaurite le potestà pubblicistiche sul bene, come è dimostrato anche dalla generale previsione dell’invalidità degli atti che si pongono in contrasto con le norme che regolano la circolazione dei beni culturali.

Nelle ipotesi in cui non è previsto un divieto legale di alienazione, e quindi fuori dai casi di cui all’articolo 54 del codice(123), i beni culturali possono essere alienati previa autorizzazione.

L’articolo 54, comma 1, del codice, come modificato dall’articolo 2, D.lgs. 26 marzo 2008, n. 62, in primo luogo sancisce l’inalienabilità dei beni del demanio culturale di cui all’articolo 10, comma 3, lettera d-bis. Tale lettera richiama a sua volta l’articolo 10, comma 3, lettera d, dello stesso codice, il quale annovera tra i beni di interesse culturale, tra le altre, le cose mobili e immobili a chiunque appartenenti che rivestono un interesse particolarmente importante quali testimonianza dell’identità e della storia delle istituzioni religiose. Si noti che qui si rinviene un’ipotesi nella quale l’interesse religioso rileva anche per beni che non sono di proprietà ecclesiastica(124).

Secondo il disposto dell’art. 54, comma 2 del codice, come modificato dal D.lgs. 156/2006 e successivamente dall’articolo 2 del D.lgs. 26 marzo 2008 n. 62, «sono pure inalienabili: “a) le cose immobili e mobili appartenenti ai soggetti indicati all’art. 10, comma 1(125), che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settant’anni, se immobili, fino alla conclusione del procedimento di verifica previsto dall’art. 12. Se il procedimento si conclude con esito negativo, le cose medesime sono liberamente alienabili, ai fini del presente codice, ai sensi dell’art. 12, commi 4, 5 e 6(126); b) le cose mobili che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni, se incluse in raccolte appartenenti ai soggetti di cui all’art. 53; c) i singoli documenti appartenenti ai soggetti di cui all’art. 53, nonché gli archivi e i singoli documenti di enti ed istituti pubblici diversi da quelli indicati al medesimo art. 53; d) le cose immobili appartenenti ai soggetti di cui all’art. 53 dichiarate di interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, comma 3, lettera d».

E si noti che nell’ipotesi della disposizione di cui alla lettera d, del comma 2 dell’articolo 54, il rinvio ai soggetti di cui all’articolo 10, comma 3, lettera d, del codice, coinvolge non solo gli enti ecclesiastici, ma qualsiasi altro soggetto proprietario del bene, in presenza di un interesse religioso quale quello attinente all’identità ed alla storia delle istituzioni religiose(127).

Per i beni demaniali l’autorizzazione, che comporta anche sdemanializzazione, è subordinata dall’articolo 55 del codice alle condizioni che l’alienazione possa assicurare la tutela, la fruizione pubblica e la valorizzazione dei beni, e che nel provvedimento di autorizzazione siano indicate le destinazioni d’uso compatibili con il carattere storico ed artistico degli immobili, tali da non recare danno alla loro conservazione (cfr. articolo 55 del codice, il quale prevede tale provvedimento ai fini dell’alienazione dei beni del demanio culturale diversi da quelli indicati nell’articolo 54, comma 1, del codice).

L’articolo 56, comma 1, lettera a, inoltre, subordina ad autorizzazione l’alienazione dei beni culturali che non rientrano tra quelli demaniali ai sensi dell’articolo 822, codice civile, e sono, quindi, diversi da quelli di cui all’articolo 54, commi 1 e 2, e 55, comma 1. Anche tra questi beni possono rinvenirsi ipotesi di bene di interesse religioso ai sensi del citato articolo 10, comma 3, lettera d.

Per quest’ultima categoria di beni l’autorizzazione può essere rilasciata a condizione che essi non abbiano interesse per le raccolte pubbliche e che dall’alienazione non derivi danno alla loro conservazione e non sia menomata la pubblica fruizione.

Per i beni appartenenti a enti privati senza scopo di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, l’alienazione è subordinata parimenti al rilascio di un’autorizzazione. Il legislatore, in particolare, condiziona la possibilità di concedere l’autorizzazione all’interesse che tali beni rivestono per la collettività. L’autorizzazione potrà essere pertanto rilasciata qualora dall’alienazione non derivi danno alla conservazione o al pubblico godimento dei beni medesimi(128).

Alla stessa condizione può essere autorizzata l’alienazione, anche parziale, di collezioni o serie di oggetti e di raccolte librarie da parte dello Stato e degli enti pubblici territoriali di cui al citato comma 1 dell’articolo 56 nonché di archivi o singoli documenti appartenenti a persone giuridiche private senza scopo di lucro, ivi compresi anche qui espressamente gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.

La formulazione letterale delle disposizioni di cui all’articolo 10, comma 1, ed all’articolo 56, comma 1, lettera b, e comma 2, lettera b, che annoverano espressamente sia le persone giuridiche senza fine di lucro che gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, ci consente di sciogliere l’interrogativo in ordine all’assoggettamento ad autorizzazione delle alienazioni di beni culturali di interesse religioso appartenenti a soggetti collettivi non personificati nell’ordinamento civile.

È evidente la loro non riconducibilità agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti in via di interpretazione estensiva.

Ma sembra corretto ritenere che la disciplina dei beni culturali ad essi appartenenti debba essere assimilata a quella dettata per le persone giuridiche senza scopo di lucro. La mancanza di un’espressa previsione in tal senso nel codice certamente risente dei limiti contenuti nella delega legislativa utilizzata già per il T.U. del 1999, la quale limitava le modifiche, che potevano essere apportate alle disposizioni inserite nel testo unico, alle modificazioni necessarie per il loro coordinamento formale e sostanziale. E ciò ha impedito di riformulare la previsione normativa, poi inserita tale e quale nel codice, in modo da ricomprendervi espressamente anche tali ultimi soggetti. Ma, se si considera che l’espressione “enti o istituti legalmente riconosciuti” fu formulata in un’epoca nella quale i soggetti collettivi non personificati rappresentavano un fenomeno marginale dell’esperienza giuridica e, per di più, non erano considerati affatto capaci di acquistare beni immobili, appare indubbia la fondatezza di un’interpretazione evolutiva che miri ad estendere la disciplina dettata per le persone giuridiche no profit agli enti collettivi non personificati che presentano lo stesso scopo. Tale scelta, che si basa sull’espresso riferimento allo scopo degli enti civilmente riconosciuti al fine di individuare la disciplina applicabile a quelli non riconducibili all’area del no profit appare, sulla base della corrente interpretazione delle norme trasfuse nel nuovo testo legislativo, non esorbitante dai princìpi generali che connotano il codice e dalle regole costituzionali.

Il procedimento di autorizzazione all’alienazione è disciplinato in via generale dai già citati artt. 55 e 56 del codice.

L’autorizzazione ad alienare può essere concessa anche in caso di permuta con beni appartenenti a qualsiasi soggetto(129). In tal caso, costituisce presupposto del provvedimento autorizzatorio che dal negozio derivi un incremento del patrimonio culturale nazionale ovvero l’arricchimento delle pubbliche raccolte (articolo 58 del codice).

Il comma 4-quinquies dell’art. 56 completa il quadro delineato, sottoponendo ad autorizzazione gli atti con i quali si concede un’ipoteca o si costituisce un pegno e precisando, con una disposizione dalla formulazione alquanto atecnica, che la disciplina in discorso è applicabile a tutti gli atti che possano comportare alienazione. La norma, che appare ridondante, in quanto ribadisce semplicemente, sotto il profilo effettuale, l’area applicativa dell’autorizzazione, quale delineata già dall’art. 55, formulata con riferimento in genere all’ “alienazione”, si spiega con l’atecnicità della disposizione (art. 28, L. 1089/1939) trasfusa prima nel vecchio testo unico e poi nel codice. Con essa, infatti, si voleva chiarire l’esatta portata del termine “alienazione”, estendendo, contro ogni possibile dubbio che potesse sorgere all’interprete, il regime autorizzatorio a qualsiasi fattispecie traslativa.

L’articolo 57 del codice opportunamente precisa che non sono soggetti ad autorizzazione gli atti che comportano alienazione a favore dello Stato, ivi comprese le dazioni in pagamento di obbligazioni tributarie, e ciò in virtù della maggiore garanzia che offre la titolarità dello Stato per la conservazione e pubblica fruizione del bene stesso.

Il codice prevede che il compimento di un negozio traslativo non autorizzato è nullo (art. 164).

Allo Stato spetta, inoltre, il diritto di prelazione in via generale e, quindi, anche con riferimento ai beni il cui trasferimento sia soggetto ad autorizzazione. Tale ultimo provvedimento non esclude, in altre parole, che lo Stato eserciti poi la prelazione ed acquisti esso stesso il bene.

Il procedimento per l’esercizio della prelazione ha inizio con la denuncia, la quale è prevista successivamente all’atto di alienazione del bene culturale di interesse religioso o, limitatamente ai beni mobili, anche in caso di trasferimento della loro detenzione. La denuncia è, peraltro, prevista pure in caso di alienazione a titolo gratuito.

La denuncia soddisfa, in primo luogo, l’esigenza di informare l’amministrazione dello Stato della disponibilità giuridica della cosa, al fine di garantire la conservazione e tutela del bene culturale nei confronti di chiunque a qualunque titolo disponga materialmente di esso. In secondo luogo, è finalizzata a permettere l’esercizio della prelazione in favore dello Stato.

L’art. 59 del codice dei beni culturali indica in modo specifico il contenuto che tale atto deve avere; dispone infatti che la denuncia va presentata al soprintendente del luogo ove si trovano i beni culturali e deve contenere (comma 4 dell’art. 59 D.lgs. 42/04): a) i dati identificativi delle parti e la sottoscrizione delle medesime o dei loro rappresentanti legali; b) i dati identificativi del bene; c) l’indicazione del luogo ove si trovano i beni; d) l’indicazione della natura e delle condizioni dell’atto di trasferimento; e) l’indicazione del domicilio in Italia delle parti ai fini delle eventuali comunicazioni prescritte.

In caso di denuncia irregolare, ossia in mancanza di uno di tali elementi, trova applicazione il comma 2 dell’art. 61 del codice dei beni culturali, il quale prevede che: «nel caso in cui la denuncia sia stata omessa o presentata tardivamente oppure risulti incompleta, la prelazione è esercitata nel termine di centottanta giorni dal momento in cui il Ministero ha ricevuto la denuncia tardiva o ha comunque acquisito tutti gli elementi costitutivi della stessa ai sensi dell’articolo 59, comma 4».

All’obbligo della denuncia, nei casi di trasferimento a titolo oneroso, è strettamente collegato l’esercizio della prelazione. Infatti, nel caso in cui il proprietario del bene culturale ne abbia disposto con un atto a titolo oneroso, lo Stato ha la facoltà di acquistare la cosa al prezzo stabilito nell’atto di acquisto.

Sulle finalità da perseguire con l’esercizio del diritto di prelazione non vi è concordia di opinioni. E poiché la legge, a differenza di quanto disposto in materia di autorizzazione, non le indica espressamente, sorge una questione di non poco momento, se si considera che l’atto con il quale la prelazione viene esercitata deve essere motivato e che esso è soggetto al sindacato del giudice amministrativo in particolare anche sotto il profilo dell’eventuale sviamento di potere.

In dottrina si oscilla a riguardo tra la tesi restrittiva secondo la quale la prelazione è finalizzata alla conservazione del bene (e va pertanto esercitata solo qualora l’acquirente non dia affidamento in tal senso - ma può osservarsi al contrario che, a questi fini, l’amministrazione dispone di altri incisivi poteri -) e la tesi, che sembra preferibile, secondo la quale l’acquisto del bene è preordinato al perseguimento di più ampie finalità politico-culturali che devono, dunque, essere individuate sulla base dei princìpi costituzionali(130). In tale ultima ipotesi, peraltro, non è da trascurare la rilevanza dell’interesse religioso ai fini della ponderazione degli interessi sottesi all’atto amministrativo.

Gli articoli 60 e 61 del codice regolano l’acquisto in prelazione e le sue condizioni. L’art. 60 del codice dei beni culturali prevede ai fini dell’esercizio della prelazione artistica i seguenti presupposti: riguardo all’oggetto dell’atto deve trattarsi di un atto di alienazione a titolo oneroso di un bene culturale o di un conferimento di beni in società; riguardo al prezzo, il Ministero o, nel caso previsto dall’art. 62, comma 3, la Regione o l’altro ente pubblico territoriale interessato, potranno acquistare il bene culturale nel caso di atto di trasferimento del bene culturale a titolo oneroso al medesimo prezzo stabilito nell’atto di alienazione e; in caso di beni conferiti in società, al medesimo valore attribuito nell’atto di conferimento. La prelazione è esercitata entro due mesi dalla ricezione della denuncia del relativo atto di alienazione, presentata ai sensi dell’art. 59 del codice. Nel caso in cui la denuncia non sia stata presentata o sia stata presentata tardivamente o risulti, seppur presentata nei termini, incompleta, lo Stato ha centottanta giorni per poter esercitare la prelazione(131). Tale termine decorre dal momento in cui il Ministero ha ricevuto la denuncia (nel caso in cui questa sia stata presentata tardivamente) o ha acquisito tutti gli elementi costitutivi della stessa(132). In pendenza del termine, prescritto dall’art. 61 comma 1, l’atto di alienazione rimane «condizionato sospensivamente all’esercizio della prelazione e all’alienante è vietato effettuare la consegna della cosa». Da ciò deriva quindi che l’atto di alienazione è inefficace.

Con riguardo alla fattispecie dell’alienazione anticipata, la giurisprudenza, dopo una prima fase nella quale aveva affermato sic et simpliciter la nullità del negozio concluso prima della scadenza del termine per l’esercizio del diritto di prelazione(133), ha successivamente mutato indirizzo, affermandone la inefficacia, in quanto sottoposto, indipendentemente dalla volontà delle parti, alla condizione sospensiva legale del mancato esercizio della prelazione(134). La dottrina, dal canto suo, si è orientata prevalentemente nel senso dell’inefficacia(135).

A nostro avviso, per una corretta impostazione del problema della sorte del negozio compiuto anticipatamente, occorre in primo luogo formulare delle opportune distinzioni, in relazione alla concreta fattispecie voluta dalle parti.

Se, infatti, il negozio è stato formulato in termini idonei a produrre una immediata vicenda traslativa del diritto in capo all’acquirente, in violazione delle norme sulla prelazione, l’atto non può che essere affetto fin dalla sua formazione da invalidità, secondo il disposto dell’art. 164 del codice.

Ad una diversa conclusione si deve pervenire, invece, nel caso in cui il programma negoziale preveda che il trasferimento avrà luogo solo a seguito del mancato esercizio della prelazione, in virtù dell’espressa previsione di cui all’art. 61, del codice(136).

È bensì vero che la espressa previsione di cui all’art. 61, codice, risolve ogni dubbio circa la possibilità che la conclusione del contratto possa essere anticipata rispetto allo scadere del termine per l’esercizio della prelazione - e ciò consente, in relazione al disposto dell’art. 28 della legge ordinamentale del Notariato(137), di escludere ogni dubbio sulla ricevibilità dell’atto, qualora fosse richiesto il ministero notarile -, ma non ci sembra condivisibile la ricostruzione che ravvisa nel mancato esercizio della prelazione soltanto il ruolo di un coelemento necessario ai fini del prodursi degli effetti della fattispecie negoziale.

Questa tesi appare, infatti, contrastante con il principio secondo il quale le potestà attribuite alla P.A. in materia di beni culturali comportano un regime speciale dei beni stessi. Tale regime, infatti, si traduce in un modo di essere dell’oggetto del negozio, che è a circolazione controllata, e non può che sfociare, in ogni caso, in conformità alla previsione testuale di cui all’art. 164 del codice, nell’invalidità del negozio concluso in violazione della legge.

Infatti, tale disposizione del codice sancisce la nullità per le alienazioni compiute in violazione dei divieti imposti dalle disposizioni del titolo I parte seconda, o di quegli atti posti in essere senza l’osservanza delle condizioni e modalità prescritte dal codice, riproducendo il testo del vecchio articolo 135 del testo unico.

La nullità che colpisce tali negozi in quanto contrari alla legge vuole evitare che l’atto giuridico possa arrecare pregiudizio all’interesse pubblico alla conservazione e destinazione del bene.

La temporanea inefficacia del negozio dispositivo del bene culturale in caso di alienazione anticipata e, a maggior ragione, la definitiva inefficacia del negozio in caso di acquisto del bene da parte della pubblica amministrazione, non consentono di esaurire nell’àmbito del fenomeno del negozio condizionale la ricostruzione della fattispecie in esame, in quanto l’esercizio o meno del diritto di prelazione nell’ipotesi in discorso non si pone certamente come una circostanza accidentale ed estrinseca rispetto al suo contenuto, ma ne rappresenta una vicenda essenziale, in quanto integra un requisito del suo oggetto, che diviene suscettibile di trasferimento solo dopo che si è esaurita rispetto ad esso la potestà attribuita all’amministrazione a fini pubblici, come è dimostrato appunto dalla sanzione di nullità di cui all’art. 164(138).

La tesi che descrive il fenomeno in esame in termini di sospensione degli effetti fino all’avveramento di una condicio juris, a prescindere dall’eterogeneità di questa categoria ricostruttiva(139), non può, dunque, che lasciare perplessi.

Si noti che il legislatore ha in un primo momento riformulato l’art. 32, L. 1089/1939, trasfuso nell’art. 60, T.U., sostituendo l’espressione «il contratto rimane condizionato sospensivamente» con la previsione che «l’atto di alienazione è inefficace e che successivamente i compilatori del codice hanno adoperato di nuovo, nella stesura dell’art. 61 del codice, comma 4, l’espressione «l’atto di alienazione rimane condizionato sospensivamente».

Permane quindi, anche nel vigore del codice, l’esigenza di coordinare questa disposizione, sia pur nella sua aggiornata formulazione, con l’art. 164 del codice, il quale sancisce, invece, in via generale, la nullità del negozio concluso in violazione dello speciale regime circolatorio dei beni culturali.

Il problema si ripropone negli stessi termini in cui se ne discuteva nel vigore della precedente legislazione. A nostro modesto avviso, ci si trova in caso di alienazione dello speciale regime dei beni culturali a seguito di un’ipotesi di invalidità sopravvenuta del negozio traslativo(140).

Secondo autorevole dottrina(141), infatti, l’invalidità non è sempre istantanea e non sempre, dunque, il suo verificarsi coincide con il compimento del negozio, che, invece, è in ogni caso istantaneo, poiché, al di fuori di una visione empirica, la fattispecie non può dirsi esaurita nell’àmbito giuridico fintanto che il suo fine non è stato raggiunto.

E ciò è quanto si verifica proprio in caso di alienazione anticipata del bene culturale. Infatti, la previsione legislativa di una sospensione degli effetti propri dell’atto, di per sé finalizzata ad esigenze di conservazione del bene in attesa che gli organi pubblici assumano i provvedimenti di loro competenza, comporta, nelle more, il mancato esaurimento della fattispecie, mentre il ciclo irregolare di formazione del negozio traslativo determina una situazione di validità pendente, del tutto coerente con la speciale disciplina degli atti di disposizione dei beni culturali, che si traduce in uno speciale requisito dell’oggetto dell’atto di autonomia privata.

La stessa espressa previsione dell’inefficacia del negozio, come si vede, non si pone in contrasto con la ricostruzione proposta, ma la rafforza, in quanto proprio tale inefficacia, legislativamente prevista, costituisce il sintomo, nelle more della prelazione, del mancato esaurimento della fattispecie.

La diversa ricostruzione, che ravvisa nel mancato esercizio della prelazione un coelemento necessario soltanto al fine di consentire il dispiegarsi degli effetti del negozio e, simmetricamente, qualifica l’acquisto da parte della P.A. un evento risolutivo o, comunque, un fatto idoneo ad impedire definitivamente il prodursi di questi stessi effetti(142), sembra invece mal conciliabile con la speciale disciplina circolatoria dei beni in discorso.

Ed infatti, non è un caso se, per coerenza con la ricostruzione del fenomeno in discorso in termini di negozio legalmente condizionato, si è giunti talvolta, da parte dei suoi sostenitori, ad affermare, a differenza di quanto prima qui sostenuto, che anche il negozio concluso in aperta e immediata violazione delle norme che disciplinano la prelazione e, quindi, direttamente contrario al paradigma di cui all’art. 164 sarebbe inefficace e non invalido(143). Ma, in tal modo, si disattende completamente la lettera della disposizione da ultimo citata.

Vi è altresì da considerare che la ricostruzione delle vicende del rapporto scaturente dal negozio anticipato, in caso di esercizio della prelazione, in termini di avveramento di una condizione risolutiva lascia quanto mai insoddisfatti, se si considera che, con l’acquisto da parte della P.A., il bene, se riconducibile alle ipotesi di cui agli articoli 53 e seguenti, entra anche a far parte del demanio pubblico.

Il conseguente regime giuridico del bene, che diviene incommerciabile, appare, infatti, logicamente inconciliabile con la asserita validità dell’atto traslativo, dal quale è dipeso l’esercizio della prelazione in ordine a quel bene, sebbene si ritenga che tale atto diverrebbe definitivamente inefficace.

Né può addursi, in contrario, il rilievo che, se il negozio fosse affetto da nullità, questa potrebbe essere fatta valere solo dallo Stato, nel cui interesse è posta(144), con la conseguenza di pervenire ad un risultato opinabile sul piano della sistematica generale(145). A nostro avviso, infatti, è la premessa di questo ragionamento - e cioè che la nullità possa essere fatta valere solo dallo Stato - che non può condividersi. In primo luogo, essa non trova fondamento nel tenore letterale delle disposizioni in esame, le quali comminano la nullità senza porre limitazioni alle conseguenze che, di norma, tale sanzione produce, tra le quali vanno annoverate la rilevabilità d’ufficio e ad istanza di chiunque via abbia interesse. In secondo luogo, merita certamente di essere revisionata l’impostazione di fondo, probabilmente sottesa all’indirizzo accolto sul punto dalla giurisprudenza, secondo la quale si tratta di far valere un interesse particolare dello Stato-persona con la conseguenza che solo quest’ultimo potrà agire ex art. 164. Questa impostazione, forse condivisibile nel quadro normativo al quale risale la legge 1089/1939, non sembra affatto coerente con i valori e le finalità, già richiamati, che i princìpi costituzionali hanno affermato con riferimento ai beni culturali nell’interesse di tutta la comunità nazionale. Fin qui è stata delineata, oltre l’ipotesi patologica di un negozio compiuto in totale dispregio della prelazione, la fattispecie, espressamente prevista dalla legge, dell’alienazione anticipata.

Orbene, sciogliendo la riserva prima formulata, riteniamo che, sebbene la prassi corrente in materia sia quella del negozio a consenso anticipato, non si possa escludere in via di principio che le parti, prima ancora di concludere il negozio, eseguano la comunicazione prevista dalla legge, con le modalità ed il contenuto richiesti dal codice (art. 59) ed attendano per compiere l’atto che decorra inutilmente il termine per l’esercizio della prelazione. Questa prassi, che era, nel vigore delle precedenti disposizioni, l’unica consentita in materia di beni archivistici, ben può trovare accoglimento in via generale, sebbene non sia espressamente disciplinata nel codice dei beni culturali.

Infatti, se da un lato la stipula di un negozio a consenso anticipato sembra porsi come una facoltà concessa per alleviare il sacrificio imposto all’autonomia negoziale del soggetto titolare del bene soggetto a prelazione, non può negarsi, dall’altro, in capo a quest’ultimo, un interesse, meritevole di tutela, a conoscere, ancor prima di concludere il negozio, la determinazione che sarà assunta dalla pubblica amministrazione in merito all’acquisto del bene, in modo da evitare, quantomeno, inutili spese.

A sostegno di questa affermazione militano, del resto, le disposizioni contenute nella norma di cui all’art. 59 del codice, le quali richiedono la comunicazione di una serie di dati inerenti il negozio traslativo e non fanno carico alla parte, invece, di inviare anche la copia del documento con il quale l’atto è stato formalizzato. Ciò sicuramente conferma che la comunicazione può aver luogo anche prima della stipula(146).

Le considerazioni finora svolte conducono a rilevanti conseguenze sul piano pratico(147). La qualificazione in termini di invalidità e non di mera inefficacia del negozio concluso disattendendo le norme sulla prelazione è, infatti, influente, ad esempio, sulla disciplina dell’errore nel quale sia incorso l’acquirente ignorando il vincolo imposto sul bene. Se si aderisce alla tesi dell’inefficacia, si deve coerentemente ritenere che il contraente in errore dovrebbe agire per l’annullamento del contratto, qualora voglia sciogliersi dal vincolo negoziale. Se si accoglie l’altra ricostruzione, invece, la disciplina applicabile sarà in ogni caso quella della nullità, salvo il risarcimento danni, ai sensi dell’art. 1337, c.c., in favore della parte che ne ignorava la causa(148).

Parimenti, la qualificazione in termini di invalidità produce la conseguenza che il negozio concluso in violazione delle norme sulla prelazione non è titolo idoneo agli effetti degli artt. 1153 e 1159, c.c.(149)

Il ruolo delle regioni e degli altri enti territoriali nella prelazione artistica

Il codice dei beni culturali specifica il ruolo delle regioni e degli altri enti nell’esercizio della prelazione artistica. L’art. 62, comma 2, prevede che la regione e gli altri enti pubblici territoriali, entro venti giorni dalla denuncia, formulano al Ministero la proposta di prelazione. A tale atto si accompagna la deliberazione dell’organo competente che dispone la necessaria copertura finanziaria. Il Ministero, ai sensi del comma terzo dell’art. 62 cit., potrà rinunciare all’esercizio della prelazione, trasferendone la facoltà all’ente interessato entro venti giorni dalla ricezione della denuncia. L’ente assume il relativo impegno di spesa, adotta il provvedimento di prelazione e lo notifica all’alienante ed all’acquirente entro e non oltre sessanta giorni dalla denuncia medesima. La proprietà del bene passa all’ente che ha esercitato la prelazione dalla data dell’ultima notifica.

Occorre domandarsi se la trasmissione della comunicazione ad un organo diverso - ad esempio, l’Amministrazione centrale o un ufficio periferico non competente per territorio - sia idonea a far decorrere il termine per l’esercizio del diritto. Nel vigore delle norme precedenti al codice dei beni culturali del 2004 era stata accolta la tesi affermativa. Tale conclusione, a nostro avviso, resta tuttora valida, ma con le precisazioni che l’ufficio ricevente, secondo i princìpi generali, è obbligato a trasmettere la comunicazione all’organo competente e che solo dal momento in cui questi l’avrà ricevuta avrà inizio la decorrenza del termine per l’esercizio della prelazione.

La tipologia dei diritti rispetto ai quali può esercitarsi la prelazione

Occorre analizzare le tipologie dei diritti e dei negozi che possono dar causa all’esercizio della prelazione(150).

Quanto alla prima questione, il problema si pone anzitutto nel caso di alienazione di diritti reali diversi dalla piena proprietà, ciò che potrebbe avvenire ad iniziativa dello stesso pieno proprietario, determinando una vicenda derivativo-costitutiva, ovvero da parte dei titolari dei suddetti diritti, una volta che essi siano stati costituiti, sempre che l’alienazione non sia altrimenti vietata dalla legge o dal titolo.

Per giungere ad una soluzione del problema occorre, come sempre, muovere dall’analisi del nuovo testo legislativo, nel quale sono state trasfuse le norme di cui alla L. 1089/1939 che, tra l’altro, contenevano una disciplina più accurata rispetto a quelle della L. 1409/1963. Tale disciplina è stata così estesa a tutte le categorie di beni culturali e, segnatamente, a quelli archivistici, per i quali precedentemente si poneva il problema di colmare le lacune normative con il ricorso all’analogia, attingendo alle disposizioni dettate per i beni storici e artistici dalla citata legge 1089/1939.

Nelle norme richiamate il fenomeno in esame viene definito più volte, in via generale, con il ricorso al verbo “alienare” o al sostantivo “alienazione”. Questi termini nel linguaggio legislativo vengono adoperati per indicare, in linea di massima, il trasferimento del diritto sia come fattispecie che come effetto(151). Ma, sia nel codice civile che nella legislazione speciale, tali espressioni non sono adottate con un significato idoneo ad esprimere sempre esattamente lo stesso concetto(152). E, quando vengono adoperate a fini sistematici e classificativi, l’area concettuale riconducibile alle espressioni in discorso si dilata ancora, con la conseguenza di dover escludere che ad esse si possa attribuire il valore di sintesi di una normativa o del frammento di una proporzione normativa(153).

Si comprendono allora le ragioni per le quali l’interpretazione delle disposizioni oggetto del presente studio appare non agevole. L’individuazione del particolare significato con il quale il termine “alienare” viene qui adoperato può aver luogo solo sulla base del contenuto complessivo delle disposizioni contenute nel testo legislativo in esame ed avendo riguardo alla natura ed alla rilevanza degli interessi tutelati ed agli strumenti apprestati a tal fine(154).

Orbene, sembra corretto affermare nella materia di cui si tratta che, essendo la prelazione in discorso finalizzata ad «acquistare la cosa» (art. 60 del codice) rectius la piena proprietà del bene, l’alienante, che è il soggetto nei confronti del quale detta potestà si esercita, non potrebbe che essere il pieno proprietario.

Questa conclusione è, del resto, confermata dall’art. 59, comma 1 del codice.

Tale disposizione pone l’obbligo di denuncia con riferimento agli atti che trasferiscono «la proprietà o la detenzione» e distingue, nell’àmbito dei destinatari dell’obbligo di comunicare i trasferimenti - obbligo finalizzato in via generale alla tutela del bene culturale, in modo da consentire all’amministrazione di poter seguire ogni vicenda del bene, anche diversa dal trasferimento oneroso del diritto - il proprietario, il detentore, gli acquirenti nell’ambito di procedure esecutive o concorsuali o in forza di sentenza costitutiva, nonché gli eredi e i legatari.

La ratio della distinzione operata dalla norma risiede evidentemente nell’esigenza di differenziare la posizione di quei soggetti, a carico dei quali viene posto un mero obbligo di comunicazione a tutela della richiamata esigenza dell’amministrazione a conoscere qualsiasi vicenda inerente il bene vincolato, dalla posizione del proprietario, il quale con la comunicazione di un’alienazione a titolo oneroso dà impulso ad un procedimento che può concludersi con l’ablazione del suo diritto. L’obbligo di comunicazione posto a carico di quest’ultimo, infatti, è anche strumentale all’esercizio della prelazione.

La formulazione letterale delle norme esaminate sembra, dunque, indurre a ritenere che, affinché la P.A. possa esercitare la potestà di acquisto, è necessario che l’alienante sia pieno proprietario(155). Irrilevante, invece, appare la circostanza che il titolare della piena proprietà alieni proprio questo diritto ovvero costituisca un diritto reale parziario. Tale conclusione può essere in una certa misura avvalorata dal primo comma dell’art. 59 dove è stata trasfusa senza modificazioni, per il punto che qui interessa, la disposizione di cui all’art. 30, L. 1089/1939 a termini del quale l’obbligo di comunicazione ricorre in caso di alienazione «in tutto o in parte». Ma la richiamata testuale previsione non appare, però, di per sé decisiva, se si considera che l’obbligo di comunicazione, di cui al citato art. 59, è fissato, come si è visto, per una pluralità di situazioni tra loro eterogenee e non sempre sfocianti nell’attribuzione allo Stato della prelazione.

Per pervenire ad una soluzione appagante occorre perciò attingere ai princìpi dell’ordinamento. La disciplina della prelazione nella materia che ci occupa è, infatti, finalizzata a bilanciare il preminente interesse pubblico, costituzionalmente sancito, alla tutela ed al pubblico godimento dei beni culturali con la posizione del soggetto, diverso dallo Stato, al quale tali beni possono appartenere.

Ciò autorizza l’interprete, in aderenza ai princìpi costituzionali, a ritenere che la posizione del titolare del bene si affievolisca non solo nell’ipotesi, espressamente prevista, dell’alienazione della proprietà, ma ogni qual volta questi acconsenta a spogliarsi anche soltanto di talune delle facoltà inerenti al bene. Anche in tali ipotesi, dunque, la pubblica amministrazione potrà esercitare la prelazione, acquistando - si noti - non il diritto reale parziario trasferito, ma la proprietà, al prezzo da determinarsi con le particolari modalità di cui si dirà in seguito(156).

Esulano invece, come s’è già detto, dall’area applicativa dell’istituto in esame le fattispecie traslative di diritti diversi dalla proprietà da parte dei titolari degli stessi - ad esempio il trasferimento dell’usufrutto da parte dello stesso usufruttuario(157 )-, le quali non solo non sembrano riconducibili all’espressione «acquistare la cosa», di cui al citato art. 60, ma non si concilierebbero neppure con il regime demaniale al quale il bene acquistato viene per lo più sottoposto, né sarebbero di per sé idonee a soddisfare pienamente le esigenze di tutela e pubblico godimento sottese alla disciplina in esame.

Uno specifico problema applicativo si era posto, inoltre, nel vigore delle norme ormai abrogate, in caso di affrancazione del fondo enfiteutico. L’attenzione degli interpreti si è polarizzata a tal riguardo sulla collocazione sistematica dell’atto di affrancazione, sulla sua onerosità e sui suoi effetti, pervenendo alla conclusione che, se pure tale negozio fosse ritenuto riconducibile al concetto di “alienazione a titolo oneroso”, sul quale nel prosieguo si avrà occasione di soffermarsi meglio, la prelazione non potrebbe comunque essere esercitata, in quanto la pubblica amministrazione acquisterebbe soltanto il diritto del concedente - che è la situazione giuridica che forma oggetto dell’atto di affrancazione - e ciò sarebbe in contrasto con il regime dei beni culturali, che presuppone, invece, l’acquisto in favore dello Stato di una titolarità piena.

La soluzione accolta ci sembra condivisibile, ma sulla base del diverso ed assorbente rilievo, precedentemente formulato, secondo il quale l’esercizio della prelazione postula che la situazione giuridica esistente in capo all’alienante sia la piena proprietà. Nel negozio di affrancazione, invece, a prescindere dalla possibilità che esso si formi unilateralmente ad iniziativa dell’enfiteuta(158 )ed anche a voler tacere sulle note incertezze dottrinali in merito alla natura della posizione giuridica del concedente(159), non vi è dubbio che la situazione giuridica di cui si dispone non appare commensurabile alla piena proprietà.

Parimenti, per considerazioni analoghe, è da escludere l’esercizio della prelazione per il contratto di anticresi, che non spoglia il debitore del suo diritto sui beni che ne formano oggetto, pur costituendo, secondo taluni, un diritto reale sugli stessi(160).

Un ulteriore problema, sorto nella prassi, era quello inerente alla possibilità di esercitare la prelazione nell’ipotesi che il proprietario alieni soltanto una quota astratta del diritto reale, conservando la titolarità della restante quota.

Nel vigore della normativa precedente al testo unico e al codice la soluzione affermativa era stata accolta(161), sulla base dei rilievi che il vincolo imposto sul bene sarebbe indivisibile, che l’alienazione di una quota ideale contrasterebbe con tale principio e che a favore della tesi affermativa deporrebbe anche la disposizione, di cui al terzo comma, art. 32, L. 1089/1939, ora trasfuso nell’articolo 60, secondo la quale le clausole del contratto di alienazione non vincolano la P.A.

A nostro avviso, la soluzione accolta in giurisprudenza è da condividersi, ma sulla base di una diversa motivazione. L’asserita indivisibilità, che dovrebbe discendere dal vincolo imposto sul bene, non è in realtà prevista dalla legge ed è contraddetta, ad esempio, da una vicenda successoria mortis causa, per effetto della quale, inevitabilmente, un bene culturale può cadere in comunione tra una pluralità di soggetti. Né può invocarsi la disposizione da ultimo citata, poiché l’espressione “clausole” più che riferirsi all’oggetto del contratto sembra alludere alle modalità con le quali le parti hanno inteso concluderlo. La ragione del prevalere della potestà pubblica sull’autonomia privata deve, invece, essere ricercata nella circostanza che, se il proprietario acconsente a spogliarsi del diritto, sia pure per una quota ideale, ciò significa, ancora una volta, che la sua situazione di titolarità non appare più meritevole di prevalere di fronte al superiore interesse della pubblica amministrazione all’acquisto della proprietà dello stesso.

L’esercizio della prelazione in relazione all’intero bene può, dunque, essere ravvisato anche in caso di alienazione pro quota, senza che occorra a tal fine far ricorso a soluzioni ricostruttive, quali l’affermazione della indivisibilità del vincolo, che non hanno diretto riscontro nelle norme, ed a condizione, in coerenza con quanto già affermato, che l’alienante sia titolare della piena proprietà. La P.A., quindi, eserciterà come sempre la prelazione con riferimento a quest’ultima situazione giuridica.

La tipologia dei negozi di alienazione soggetti a prelazione

Relativamente ai tipi negoziali rispetto ai quali la prelazione può esercitarsi(162), un primo dato, che emerge dal codice, al fine di delimitare l’area applicativa della prelazione, è il riferimento all’onerosità del negozio.

L’area applicativa della prelazione è sommariamente definita dall’art. 60, secondo il quale la prelazione spetta, oltre che nell’ipotesi di alienazione dietro corrispettivo in danaro, quando non sia previsto un corrispettivo in denaro ovvero quando il bene sia a qualunque titolo dato in pagamento. Infine è prevista la possibilità della prelazione anche in caso di permuta.

Non sembra dubitabile, alla luce delle disposizioni citate, infatti, che nell’area applicativa della prelazione debbano ritenersi inclusi non solo la compravendita ed ogni altro contratto la cui funzione economico-sociale è riconducibile allo schema dell’alienazione di un diritto dietro corrispettivo(163 )- ossia la vendita, la permuta, la costituzione di rendita mediante cessione di un bene diverso dal danaro -, ma anche quei negozi nei quali, pur non essendovi corrispettività, l’attribuzione patrimoniale avviene comunque a titolo oneroso(164).

E la tesi riceve sostegno dall’art. 59, comma 4, lettera d, del codice, nel quale non si fa riferimento al prezzo ma più genericamente alle condizioni dell’alienazione.

Ciò consente all’interprete anche di ritenere comunque ricompresi nella previsione normativa talune fattispecie - si pensi ad un contratto di mandato nel quale sia pattuito, a titolo di retribuzione per il mandatario, il trasferimento in suo favore di un bene culturale - sicuramente riconducibili alla categoria degli atti onerosi, ma sulle quali vi è incertezza in dottrina e giurisprudenza circa la loro qualificazione come contratti a prestazioni corrispettive(165).

È pertanto da ritenere soggetta alla prelazione, ad esempio, anche la dazione in pagamento.

Per quanto attiene al conferimento in società(166 )il legislatore espressamente riconosce la possibilità di esercitare la prelazione anche in tale ipotesi. L’art. 60, comma 1, del codice dei beni culturali, nel testo modificato dall’articolo 2, comma 1, lettera aa, del D.lgs. 24 marzo 2006, n. 156, e dall’articolo 2, comma 1, lettera mm, del D.lgs. 26 marzo 2008, n. 62, riconosce la facoltà di acquisto in via di prelazione dei beni culturali «… conferiti in società … al medesimo valore attribuito nell’atto di conferimento». In tale ipotesi l’acquisto in prelazione avverrà al medesimo valore attribuito nell’atto di conferimento.

Non sembra soggetta alla prelazione, invece, la cessione dei beni ai creditori - eventualmente la prelazione potrà essere esercitata con riferimento al negozio traslativo compiuto da questi ultimi - nella quale la prevalente dottrina ravvisa soltanto un mandato irrevocabile(167).

Quanto alla transazione, deve forse distinguersi, a nostro avviso, tra l’ipotesi in cui il rapporto controverso cade proprio sulla titolarità del diritto sul bene soggetto alla prelazione - ipotesi che non sembra riconducibile alla ratio delle disposizioni in esame - e quella nella quale il bene viene trasferito a tacitazione di una pretesa diversa, che, invece, appare congruente con la richiamata disposizione legislativa(168).

L’espressione «anche quando il bene sia a qualunque titolo dato in pagamento» (art. 60, ultimo comma) merita poi di essere ulteriormente valorizzata proprio partendo dal suo dato letterale, alquanto atecnico.

In sostanza, ci sembra di poter fondatamente sostenere che la portata di questa espressione sia tale da estendere l’area applicativa della prelazione anche a talune ipotesi di negozi gratuiti, purché non si tratti, ovviamente, di atti di liberalità. Si pensi ad un contratto di mandato gratuito, nel quale un bene culturale venga trasferito al mandatario a titolo di somministrazione dei mezzi necessari per l’esecuzione del mandato, oppure, ancora, ad un’attribuzione compiuta in adempimento di un’obbligazione naturale.

Dall’area applicativa della prelazione artistica così delineata sembra esulare, invece, senz’altro la donazione remuneratoria(169), mentre diversa potrebbe essere la conclusione da accogliersi per il negotium mixtum cum donatione, per il quale, laddove lo si ritenga soggetto alla prelazione, sorge il problema della determinazione, ai fini della prelazione, del prezzo del bene, che dovrebbe essere comunque commisurato al suo valore venale, onde evitare un ingiusto sacrificio al privato(170).

In definitiva, la norma di cui all’art. 60, ultimo comma, consente all’interprete di non restare rigidamente ancorato alla dicotomia onerosità-gratuità, della quale, tra l’altro, la dottrina ha dimostrato l’inadeguatezza, pervenendo all’affermazione che vi sono anche delle cause negoziali neutre(171).

Parimenti ci sembra corretto estendere in via di principio, sulla base della disposizione da ultimo richiamata, l’area applicativa della prelazione anche ai negozi unilaterali, sulla base ovviamente delle conclusioni affermative alle quali è pervenuta la migliore dottrina in merito dell’idoneità di tali negozi a produrre l’effetto traslativo di diritti(172).

Ciò che in definitiva appare rilevante, ai fini della prelazione, nella materia de qua non è l’intero schema causale del negozio, ma soltanto una frazione di esso, e precisamente il fine dell’attribuzione patrimoniale compiuta dal proprietario del bene culturale(173).

Esula, invece, dal novero dei negozi di alienazione, quanto meno sotto il profilo dei suoi effetti immediati, il contratto preliminare(174). Ma, se già nel vigore delle norme abrogate tale ipotesi non poneva alcun problema, nella misura in cui il diritto di prelazione si esercita con riferimento al contratto definitivo, ci si è domandato, invece, quale fosse la sorte dello stesso diritto nel caso in cui le parti agissero per l’esecuzione forzata del contratto, ai sensi dell’art. 2932, c.c.

La lacuna normativa sul punto è stata colmata con la nuova formulazione dell’art. 59 del codice, il quale espressamente indica, tra i soggetti tenuti alla comunicazione, “l’acquirente”, in caso di trasferimento nelle vendite forzate o fallimentari ovvero in forza di sentenza costitutiva.

È pur vero che la collocazione di tale previsione nell’àmbito dell’art. 59, non è, in realtà, di per sé adeguata a chiarire la questione se si considera, come si è già avuto modo di osservare, che questo articolo ricomprende fattispecie eterogenee tra loro, ricollegandovi solo l’obbligo di comunicazione, mentre la definizione della fattispecie che dà luogo alla prelazione è contenuta nel successivo art. 60 dello stesso codice. Ma la circostanza che vengano accomunate le ipotesi della vendita forzata e fallimentare, da un lato, rispetto alle quali già nel vigore delle norme anteriori non si dubitava della sussistenza della prelazione dello Stato(175), e della sentenza costitutiva, dall’altro, sembra voler chiaramente esprimere, quale logica conseguenza, la volontà legislativa di assoggettare alla medesima disciplina dettata per le vendite forzate e fallimentari anche le sentenze costitutive, ravvisandosi un’identica ratio nelle due ipotesi. D’altro canto, solo sulla base di tale identità, la scelta, operata in sede di coordinamento dai compilatori del testo normativo, non sembra esorbitare dalla delega.

Le regole circolatorie di cui agli articoli 37 e 18 della L. 222/1985. Le norme canoniche

L’articolo 37 della L. 20 maggio 1985, n. 222, prevede una singolare ipotesi di diritto di prelazione per le alienazioni degli istituti per il sostentamento del clero aventi ad oggetto immobili per un prezzo superiore a lire 1.500.000.000, salvo che acquirente sia un ente ecclesiastico.

La disposizione appare difficilmente conciliabile con l’articolo 20, Cost., che vieta discriminazioni mediante speciali limitazioni legislative fondate sul carattere ecclesiastico di un ente e non è neppure facilmente giustificabile sotto il profilo della funzione sociale della proprietà di cui all’articolo 42, Cost., tenuto conto del carattere generale di tale funzione. Essa appare collidere con la libertà della Chiesa nella sua gestione patrimoniale (cfr. art. 7, Cost.)(176).

Tale disposizione viene ricordata in questa sede in quanto la prelazione ivi prevista non è applicabile in caso di beni culturali di interesse religioso. Essa, infatti, non opera se esistono altri diritti di prelazione, sempre che i titolari li esercitino (cfr. articolo 37, comma 10, L. 222/1985).

L’articolo 18 della citata legge 222/1985, detta disposizioni che completano il quadro della normativa applicabile alla circolazione dei beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti ecclesiastici civilmente riconosciuti sotto il profilo della rilevanza civile delle norme canoniche, richiamando, in particolare, le limitazioni dei poteri di rappresentanza ed i controlli canonici risultanti dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche(177). Le fonti canoniche sono poi integrate per la Chiesa cattolica italiana dall’Istruzione in materia amministrativa della Conferenza episcopale italiana del 2005, approvata dall’assemblea generale il 30 - 31 maggio 2005.

La sanzione per la mancanza delle autorizzazioni tutorie viene ricondotta in dottrina ad un difetto nell’iter formativo della volontà dell’ente e, quindi, ad un’ipotesi di annullabilità dell’atto(178).

Nell’ordinamento canonico vi sono due fonti che regolano il controllo sugli atti: il codice di diritto canonico e una fonte extracodicistica, prevista solo per alcune categorie di soggetti (ad esempio: una delibera della Cei, le norme statutarie di ciascuna persona giuridica, il decreto generale del Vescovo diocesano).

Il codice di diritto canonico prevede in generale e obbligatoriamente la licentia per gli atti di alienazione (canone 1291), per gli atti che peggiorano il patrimonio della persona giuridica (canone 1295) e per tutti gli altri atti di straordinaria amministrazione.

Il canone 1292 detta le regole per individuare l’autorità competente e dispone che «salvo il disposto dei can. 638, § 3, quando il valore dei beni che s’intendono alienare sta tra la somma minima e quella massima da stabilirsi dalla Conferenza episcopale per la propria regione, l’autorità competente, nel caso di persone giuridiche non soggette all’autorità del Vescovo diocesano, è determinata dai propri statuti; altrimenti l’autorità competente è lo stesso Vescovo diocesano, con il consenso del Consiglio per gli affari economici e del collegio dei consultori nonché degli interessati. Il Vescovo diocesano stesso ha anche bisogno del consenso dei medesimi organismi per alienare i beni della diocesi. Trattandosi tuttavia di beni il cui valore eccede la somma massima stabilita, oppure di ex-voto donati alla Chiesa o di oggetti preziosi di valore artistico o storico, per la valida alienazione si richiede inoltre la licenza della Santa Sede. Se la cosa che s’intende alienare è divisibile, nel chiedere la licenza si devono indicare le parti già alienate in precedenza; altrimenti la licenza è nulla. Coloro che sono tenuti a prendere parte alla alienazione dei beni con il consiglio o il consenso, non diano il consiglio o il consenso senza essersi prima esattamente informati, sia sulle condizioni finanziarie della persona giuridica i cui beni si vogliono alienare sia sulle alienazioni già fatte».

La delibera Cei del 6 settembre 1988, n. 800, modificata il 27 marzo 1999, n. 398, dispone che, se il valore dei beni che si intende alienare è compreso tra 250.000 e 1.000.000 euro, che l’autorità competente al rilascio della licentia è determinata nel modo seguente:

a. per le diocesi e per le altre persone giuridiche amministrate dal Vescovo diocesano, il Vescovo con il consenso del Consiglio per gli affari economici e del collegio dei consultori nonché di coloro che abbiano un interesse giuridicamente tutelato circa l’oggetto del negozio;

b. per le persone soggette al Vescovo diocesano (ad esempio Capitoli, Parrocchie, Chiese, seminari, associazioni pubbliche di fedeli, istituti per il sostentamento del clero, fondazioni) il Vescovo diocesano con il consenso del Consiglio per gli affari economici e del collegio dei consultori e di coloro che abbiano un interesse giuridicamente tutelato circa l’oggetto del negozio;

c. per le persone giuridiche non soggette al Vescovo diocesano (ad esempio associazioni e fondazioni erette dalla Santa Sede o dalla Cei) l’autorità determinata dagli statuti;

d. quando il valore eccede la somma massima stabilita dalla delibera Cei oppure ha ad oggetto ex voto donati alla Chiesa, de rebus pretiosis artis vel historiae causa: la Santa Sede.

Inoltre, il canone 638 prevede che «spetta al diritto proprio determinare, entro l’àmbito del diritto universale, quali sono gli atti che eccedono il limite e le modalità dell’amministrazione ordinaria, e stabilire ciò che è necessario per porre validamente gli atti di amministrazione straordinaria»; per gli istituti di vita consacrata e gli istituti religiosi «le spese e gli atti giuridici di amministrazione ordinaria sono posti validamente, oltre che dai Superiori, anche dagli officiali a ciò designati dal diritto proprio, nei limiti del loro ufficio. Per la validità dell’alienazione e di qualunque negozio da cui la situazione patrimoniale della persona giuridica potrebbe subire detrimento, si richiede la licenza scritta rilasciata dal Superiore competente con il consenso del suo consiglio. Se però si tratta di negozio che supera la somma fissata dalla Santa Sede per le singole regioni, come pure di donazioni votive fatte alla Chiesa, o di cose preziose per valore artistico o storico, si richiede inoltre la licenza della Santa Sede stessa».

Nel codice di diritto canonico vigente vi sono, infine, alcune peculiari disposizioni in materia di beni culturali ecclesiali, anche se non possono tacersi i limiti rappresentati dalla mancanza di una normativa unitaria ed organica in argomento(179).

In particolare, il canone 1292, par. 2, con riferimento alla res pretiosae artis vel historiae causa ai fini della validità dell’alienazione richiede la licenza dell’autorità competente, oltre quella della Santa Sede. Parimenti sono richieste in tal caso per gli istituti religiosi o le società di vita apostolica la licenza del Superiore competente e quella della Sante Sede (can. 638, par. 3).

La previsione del controllo della massima autorità della Chiesa a pena di invalidità sull’atto di alienazione sottolinea la valenza del patrimonio religioso, pur limitando l’autonomia delle Conferenze episcopali(180).

Altra norma riferibile alla materia è il canone 1190 che prescrive l’inalienabilità delle sacre reliquie. L’inosservanza delle disposizioni che prescrivono la licenza del superiore al fine dell’alienazione dei beni ecclesiastici è punita dal can. 1377.

Merita, infine, richiamo, a completamento del quadro normativo canonico, la disposizione di cui al can. 1290, che per i contratti rinvia alla legislazione civile, se le norme civili non contrastano con il diritto divino o il diritto canonico non dispone diversamente.


(1) L’articolo 9 del codice così dispone: «1. Per i beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti ed istituzioni della Chiesa cattolica o di altre confessioni religiose, il Ministero e, per quanto di competenza, le regioni provvedono, relativamente alle esigenze di culto, d’accordo con le rispettive autorità. 2. Si osservano, altresì, le disposizioni stabilite dalle intese concluse ai sensi dell’articolo 12 dell’accordo di modificazione del Concordato lateranense firmato il 18 febbraio 1984, ratificato e reso esecutivo con L. 25 marzo 1985, n. 121, ovvero dalle leggi emanate sulla base delle intese sottoscritte con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, ai sensi dell’articolo 8, comma 3, della Costituzione».

(2) Nel prosieguo di questo lavoro il codice dei beni culturali e del paesaggio è talora definito per brevità “codice”.

(3) Si riproduce l’articolo 19 del testo unico: «1. Quando si tratti di beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti ed istituzioni della Chiesa Cattolica o di altre confessioni religiose, il Ministero e, per quanto di competenza, le regioni provvedono, relativamente alle esigenze del culto, d’accordo con le rispettive autorità. 2. Si osservano, altresì, le disposizioni stabilite dalle intese concluse a norma dell’articolo 12 dell’Accordo di modificazione del Concordato lateranense firmato il 18 febbraio 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 25 marzo 1985, n. 121, ovvero dalle leggi emanate sulla base delle intese sottoscritte, a norma dell’articolo 8, comma 3, della Costituzione, con le confessioni religiose diverse dalla cattolica».

(4) Per un approfondimento sui citati testi normativi si rinvia in generale a: A A.V V., Testo Unico sui beni culturali, Milano, 2000; B. BOSETTI SANI VETTORI - G. CASU - G. CELESTE - A. VENDITTI, Il commercio giuridico dei beni culturali, Milano, 2001; R. TAMIOZZO, La legislazione dei beni culturali e ambientali, Milano, 2000; G. MELEGARI, La codificazione dei diritto dei beni culturali, Palermo, 2004; A PISCHETOLA, Circolazione dei beni culturali e attività notarile, Milano, 2006; A A.V V., Il codice dei beni culturali e del paesaggio. Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 a cura di R. Tamiozzo, Milano, 2005; M. FRIGO, La circolazione internazionale dei beni culturali. Diritto internazionale, diritto comunitario e diritto interno, Milano, 2007; A. ACCADIA - L. ALFIDI - G. PANASSIDI, I beni culturali e paesaggistici, Milano, 2006.

(5) Articolo 8, Cost.: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze».

(6) R. TAMIOZZO, Art. 9, Beni culturali di interesse religioso, in A A.V V., Il codice dei beni culturali e del paesaggio a cura di R. Tamiozzo, Milano, 2005, p. 24. Sulla pluralità di fonti normative nella materia in esame, A. FUCCILLO, La circolazione dei beni immobili culturali ecclesiastici tra diritto “pattizio” e diritto “speciale”, in A A.V V., La circolazione dei beni culturali: attualità e criticità, Milano, 2010, p. 115.

(7) L’articolo 8 della L. 1089/1939 così disponeva: «Quando si tratti di cose appartenenti ad enti ecclesiastici, il Ministro per l’educazione nazionale nell’esercizio dei suoi poteri, procederà per quanto riguarda le esigenze del culto, d’accordo con l’autorità ecclesiastica».

(8) L’articolo 2 della L. 20 maggio 1985, n. 222, dispone che: «sono considerati aventi fine di religione o di culto gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa, gli istituti religiosi e i seminari. Per altre persone giuridiche canoniche, per le fondazioni e in genere per gli enti ecclesiastici che non abbiano personalità giuridica nell’ordinamento della Chiesa, il fine di religione o di culto è accertato di volta in volta, in conformità alle disposizioni dell’articolo 16. L’accertamento di cui al comma precedente è diretto a verificare che il fine di religione o di culto sia costitutivo ed essenziale dell’ente, anche se connesso a finalità di carattere caritativo previste dal diritto canonico». Tali enti possono essere riconosciuti quali persone giuridiche di diritto privato nell’ordinamento civile italiano ai sensi dell’articolo 1 della stessa legge. Sulla base del diritto canonico, gli enti in discorso possono essere così elencati: a) Enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa: Cei (Conferenza episcopale italiana can. 449, par. 2); Regioni ecclesiastiche (can. 433, par. 2); Province ecclesiastiche (can. 432, par. 2); Diocesi, Abbazie e Prelature territoriali (can. 368); Capitoli (can. 504); Parrocchie (can. 515, par. 3); Chiese (can. 556); b) Istituti universitari, i Seminari, le Accademie, i Collegi e altri Istituti per ecclesiastici e religiosi o per la formazione nelle discipline ecclesiastiche (can. 238, par. 1); c) Istituti religiosi, suddivisi in Istituti religiosi, Province e Case (can. 634, par. 1) e Istituti secolari (can. 710); d) Società di vita apostolica (can. 741, par. 1); Associazioni pubbliche di fedeli e Confederazioni (can. 313); Associazioni private di fedeli con personalità giuridica (can. 322, par. 1); e) Fondazioni: Istituti per il sostentamento del clero (can. 1274, par. 1) e Fondazioni autonome (già Istituti ecclesiastici; can. 1303, par. 1); f ) Enti costituiti o approvati dall’autorità ecclesiastica senza personalità giuridica nell’ordinamento della Chiesa: ad esempio, Associazioni private di fedeli senza personalità giuridica (can. 322, par.1) (P. CAVANA, Enti ecclesiastici e controlli confessionali, Torino, 2002, p. 7 e ss.; F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, Torino, 2003, p. 256 e ss.; P. PICCOLI, «La rappresentanza negli enti ecclesiastici», in Riv. not., 2000, p. 21).

(9) Si vedano M. FRIGO, La protezione dei beni culturali nel diritto internazionale, Milano, 1986, p. 10-11; C. COSTANTINI, «La legislazione ecclesiastica sull’arte», in Fede e arte, 1957, p. 411 e ss., ove si legge il testo dell’editto in traduzione italiana.

(10) S. LARICCIA, Diritto ecclesiastico, Padova, 1986, p. 12 e ss.; C. CARDIA, Manuale di diritto ecclesiastico, Bologna, 1996, p. 317 e ss.

(11) W. CORTESE, Lezioni di legislazione dei beni culturali, Padova, 1997, p. 15 e ss.

(12) F. PETRONCELLI HÜBLER, I beni culturali religiosi, Quali prospettive di tutela, II ed., Napoli, 2001, p. 3 e ss.

(13) P. CAVANA, voce Beni culturali, II) diritto ecclesiastico, in Enc. giur. Treccani, vol. V, Roma, 2001, p. 2.

(14) Tar Lazio, sez. II, 23 settembre 1981, n. 909 in Dir. eccl., 1982, II, p. 280. Si noti che il regolamento del 1913 è mantenuto in vigore, ai sensi dell’articolo 73 della L. 1 giugno 1939, n. 1089, poi riprodotto nel T.U. 490/1999, articolo 71 e, quindi, nell’art. 130 del codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al D.lgs. 42/2004, fino all’entrata in vigore del regolamento di attu azione dello stesso codice.

(15) L’articolo 30 della legge 27 maggio 1929, n. 810, recante esecuzione dei Patti lateranensi, così dispone: «La gestione ordinaria e straordinaria dei beni appartenenti a qualsiasi istituto ecclesiastico od associazione religiosa ha luogo sotto la vigilanza ed il controllo delle competenti autorità della Chiesa, escluso ogni intervento da parte dello Stato italiano, e senza obbligo di assoggettare a conversione i beni immobili. Lo Stato italiano riconosce agli istituti ecclesiastici ed alle associazioni religiose la capacità di acquistare beni, salve le disposizioni delle leggi civili concernenti gli acquisti dei corpi morali. Lo Stato italiano, finché con nuovi accordi non sarà stabilito diversamente, continuerà a supplire alla deficienze dei redditi dei benefici ecclesiastici con assegni da corrispondere in misura non inferiore al valore reale di quella stabilita dalle legge attualmente in vigore: in considerazione di ciò, la gestione patrimoniale di detti benefici, per quanto concerne gli atti e contratti eccedenti la semplice amministrazione, avrà luogo con intervento da parte dello Stato italiano, ed in caso di vacanza la consegna dei beni sarà fatta colla presenza di un rappresentante del Governo, redigendosi analogo verbale. Non sono soggetti all’intervento suddetto le mense vescovili delle diocesi suburbicarie ed i patrimoni dei capitoli e delle parrocchie di Roma e delle dette diocesi. Agli effetti del supplemento di congrua, l’ammontare dei redditi, che su dette mense e patrimoni sono corrisposti ai beneficiati, risulterà da una dichiarazione resa annualmente sotto la propria responsabilità dal Vescovo suburbicario per le diocesi e dal Cardinale Vicario per la città di Roma». La disciplina dei beni degli enti cattolici è poi integrata dall’articolo 9 della L. 27 maggio 1929, n. 848. Si vedano anche gli articolo 18 e seguenti del regolamento di esecuzione della legge anzidetta, approvata con R.D. 2 dicembre 1929, n. 2262.

(16) Si veda l’articolo 3, comma 1 e l’articolo 18 del Concordato. Tali disposizioni dettano norme in materia dei beni artistici esistenti nel Vaticano e nel Palazzo del Laterano al fine di sancirne la pubblica fruizione, e senza affermare esplicitamente la loro appartenenza alla Santa Sede.

(17) Fondamentali per la ricostruzione delle trattative, le pagine di F. PACELLI, Diario della Conciliazione, Città del Vaticano, 1959, spec. p. 437-438.

(18) G. MARIANI, La legislazione ecclesiastica in materia di arte sacra, Roma, 1945, passim. La tesi fu ripresa poi da L. MAFFEO, «Natura e limiti delle ingerenza statuale nella gestione del patrimonio storico e artistico della Chiesa», in Dir. eccl., 1959, I, p. 65 e ss. Cfr. in argomento T. MAURO, La gestione dei beni ecclesiastici di interesse culturale, in Beni culturali e interessi religiosi, Atti del convegno di studi, Napoli, 1983, p. 80.

(19) Si vedano, in particolare, gli articoli 6 e 7 della L. 848/1929 e gli articoli 32 e 35 del regolamento 2262/1929.

(20) T. MAURO, op. cit., p. 80.

(21) P. CAVANA, voce Beni ecclesiastici, cit., p. 2.

(22) Sulla natura privata degli enti ecclesiastici, nel vigore dell’attuale codice civile si vedano, ad esempio: Cass., S.U., 2 aprile 1990, n. 2656, in Dir. eccl., 1990, fasc. 2; Cass., S.U., 17 gennaio 1986, n. 284, in Dir. eccl., 1986, II, p. 397.

(23) La giurisprudenza ha più volte affermato la commerciabilità dei beni ecclesiastici fatta salva la destinazione al culto (cfr. Cass., sez. II, 12 novembre 1957, n. 4362, in Giust. civ. Mass., 1957, p. 16-59; Cass. 5 luglio 1963, n. 1804, in Foro it., 1964, I, c. 151; Trib. Padova, 12 aprile 1954, in Dir. eccl., 1983, p. 433 e ss.).

(24) C. AZZIMONTI, I beni culturali ecclesiali nell’ordinamento canonico e in quello concordatario italiano, Bologna, 2001, p. 283.

(25) L. SCALER A, Beni culturali e “Nuovo Concordato”, Milano, 1990, p. 49.

(26) In questo senso, si veda L. SCAVO-LOMBARDO, «Aspetti del vincolo civile protettivo della deputatio ad cultum publicum», in Dir. eccl., 1996, I, p. 249 e ss.

(27) G. DALLA TORRE, «La disciplina concordataria del patrimonio ecclesiastico», in ME, 1986, p. 31 e ss.

(28) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 7 marzo 1950, n. 73, in Foro amm., 1950, I, p. 212 e ss. In dottrina, L. SCALER A, Beni culturali e “Nuovo Concordato”, cit., p. 43; M. CANTUCCI, La tutela giuridica delle cose di interesse storico o artistico, Padova, 1953, p. 199; T. MAURO, op. cit., p. 82 e ss.; T. ALIBR ANDI - P. FERRI, I beni culturali e ambientali, Milano, 1985, p. 296 e ss. Diversamente, F. FINOCCHIARO, Il regime del patrimonio storico e artistico degli enti ecclesiastici nel diritto dello Stato, in A A.V V., Per la salvezza dei beni culturali in Italia, Atti e documenti della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, vol. II, Roma, 1967, p. 638 e ss. L’Autore sostiene che l’accordo potrebbe precedere l’emanazione del provvedimento, pur dando atto dell’opinabilità dei dati normativi.

(29) G. PALMA, Beni di interesse pubblico e contenuto della proprietà, Napoli, 1971, p. 88; F. FINOCCHIARO, Il regime del patrimonio…, cit., p. 651.

(30) M. GRISOLIA, La tutela delle cose d’arte, Roma, 1952, p. 324 e nota 4.

(31) Tar Lazio, sez. II, 23 settembre 1981, in Dir. eccl., 1982, II, p. 280. L’orientamento è poi riconfermato anche dopo l’Accordo di revisione del 1984, da Tar Toscana, sez. II, 17 aprile 1989, in Tar, 1989, I, p. 2453 e ss., quando è ormai evidente l’inadeguatezza dell’art. 8 L. 1089/1939 rispetto al nuovo dettato costituzionale e alle norme di revisione del Concordato.

(32) Si vedano in materia: F. PETRONCELLI HÜBLER, I beni culturali religiosi…, cit., p. 94 e ss.

(33) Non risultano prima della Costituzione repubblicana altri precedenti riferiti a confessioni religiose diverse da quella cattolica.

(34) Cfr., in argomento, F. SANTORO-PASSARELLI, I beni della cultura secondo la Costituzione, in Studi in memoria di C. Esposito, vol. III, Padova, 1973, p. 1421 e ss.; F. FR ANCESCHINI, L’impegno della Costituzione italiana per la salvaguardia dei beni culturali, in Studi per il XX anniversario della Costituente, vol. II, Firenze, 1970, p. 227 e ss.; M.R. COZZUTO QUADRI, «Commento a Cass., ord. 19 marzo 1994, n. 228. Principi costituzionali e prelazione artistica», in Giur. civ. comm., 1994, I, p. 744 e ss.; G. ZANZARELLA, I beni culturali, Roma, 1999, p. 23 e ss. Sulle problematiche di diritto comunitario, inerenti la tutela del patrimonio artistico nazionale, si rinvia a P.G. FERRI, La tutela dei patrimoni culturali nazionali nel mercato unico europeo, in A A.V V., Beni culturali e comunità europea, Milano, 1994, p. 323 e ss.

(35) In argomento, per tutti, S. MERLINI, La promozione della cultura e della scienza nella costituzione italiana, in A A.V V., Libertà costituzionali e limiti amministrativi a cura di P. Barile, in Tratt. dir. amm. Santaniello, vol. XII, Padova, 1990, p. 394 e ss.; F. MERUSI, sub art. 9, in A A.V V., Principi fondamentali, in Comm. Cost. Branca, Bologna - Roma, 1975, p. 434 e ss.

(36) V. CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova, 1983, p. 13 e ss.; ID., Beni culturali, diritti collettivi e proprietà pubblica, in Scritti in onore di M.S. Giannini, vol. I, Milano, 1988, p. 135 e ss.; A. LISERRE, Tutele costituzionali dell’autonomia contrattuale, Milano, 1971, p. 5 e ss.; P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991, p. 443 e ss.; A. BALDASSARRE, voce Iniziativa economica privata, in Enc. dir., vol. XXI, Milano, 1971, p. 582 e ss.; I. NUZZO, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, 1975, p. 81 e ss.; V. SPAGNUOLO-VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, Napoli, 1959, p. 243 e ss.; S. RODOTÀ, Poteri dei privati e disciplina della proprietà, in A A.V V., Il diritto privato nella società moderna a cura dello stesso Autore, Bologna, 1971, p. 379 e ss.; A. DE CUPIS, «Prelazione ed uguaglianza», in Osservatorio sul diritto civile, 1992, p. 77 e ss.

(37) Sul punto va segnalata la fondamentale decisione Corte Cost., 20 dicembre 1976, n. 245 in Foro it., 1977, I, c. 581 e ss., secondo la quale la disciplina dei beni culturali, in quanto trova fondamento nell’art. 9, Cost., non comporta l’indennizzo di cui all’art. 42, Cost. Sull’art. 9, cfr. anche Corte Cost., 20 febbraio 1973, n. 9, in Cons. Stato, 1973, II, p. 196 e ss. e Corte Cost. 29 maggio 1968, n. 56, in Cons. Stato, 1968, II, p. 413 e ss., ove si afferma che lo speciale regime dei beni contemplati da questa norma corrisponde a caratteristiche intrinseche dei beni stessi e ne costituisce, pertanto, un modo di essere, legittimato dallo stesso art. 42, comma 2, Cost. Nello stesso indirizzo si collocano Corte Cost., 4 luglio 1974, n. 202, in Giur. cost., 1974, p. 1692 e ss.; Corte Cost., 28 dicembre 1984, n. 309, in Giur. cost., 1984, p. 2256 e ss.; Corte Cost., 20 giugno 1995, n. 269, in Foro it., 1996, I, c. 807 e ss.

(38) F. MERUSI, op. cit., p. 446; M. BELLACOSA, voce Patrimonio archeologico, storico e artistico nazionale (tutela penale), in Enc. giur., vol. XXI, Roma, 1990, p. 1 e ss.; P. PERLINGIERI - R. MESSINETTI, Commento alla Costituzione italiana, Napoli, 1997, p. 470 e ss.; M. S. GIANNINI, «I beni culturali», in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, p. 3 e ss.

(39) Si veda, per esempio, l’art. 48, L. 616/1977. Sul punto, la Corte Costituzionale, 9 marzo 1990, n. 118, in Cons. Stato, 1990, II, p. 435, ha chiarito che «la cultura non assume mai un rilievo autonomo separato e distinto rispetto ai beni di interesse artistico archeologico, ma si compenetra nelle cose che di essa costituiscono il supporto materiale, ne consegue che la cultura non può essere protetta separatamente dal bene: e questo è il vero significato dell’art. 9 Cost. Lo Stato deve curare, sempre secondo tale sentenza, la formazione culturale dei consociati alla quale concorre ogni valore idoneo a sollecitare e ad arricchire la loro sensibilità come persone, nonché il perfezionamento della lori personalità e il loro progresso spirituale e materiale: ecco perché per realizzare gli obiettivi della promozione e dello sviluppo della cultura dello Stato deve provvedere non solo alla tutela di quei beni che sono testimonianze materiali di essa e che, come tali, vengono a rivestire rilievo strumentale per il raggiungimento dei predetti obiettivi, sia per il loro valore culturale intrinseco, sia per il riferimento alla storia della civiltà e del costume locale, ma deve anche assicurare alla collettività il godimento e la fruizione dei valori culturali espressi dai beni medesimi.».

(40) L’articolo 9 Cost., è articolato in due commi, che si differenziano sotto vari aspetti. Il primo comma dell’art. 9, ad esempio, ha come oggetto l’attività, il secondo comma il bene materiale; essi differiscono per un diverso grado di ampiezza della fattispecie rispettivamente contemplata e per una differente prescrittività.

(41) F. MERUSI, op. cit., p. 435 e ss. Tale autore dopo aver ribadito che il contenuto precettivo del comma in esame viene successivamente esplicato negli artt. 33 e 34 Cost., si sofferma sul verbo promuovere utilizzato dal Costituente. In particolare tale espressione viene chiarita nell’art. 33 Cost., che prevede che l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. Quindi il compito da parte della Repubblica Italiana di promuovere la cultura e l’affermazione della libertà della cultura nelle sue manifestazioni indicano che «deve essere perseguito un punto di equilibrio fra i pubblici poteri e cultura». Inoltre, considerando che il termine “Repubblica” sta a indicare lo Stato come ordinamento in tutte le sue articolazioni, tale autore ne consegue che «il compito di promuovere la cultura e la ricerca scientifica sia attribuito a ogni soggetto pubblico indistintamente nella misura e nei limiti ammessi dal proprio ambito di competenze».

(42) Secondo alcuni, si veda per tutti M. CANTUCCI, «La prelazione dello Stato nelle alienazioni onerose delle cose di interesse artistico e storico», in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, p. 102 e ss., la promozione culturale e la tutela del patrimonio artistico della Nazione sarebbero entrambe volte a favorire il pieno sviluppo della persona umana. Anche la tutela, considerato che ha ad oggetto la conservazione dei valori artistici e storici, mira all’af finamento delle attività dello spirito e all’elevazione culturale degli individui. La stessa Corte Cost. 29 dicembre 1982, n. 239, in Giur. cost., 1983, p. 2307; Corte Cost. 1° aprile 1998, n. 85, in Giur. cost.,1998, p. 801, ha ravvisato la finalità di tutela del paesaggio nell’esigenza di soddisfare il gusto estetico della collettività; con la conseguenza che uno scopo identico caratterizzerebbe la tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione, prevista nello stesso comma. In dottrina, A.M. SANDULLI, «La tutela del paesaggio nella Costituzione», in Riv. giur. ed., 1967, II, p. 896 e ss.; F. MARINI, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, 2002, p. 204 e ss., il quale sostiene che «il tratto unificante della disposizione in esame è individuabile nell’esigenza di tutela conservativa (e non di promozione) che caratterizza il paesaggio ed il patrimonio storico ed artistico nazionale. Le bellezze naturali per rimanere tali necessitano infatti di essere conservate giacché, perderebbero altrimenti il loro pregio o si trasformerebbero nella migliore delle ipotesi, in beni culturali». Inoltre la Costituzione, sempre secondo tale autore, non tutela tutte le cose di interesse storico o artistico (come dovrebbe fare se lo scopo fosse quello di garantire lo sviluppo della persona umana) ma solo quei beni che compongono il «patrimonio storico - artistico della Nazione». La Corte costituzionale si è anche soffermata sul carattere delle cose di interesse artistico. Ad esempio si rinvia a Corte Cost. 20 giugno 1995, n. 269, in Giur. cost., 1995, p. 1927, la quale ha precisato che «trova nell’art. 9 Cost. il suo fondamento e che si giustifica nella sua specificità, in relazione al fine di salvaguardare beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del Paese» o ancora a Corte Cost. 15 luglio 1997, n. 237 in Giur. cost., 1997, p. 2265 e ss., nella quale la Corte, dichiarando l’infondatezza della questione di legittimità della norma che esclude i palazzi di eminente pregio storico e artistico dalla sfera di applicazione della legge sull’equo canone, ha affermato che «non sussiste una disparità di trattamento tra il conduttore di un’unità abitativa compresa in un palazzo di eminente pregio artistico o storico rispetto al conduttore di un’abitazione posta in un edificio privo di tali requisiti, giacché proprio questi ultimi costituiscono l’elemento di differenziazione idoneo ad escludere la omogeneità e quindi la comparabilità delle situazioni».

(43) P. PERLINGIERI - R. MESSINETTI, op. cit., p. 47 e ss. Inoltre nell’assemblea costituente, il testo precedente a quello approvato, af fidava la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico solo allo Stato, e non, come è avvenuto in seguito nel Testo definitivo trasfuso nella Corte Costituzionale, alla Repubblica (A.M. SANDULLI, «La tutela del paesaggio nella Costituzione», cit., p. 69 e ss.; per la ricostruzione della posizione della dottrina sul punto, cfr. G. VOLPE, «Tutela del patrimonio storico-artistico nella problematica della definizione delle materie regionali», in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, p. 355 e ss. Quindi nel dettato costituzionale, non c’è una riserva di tale materia solo in favore dello Stato in quanto il termine Repubblica ha un ambito più ampio. Tale articolo, quindi, deve leggersi insieme all’art. 117 Cost.; inoltre, Corte Cost. 28 luglio 1988, n. 921, in Cons. Stato, 1988, II, p. 1436 e ss.; Corte Cost. 23 maggio-12 giugno 1991, n. 278, in Cons. Stato, 1991, II, p. 1009 e ss., Corte Cost. 28 maggio-10 giugno 1993, n. 277, in Cons. Stato, 1993, II, p. 930, ed infine Corte Cost. 19 luglio 1994, n. 339, in Cons. Stato, 1994, II, p. 1123. Per tali decisioni i poteri statali in tale materia si riferiscono al solo patrimonio artistico, storico e bibliografico nazionale, con esclusione di qualsiasi riferimento ai beni culturali di interesse locale. Dalla indeterminatezza della disposizione contenuta nella costituzione si ricava che la valutazione dell’appartenenza dei beni a tali categorie dovrà, quindi, essere collegata a vari fattori, ad esempio alla collettività, alla rilevanza dell’interesse pubblico connesso alla soddisfazione di esigenze di conoscenza, di godimento e di fruizione, alla valutazione dell’interesse pubblico in relazione all’interesse del singolo privato sul bene.

(44) Per tutela del paesaggio si dovrebbe intendere la tutela delle bellezze naturali. Il legislatore però non specifica il significato delle parole “patrimonio” e “paesaggio” e non dice nulla sul regime giuridico di tali beni. A.M. SANDULLI, «La tutela del paesaggio nella Costituzione», cit., p. 70 e ss.; Corte Cost. 7 novembre 1994, n. 379, in Giur. cost., 1994, p. 3422 e ss.; Corte Cost. 21 dicembre 1985, n. 359, in Giur. cost., 1985.

(45) Secondo un autorevole autore (F. MERUSI, op. cit., p. 447) infatti «I beni culturali e le loro possibili articolazioni tipologiche rientrerebbero in una categoria omogenea di beni direttamente identificato dalla Costituzione e, dato l’obbligo costituzionale della loro tutela, ogni possibile limitazione al loro regime domenicale sarebbe legittimato dal rilievo pubblicistico sancito nella Costituzione stessa».

(46) In ordine al significato che il termine Nazione assume in tale contesto varie sono state le ricostruzioni che si sono succedute in dottrina. Giova, pertanto, richiamare le principali. C. PIVA, Cose d’arte, Milano, 1956, p. 371 e ss., si è soffermato sul concetto di Nazione intesa come soggetto titolare dell’interesse; G. VOLPE, op. cit., p. 390, per il quale la Nazione assume il significato di Stato comunità. Secondo, invece, P. GROSSI, I diritti di libertà ad uso di lezioni, Torino, 1991, p. 154, La Nazione è «un ente sociale persistente e trascendente rispetto allo Stato ed al suo ordinamento e persino prescindente dalla sua esistenza e dalla sua formazione». Secondo un’ altra tesi ancora, il riferimento alla Nazione sarebbe teso a determinare l’àmbito di ef ficacia territoriale della tutela costituzionale dei beni culturali. Secondo altri, infine, il termine Nazione serve a connotare il «patrimonio storico ed artistico costituzionalmente tutelato», serve cioè a formare la cd. “identità culturale”. Per maggiori approfondimenti e per i riferimenti bibliografici si rinvia a F. MARINI, op. cit., p. 205 e ss. In dottrina si è anche evidenziato come il termine Nazione è Stato anche utilizzato nella sua accezione “spirituale”, serve cioè a connotare il patrimonio artistico costituzionalmente tutelato. In particolare oggetto di tutela secondo tale ricostruzione sarebbero pertanto, tutti quei beni culturali che concorrono per le loro caratteristiche a fondare o rafforzare il sentimento nazionale. Si rinvia a T. ALIBR ANDI - P. FERRI, op. cit., p. 56 e ss., il quale inoltre ai fini della determinazione della categoria bene culturale ritiene insuf ficiente l’elemento geografico per determinare la nazionalità del bene.

(47) Corte Cost. 20 giugno 1995, n. 269, in Giur. cost., 1995, p. 1927 e ss. Alcuni autori sottolineano che la disposizione di cui al secondo comma configura un’accentuazione particolare del fine generale di promozione della cultura. Sicché la protezione e la valorizzazione del patrimonio si giustificano in quanto i beni sono portatori di un valore culturale inteso quale «espressione delle storicità, creatività e spiritualità di un popolo». M. BELLACOSA, op. cit., p. 1 e ss.

(48) A.M. SANDULLI, «Natura ed effetti dell’imposizione dei vincoli paesistici», in Riv. trim. dir. pubbl., 1961, p. 812, differenzia le limitazioni che attengono alla proprietà privata dai vincoli, i quali sono restrizioni a contenuto impeditivo con funzione conservativa, che trovano la loro fonte in un provvedimento amministrativo. F. BASSI, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1995. Alcuni hanno anche ricondotto tale caso all’ipotesi di espropriazione anomala da parte dello Stato. È meglio, invece, ricondurre tale ipotesi ai procedimenti di tipo ablatorio, sulla base della considerazione che lo Stato tramite un provvedimento privi il titolare di alcune utilità senza incidere sul contenuto minimo della proprietà. Per i riferimenti bibliografici si rinvia a F. MARINI, op. cit., p. 100 e ss.

(49) Riguardo al rapporto esistente tra l’art. 9 Cost. e l’art. 42 Cost. si è evidenziata l’autonomia dell’art. 9 rispetto all’art. 42, infatti si è sostenuto che proprio il secondo comma dell’art. 9 Cost. sarebbe suf ficiente a configurare uno statuto proprietario minimo. F. MARINI, op. cit., p. 100 e ss. (ivi i riferimenti bibliografici per gli orientamenti che si sono formati sul tema dei rapporti tra questi due articoli). In senso contrario è stato obiettato invece che tale norma, in particolare il secondo comma, sarebbe priva di autonomia, in quanto dovrebbe essere letta insieme con quella di cui all’art. 42 Cost., secondo comma, ma la norma di cui all’art. 42, secondo F. MERUSI, op. cit., p. 449 e ss., si porrebbe nel nostro ordinamento «rispetto alla norma di cui all’art. 9 Cost. secondo comma come una specificazione, per quanto attiene all’ordine delle competenze. Infatti l’art. 9 della Costituzione è contenuto nei principi fondamentali mentre l’art. 42 della Cost. si colloca nel titolo III, riguardo ai rapporti economici. Ma tra i due articoli esiste un rapporto di indifferenza; infatti un bene culturale potrebbe essere disciplinato dalla legge anche nell’ambito della disciplina legislativa del diritto di proprietà ai sensi quindi dell’art. 42 Cost., ma la tutela di tali beni potrà realizzarsi solo sulla base del richiamo all’art. 9 Cost.». Il secondo comma dell’art. 9 Cost. sarebbe suf ficiente a configurare uno statuto proprietario minimo.

(50) Corte Cost. 19 marzo 1990, n. 118, in Giur. cost., 1990, p. 660 e ss. La Corte era stata chiamata a pronunciarsi riguardo ad un’eccezione di illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 1 giugno 1939, nella parte in cui non prevedevano la possibilità di tutelare attività culturalmente rilevanti, caratterizzanti una zona del territorio cittadino e, in particolare, i centri storici.

(51) La Corte Costituzionale nel differenziare i vincoli ablatori da quelli espropriativi ha utilizzato come criterio differenziatore quello dell’intensità del sacrificio imposto del proprietario. L’esistenza dei vincoli non è indennizzabile (ved. i riferimenti nella nt. 36). I beni privati culturali sono sottoposti all’esercizio, da parte della P.A., di potestà che si sostanziano nell’imposizione di vincoli al godimento del bene, tali limitazioni non sono sottoposte all’obbligo di indennizzo di cui all’art. 42 Cost., e ciò deriva a giudizio della Corte Cost. non tanto dalla prevalenza dell’art. 9 sull’art. 42, ma dal fatto che l’art. 42 al suo secondo comma legittima statuti differenziati delle proprietà in corrispondenza di tipi analoghi di beni. La prelazione artistica non può poi raf figurare un ipotesi di espropriazione anomala. La pubblica amministrazione gode di una discrezionalità nell’individuare quali siano i beni che possano possedere i requisiti previsti dalla legge per essere considerati come beni culturali, e in secondo luogo è la P.A. che in base ad una sua valutazione decide se esercitare o meno il diritto di prelazione. Inoltre il sacrificio imposto al privato è limitato in quanto il proprietario rimane libero di decidere se vendere o no ed è libero di decidere il quantum dell’alienazione. Le uniche limitazione sono nella liberta di scelta del contraente e di introdurre clausole accessorie nel contratto. Secondo F. MARINI, op. cit., p. 103 si potrà parlare di indennizzo laddove dall’insieme di tutti i vincoli imposti al bene culturale venga totalmente sacrificato l’interesse del singolo. L’art. 42 Cost., secondo l’autore, fonda il discorso della funzione sociale per vari tipi di proprietà tra i quali certamente quello dei beni culturali che trova il proprio fondamento nell’art. 9 Cost.

(52) I beni degli enti ecclesiastici sono soggetti alle procedure di cui all’articolo 12, commi 1 e 2 del codice dei beni culturali, che qui si riportano: «1. Le cose indicate all’articolo 10, comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni, se mobili, o ad oltre settant’anni se immobili, sono sottoposte alle disposizioni della presente parte fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2. 2. I competenti organi del Ministero, d’uf ficio o su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono e corredata dai relativi dati conoscitivi, verificano la sussistenza dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico nelle cose di cui al comma 1, sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione». Il comma 7 dello stesso articolo 12 dispone, poi, che «l’accertamento dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, effettuato in conformità agli indirizzi generali di cui al comma 2, costituisce dichiarazione ai sensi dell’articolo 13 ed il relativo provvedimento è trascritto nei modi previsti dall’articolo 15, comma 2. I beni restano definitivamente sottoposti alle disposizioni del presente titolo».

(53) Il richiamo al termine espropriazione può ritornare utile per evidenziare il carattere ablatorio di tali vincoli.

(54) Corte Cost. 4 luglio 1974, n. 202, in Giur. cost., 1974, p. 1693 e ss.; Corte Cost. 28 dicembre 1984, n. 309, in Giur. cost., 1984, p. 2247e ss.

(55) In particolare, secondo F. MARINI, op. cit., p. 33 e ss., il vincolo culturale «è un limite di diritto pubblico alla proprietà privata di natura reale e fondato su un provvedimento amministrativo».

(56) Corte Cost. 26 aprile 1971, n. 79, in Foro it., 1971, I, c. 1164; Corte Cost. 20 febbraio 1973, n. 9, in Foro it., 1973, I, c. 972.

(57) Non è questa la sede per esaminare le diverse posizioni sostenute in dottrina in merito al valore giuridico ed alle conseguenze nella gerarchia delle fonti del diritto italiano derivanti dall’articolo 7, comma 2 della Costituzione. Ci limitiamo, pertanto, a rinviare a F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, cit., p. 105 e ss.; C. CARDIA, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 207 e ss.; V. DEL GIUDICE, La questione romana e i rapporti tra Stato e Chiesa fino alla Costituzione, Roma, 1947, p. 293, che sosteneva la tesi della costituzionalizzazione dei Patti; E. SPAGNA MUSSO, Costituzione rigida e fonti atipiche, Napoli, 1966, p. 75; A.C. IEMOLO, Premesse allo studio dei rapporti tra Stato e Chiesa, Milano, 1970, p. 113. Tali autori sostengono la tesi della costituzionalizzazione del solo sistema concordatario, nel senso che il legislatore ordinario non potrebbe emanare norme unilaterali nelle materie regolate dai Patti fermo restante il loro rango di legge ordinaria. Nell’àmbito di questa seconda impostazione, si segnala, poi, l’indirizzo, fatto proprio anche dalla Corte Costituzionale (sentenza 1 marzo 1971, n. 30 in Dir. fam., 1972, p. 188) secondo il quale le norme pattizie operano secondo il principio di specialità, non può essere legittimamente incisa dalla legge ordinaria, al fine di contemperare gli interessi ed i valori potenzialmente conflittuali delle due parti, ma non possono derogare ai princìpi fondamentali della Costituzione. Cfr. C. CARDIA, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 210.

(58) Si tratta degli orientamenti dottrinali, già precedentemente richiamati. Cfr. L. MAFFEO, op. cit., p. 65 e ss.

(59) Cfr. in particolare P. BELLINI, «Sulla tutela governativa del patrimonio artistico ecclesiastico in Italia», in Dir. eccl., 1966, I, p. 313 e ss.; ID., Sui limiti di legittimità costituzionale delle disposizioni di derivazione concordataria contrastanti con valori costituzionalmente garantiti, in AA.VV., Studi per la revisione del Concordato, Padova, 1970.

(60) Cfr. magistralmente C. MIR ABELLI, Profili ecclesiastici nella tutela dei beni culturali, ove si rileva anche la necessità di superare l’impostazione che restringe l’àmbito concordatario ai soli beni di proprietà degli enti ecclesiastici.

(61) R. TAMIOZZO, Beni culturali di interesse religioso, cit., p. 23, il quale, con riferimento all’attuale formulazione dell’articolo 9 del codice dei beni culturali, che rappresenta l’attuale punto di arrivo della complessa evoluzione normativa che si sta illustrando, afferma la necessità del richiamo alle due contrapposte destinazioni indicate nel testo, che certamente rappresentano il punto di emanazione dei concomitanti interessi sottesi alla materia.

(62) Le disposizioni emanate dalla Cei, intitolate “Tutela e conservazione del patrimonio storico e artistico della Chiesa in Italia”, in data 14 giugno 1974, sono pubblicate in Notiziario Cei, 1974, p. 107-117.

(63) Così testualmente si legge nelle citate disposizioni della Cei.

(64) C. AZZIMONTI, op. cit., p. 314.

(65) Ci riferiamo alla bozza della Commissione Gonella del 1968. Cfr. T. MAURO, op. cit., p. 95.

(66) O. BUCCI, «Gli archivi ecclesiastici di fronte alla legislazione statale. Dalle leggi eversive alle modificazioni del Concordato», in Arch. eccl., 1985-1986, p. 92 e ss.

(67) A. TALAMANCA, «I beni culturali ecclesiastici tra legislazione statale e normativa bilaterale», in Dir. eccl., 1985, I-II, p. 3 e ss.

(68) O. BUCCI, op. cit., p. 73 e ss.

(69) C. MIR ABELLI, op. cit., p. 117.

(70) P. BELLINI, Come nasce una res mixta; C. CARDIA, La riforma del Concordato, Torino, 1980, p. 199.

(71) Si veda, in particolare, la bozza quinta-bis del 1982, articolo 12.

(72) L. GUERZONI, «Nuovo Concordato e beni culturali, profili politico istituzionali della bozza d’intesa», in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1993, I, p. 142.

(73) F. PETRONCELLI HÜBLER, voce “Beni culturali”, II, Diritto ecclesiastico, in Enc. giur., Roma, 1989, p. 3.

(74) La Corte Costituzionale ha ravvisato nell’articolo 7, Cost., una portata idonea a coprire anche le norme di revisione del Concordato del 1929. Si vedano, in coerenza con i principi tracciati dalla già richiamata fondamentale decisione del 1971, Corte Cost., 12 aprile 1989, n. 203, in Dir. eccl., 1989, II, p. 293 e 14 gennaio 1991, n. 13, in Dir. eccl., 1991, II, p. 283 (nota).

(75) Accordo firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modifiche al Concordato lateranense e ratificato con L. 25 maggio 1985, n. 121.

(76) G. PASTORI, «L’articolo 12 del nuovo Concordato, interpretazione e prospettive di attuazione», in Jus, 1989, p. 77 e ss.

(77) Cfr. G. PASTORI, «L’articolo 12 del nuovo Concordato...», cit., p. 83.

(78) G. SAR ACENI, Cultura e beni religiosi, in A A.V V., Beni culturali e interessi religiosi, Napoli, 1983, p. 19.

(79) A. VITALE, Corso di diritto ecclesiastico. Ordinamento giuridico e interesse religioso, Milano, 1993, p. 273.

(80) G. DALLA TORRE, «I beni culturali ecclesiastici. Appunti per una riflessione», in Quad. dir. pol. eccl., 1993, p. 117.

(81) P. BELLINI, «I beni culturali di proprietà ecclesiastica nel nuovo Concordato», in Dir. eccl., 1984, I, p. 265 e ss.

(82) G. DALLA TORRE, «I beni culturali ecclesiastici...», cit., p. 117.

(83) L. SCALER A, Beni culturali e nuovo Concordato, cit., p. 74; F. PETRONCELLI HÜBLER, Notazioni problematiche.

(84) CEI, «I beni culturali della Chiesa in Italia», 9 dicembre 1992, in Notiziario Cei, 1992, p. 312 e ss., ove si legge: «La Chiesa, per la celebrazione della liturgia e per l’esercizio della sua missione, ha sempre favorito la creazione di beni culturali, che stimolano una più diretta comunicazione tra i fedeli nella Chiesa e tra la Chiesa e il mondo circostante, promuovendo un arricchimento sia della stessa Chiesa sia delle varie culture. All’ingente quantità di tali beni culturali di cui l’Italia è ricchissima, alla loro qualità, è da aggiungere l’evoluzione della concezione di patrimonio storico- artistico: è andata emergendo una precisa riflessione teologica sui beni culturali; si è sviluppato il senso della loro funzione, sia per la migliore fruizione in generale sia per la fruizione precipua secondo la natura dei prodotti d’arte e cultura; si è affermata la percezione dell’ef ficacia di cui i beni culturali sono pregnanti e per il culto e per l’evangelizzazione.»

(85) L. SCALER A, Beni culturali e nuovo Concordato, cit., p. 69; A. VITALE, op. cit., p. 406 e ss.

(86) C. CARDIA, Tutela e valorizzazione dei beni culturali di interesse religioso tra Stato e Chiesa cattolica, in Beni culturali di interesse religioso a cura di G. Feliciani, Bologna, 1995, p. 65.

(87) C. CARDIA, Tutela e valorizzazione..., cit., p. 57; G. PASTORI, «L’articolo 12 del nuovo Concordato...», cit., p. 84.

(88) G. PASTORI, «L’articolo 12 del nuovo Concordato...», cit., p. 83; F. PETRONCELLI HÜBLER, I poteri dell’autorità ecclesiastica.

(89) Si veda, ad esempio, l’articolo 831, c.c.

(90) P. BELLINI, «Il patrimonio artistico ecclesiastico italiano fra Concordato e intesa d’attuazione», in Quad. it. nostra, 1993, 25, p. 495; L. GUERZONI, op. cit., p. 139. Diversamente C. CARDIA, Tutela e valorizzazione..., cit., p. 68 e ss.

(91) Dichiarata esecutiva con D.P.R. 26 settembre 1996, n. 571.

(92) G. FELICIANI, «I beni culturali ecclesiastici. Dall’Accordo di revisione del Concordato alla recente intesa», in Vita e pensiero, 1997, p. 500 e ss.

(93) F. PETRONCELLI HÜBLER, voce Beni culturali, cit., p. 5.

(94) Resa esecutiva con D.P.R. 16 maggio 2000, n. 189.

(95) Sulla concezione “funzionalizzata” della proprietà privata nella Costituzione, cfr. P. PERLINGIERI, Il diritto civile..., cit., p. 284 e ss.

(96) Il decreto legislativo n. 112/1998 è stato emanato ai sensi della L. 15 marzo 1997, n. 59, la quale in attuazione del principio di sussidiarità operava un massiccio trasferimento di competenze a regioni ed enti locali con riguardo, per quanto qui interessa, alla promozione dello sviluppo delle comunità locali, ferma restando, tra l’altro, la riserva allo Stato delle competenze in materia di tutela dei beni culturali e del patrimonio storico- artistico (cfr. articoli 2 e 3 della L. 59/1997).

(97) M. CAMMELLI, Beni ed attività culturali di interesse religioso, in A A.V V., Le competenze nelle materie di interesse ecclesiastico dopo il D.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 a cura di R. Botta, Torino, 2001, p. 165 e ss.

(98) S. BORDONALI, Beni ed attività culturali di interesse religioso, in A A.V V., Le competenze nelle materie..., cit., p. 171 e ss.

(99) Si segnalano: «Intesa tra Regione Toscana e Conferenza Episcopale Toscana (Cet) per la valorizzazione del patrimonio culturale ecclesiastico, 18 dicembre 1992», in Gazzetta ambiente, p. 178-179; «Protocollo d’intesa fra la Regione dell’Umbria e la Conferenza Episcopale Umbra per la salvaguardia e la valorizzazione dei beni e servizi culturali ecclesiastici», in Gazzetta ambiente, p. 180-181; «Intesa tra la Regione del Veneto e la Provincia Ecclesiastica Veneta sul patrimonio culturale di proprietà degli enti ecclesiastici», 15 ottobre 1994, in Quad. dir. pol. eccl., III (1995), 2, p. 539-540; «Protocollo di intesa tra la Regione Calabria e la Conferenza Episcopale della Calabria concernente i beni monumentali e artistici di proprietà degli Enti Ecclesiastici», giugno 1996, in Quad. dir. pol. eccl., V, (1997), 2, p. 514-516; «Intesa tra l’Assessore Regionale dei Beni Culturali ed Ambientali e della Pubblica Istruzione e il Presidente della Regione Ecclesiastica Sicilia per la salvaguardia, la valorizzazione e il godimento dei beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti ed istituzioni ecclesiastiche», 11 giugno 1997, in Quad. dir. pol. eccl., VI, (1998), 2, p. 496-501; «Protocollo d’intesa tra Regione Piemonte e Conferenza Episcopale piemontese per la salvaguardia e la valorizzazione dei beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche», 30 marzo 1998, in Quad. dir. pol. eccl., VII, (1999), 2, p. 468-470; «Protocollo d’Intesa tra la Regione Autonoma della Sardegna e la Conferenza Episcopale Sarda per la salvaguardia e la valorizzazione dei beni culturali appartenenti ad enti ecclesiastici, 1° giugno 1999», in Quad. dir. pol. eccl., VIII, (2000), 2, p. 545-547; «Protocollo di intesa tra la Regione Marche e la Conferenza Episcopale Marchigiana per la salvaguardia e la valorizzazione dei beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche, 18 ottobre 1999», in Quad. dir. pol. eccl., VIII, (2000), 2, p. 556-558; «Protocollo d’intesa circa la fruizione dei beni culturali ecclesiastici tra il Presidente della Regione Umbria e il Presidente della Regione Ecclesiastica Umbria, 12 gennaio 2000», in Quad. dir. pol. eccl., VIII, (2000), 2, p. 587-589.

(100) F. PETRONCELLI HÜBLER, voce Beni culturali, cit., p. 4.

(101) Per un’ampia disamina, cfr. P. CARPENTIERI, Commento al capo I del titolo II, in A A.V V., Il codice dei beni culturali, cit., p. 478 e ss.

(102) La scelta classificatoria supera i pregressi tentativi di una diversa definizione del bene culturale. Cfr. M.S. GIANNINI, «I beni culturali», cit., p. 6.

(103) M. CAMMELLI, La semplificazione normativa alla prova: il Testo unico dei beni culturali e ambientali, in A A.V V., La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, Bologna, 2000, p. 21.

(104) Cfr., ad esempio, UNESCO, Raccomandazione per la tutela dei beni culturali mobili, Parigi, 1978; Atti della Conferenza mondiale Unesco sulle politiche culturali, Città del Messico, 1982; Risoluzione 916 (1989) dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. In dottrina, si veda F. MARGIOTTA BROGLIO, Il fenomeno religioso nel sistema giuridico dell’Unione europea, in A A.V V., Religioni e sistemi giuridici, Bologna, 1997.

(105) F. PETRONCELLI HÜBLER, voce Beni culturali, cit., p. 7.

(106) Resa esecutiva con D.P.R. 4 febbraio 2005, n. 78.

(107) V. M. SESSA, Art. 9. Beni culturali di interesse religioso, in Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio a cura di G. Leone - A.L. Tarasco, Padova, 2006, p. 88.

(108) C. CARDIA, Lo spirito della nuova intesa, in www.olir.it , novembre 2005, p. 6.

(109) C. CARDIA, Lo spirito della nuova intesa, cit., p. 3; G. PASTORI, «I beni culturali di interesse religioso: le disposizioni pattizie e la normazione più recente», Quad. dir. pol. eccl., 2005, p. 195.

(110) Si segnalano a tal riguardo anche il D.m. 25 gennaio 2005, che detta i criteri per la verifica dell’interesse culturale dei beni degli enti senza scopo di lucro, nonché l’accordo tra il Dipartimento beni culturali e paesaggistici del Ministero competente e la Conferenza episcopale italiana, uf ficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici in data 8 marzo 2005.

(111) Cfr. sui vari aspetti dell’intesa del 2005: F. MARGIOTTA BROGLIO, Art. 9. Beni culturali di interesse religioso, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio a cura di M. Cammelli, Bologna, 2007, p. 93 e ss.; A. ROCCELLA, La nuova Intesa con la Conferenza episcopale italiana sui beni culturali d’interesse religioso, in www. aedon.mulino.it, 2006, 1, p. 3 e ss.; A. CROSETTI - D. VAIANO, Beni culturali e paesaggistici, Torino, 2009, p. 43 e ss.; F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, Bologna, 2009, p. 380 e ss.; L. CASINI, «La valorizzazione dei beni culturali», in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, p. 651 e ss.; M. BASILE, «Rapporti fra soggetti pubblici e privati a fini di valorizzazione di beni culturali», in Econ. dir. terz., 2004, p. 249.

(112) La giurisprudenza amministrativa sottolinea la specialità degli accordi nella materia in esame rispetto alle regole generali, sulle quali, pertanto, esse prevalgono. Cfr. Tar Basilicata, Potenza, 29 aprile 2003, n. 376, in Dir. eccl., 2003, p. 289.

(113) N. GULLO, Beni culturali di interesse religioso, in A A.V V., Codice dei beni culturali e del paesaggio, II edizione, Milano, 2012, p. 111.

(114) Tar Trentino Alto Adige, Trento, 13 giugno 2005, n. 172, in www.regione.taa.it/tar.tn.it/pdf/sent200500172.pdf+.

(115) Tar Basilicata, Potenza, 29 aprile 2003, n. 376, in Dir. eccl., 2003, p. 289; Tar Trentino Alto Adige, Trento, 13 giugno 2005, n. 172, in www.regione.taa.it/tar.tn.it/pdf/sent200500172.pdf+; Corte dei Conti, Sicilia, sez. giur., 8 gennaio 2008, n. 63, in Riv. Corte Conti, 2008, 1, p. 147 (s.m.).

(116) Tar Toscana, 17 aprile 1989, n. 146, in Tar, 1989, I, p. 2459, che riproduce, delimitandone meglio la portata, l’orientamento già assunto con riferimento alla L. 1089/1939, da Cons. Stato, sez. VI, 7 marzo 1950, n. 73, in Foro amm., 1950, I, p. 212 e ss., già citata in precedenza.

(117) Numerose decisioni individuano ipotesi di provvedimenti emanati per i beni in discorso, ma non soggetti a previo accordo, non essendo incise le esigenze del culto. Cfr. Cons. Stato, VI, 12 maggio 1954, n. 338, in Cons. Stato, 1954, I, p. 604; Cons. Stato, VI, 15 marzo 1983, n. 115, Riv. giur. ed., 1983, I, p. 471, in materia di misure di tutela di un palazzo destinato ad abitazione; Tar Abruzzo, L’Aquila, 17 luglio 1998, n. 666, in Tar, 1998, I, p. 3781, in materia di nulla osta all’esecuzione di lavori nel muro di cinta della casa canonica; Tar Campania, Napoli, IV, 1° luglio 2009, n. 3623, in www.giustizia-amministrativa.it, in materia di parcheggio seminterrato nei pressi di un edificio di culto.

(118) Cons. Stato, sez. VI, 7 marzo 1950, n. 73, in Foro amm., 1950, I, p. 212 e ss.; Cons. Stato, sez. VI, 12 maggio 1954, n. 338, in Cons. Stato, 1954, I, p. 604 e ss.

(119) Tar Lazio, Roma, sez. II, 23 settembre 1981, n. 909, in Tar, 1981, I, p. 3026 e ss.; Cons. Stato, sez. IV, 15 marzo 1983, n. 115, in Riv. giur. ed., 1983, I, p. 471 e ss.

(120) Cfr. C. LOMONACO, «Una prima lettura del D.lgs. 26 marzo 2008 n. 62 concernente le modifiche al codice dei beni culturali», in CNN Notizie del 23 aprile 2008; C. LOMONACO, «Enti ecclesiastici e beni culturali», in Studi e Materiali, 2008, p. 1739. In tale nota si affronta il problema della portata della modifica introdotta dal D.lgs. 62/2008 riguardo agli enti ecclesiastici e alla disciplina di cui al codice dei beni culturali. L’autore, dopo aver descritto la situazione vigente prima dell’entrata in vigore della novella di cui al D.lgs. 62/2008 conclude nel modo seguente: «In seguito a tale modifica il legislatore ha, dunque, chiarito la portata interpretativa di cui al primo comma dell’art. 10 del codice dei beni culturali. A tal fine, nella relazione che accompagna il decreto legislativo in esame, si legge che tale specificazione è stata introdotta al fine di risolvere ogni dubbio interpretativo riguardo alla disciplina da applicare agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. Premesse tali considerazioni e sul “presupposto” che il D.lgs. 62/2008 sul punto, limitandosi a chiarire la portata della precedente normativa, non ha introdotto alcuna novità, appare preferibile - a parere di chi scrive - ritenere applicabile agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti la disciplina prevista dal codice dei beni culturali per le persone giuridiche senza scopo di lucro anche prima del D.lgs. 62/2008».

(121) Ai fini di questa affermazione non occorre prendere posizione in merito al problema, che analizzeremo nei paragrafi seguenti, della titolarità delle situazioni giuridiche inerenti i beni in discorso. Infatti aderendo all’autorevole dottrina, la quale ritiene che tali beni, quando non appartengono allo Stato, costituirebbero beni immateriali in dominio della pubblica amministrazione (formato da uno o più cose, a seconda del rilievo che le stesse hanno per l’interesse pubblico, e distinto dal singolo bene materiale di proprietà non statale), si dovrebbe ritenere che il diritto di prelazione non rappresenterebbe altro che una manifestazione del dominio statale su beni appartenenti ad altri soggetti dell’ordinamento. M.S. GIANNINI, I beni pubblici, Roma, 1963, p. 92 e ss., sulle orme della distinzione avanzata tra beni e cose in senso giuridico da S. PUGLIATTI, Beni e cose in senso giuridico, Milano, 1964. Dello stesso M.S. GIANNINI, «I beni culturali», cit., p. 3 e ss. Alla richiamata ricostruzione è stato obiettato che non sembra possibile separare una sfera di utilità immediata, della quale gode il privato, da quella del dominio pubblico, cosicché appare preferibile individuare il fondamento dei poteri della P.A. nella materia de qua in uno speciale regime di diritto pubblico, che comporta l’attribuzione a quest’ultima di potestà finalizzate alla tutela ed al godimento collettivo dei beni stessi, tra le quali va annoverato il diritto di prelazione. G. PALMA, op. cit., p. 22 e ss.; Cfr. A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, XV ediz., Napoli, 1989, p. 753 e ss.; dello stesso Autore, «Spunti per lo studio dei beni privati di interesse pubblico», in Dir. econ., 1956, p. 163 e ss.; C. ROSSANO, Prelazione dello Stato sulle cose di interesse artistico e storico, in A A.V V., Prelazione e retratto coordinato da G. Benedetti e L.V. Moscarini, Milano, 1988, p. 517 e ss. (Per l’analisi di tali teorie si rinvia al paragrafo 14) b del capitolo III, riguardante la natura giuridica del bene culturale ed al successivo paragrafo 29 di tale capitolo concernente la natura dell’interesse della prelazione artistica).

(122) Cfr. L. BIGLIAZZI-GERI, Sul regime di “cose ad uso controllato” con riguardo ai trasferimenti, ai vincoli privatistici ed alle sanzioni in genere, in A A.V V., Vincoli della proprietà fra diritto pubblico e diritto privato a cura di G. e A. Fuccillo, Gaeta, 1992, p. 117 e ss.; V. MAZZARELLI, Il regime dei beni privati sottoposti a tutela paesaggistico-ambientale e culturale, in A A.V V., Vincoli della proprietà fra diritto pubblico e diritto privato, cit., p. 69 e ss.; F. LEMME, Limiti nella circolazione dei beni culturali, situazione attuale e prospettive, in A A.V V., Il regime tributario e amministrativo dei beni culturali, Roma - Milano, 1990, p. 183 e ss. In giurisprudenza, Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 1988, n. 819, in Riv. amm., 1989, p. 66 e ss.

(123) Si veda anche l’articolo 53 del codice che, peraltro, non interessa direttamente questa materia.

(124) Cfr. A. FUCCILLO, La circolazione dei beni immobili..., cit., p. 117.

(125) Gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti sono espressamente annoverati tra i soggetti di cui all’articolo 10, comma 1, del codice.

(126) Tale disposizione, che riconosce la rilevanza dell’interesse a fini circolatori indipendentemente da un atto compositivo del vincolo e dalla pubblicità circa l’esistenza di questo, rappresenta però un significativo aggravio per la circolazione dei beni degli enti ecclesiastici. Cfr. A. FUCCILLO, La circolazione dei beni immobili..., cit., p. 116.

(127) A. FUCCILLO, La circolazione dei beni immobili..., cit., p. 117.

(128) Nel vigore della precedente disciplina i beni che appartengono sia ad enti pubblici non territoriali sia ad enti privati non profit potevano essere alienati previa autorizzazione, ma con diversità di presupposti. Mentre per gli enti pubblici non territoriali essa era subordinata alle medesime condizioni fissate per gli enti territoriali, per gli enti privati senza fine di lucro si prescindeva, ovviamente, dall’interesse dell’appartenenza alle raccolte pubbliche e si richiedeva che non vi fosse grave danno alla conservazione o al pubblico godimento dei beni. Nell’attuale disciplina, l’alienazione non è più subordinata all’assenza di grave danno al patrimonio nazionale. La scelta compiuta dai compilatori del testo unico e, successivamente, del codice, appare corretta se si considera non solo la genericità di quest’ultima previsione, espunta dal testo unico, ma la disparità - non facilmente giustificabile - che essa aveva generato tra enti pubblici e privati, con evidente aggravamento della disciplina applicabile a questi ultimi. Per i beni archivistici il regime è, invece, più diversificato, nel senso che gli archivi ed i singoli documenti dello Stato e degli enti pubblici sono in ogni caso inalienabili - si rammenti che i beni archivistici dello Stato e degli enti territoriali sono demaniali -, mentre sono alienabili, previa autorizzazione, quelli appartenenti a privati e, quindi, più precisamente sia alle persone fisiche che agli enti collettivi, ancorché non personificati, indipendentemente dallo scopo istituzionale. Per tali beni i presupposti per l’autorizzazione sono identici a quanto previsto per l’alienazione dei beni appartenenti ad enti non profit. Ma vi è un’altra differenza, ancor più significativa, tra la nuova normativa, che ha trasfuso le norme del testo unico, e la disciplina previgente, quanto ai presupposti dell’autorizzazione. Nella legge 1089/1939, infatti, la regola (art. 23, L. cit.), per lo Stato e gli enti pubblici in genere, era la inalienabilità, salvo autorizzazione (art. 24, L. cit.). Per gli enti non pubblici, invece, l’art. 26, L. 1089/1939, sanciva in via di princìpio l’alienabilità dei beni storici e artistici, sia pur condizionandola ad un’autorizzazione che poteva essere rifiutata solo in presenza di determinati presupposti. Orbene, se pure non può negarsi che, sul piano pratico, le norme richiamate riconducevano all’identico risultato di rendere invalido il negozio di alienazione non autorizzato (art. 61, L. cit.), risultava evidente, attraverso la comparazione delle due disposizioni, la volontà del legislatore di sancire, da un lato, l’eccezionalità dell’alienazione dei beni appartenenti allo Stato ed agli enti pubblici e, dall’altro, la normalità dell’alienazione dei beni appartenenti ad enti non pubblici. La formulazione adottata con l’art. 55, ha reso più omogenea la disciplina della circolazione dei beni appartenenti allo Stato ed agli enti pubblici in genere da un lato, ed agli enti non profit dall’altro. Per i primi, la disposizione di cui al primo comma recita, infatti: «il Ministero può autorizzare», mentre per gli enti non pubblici il successivo art. 56 sancisce che l’alienazione «è altresì soggetta ad autorizzazione». E la nuova formulazione è coerente con la previsione dell’art. 32, comma 1, L. 23 dicembre 1998, n. 448, con la quale si è inteso ripensare la disciplina della circolazione dei beni immobili degli enti pubblici territoriali, integrandola con norme finalizzate, in caso di dismissione dei beni in discorso, alla tutela ed alla conservazione degli stessi, anche a seguito della constatata inadeguatezza, sotto tale profilo, di un primo intervento legislativo rivolto a consentire procedure di dismissione, compiuto con l’art. 12, L. 15 maggio 1997, n. 127, e non a caso abrogato dopo un breve lasso di tempo.

(129) Cfr. C. ARIAS, «Sulla inalienabilità ed incommerciabilità di cose artistiche appartenenti ad enti morali», in Rass. avv. Stato, 1949, p. 54 e ss. L’art. 58, infine, sancisce che «il Ministero può autorizzare la permuta dei beni indicati agli articoli 55 e 56 nonché di singoli beni appartenenti alle pubbliche raccolte con altri appartenenti ad enti, istituti e privati, anche stranieri, qualora dalla permuta stessa derivi un incremento del patrimonio culturale nazionale ovvero l’arricchimento delle pubbliche raccolte».

(130) G. PALMA, op. cit., p. 362; M. CANTUCCI, «La prelazione...», cit., p. 565 e ss.; M.S. GIANNINI, I beni pubblici, cit., p. 91; C. ROSSANO, op. cit., p. 517 e ss. In giurisprudenza accoglie la seconda tra le tesi delineate nel testo: Tar Lazio, 17 ottobre 1983, n. 900, in Tar, 1983, I, p. 3112 e ss.

(131) Tale soluzione è stata introdotta anche a seguito della pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, sent. 5 gennaio 2000, in htpp://www.echr.coe.int., che ha osservato come la disposizione che prevede che, in caso di dichiarazione omessa o incompleta, si mantiene aperto ad libitum il termine per l’esercizio della prelazione, manchi di chiarezza ed introduca nella disciplina dell’istituto in esame un elemento di incertezza, al quale corrisponde un margine di manovra della competente autorità eccessivamente ampio e tale da ledere il principio del “giusto equilibrio” fra esercizio di una pubblica funzione e salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo.

(132) Dall’art. 61 del codice deriva, quindi, che per stabilire il termine per l’esercizio della prelazione bisogna distinguere quello normale di giorni 60 (che opera nel caso in cui la denuntiatio sia presentata nel termine, cioè nei trenta giorni dal compimento dell’atto ed in modo regolare), e quello di 180 giorni (qualora la denuncia sia presentata ma sia irregolare, o perché presentata fuori il termine di trenta giorni dal compimento dell’atto o perché presentata in modo incompleto rispetto al punto 4 dell’art. 59, od infine perché la denuncia sia del tutto omessa).

(133) In giurisprudenza, nel senso che l’art. 61, L. 1089/1939, commini una vera e propria nullità del negozio, Cass. 5 agosto 1957, n. 3325, in Foro it., 1957, I, c. 1940 e ss.; Cass. 26 giugno 1956, n. 2281, in Giur. it., 1957, I, 1, c. 285 e ss.; App. Brescia, 31 luglio 1956, in Foro pad., 1957, I, p. 856 e ss.; Trib. Venezia, 1 marzo 1966, in Foro pad., 1966, I, p. 493 e ss.; App. Venezia, 3 ottobre 1968, in Corti Brescia, Venezia e Trieste, 1969, p. 186 e ss. È stato pure affermato che nei giudizi di nullità tra l’alienante e lo Stato l’acquirente del bene è litis consorte necessario (cfr. Cass., S.U., 15 maggio 1971, n. 1440, citata sopra); Cass. 23 aprile 1985, n. 2646, in Giust. civ., 1986, I, p. 1748 e ss.

(134) Cass. 21 agosto 1962, n. 2613, in Foro it., 1963, I, c. 303 e ss.; Cass. 14 giugno 1968, n. 1900, in Rep. Giust. civ., 1968, voce Antichità e belle arti, 1; Cass. 14 marzo 1987, n. 2660, in Rep. Giust. civ., 1987, voce Antichità e belle arti, n. 26; Cons. Stato, 1 dicembre 1986, n. 886, in Giur. it., IV, 1, c. 230 e ss.

(135) Cfr., ad esempio, G. PESCATORE, «Prelazione artistica e comunicazione del bene vincolato», in Vita not., 1999, p. 19 e ss.; T. ALIBR ANDI - P. FERRI, op. cit., p. 468; M. COZZUTO QUADRI, «In tema di sanzioni per l’omessa denunzia di vendita di cosa d’arte», in Nuova giur. civ. comm., I, p. 452 - 456, p. 748; P. RESCIGNO, voce Condizione, (dir. vig.), in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 772; G. TATAR ANO, “Incertezza”, autonomia privata e modello condizionale, Napoli, 1976, p. 32.

(136) Per una impostazione analoga, con riferimento al requisito della esistenza della cosa, in caso di negozio sul bene futuro, cfr. A. FALZEA, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941, p. 101.

(137) L. 16 febbraio 1913, n. 89.

(138) Ed infatti, secondo la giurisprudenza (Tar Toscana, 14 febbraio 1984, n. 84, in Foro it., 1984, III, c. 448 e ss.) in presenza della successiva alienazione di un bene acquistato in virtù di un negozio nullo, per violazione dell’art. 61, L. 1089/1939, l’amministrazione correttamente esercita la prelazione nei confronti dell’originario proprietario ed al prezzo convenuto nel primo negozio, essendo tale atto inidoneo a trasferire la proprietà all’autore della seconda alienazione. Giova accennare seppur brevemente alle tesi formatesi riguardo alla natura di tale fattispecie. In precedenza l’art. 32 della legge 1089 parlava di «contratto condizionato sospensivamente all’esercizio del diritto di prelazione». Si discuteva, pertanto, se si doveva parlare di sospensione dovuta a condicio facti oppure a condicio iuris. La dottrina (T. ALIBR ANDI - P. FERRI, op. cit., p. 431 e ss.) riteneva che il notaio non fosse tenuto ad indicare in atto che il negozio traslativo risultasse sottoposto alla condizione sospensiva del mancato esercizio della prelazione da parte dello Stato.

(139) In argomento cfr., per tutti, A. FALZEA, op. cit, p. 94 e ss.

(140) Su questa categoria cfr. L. CARIOTA FERR AR A, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1962, p. 374 e ss.; A. FEDELE, La invalidità del negozio giuridico di diritto privato, Torino, 1943, p. 124 e ss.; F. SANTORO- PASSARELLI, Dottrine generali sul diritto civile, IX ed., Napoli, 1978, p. 250 e ss.; C. DONISI, «In tema di nullità sopravvenuta nel negozio giuridico», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, p. 755 e ss.; C. FERRINI, «Sulla invalidazione successiva del negozio giuridico», in Arch. giur., 1901, VII, p. 223 e ss.; E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. Vassalli, Torino, 1960 (rist.), p. 488 e ss.; S. TONDO, Invalidità e inefficacia del negozio giuridico, in Noviss. Dig. it., vol. VIII, Torino, 1962, p. 1002 e ss. Una impostazione del problema in termini di “invalidazione successiva” è accolta da D. RUBINO, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Milano, 1939, p. 97 e ss. Tale autore dopo aver inteso la fattispecie come un complesso di tutti gli elementi necessari per la produzione di un effetto si sofferma sull’analisi di alcuni fra gli elementi necessari per la produzione dell’effetto che pur necessari rimerebbero fuori dalla fattispecie essendo questi requisiti di ef ficacia, contrapposti come tale ai requisiti costitutivi della fattispecie. Tutti gli elementi, sempre secondo tale autorevole dottrina, sono essenziali per la produzione dell’effetto, ma solo alcuni sono rilevanti per la specificazione dell’effetto, cioè per la determinazione del contenuto e delle modalità. L’autore quindi parla di una formazione successiva della fattispecie. Gli elementi rilevanti per la produzione dell’effetti rimangono divisi in tre gruppi: elementi che debbono realizzarsi prima della manifestazione di volontà; elementi che debbono realizzarsi contemporaneamente ad essa; ed elementi che possono realizzarsi dopo di questa. La mancanza degli elementi cd. costitutivi determina la nullità, la mancanza di uno degli elementi semplici determina l’inef ficacia. Per l’autore, tra nullità ed inef ficacia non esiste alcuna differenza giuridica («una volontà che dal momento in cui viene manifestata rimane definitivamente inef ficacie altro non è che un negozio nullo privo cioè di qualsiasi effetto giuridico»). Dal momento che manca un elemento costitutivo il negozio è incompleto se gli elementi costitutivi si sono realizzati ma ancora manca un requisito di ef ficacia e si avrebbe la fase dell’inef ficacia in senso stretto o inef ficacia momentanea. Vi sono dunque elementi che debbono realizzarsi prima o contemporaneamente alla manifestazione della volontà; vi sono poi elementi che debbono realizzarsi dopo la manifestazione della volontà. Secondo tale teoria esiste una differenza tra questi elementi che attiene alla fase degli effetti preliminari; cioè, fin quando non si sono ancora realizzati gli elementi successivi alla manifestazione di volontà, sorgono normalmente effetti preliminari; mentre tutti gli elementi della fattispecie sono rilevanti per la produzione degli effetti definitivi, solo gli elementi anteriori o contemporanei alla manifestazione di volontà sono rilevanti anche per la produzione degli effetti preliminari. Per una prospettazione del fenomeno in termini di inef ficacia con riguardo ai requisiti dell’oggetto del negozio, cfr., invece, A. FALZEA, op. cit., p. 299 e ss.; R. SCOGNAMIGLIO, «Sull’invalidità successiva dei negozi giuridici», in Amm. dir. comp., 1951, XXVII, p. 79 e ss.

(141) C. DONISI, «In tema di nullità sopravvenuta...», cit., p. 785 e ss.

(142) In giurisprudenza questa tesi è accolta da Cass. 1 giugno 1992, n. 6612, in Rep. Foro it., 1992, voce Antichità, 73.

(143) Ad esempio, B. CARBONI, Natura negoziale della prelazione dello stato e sua riconducibilità nella categoria delle prelazioni legali, in A A.V V., Prelazione e retratto, Milano, 1988, p. 541.

(144) In questo senso, anche di recente, G. PESCATORE, op. cit., p. 19 e ss. Riproponendo con vivacità una tesi già da lui sostenuta in passato. In giurisprudenza: Cass. 17 giugno 1967, n. 1429, in Foro it., 1967, I, c. 2381 e ss.; Cass., S.U., 15 maggio 1971, n. 1440, in Foro it., 1971, I, c. 2829 e ss.; Cass. 14 febbraio 1975, n. 590, in Foro it., 1375, I, c. 1108 e ss.; Cass. 24 novembre 1995, n. 12166, in Foro it., 1996, I, c. 907 e ss.; Cass. 12 ottobre 1998, n. 10083, in Foro it., 1999, I, c. 126 e ss. Contra: Trib. Firenze, 6 marzo 1967, in Giur. tosc., 1968, p. 551.

(145) La categoria della nullità relativa è oggetto di vivaci dispute. Per una critica radicale, cfr., per tutti, F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, p. 247.

(146) In senso contrario deve forse essere richiamata la giurisprudenza che ritiene necessaria la trasmissione di un documento attestante l’avvenuto trasferimento (Tar Lazio, sez. II, 15 maggio 1985, n. 548, in Tar, 1985, p. 1132 e ss.) e nega ef ficacia alla trasmissione di copia del preliminare (Tar Lazio, sez. II, 17 ottobre 1983, n. 90, in Foro amm., 1984, p. 159 e ss.).

(147) Cfr. G. FURGIUELE, Contributo allo studio della natura delle prelazioni legali, Milano, 1984, p. 28 e ss.; T. ALIBR ANDI - P. FERRI, op. cit., p. 488 e ss.

(148) In argomento, M. BRONZINI, Compravendita di immobili. Per una diversa prospettiva, cfr. M. DE TILLA, «Sull’applicazione dell’art. 1489, c.c., in relazione all’esistenza, sull’immobile promesso in vendita o venduto, di vincoli storici, archeologici ed urbanistici», in Giust. civ., 1993, I, p. 1044 e ss.; A. LEPRI, «Commento a Cass. civ. II sez., 3 febbraio 1992, n. 1143, Vincolo storico artistico sopravvenuto tra preliminare e definitivo: ambito di applicazione dell’art. 1489 c.c.», in Giur. civ. comm., 1992, I, p. 925 e ss.

(149) Cfr. Cons. Stato, 23 marzo 1982, n. 129, in Foro it., 1982, III, p. 285 e ss.; Cass. 7 aprile 1992, n. 4260, in Giust. civ., 1992, I, p. 2386 e ss. Quest’ultima decisione, peraltro, nega la usucapibilità del bene sulla base del divieto di eseguirne la consegna.

(150) Per maggiori approfondimenti riguardo alla casistica dei negozi sottoposti ad autorizzazione, denuncia e prelazione, si rinvia ai recenti studi del Consiglio nazionale del Notariato: Studio n. 5140: D. BOGGIALI-C. LOMONACO, «Ulteriori riflessioni sul codice dei beni culturali», in Studi e materiali, Milano, 2004, p. 728 e ss. Studio n. 5019, G. CASU, «Codice dei beni culturali. Prime riflessioni» in Studi e materiali, p. 626 e ss.

(151) S. PUGLIATTI, voce Alienazione, in Enc. dir., vol. II, Milano, 1959, p. 2 e ss.; secondo tale autore non esisterebbe una nozione generale ed unitaria di alienazione, suscettibile di valere per ogni previsione normativa. Pertanto, per individuare il significato di alienazione, occorrerebbe fare riferimento all’intero testo del provvedimento normativo nel quale il termine “alienazione” viene impiegato. In virtù dell’espressione generica adottata nel codice dei beni culturali, si potrebbe ipotizzare che l’autorizzazione sia richiesta per tutti ed i soli atti traslativi della proprietà del bene, a qualunque titolo essi vengano effettuati, tenuto conto che per gli atti costitutivi di pegno ed ipoteca è stata inserita un’esplicita previsione normativa. Diversamente, secondo T. ALIBR ANDI-P. FERRI, op. cit., p. 463, nel concetto di alienazione rientrerebbero gli atti traslativi di qualunque diritto reale, in quanto la precisazione sul pegno e l’ipoteca sarebbe diretta a togliere un dubbio che poteva sorgere per i cosiddetti diritti reali di garanzia, e non per i diritti reali di godimento; in materia di prelazione, il concetto di alienazione dovrebbe essere inteso in senso restrittivo, in virtù della «diversa natura e funzione del potere d’intervento pubblico che la vicenda traslativa legittima». Ai fini della prelazione, quindi, si dovrebbero prendere in considerazione i soli atti di disposizione che siano idonei a far acquistare allo Stato la proprietà dei beni.

(152) S. PUGLIATTI, voce Alienazione, cit., p. 4; C. FADDA e P.E. BENSA, in B. WINDSCHEID, Pandette, trad. it., vol. IV, Torino, 1930, p. 371 e ss.

(153) S. PUGLIATTI, voce Alienazione, cit., p. 4.

(154) Cfr. E. PACIFICI - MAZZONI, Istituzioni di diritto civile italiano, vol. II, III ed., Firenze, 1881, p. 248 e ss.

(155) G. CASU, «Testo unico dell’edilizia. Prime riflessioni», in Studi e materiali, 2002, p. 907. Inoltre si rinvia a G. CASU, «Codice dei beni culturali... », cit., il quale ribadisce che «allorquando sia trasferito un diritto reale limitato in tal caso deve effettuarsi la denuncia, trattandosi di trasferimento della detenzione del bene, ma non opera la prelazione, perché non sembra congruente con l’acquisto del bene da parte dello Stato il semplice acquisto di un diritto reale limitato. E non sembra che in tal caso la disciplina facultizzi la trasformazione del diritto reale limitato in diritto di proprietà».

(156) Diversamente, Tar Trentino Alto Adige, sez. Trento, 11 ottobre 1991, n. 371, in Riv. giur. ed., 1982, I, p. 957 e ss. che, in un’ipotesi di alienazione della nuda proprietà, ammette l’esercizio della prelazione, ma con riferimento alla sola nuda proprietà. Conforme Cons. Stato, 24 maggio 1995, n. 348, in Riv. giur. ed., 1995, I, p. 881.

(157) D. BOGGIALI - C. LOMONACO, op. cit., p. 735. dove si afferma che «sussistono dubbi per il caso di alienazione della nuda proprietà con contestuale costituzione dell’usufrutto a favore dell’alienante. In tale ipotesi occorre valutare se la permanenza del diritto di usufrutto sul bene, che limita il diritto di proprietà dello Stato, sia compatibile con le finalità di conservazione e di tutela dei beni culturali, al soddisfacimento delle quali sono poste le norme sulla prelazione». La giurisprudenza ha affermato che il carattere necessariamente temporaneo della limitazione, unito alla possibilità comunque di effettuare controlli sulla gestione dell’usufruttuario, giustificano l’esercizio della prelazione. Cons. Stato 24 maggio 1995, n. 348, in Foro it., 1996, III, p. 226 e ss. Sul punto è stato rilevato che il diritto di usufrutto è un diritto temporaneo. Da ciò deriva che l’acquisto della piena proprietà in capo al nudo proprietario sarebbe certo, in quanto l’acquisto della piena proprietà in capo allo Stato, per effetto dell’esercizio della prelazione, sarebbe solo differita nel tempo al momento dell’estinzione del diritto di usufrutto (cfr. M. GRISOLIA, op. cit., p. 369). Le conclusioni raggiunte nell’ipotesi di affrancazione possono anche valere nell’ipotesi di affracanzione di un canone livellario. Sul punto v. C. LOMONACO, «Prelazione artistica ed affrancazione di livello», in Studi e materiali, 2007, p. 1318.

(158) Cfr., in vario senso, in giurisprudenza Cass. 26 ottobre 1972, n. 3296, in Rep. Giust. civ., 1972, voce Enfiteusi, 8; Cass. 18 aprile 1975, n. 1495, in Rep. Giust. civ., 1975, voce cit., 7; e in dottrina, S. ORLANDO CASCIO, voce Affrancazione, in Enc. dir., vol. I, Milano, 1958, p. 810 e ss.

(159) Cfr., per tutti, S. ORLANDO CASCIO, voce Enfiteusi, in Enc. dir., vol. XIV, Milano, 1965, p. 920 e ss.

(160) Così G. PERSICO, voce Antìcresi, in Enc. dir., vol. II, Milano, 1958, p. 533 e ss., ma la tesi non ha trovato conforto nella prevalente dottrina.

(161) In giurisprudenza App. Roma, 18 giugno 1979, in Vita not., 1980, p. 1284 e ss.; Cass. 17 gennaio 1985, n, 117, in Vita not., 1985, p. 148 e ss.; Tar Lazio, 17 ottobre 1983, n. 900, in Tar, 1983, I, p. 3112 e ss.; diversamente, Cass. 21 agosto 1962, n. 2613, in Foro it., 1963, I, c. 303 e ss. Sull’argomento cfr., in dottrina, in vario senso: R. CENNICOLA, Osservazioni in tema...; M.R. COZZUTO QUADRI, Commento a Cass. Civ. I, sez. 17/1/ 1985 n. 117; ID., La prelazione artistica. In particolare sulla possibilità che lo Stato possa acquistare in seguito all’esercizio della prelazione una quota di bene culturale anziché il bene unitario, si rinvia a D. BOGGIALI - C. LOMONACO, op. cit., p. 736. Nello stesso senso G. CASU, «Codice dei beni culturali... », cit.; ID., «Testo unico dell’edilizia... », cit., p. 907.

(162) In dottrina, in argomento, cfr. M.E. POGGI, La circolazione dei beni culturali di proprietà privata, in I contratti del commercio, dell’industria e del mercato finanziario diretto da Galgano, Torino, 1995, p. 394 e ss., A. CACCIA - G. GUISO, La tutela; M. R. COZZUTO QUADRI, La prelazione..., cit. con ampia casistica.

(163) Problemi applicativi possono porsi anche con riferimento alle operazioni di leasing. Tali operazioni, di norma, consistono in una compravendita a favore della società di leasing e una successiva locazione finanziaria tra quest’ultima e l’utilizzatore, con la previsione del patto di acquisto finale. Nel caso in cui il bene concesso in leasing all’utilizzatore sia un bene culturale occorre quindi valutare l’incidenza, sulla suddetta fattispecie, del regime di circolazione previsto dal codice dei beni culturali. R. CLARIZIA, I contratti di finanziamento. Leasing e factoring, Torino, 1999, p. 159 il quale, peraltro, limita la prelazione alla sola ipotesi dell’acquisto del bene da parte del concedente - ciò che avviene nel caso del leasing cosiddetto “finanziario” - e la esclude, invece, all’atto dell’esercizio dell’opzione da parte dell’utilizzatore. Diversamente C. FABRICATORE e A. SCARPA, La circolazione dei beni culturali, Milano, 1998, p. 170 e ss. ai quali si rinvia per ulteriori approfondimenti. Tali autori infatti ritengono che anche l’acquisto finale da parte dell’utilizzatore, in seguito all’esercizio dell’opzione, possa rientrare nel concetto di alienazione a titolo oneroso. Si ritiene, pertanto, che l’esercizio della prelazione dovrebbe spettare allo Stato sia in relazione al primo atto di compravendita, sia con riferimento al momento in cui l’utilizzatore si avvalga della facoltà di esercitare l’opzione di acquisto. In tale ultimo caso lo Stato dovrebbe corrispondere, però, per l’esercizio di prelazione non la sola somma stabilita per l’esercizio di opzione di acquisto, dovendosi tener conto anche dei canoni corrisposti dall’utilizzatore, nella misura in cui siano imputabili come rate anticipate del prezzo. Riguardo al prezzo, a ragione della natura e della potenzialità economica del bene culturale (di norma sottratto ai rischi di obsolescenza) si ritiene essenziale l’opzione di acquisto finale. In tal senso v. C. FABRICATORE e A. SCARPA, op. cit., p. 170 e ss. Tale autore ritiene, infatti, che il prezzo dovuto dallo Stato, nel caso di esercizio della prelazione al momento dell’esercizio dell’opzione, non potrà essere il medesimo stabilito come prezzo di opzione nel contratto di leasing. Infatti «attesa la precipua natura delle cose d’arte, è agevolmente prevedibile che il prezzo di opzione prefissato sia di gran lunga inferiore al valore residuo del bene alla scadenza contrattuale. La preminente finalità pratica di trasferimento della proprietà della cosa e l’essenzialità dell’opzione d’acquisto finale, portano a ritenere che i canoni corrisposti dall’utilizzatore costituiscano, oltre che il corrispettivo del godimento, anche rate del prezzo». Tale autore conclude, quindi, affermando che il prezzo finale di alienazione del bene culturale, e quindi il corrispettivo dovuto dallo Stato in caso di esercizio della prelazione, deve «risultare dalla somma fra il prezzo di opzione e quote dei canoni imputabili ad anticipo del prezzo».

(164) Sui limiti della categoria dei negozi onerosi, cfr.: F. MESSINEO, Il contratto in genere, in Tratt. Cicu - Messineo, Milano, 1973, p. 766 e ss.; G. OPPO, Adempimento e liberalità, Milano, 1947, p. 262 e ss., 282 e ss.; L. MOSCO, Onerosità e gratuità degli atti giuridici con particolare riguardo ai contratti, Milano, 1942, p. 81 e ss.

(165) La qualificazione del mandato oneroso come contratto a prestazioni corrispettive è discussa in dottrina, ma prevale la tesi affermativa. Cfr. A. LUMINOSO, Mandato, commissione, spedizione, in Tratt. Cicu - Messineo, Milano, 1984, p. 146 e ss., ed ivi ampie citazioni. In giurisprudenza, in linea di massima, è invece diffusa l’opinione contraria. Si veda, ad esempio, Cass. 26 settembre 1979, n. 4961, in Giur. it., 1980, I, 1, c. 1546 e ss.

(166) C. LOMONACO, «Beni culturali: conferimento in società ed esercizio della prelazione da parte dello Stato», in Studi e materiali, 2006, p. 1932; per il periodo antecedente alle modifiche del codice dei beni culturali, allo Studio n. 5140 (D. BOGGIALI - C. LOMONACO, op. cit., p. 738).

(167) Si discute, peraltro, se si tratti di un mandato ad alienare in rem propriam senza rappresentanza (in questo senso F. SALVI, Cessione dei beni ai creditori, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna - Roma, 1974, p. 319 e ss.), o con rappresentanza (S. SOTGIA, La cessione dei beni ai creditori, in Tratt. Vassalli, Torino, 1954, p. 43 e ss.), ovvero se si tratti di una fattispecie affatto diversa dal mandato (cfr., ad esempio, F. VASSALLI, La cessione dei beni ai creditori, in Tratt. Rescigno, vol. XIII, Milano, 1985, p. 401 e ss. ed ivi citazioni). Nel senso della non ammissibilità della prelazione, M. CANTUCCI, «La prelazione… », cit., p. 605.

(168) La prelazione potrà, dunque, essere esercitata in caso di transazione cd. mista. Su tale fattispecie, e sull’ulteriore problema della sua riconducibilità alla transazione tipica, cfr. F. SANTORO - PASSARELLI, La transazione, Napoli, 1975, p. 201 e ss. Sull’ammissibilità della prelazione in caso di transazioni aventi ad oggetto beni vincolati cfr., in giurisprudenza, Cons. Stato, 1 dicembre 1986, n. 886, in Giur. it., 1987, III, 1, c. 230 e ss., e in dottrina M. CANTUCCI, «La prelazione… », cit., p. 594.

(169) Cfr. M. CANTUCCI, «La prelazione… », cit., p. 598. Nello stesso senso G. CASU, «Codice dei beni culturali...», cit., esclude i negozi a titolo gratuito, tra i quali la donazione remuneratoria. 170 Amplius, in argomento, C. FABRICATORE - A. SCARPA, op. cit., p. 158 e ss.

(171) Cfr., per tutti, C. DONISI, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli, 1972, p. 295 e ss.; G. OPPO, op. cit., p. 282 e ss.

(172) Si rinvia alle conclusioni alle quali è pervenuto C. DONISI, Il problema..., cit., p. 267 e ss., 312 e ss., 317 e ss., sulla base di una approfondita verifica del regime dei negozi unilaterali e dei suoi riflessi nella teoria del negozio e dell’autonomia privata.

(173) Cfr., Tar Lazio, 29 luglio 1983, n. 747, in Tar, 1983, p. 2831 e ss.

(174) Tar Lazio, 17 ottobre 1983, n. 900, in Tar, 1983, I, p. 3112 e ss.

(175) Nel senso dell’applicabilità della prelazione nelle vendite forzate, Cass. 9 settembre 1953, n. 3005, in Giust. civ., 1953, p. 2920 e ss.; Trib. Roma, 24 febbraio 1988, in Giur. merito, 1989, III, p. 170. In dottrina, cfr., D. DI GR AVIO, «Questioni in tema di espropriazione di cose di interesse storico ed artistico», in Giur. mer., III, p. 171 e ss.

(176) A. FUCCILLO, La circolazione dei beni immobili..., cit., p. 120. In argomento cfr. anche L. ZAMPAGLIONE, La prelazione pubblica sui beni immobili degli istituti per il sostentamento del clero, in A A.V V., Enti ecclesiastici e attività notarile a cura di V. Tozzi, Napoli, 1989, p. 127; M. RICCA, «Prelazione a favore della pubblica amministrazione ed alienazioni di immobili da parte di enti ecclesiastici, ovvero “normativa bilaterale vs libertà religiosa”», in Dir. eccl., 1999, p. 235 e ss.

(177) Per le altre confessioni religiose sono accolte analoghe soluzioni normative. Cfr. M. TEDESCHI, Manuale di diritto ecclesiastico, Torino, 1999, p. 57.

(178) P. CAVANA, «Attività negoziale degli enti ecclesiastici e regime dei controlli canonici», in Dir. fam., 2007, p. 1372 e ss.; P. PICCOLI, «La rappresentanza negli enti ecclesiastici», in Riv. not., 2000, p. 21 e ss. Per una trattazione più in generale si rinvia a: A. FUCCILLO, Diritto ecclesiastico e attività notarile, Torino, 2000, p. 35 e ss.; P. CAVANA, Enti ecclesiastici e controlli confessionali, cit., vol. II, Torino, 2002, p. 69 e ss.; J. SCHOUPPE, Elementi di diritto patrimoniale canonico, Milano, 1997, p. 129 e ss.

(179) C. AZZIMONTI, op. cit., p. 205.

(180) C. AZZIMONTI, op. cit., p. 217.

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