capitolo VII - scrittura privata autenticata e controllo notarile di legalità
- capitolo VII -
Scrittura privata autenticata e controllo notarile di legalità
di Gianluca Navone

1. Funzione notarile di autenticazione ed accertamento della legalità del contenuto negoziale; progressiva attenuazione della distanza tra atto pubblico e scrittura privata autenticata

Nel tempo presente, diversamente dal recente passato, il discorso può muovere da un primo approdo certo: il notaio è garante della legalità dell’atto anche quando venga richiesto della “sola” attività di autenticazione delle firme poste ai piedi di una scrittura privata.
L’antico dilemma - circa l’applicabilità, in sede di autentica, del divieto di cui all’art. 28, comma 1, n. 1, della legge notarile - è stato sciolto ex positivo iure. E precisamente, dall’art. 12, comma 1, lett. a, della legge 28 novembre 2005, n. 246 (legge di semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005)(1), che, intervenendo chirurgicamente sul testo dell’art. 28, ha aggiunto (dopo il verbo «ricevere»), le seguenti due parole: «o autenticare».
Di talché, nell’attuale stesura, l’art. 28, comma 1, n. 1 L.N., così recita: «Il notaro non può ricevere o autenticare atti … se essi sono espressamente proibiti dalla legge, o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico».
Parallelamente, ed in perfetta sintonia con l’addenda legislativa, i “Principi di deontologia professionale dei notai” (2)tengono a ribadire che il «notaio è tenuto … a svolgere, anche nell’autenticazione delle firme nelle scritture private, in modo adeguato e fattivo» l’attività di accertamento della legalità del negozio (art. 42). E ancora, sempre nella stessa direzione, che l’atto «di “autenticazione delle firme” della scrittura privata, comporta in ogni caso per il notaio l’obbligo di … controllare la legalità del contenuto della scrittura» (art. 48).
Ne esce, con chiarezza, che la distanza tra funzione notarile di autenticazione e quella di ricevimento - entrambe segnate dalla presenza di un controllo di tipo contenutistico - si è ormai ridotta (quasi) al lumicino; e, di pari passo con essa, appare notevolmente attenuato il divario tra la scrittura privata autenticata e l’atto pubblico(3).
Si registra, infatti, un’equiparazione dei due istrumenti sotto molteplici aspetti(4). Ai quali, o almeno a quelli di più macroscopica rilevanza, qui conviene sommariamente accennare.
Entrambi, com’è ben noto, sono titoli formali idonei ad attivare i meccanismi pubblicitari: alla stregua dell’art. 2657 c.c., la «trascrizione non si può eseguire se non in forza di sentenza, di atto pubblico o di scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente».
Inoltre, sia la scrittura privata autenticata, sia l’atto pubblico, sono titoli esecutivi di natura stragiudiziale(5). Ciò risulta dalla testuale dizione dell’art. 474 c.p.c., così come novellato ad opera di un duplice intervento legislativo. Più nel dettaglio: dall’art. 2, comma 3, lett. e, del D.l. 14 marzo 2005, n. 35 (convertito, con modificazioni, dalla L. 14 maggio 2005, n. 80), nonché, in ulteriore modifica della novella, dall’art. 1 della L. 28 dicembre 2005, n. 263(6). Va però anche soggiunto che l’efficacia esecutiva accordata alla scrittura privata autenticata è limitata alle obbligazioni pecuniarie in essa documentate(7); mentre, contrariamente a quanto previsto per l’atto pubblico, essa non si estende agli obblighi di consegna o rilascio di cose determinate.
Infine, ad ulteriore conferma del progressivo avvicinamento tra scrittura privata ed atto pubblico, val bene segnalare la nuova formulazione dell’art. 72, comma 3 della L.N., secondo cui le «scritture private autenticate dal notaro, verranno, salvo contrario desiderio delle parti e salvo per quelle soggette a pubblicità immobiliare o commerciale, restituite alle medesime». Ora, è evidente che l’inserimento delle parole «e salvo per quelle soggette a pubblicità immobiliare o commerciale»(8), intacca a tal segno la “regola generale” da capovolgere, di fatto, il rapporto tra regola ed eccezione. Per cui, rendendo esplicita una norma implicita nel dettato legislativo, la disposizione potrebbe essere così riformulata: «è vietato il rilascio delle scritture private autenticate in originale qualora le stesse siano idonee ad essere riportate nei registri immobiliari o nel registro delle imprese». Di tal che, volendo scendere al concreto, debbono essere conservate nella raccolta del notaio (per incidens: proprio come gli atti pubblici), tutte le scritture private autenticate concernenti beni immobili e suscettibili di trascrizione, iscrizione ipotecaria o annotazione. E, del pari, sono assoggettate a raccolta le scritture private autenticate relative ad atti costitutivi di società di persone o alla loro modificazione(9).
Ma al di là di ciò, e ai fini che qui premono, interessa evidenziare il fil rouge che collega il nuovo regime di conservazione obbligatoria delle scritture autenticate passibili di pubblicità commerciale o immobiliare ed il controllo di legalità del notaio. È agevole scorgere, infatti, che il primo concorre a rendere effettivo il secondo, in quanto: la conservazione dell’instrumentum nella raccolta del notaio consente agli ispettori d’archivio di sottoporlo all’ispezione biennale; l’ispezione biennale, a sua volta, costituisce il momento ideale per l’emersione di eventuali responsabilità disciplinari del notaio(10)(nella specie: di quella - non lieve - conseguente all’effrazione del divieto di cui all’art. 28, comma 1, n. 1 L.N.)(11).
D’altro canto, poco o punto senso avrebbe avuto estendere il controllo di legalità alla scrittura privata autenticata se poi, in concreto, il sol fatto di ricorrere ad essa avrebbe seguitato a rendere comunque meno probabile la discovery dell’illecito(12).
Le elementari considerazioni sin qui svolte valgono, dunque, a dar conto di come le lame della forbice atto pubblico - scrittura privata autenticata si siano progressivamente avvicinate. Ma se così è, si paleserebbe, oggi, (per lo più) ingiustificato l’atteggiamento di diffidenza che ha accompagnato l’uso della scrittura privata autenticata. Ed infatti, via via che si toglie terreno all’impiego opportunistico di questo strumento, ad esempio, eliminando in radice la possibilità che il notaio vi ricorra per effettuare impunemente negoziazioni “a rischio”, dovrebbero corrispondentemente cadere molte delle ragioni che indussero a stigmatizzare l’utilizzazione diffusa, abnorme o spregiudicata che qualcheduno ne fece.
Vista alla luce di questi rilievi, quindi, la disposizione di cui all’art. 47 dei Principi di deontologia, a mente della quale «L’ “atto pubblico” costituisce la forma primaria e ordinaria di “atto notarile”, che il notaio deve generalmente utilizzare nella presunzione che ad esso le parti facciano riferimento quando ne richiedono l’intervento, se non risulti una loro diversa volontà e salvo la particolare struttura dell’atto», può leggersi nel senso che il ricorso alla scrittura privata autenticata (in sostituzione dell’atto pubblico), è tuttavia consentito ogniqualvolta esso corrisponde ad un apprezzabile interesse delle parti(13). Anche soltanto pratico. Quale potrebbe essere, per esemplificare, quello di agevolare la conclusione di un negozio inter absentes (scilicet, tra due o più persone impossibilitate a presenziare, nello stesso torno di tempo, alla stipula dell’atto)(14).

2. Sulla portata (innovativa) dell’interpolazione operata sul testo dell’art. 28, comma 1, n. 1, della legge notarile

Si può dubitare della reale valenza giuridica dell’addenda legislativa del 2005. Essendo incerto, in particolare, se il restyling dell’art. 28, comma 1, n. 1 L.N., abbia comportato un’effettiva innovazione dell’ordinamento, oppure si sia limitato ad esplicitare una regola preesistente. Pur non potendosi negare - sia come sia - che con l’enunciazione del divieto di autenticare atti «espressamente proibiti dalla legge, o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico», il legislatore ha avuto il merito di prendere nitidamente partito su una questione di notevole rilievo ed assai tormentata, contrassegnata dalla presenza di un patologico contrasto tra la giurisprudenza e la dottrina (pressoché) totalitaria(15).
Ed infatti, la giurisprudenza, per antico orientamento, era ampiamente consolidata nel senso di escludere la responsabilità disciplinare del notaio(16)al quale, tra l’altro, sarebbe stata perfino preclusa la possibilità di rifiutare il proprio ministero adducendo l’illegalità del contenuto dell’atto da autenticare(17).
Semplificando e stilizzando, il nucleo essenziale del ragionamento delle Corti può essere riassunto nel modo seguente.
Punto di partenza era un dato lessicale: l’esclusivo riferimento, nell’originaria stesura dell’art. 28, comma 1, n. 1 L.N., all’attività notarile consistente nel «ricevere atti». Il susseguente passaggio si traduceva nell’interrogativo se l’espressione «ricevere atti» potesse essere intesa in senso amplissimo, come comprensiva dell’attività di autenticazione. Rispetto a tale domanda la risposta negativa era sostenuta con due linee argomentative convergenti. Anzitutto evidenziando l’ontologica diversità fra l’atto pubblico e la scrittura privata autenticata, atteso che il primo «è atto costruito concettualmente e materialmente dal pubblico ufficiale per descrivere quanto egli stesso abbia compiuto o direttamente percepito, mentre la scrittura privata proviene dagli interessati, contiene manifestazioni di scienza o volontà organizzate e formulate da costoro, e il notaio interviene solo nel momento dell’apposizione e certificazione delle firme»(18), dunque, ponendo in essere «un atto di certificazione in senso proprio, del tutto autonomo rispetto al documento certificato»(19). In secondo luogo, constatando che nelle parole della legge il verbo “ricevere” è impiegato «in modo tanto esclusivo e regolare, da sottolineare il significato tecnico e rigoroso, espressivo di una vera e propria contrapposizione concettuale»(20)tra ricevere e autenticare. L’esito di tali osservazioni era un’interpretazione restrittiva. E così - si concludeva - il sindacato di legittimità del contenuto dell’atto riguarda esclusivamente l’attività di ricevimento e non si estende a quella di autenticazione cui, invece, si applica la regola (di portata generale), enunciata dall’art. 27, comma 1, L.N.: «il notaro è obbligato a prestare il suo ministero ogni volta che ne è richiesto».
Ad una prima superficiale indagine, un siffatto modo di argomentare potrebbe apparire formalistico, involuto, banale. Ma, a ben riflettere, non è così.
Dire che il verbo «ricevere», pur ad intenderlo nel più lasco dei significati possibili, non è idoneo ad abbracciare la funzione di autenticazione, equivale ad escludere - nella specie - il ricorso all’interpretazione estensiva (in linea di principio sempre consentita, anche per le disposizioni di ius singulare). In pari tempo, sottolineare il carattere eccezionale del divieto di ricevere atti «espressamente proibiti dalla legge, o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico» rispetto alla norma generale di cui all’art. 27 L.N., vale coerentemente ad assumere che il disposto dell’art. 28 è di stretta esegesi; e, quindi, a cascata, non suscettibile di interpretazione analogica oltre i casi direttamente riconducibili al suo ambito semantico.
In contrapposto alla giurisprudenza, la dottrina dominante(21)sposava l’idea secondo la quale anche per le scritture private autenticate dovesse trovare applicazione l’art. 28, comma 1, n. 1, della legge notarile. A tale conclusione i nostri studiosi pervenivano adducendo ad argomento princeps il carattere unitario della funzione notarile(22); donde «l’esigenza che anche per i regolamenti negoziali da autenticare, non meno che per quelli da ricevere in atto pubblico, il notaio eserciti, in funzione preventiva, un congruo controllo, onde evitare, per quanto possibile, che possano ricevere il crisma ufficiale assetti d’interesse non meritevoli di approvazione o gravemente difettosi»(23).
Si trattava di una spiegazione certamente suggestiva e sottile. Nondimeno, essa prestava il fianco ad una critica di fondo. Di fatti: ponendo l’accento sul carattere unitario della funzione notarile (sia che questa si esplichi nel ricevimento di un atto pubblico, sia che consista nell’autenticazione delle sottoscrizioni), in realtà si procedeva per somiglianze, introducendo surrettiziamente un ragionamento analogico senza fare i conti con il precetto dell’art. 14 disp. prel., secondo cui le leggi «che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati».
In base a tali considerazioni, il quesito se l’estensione del controllo notarile di legalità all’attività di autenticazione necessitasse dell’intervento del legislatore deve, ad avviso di chi scrive, avere risposta positiva(24); ma non può escludersi che un avvallo normativo vi sia stato ancor prima del varo della “legge di semplificazione” del 2005.
Il dubbio appena elevato potrebbe apparire giustificato alla luce di alcuni dati (ormai da tempo) rinvenibili sul terreno dello ius conditum. E, in particolare, due.
L’art. 21, comma 1, della legge 8 febbraio 1985, n. 47, rubricato sotto la dizione «Sanzioni a carico dei notai», prevedeva(25)che il «ricevimento e l’autenticazione … di atti nulli» per la mancanza delle prescritte menzioni urbanistiche (per gli edifici) o per difetto di allegazione del certificato di destinazione urbanistica (per i terreni), «costituisce violazione dell’articolo 28 della legge 16 febbraio 1913, n. 89 … e comporta l’applicazione delle sanzioni previste dalla legge medesima». La previsione richiamata era espressione di una chiara linea di tendenza. Di per sé sola, tuttavia, costitutiva un appiglio davvero troppo flou per sostenere la generalizzata estensione - ben al di là, quindi, dell’ipotesi in essa contemplata - del controllo notarile di legalità alla scrittura privata autenticata. Tanto, sia aggiunto, che vi è stato chi ha sostenuto che proprio la disposizione in parola, riferendosi ad alcuni casi specificamente individuati, non contrastava, ma se mai asseverava l’idea secondo la quale d’ordinario la scrittura privata autenticata non rientrava nell’arco di applicazione dell’art. 28, comma 1, n. 1, della legge notarile(26).
Conclusioni ben diverse avrebbero potuto trarsi dall’art. 25, comma 2, del Codice dell’amministrazione digitale(27), dove - già nella sua originaria stesura(28)- si prevedeva che il notaio nell’autenticare una firma elettronica dovesse (inter alia) provvedere all’accertamento «del fatto che il documento sottoscritto non è in contrasto con l’ordinamento giuridico». Va da sé, infatti, che a far tempo dalla data di entrata in vigore di questa disposizione(29)sarebbe stato comunque irragionevole sostenere che i compiti, e, conseguentemente, le responsabilità del notaro variano in relazione alla tecnologia impiegata per svolgere la medesima funzione: vale a dire, quella di autenticazione(30). Ma a fronte di questa corretta constatazione pare però opportuno far notare che il codice dell’amministrazione digitale(31)è entrato in vigore soltanto il 1° gennaio 2006. Successivamente, quindi, all’art. 28 L.N. nell’attuale e (per quanto qui interessa) non equivoca formulazione(32).
Riepilogando. L’indagine finora condotta ha visto progressivamente maturare la convinzione secondo la quale l’interpolazione legislativa operata sul testo dell’art. 28 non si è limitata ad esplicitare una norma implicita, ma ha comportato un’effettiva innovazione del quadro giuridico preesistente(33).

3. Modalità di svolgimento del controllo di legalità in relazione all’atto pubblico ed alla scrittura privata autenticata

Nello scenario considerato, affiora che con riguardo alla scrittura privata autenticata il controllo notarile di legalità esiste. Non solo. Ma esiste mercé l’introduzione di una previsione legislativa che in tal senso testualmente dispone. A questo punto, però, s’impone di far subito luce su un nuovo interrogativo: se, in punto di fatto, il controllo di cui è parola si svolge secondo modalità identiche (o diverse), in relazione all’attività di autenticazione e a quella di ricevimento. Per agevolazione espositiva conviene muovere da quest’ultima.
Il notaio che riceve la volontà manifestata dalle parti deve, come ognun sa, ridurla nell’atto pubblico: cioè tradurla(34)- facendo un uso sapiente delle parole del diritto - in un testo linguistico corrispondente al fine pratico che i paciscenti si prefiggono. Detto altrimenti, coi termini di un maestro dei nostri studi: «il notaro dialoga con le parti, e ne raccoglie e seleziona gli scopi, che egli convertirà in significanti di parole», talché, «le parole, che il notaro attesta di aver ascoltate, sono in realtà parole che egli ha scelto e combinato»(35).
Ma se così è, sorge una domanda. Anzi due. Precisamente le seguenti: in quale fase si colloca e come si atteggia, in concreto, il controllo di legalità nel procedimento di formazione dell’atto pubblico?
Orbene, nel caso in discorso è abbastanza agevole riscontrare che il controllo notarile di legalità interviene ex ante e si posa a monte della redazione del documento pubblico. In una sorta di “terra di mezzo” - passi l’immagine - posta a cavaliere fra l’indagine sulla volontà delle parti e la costruzione del testo linguistico. Ma ciò ha riflessi evidenti, per passare al secondo degli interrogativi prospettati, sul modo in cui tale controllo si svolge. E infatti, trattandosi di una valutazione compiuta in vista della redazione di un testo linguistico, esso si atteggia alla stregua di un giudizio di fattibilità giuridica circa la possibilità di tradurre l’intento empirico manifestato dalle parti in un negozio che - giusta il dettato dell’art. 28 - non sia espressamente proibito dalla legge, o manifestamente contrario al buon costume o all’ordine pubblico(36).
Posto quanto precede in merito alla funzione di ricevimento, il discorso intrapreso va ora completato per quanto concerne il tema centrale di queste pagine, ossia l’attività di autenticazione. E, a tale proposito, conviene subito tracciare una netta linea di demarcazione tra la scrittura privata predisposta dal notaio e quella sottoposta al medesimo per la sola autentica.
Poche proposizioni bastano sul primo caso.
È possibile, e di fatto spesso accade, che il notaio sia investito del compito di curare la compilazione della scrittura le cui sottoscrizioni - una volta apposte in calce dalle parti - egli stesso autenticherà. Ebbene, ove ricorra questa eventualità, non è dato riscontrare alcuna differenza di rilievo rispetto all’atto pubblico. Anche in questa ipotesi, infatti, il controllo di legalità interviene a monte, precede la costruzione del testo linguistico e si atteggia alla stregua di un giudizio di fattibilità giuridica. Né sarebbe conferente, per contrastare l’opinione or ora espressa, la comoda affermazione secondo cui nell’attendere alla stesura del documento il notaro si comporta esclusivamente come privato professionista; considerazione che tralascia di valutare che il medesimo non meriterebbe tutta la fiducia che l’ordinamento ripone nei suoi confronti se davvero gli fosse consentito di sospendere - sino al momento dell’autenticazione delle firme - il suo ruolo di garante della legalità. Ma v’è di più: per tutto quanto concerne lo svolgimento dell’attività di documentazione, il notaio non può mai dimenticarsi di essere un soggetto munito di un munus publicum, tenuto a cooperare lealmente con lo Stato al soddisfacimento dell’interesse generale acché - suo tramite (ed indipendentemente dalla veste formale impiegata) - non siano formati atti di autonomia privata inficiati da alcuni tipi d’invalidità. Una diversa interpretazione, ci pare, esulerebbe completamente dallo spirito della novella legislativa in commento, aprendo l’adito al conferimento di tanto inattesi quanto insensati “premi alla furbizia”.
Un discorso meno sommario è invece da riservare al caso del notaio al quale sia richiesto di autenticare scritture interamente predisposte dalle parti o da altri professionisti.
A mo’ di premessa, una constatazione: quando i contraenti non si avvalgono della collaborazione linguistica del notaio, e, conseguentemente, quest’ultimo rimane del tutto estraneo rispetto all’elaborazione del regolamento negoziale, non è l’intento empirico delle parti che si assume come oggetto del giudizio di legalità, ma la sua traduzione in un dato testo scritto. E si noti, incidentalmente, che l’espressione utilizzata dall’art. 48 dei Principi di deontologia (secondo la quale «L’atto di “autenticazione delle firme” della scrittura privata, comporta in ogni caso … l’obbligo di … controllare la legalità del contenuto della scrittura»), è un chiaro segno dell’intelligenza di questo aspetto.
Questa premessa apre la strada ad ulteriori considerazioni. Precisamente, nell’ipotesi ora considerata non è fuor di luogo affermare che la maieutica cede il passo all’ermeneutica. Nel senso che al notaio che induce le parti a partorire la loro volontà (onde verificare, dopo averla conosciuta, se la si possa tradurre in una scrittura conforme all’ordinamento giuridico), si sostituisce il notaio interprete di una volontà “reificata” in un documento; o, diciamo meno equivocamente, che è già stata tradotta (da altri) in un testo scritto.
Se, dunque, il notaio rimane estraneo alla definizione del regolamento negoziale, non è più questione di adeguare la volontà delle parti a quella dell’ordinamento giuridico, ma di appurare se la volontà delle parti - per come esse l’hanno espressa in piena autonomia - è adeguata ai dettami dell’ordinamento. Va semmai soggiunto che il notaio, nel rifiutare l’autenticazione dell’atto, è tenuto a spiegare le ragioni del suo rifiuto, consentendo così alle parti la rinnovazione del negozio nullo: vale a dire, la formazione - ove possibile - di un nuovo negozio deterso del vizio che dava corso all’invalidità. Per esempio, il notaio potrebbe rappresentare alle parti la necessità di espungere dal regolamento contrattuale una clausola inequivocabilmente nulla; o, all’incontro, potrebbe invitarle ad integrarlo con le indicazioni prescritte dalla legge ad validitatem actus iuridici (si pensi allo scritto che documenta una vendita immobiliare senza menzionare gli estremi del permesso di costruire o di quello in sanatoria). Ed è questo, a ben riflettere, un modo per influire (sia pure indirettamente), sui contenuti dell’atto da autenticare.
Allineando i dati sparsi nelle righe precedenti può allora dirsi che quando il notaio non predispone la scrittura da autenticare - sempre e di necessità - il controllo di legalità interviene a valle, è successivo alla redazione dell’atto e si atteggia alla stregua di un giudizio di compatibilità giuridica (segnatamente: un giudizio di compatibilità fra i contenuti di un documento già definitivamente formato ed i dettami dell’ordinamento)(37).
Ulteriormente, va rilevato che nell’ipotesi considerata il modus operandi del notaio si approssima (più che in altri casi) a quello del giudice. Ed infatti, il controllo di legalità del primo al pari dello ius dicere del secondo s’incentra su un testo linguistico compiuto; fatto, quindi, e non da farsi(38). Ma non soltanto. La valutazione dell’uno come quella dell’altro si sostanzia in un giudizio(39)di compatibilità giuridica tra il contenuto di un regolamento negoziale ed i precetti dell’ordinamento. Se non che, oltre alle somiglianze, non si può fare a meno di scorgere la presenza di una notevole differenza: il giudizio extraprocessuale e quello processuale non hanno la stessa estensione. Diverso, in particolare, è il loro raggio d’azione, posto che il notaio deve arrestarsi sulla soglia (paradossalmente) equivoca della “nullità inequivoca”(40), mentre è del tutto scontato che il giudice la possa varcare.

4. L’intensità del controllo notarile di legalità sulla scrittura privata autenticata

Si è detto di sopra che in sede di autenticazione il sindacato di legalità può svolgersi secondo due distinte modalità: se il notaio è incaricato di predisporre il testo della scrittura da autenticare questi deve preventivamente valutare se l’intento empirico delle parti possa essere tradotto in un negozio giuridico senza violare l’art. 28 (giudizio di fattibilità giuridica); se, invece, il notaio è incaricato di autenticare una scrittura già interamente formata egli deve valutare se lo strumento negoziale predisposto dalle parti sia o meno contrario all’art. 28 (giudizio di compatibilità giuridica).
Ma la constatazione di queste diversità “morfologiche” apre la porta ad un ulteriore interrogativo: se cioè il maggiore o minore coinvolgimento del notaio nell’elaborazione del testo linguistico possa riflettersi sull’intensità e, quindi, sulla qualità del controllo di legalità(41).
Per la soluzione del quesito appena formulato può essere utile muovere da un assunto largamente condiviso: l’irriconoscibilità della causa di nullità vale come esimente della responsabilità (anche) disciplinare del notaio(42). E tanto significa, in pratica e in breve, che il notaio non potrà mai essere chiamato a rispondere disciplinarmente dell’invalidità di un atto che non gli sia stato possibile accertare sulla base di un criterio di pronta riconoscibilità.
Tale regola, pur se non espressamente declamata(43), poggia su solide fondamenta. Essa, ad avviso di chi scrive, si radica sul carattere squisitamente sanzionatorio della responsabilità disciplinare che induce a considerare rigorosamente bandita (proprio perché inconferente con la sua funzione) qualunque ipotesi d’imputazione oggettiva.
Ciò premesso, rieccoci al punto di partenza. È congruo affermare che in ragione di come il sindacato di legalità si svolge - secondo che esso assuma le fattezze di un giudizio di fattibilità o di compatibilità giuridica - si abbassa o si alza l’asticella della riconoscibilità della causa di nullità; e, di conseguenza, si restringono o si ampliano le maglie della responsabilità disciplinare in cui può incappare il notaio?
Si può ipotizzare, in altre parole, che se il notaio confeziona il testo linguistico, se assume il ruolo di “regista dell’atto”, questi è anche messo nella condizione di riconoscere taluni tipi di nullità altrimenti irriconoscibili (o più difficilmente riconoscibili)?
All’evidenza il problema si salda con quello dell’equivocità/inequivocità della nullità(44). E se ne ha agevolmente la riprova se si considera che la domanda ut supra formulata non muterebbe di senso se la si declinasse in questi termini: «agli occhi del notaio che cura la compilazione dell’atto potrebbero apparire non equivoche nullità altrimenti equivoche?».
La risposta, plausibilmente, si scioglie in un “dipende”; dipende dall’eziologia o, se si vuole, dalla causa scatenante l’equivocità. Ed infatti, diversi sono i fattori che possono determinarla.
Così, anzitutto, l’equivocità della comminatoria di nullità può essere la diretta conseguenza dell’ambiguità lessicale e/o sintattica(45)della fonte che la esprime. Com’è, ad esempio, quando al medesimo enunciato normativo appaiono riconducibili più significati tutti compatibili con il senso delle parole impiegate.
Di talché, in relazione ad ambiguità di questo tipo, la dogmatica(46)(qui genericamente intesa come l’insieme delle elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali) può operare secondo cinetiche opposte. Nel senso che può far diventare inequivoca una nullità potenzialmente equivoca: vale a dire, un consolidato orientamento dottrinale e giurisprudenziale potrebbe sortire l’effetto di accreditare uno soltanto tra i significati ascrivibili ad una disposizione normativa, e, conseguentemente, rendere assai ben prevedibile la successiva declaratoria giudiziale di nullità dell’atto; mentre, per converso, l’esistenza di orientamenti dottrinali e giurisprudenziali contrastanti potrebbe avere l’effetto di rendere equivoca una nullità che per il quivis de populo (il cui pensiero poco o niente risente dei condizionamenti dalla cultura giuridica) non lo sarebbe affatto.
Può considerarsi esemplare in tal senso una decisione recente della Corte di Cassazione(47)nella quale - constatata l’esistenza di due orientamenti interpretativi contrapposti - si è giunti a bollare come “equivoca” (persino) una nullità testuale. Più nel dettaglio, in ambito societario, si è reputata non inequivocabilmente nulla la clausola compromissoria statutaria che attribuisce ai soci il potere di designazione degli arbitri; e si noti, ciò ad onta del tenore letterale dell’art. 34, comma 2, del D.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 che così recita: «La clausola deve prevedere il numero e le modalità di nomina degli arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società».
Non è questa la sede per occuparsi, neppure di sfuggita, del problema specifico della validità della clausola arbitrale non conforme al modello della “clausola compromissoria endosocietaria”(48). Tuttavia, la vicenda processuale qui succintamente richiamata offre lo spunto per lo svolgimento di alcune considerazioni che la oltrepassano. La prima - per banale che possa apparire - è che non sempre i problemi interpretativi sono imputabili alla formulazione difettosa degli enunciati normativi. La seconda (e qui si torna al tema centrale del nostro discorso) è che riguardo ad equivocità con questa matrice - figlie del dubbio ermeneutico che ricade sul significato o sull’esistenza della norma da cui la nullità dovrebbe discendere - non pare persuasivo affermare che la soglia di riconoscibilità della causa d’invalidità possa essere più bassa o più alta in ragione delle concrete modalità di svolgimento del controllo di legalità. E infatti. Qualsiasi forma esso assuma (quella di un giudizio di fattibilità o di compatibilità giuridica), la collocazione dell’asticella della riconoscibilità non cambia: qui, lo si è già incidentalmente osservato, l’ambiguità è “intrinseca” alla norma, dipende da regole di significato e, di conseguenza, non può venire ridotta accrescendo informazioni sulle circostanze di fatto che fanno corona alla singola vicenda negoziale.
Diverso è il discorso, e diverse le conclusioni, per quelle comminatorie che subordinano la nullità all’effettiva ricorrenza di determinati fatti che pur essendo «esterni» al negozio sono destinati a riflettersi sul trattamento giuridico di esso sino al punto di segnarne la sorte.
Per una migliore comprensione di questo ulteriore passaggio può essere utile fare un passo indietro. Nella motivazione delle sentenze che dal 1997 ad oggi hanno prima inaugurato e poi consolidato il nuovo corso interpretativo sull’art. 28(49)sembra darsi per scontato che il sindacato notarile di legalità si sostanzi in un giudizio di stretto diritto. Là dove, spesso, decidere della validità di un negozio o di una sua clausola non è soltanto una “quaestio juris”, ma anche una “quaestio facti”. Nel senso che la correttezza di tale decisione - l’affermazione di coincidenza o difformità fra l’astratta comminatoria di nullità e la fattispecie concreta - presuppone la conoscenza di alcuni retroscena che difficilmente si può ricavare dall’analisi (pur se accurata) del testo negoziale(50).
Per restare ad ipotesi “classiche”, disciplinate dal codice civile(51), si pensi alla nullità di certi negozi in frode alla legge. E, fra i molti possibili esempi, cade acconcio un caso sul quale si è recentemente pronunciato il Tribunale di Mantova, relativo alla validità della c.d. “fideiussione del donante” (id est: un escamotage, ampiamente collaudato nella prassi, volto a tutelare gli istituti di credito che erogano mutui garantiti da ipoteca iscritta su immobili di provenienza donativa(52)).
Il Tribunale, più specificamente, con sentenza n. 228 del 24 febbraio 2011(53), ha sanzionato con la nullità la «fideiussione concessa dal donante a favore dei creditori del donatario allorquando si evinca dalle circostanze del caso che essa costituisce il mezzo per eludere il principio di intangibilità della legittima (di cui la norma imperativa dell’art. 549 c.c.(54)costituisce espressione), avendo l’anzidetta garanzia fideiussoria la funzione di dissuadere il legittimario dall’intentare in futuro l’azione di riduzione che gli possa competere»(55).
Ciò posto, ed ai fini della nostra particolare indagine, è da osservare che nel caso in parola la corretta applicazione della previsione legale (l’art. 1344 c.c.) non può prescindere dalla conoscenza di fatti che stanno attorno - circum stant - alla singola vicenda contrattuale(56). Ma poiché il notaio non ha poteri istruttori(57), è del tutto scontato che egli per la conoscenza di questi fatti circostanti dipende dalle informazioni che le parti gli forniscono(58). E se così è, è allora anche ragionevole pensare che la soglia di riconoscibilità di tali cause di nullità possa variare, in alto o in basso, a seconda delle concrete modalità di svolgimento del controllo di legalità.
L’assunto reclama qualche parola di chiarimento.
Mercé l’indagine sulla volontà delle parti - che può essere compiutamente svolta soltanto quando il notaio è investito del compito di curare la compilazione della scrittura da autenticare(59)- maggiori sono le possibilità di approdare alla conoscenza delle circostanze rilevanti ai fini del giudizio sulla nullità. E, correlativamente, tanto maggiori sono le possibilità di conoscerle, tanto minore è la possibilità d’invocare l’esimente dell’irriconoscibilità; e quindi, in definitiva, di andare esente da responsabilità.
Viceversa, se le parti rifiutano la collaborazione linguistica del notaio - sottraendosi in larga misura all’indagine sulla volontà - minori sono le possibilità di pervenire alla conoscenza delle circostanze di fatto che si stagliano sullo sfondo del testo linguistico da autenticare. E, mutatis mutandis, tanto minori sono le possibilità di conoscerle, tanto maggiore è per il notaio la possibilità d’invocare l’esimente dell’irriconoscibilità; e quindi, in conclusione, di andare esente da responsabilità(60).


(1) Pubblicata in Gazz. Uff., 1 dicembre 2005, n. 280.

(2) Adottati con deliberazione del Consiglio Nazionale del Notariato n. 2/56 del 5 aprile 2008 (ai sensi dell’art. 2, lett. f, della legge 3 agosto 1949, n. 577, così come modificato dall’art. 16 della legge 27 giugno 1991, n. 220), e pubblicati in Gazz. Uff., 30 luglio 2008, n. 177.

(3) Cfr. F. ROTA, La scrittura privata, in AA. VV., La prova nel processo civile, a cura di M. Taruffo, Milano, 2012, p. 633 e ss., spec. 647.

(4) In questa chiave, da ultimo, si può leggere l’art. 19, comma 14, del D.l. 31 maggio 2010, n. 78 (così come modificato in sede di conversione dalla L. 30 luglio 2010, n. 122), che ha equiparato la scrittura privata autenticata all’atto pubblico ai fini dell’applicazione della nuova disciplina in materia di conformità dei dati catastali.

(5) L’argomento è stato trattato, con speciale approfondimento, da G. PETRELLI, «Atto pubblico, scrittura privata autenticata e titolo esecutivo», in Notariato, 2005, p. 542 e ss. ed E. ASTUNI, Studio n. 236-2006/C e Studio n. 236-2006/C, Novità in materia di titolo esecutivo, in www.notariato.it .

(6) La novella ha sicuramente portata innovativa. Prima della sua entrata in vigore, infatti, era dato per pacifico che l’esecuzione forzata non potesse aver luogo in virtù di un titolo costituito da una scrittura privata autenticata. In giurisprudenza, al riguardo, cfr. Cass., 19 luglio 2005, n. 15219.

(7) L’attribuzione alla scrittura privata autenticata del valore di titolo esecutivo solleva delicate questioni di diritto intertemporale. In breve sintesi, tali questioni si lasciano tradurre nel seguente interrogativo: è oggidì possibile iniziare un’espropriazione forzata in virtù di una scrittura privata autenticata formata in data anteriore all’entrata in vigore della novella (1 marzo 2006)? Per la soluzione negativa del quesito pare orientata la dottrina che si è occupata del tema (così: E. ASTUNI, op. cit., spec. p. 26 e ss. e M. A. IUORIO,«Sopravvenuta efficacia esecutiva della scrittura privata autenticata e successione delle leggi processuali nel tempo», in Riv. esec. forz., 2009, p. 128 e ss.). Ed il primo intervento giurisprudenziale in materia sembra farle eco: «non è titolo esecutivo, relativamente alle obbligazioni in essa contenute, la scrittura privata che sia stata autenticata in data anteriore all’ 1 marzo 2006, data di entrata in vigore della modifica apportata all’art. 474 c.p.c.» (Trib. Alba ord., 21 gennaio 2009).

(8) Ad opera dell’art. 12, comma 1, lett. e, della L. 28 novembre 2005, n. 246.

(9) Come bene altri ha osservato, infatti, «il notaio riceve per atto pubblico e non per scrittura privata autenticata gli atti costitutivi di società di capitali e i verbali di assemblea recanti modificazione statutaria …. Pertanto l’ipotesi dell’atto autenticato destinato all’iscrizione nel registro delle imprese vale per gli atti costitutivi di società di persone e per gli atti modificativi delle stesse» (G. CASU, Studio n. 65-2006/C, Conser vazione delle scritture autenticate destinate a pubblicità immobiliare o commerciale, in www.notariato.it , p. 6).

(10) Cfr., al riguardo, R. QUADRI, Nullità di protezione ed art. 28 della legge notarile, in AA. VV., Le forme della nullità a cura di S. Pagliantini, Torino, 2009, p. 137 e ss., spec. 139: «L’obiettivo della rivisitazione della legge notarile è individuabile soprattutto nella disincentivazione, nei casi dubbi, dell’opportunistica scelta nel senso della utilizzazione, da parte del notaio, della forma della scrittura privata con sottoscrizioni autenticate, onde evitare la possibile responsabilità ai sensidell’art. 28 L.N.».

(11) Val bene rammentare, infatti, che alla stregua dell’art. 138, comma 2 della legge not., «È punito con la sospensione da sei mesi ad un anno il notaro che contravviene alle disposizioni degli artt. 27, 28, 29, 47, 48 e 49».

(12) Cfr. R. SACCO, in R. SACCO e G. DE NOVA, Il contratto, in Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, 3ª ed., tomo I, Torino, 2004, p. 761: «La pratica ripara ai capricciosi ostacoli creati dalla giurisprudenza rimpiazzando talora il rogito notarile con la scrittura privata autenticata: la replica - se si vuole - è illogica perché non è dimostrato che là dove un atto è veramente “proibito” il notaio possa autenticare le sottoscrizioni; ma di fatto il ricorso a questa procedura renderà meno probabile la sanzione».

(13) Al contrario, non sarebbe sufficiente a giustificare l’impiego della scrittura privata autenticata un interesse di esclusiva pertinenza del notaio.

(14) Cfr. G. CASU, in S. TONDO, G. CASU e A. RUOTOLO, Il documento, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2003, p. 182, per il quale tra le ragioni d’ordine pratico che possono indurre il notaio a preferire l’utilizzo della scrittura privata autenticata rispetto all’atto pubblico vi è anche quella di facilitare il perfezionamento di negozi plurilaterali, «soprattutto se il documento sia unico e le parti che debbono sottoscriverlo siano numerose a tal punto da non poter presenziare tutte contestualmente nella stessa data della stipula». Ma al di là di ciò, a giustificare il ricorso alla scrittura privata autenticata vi possono essere anche ragioni di mera opportunità come nel caso (suggeritomi dal notaio Giovanni Liotta) del negozio stipulato tra ex coniugi che - per via dell’esistenza di una fortissima conflittualità - non vogliano (più che non possano) trovarsi vis à vis.

(15) Per un quadro di sintesi del formante giurisprudenziale e dottrinale in argomento si veda E.M. D’AURIA, Il negozio giuridico notarile tra autonomia privata e controlli, Milano, 2000, spec. p. 11 e ss.

(16) Tra le molte decisioni al riguardo cfr.: Cass., 17 giugno 1999, n. 6018; Trib. Trani, 3 marzo1998; Trib. Pisa 15 marzo 1997; Cass. pen., 28 febbraio 1990; Cass. pen., S.U., 3 febbraio 1990; Cass. pen., 13 marzo 1985; Cass. pen., 20 giugno 1983; Cass. pen., 12 gennaio 1982; Trib. Milano, 22 aprile 1960; Trib. Milano 6 novembre 1959.

(17) Torna utile, a tale proposito, l’immagine ispirata del «notaio stretto tra il dovere di rogare dell’art. 27 e il dovere-diritto di rifiutare dell’art. 28» (A. GENTILI, Dal rifiuto al recupero: il notaio e l’atto nullo, in AA.VV., Il notaio garante della legalità, a cura di G. Fucillo, A. Areniello e M. C. Fucillo, Napoli, 2006, p. 16); o, in altre parole, tra l’incudine e il martello (F. CALDERONE,«Responsabilità disciplinare del notaio per gli acquisti non autorizzati dagli enti ecclesiastici», in Riv. not., 1960, p. 213 e ss., spec. 215).

(18) Così, Trib. Pisa 15 marzo 1997, in Riv. not., 1997, II, 1449 e ss. (la cui motivazione merita di essere segnalata per il notevole approfondimento delle questioni trattate).

(19) Cass. pen., S.U., 3 febbraio 1990.

(20) Trib. Pisa 15 marzo 1997.

(21) Cfr. per tutti: G. AMATO, «Atto pubblico e scrittura privata: evoluzione o crisi del Notariato», in Riv. not., 1961, p. 939 e ss., spec. 942; M. DI FABIO, voce Notaio (dir. vig.), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 565 e ss., spec. 604; S. TONDO, «Forma e sostanza dell’autentica», in Vita not., 1980, p. 280 e ss.; A. D’AMICO,«Legittimità degli atti negoziali portanti frazionamenti fondiari», in Vita not., 1983, p. 900 e ss., spec. p.935 e ss.; G. GIRINO, «Le funzioni del notaio», in Riv. not., 1983, p. 1057 e ss., spec. 1083; C. DONISI, Abusivismo edilizio e invalidità negoziale, Napoli, 1986, p.129 e ss.; P. BOERO, voce Autenticazione, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1987, vol. I, p. 508 e ss., spec. 509; G. PETRELLI, «Atto pubblico e scrittura privata autenticata», in Riv. not., 1994, II, p. 1423 e ss., spec. 1424 s.; S. PATTI, Prova documentale (artt. 2699 - 2720), inCommentario del Codice Civile Scialoja - Branca a cura di F. Galgano, Bologna - Roma, 1996, p. 89; G. CELESTE,«Trasparenza e funzione notarile», in Riv. dir. priv., 1999, p. 150 e ss., spec. 165; S. SICA, Atti che devono farsi per iscritto (art. 1350), in Commentario Schlesinger diretto da F. D. Busnelli, Milano, 2003, spec. p. 95; F. GERBO,«Nullità, articolo 28 della legge notarile e le responsabilità del Professionista», in Riv. not., 2003, p. 39 e ss., spec. 42.Per vero, non mancava - nel panorama dottrinale formatosi antecedentemente all’addenda legislativa del 2005 - qualche voce fuori coro, giusta la quale:«L’atto che si vieta al notaio è quello che egli riceve, il che non si verifica nelle autenticazioni, in cui al notaio si chiede soltanto una attestazione comunque estranea a dichiarazioni delle parti …: l’attestazione della sottoscrizione (a meno che non sia espressamente proibita…) è ovviamente insuscettibile, da sola, di ledere l’ordine pubblico o il buon costume ed in definitiva, a meno che, ripetiamo, non sia espressamente vietata, di ledere alcun interesse; nulla toglie e nulla aggiunge, la sottoscrizione, al contenuto dell’atto che la parte o le parti hanno già formato» (E. PACIFICO, Le invalidità degli atti notarili, Milano, 1992, p. 276).

(22) Assai brillanti, in proposito, le notazioni di R. BARONE, «Atto pubblico, scrittura privata autenticata e funzione notarile - in particolare: l’autenticazione notarile», in Vita not., 1982, p. 1455 e ss., spec. 1460 e ss.

(23) S. TONDO, «Forma e sostanza dell’autentica», cit., p. 283 e ss.

(24) E, quindi, che ad un tale esito non si potesse giungere in via d’interpretazione.

(25) La disposizione de qua - espressamente abrogata - è stata sostanzialmente trasfusa nell’art. 47 del D. P. R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico in materia di edilizia). Sul punto cfr. A. ZINGAROPOLI, La responsabilità del notaio, Matelica, 2006, p. 69.

(26) Lo rileva E. PACIFICO, Le invalidità degli atti notarili, cit., p. 276: «occorre tenere conto che lo stesso legislatore deve essersi, in qualche modo, reso conto della non riconducibilità della autenticazione al divieto in esame, dacché il 1° comma dell’art. 21 della L. n. 47 del 1985 … rapporta espressamente al divieto ex art. 28, n.1, dopo aver espressamente sancito il divieto di stipulazione di determinati negozi, tanto gli atti rogati dal notaio quanto le scritture da lui autenticate; segno, questo, che lo stesso legislatore era appunto preoccupato che il divieto di stipulazione potesse essere eluso attraverso la sola autenticazione della scrittura».In senso contrario si esprime C. DONISI, Abusivismo edilizio e invalidità negoziale, cit., spec. p. 130: «è incontestabile che la legge del 1985, proprio se osservata nella prospettiva notarile, assume un rilievo trascendente il suo specifico oggetto».

(27) Emanato con D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82.

(28) Per inciso, vale la pena ricordare che il testo di tale disposizione - pur ribadendo quanto previsto sul controllo notarile di legalità - è stato recentemente sostituito dall’art. 17, comma 2, del D.lgs. 30 dicembre 2010, n. 235.

(29) A dire il vero, già l’art. 24, comma 2, del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (Testo unico in materia di documentazione amministrativa) e, prima ancora, l’art. 16, comma 2, del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 513 stabilivano che «L’autenticazione della firma digitale consiste nell’attestazione, da parte del pubblico ufficiale, che la firma digitale è stata apposta in sua presenza dal titolare, previo accertamento della sua identità personale … e del fatto che il documento sottoscritto … non è in contrasto con l’ordinamento giuridico ai sensi dell’articolo 28, primo comma, n. 1 della legge 16 febbraio 1919, n. 89». Tuttavia, trattandosi di norme di fonte regolamentare, è anche da dire che esse non avevano la forza di contraddire (modificandola), una previgente disposizione di legge.

(30) Preziose sono, in tal senso, le considerazioni di U. BRECCIA, La forma, in AA. VV., Formazione a cura di C. Granelli, in Trattato del contratto diretto da V. Roppo, vol. I, Milano, 2006, p. 616: «ove si voglia evitare una disparità di trattamento irragionevole, si deve optare per una soluzione che accomuni le responsabilità connesse alle autenticazioni notarili. Sarebbe incomprensibile, infatti, che solamente alla firma elettronica si applicasse una disciplina tanto rigorosa».

(31) Pubblicato in Suppl. ord. n. 93 alla Gazz. Uff., 16 maggio 2005, n. 112.

(32) La vigente dizione dell’art. 28 legge notarile, infatti, è in vigore dal 16 dicembre 2005.

(33) Contra, G. PETRELLI, «L’indagine della volontà delle parti e la “sostanza” dell’atto pubblico notarile», in Riv. not., 2006, p. 29 e ss., spec. 73 e ss.: «L’art. 12, comma 1, lett. a, della L. n. 246 del 2005 ha, tra l’altro, integrato il contenuto dell’art. 28 L.N., estendendo il divieto, prima riferito al “ricevere” gli atti proibiti dalla legge, anche agli atti “autenticati”. La disposizione recepisce un orientamento largamente maggioritario, che già da tempo affermava l’applicabilità del suddetto art. 28 alle scritture private autenticate; può quindi sicuramente affermarsene la natura interpretativa e l’efficacia retroattiva».

(34) All’operatore del diritto (al notaio ed al difensore, in particolare), come “traduttore” dal linguaggio comune a quello tecnico - giuridico accenna, da par suo, F. CARNELUTTI, «La figura giuridica del notaro», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1951, p. 921 e ss., spec. 926: «traduttore: quest’ultima parola, dal latino trans ducere, significa propriamente recare al di là; ed esprime perciò l’idea di una distanza che viene superata. Se tra due, i quali, parlando due lingue differenti, non riescono ad intendersi, vogliamo stabilire un ponte (come tra due che sono divisi da un fiume), compare appunto la figura di un intermediario, il quale compie l’identico ufficio che i romani assegnano al nuntius. Ma non esiste solo il bisogno di tradurre da un idioma all’altro. Vi sono altre necessità di traduzione; or qui l’argomento diventa più difficile e l’indagine più delicata. La verità è questa: che noi giuristi ci serviamo, per necessità, di speciali concetti tecnici, e siccome il veicolo dei concetti sono le parole, adoperiamo o parole diverse dalle ordinarie o parole ordinarie con significato speciale».

(35) Così, N. IRTI, Ministero notarile e rischio giuridico dell’atto, in Studi sul formalismo negoziale, Padova, 1997, p. 201 e 209. Ma, ancor prima, un’altra autorevole dottrina aveva magistralmente confutato l’idea secondo la quale la figura del notaio potesse essere ridotta a quella di un mero documentatore, di un recettore passivo delle dichiarazioni delle parti «differente dal registratore automatico solo per la sua minor precisione» (S. SATTA, «Poesia e verità nella vita del notaio», in Riv. dir. proc., 1955, p. 265 e ss., spec. 268). Ulteriormente, sempre nella stessa direzione, meritano di essere segnalate le osservazioni di G.BONILINI, «Le clausole contrattuali c.d. di stile», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, p. 1190 e ss., spec. 1256: i«contraenti che si rivolgono al notaio per la stesura del regolamento contrattuale, implicitamente accettano una cooperazione di consulenza con relativa traduzione della loro volontà attraverso quelle clausole che questi riterrà opportuno e giuridicamente conveniente inserire in atto»; nonché, a conclusione del quadro, quelle di F. TOMMASEO,«L’atto pubblico nel sistema delle prove documentali», in Riv. not., 1998, p. 593 e ss., spec. 603 s.: «il pubblico ufficiale per adempiere correttamente la propria funzione documentatrice, non può e non deve limitarsi a riprodurre pedestremente quanto le parti gli dichiarano, ma deve intervenire attivamente per dare chiarezza alle private dichiarazioni spesso confuse e ignare anche d’un elementare tecnicismo … L’art. 1 della legge notarile definisce il notaio quale “pubblico ufficiale istituito per ricevere gli atti tra vivi e di ultima volontà”: in tal modo non intende affatto alludere ad una semplice materiale ricezione delle private dichiarazioni, ma si riferisce in modo implicito alla necessità che il notaio indaghi la volontà delle parti, la interpreti e la esprima in forma giuridica, in modo che possa efficacemente raggiungere gli effetti voluti dalle parti stesse. Ne deriva che l’ufficiale rogante può anche operare profonde modificazioni nella struttura verbale delle dichiarazioni delle parti, modificazioni che egli deve portare a loro conoscenza mediante la lettura del testo del documento, testo che le parti approvano e fanno proprio nel momento stesso in cui lo sottoscrivono».

(36) Cfr. N. IRTI, op. cit., p. 209: «nel raccogliere la volontà delle parti, nell’interrogarle ed orientarle e poi nel confezionare in testo linguistico dell’accordo, il notaro svolge un sicuro controllo di legalità o, meglio, di realizzabilità giuridica: egli non si fa giudice degli interessi privati, né del merito del negozio, ma suggerisce e predispone un testo conforme alla legge».

(37) Ben diverso, quindi, da un giudizio di fattibilità circa la possibilità di tradurre l’intento empirico delle parti in una forma giuridica che sia conforme alle regole dell’ordinamento. Cfr., al riguardo, N. IRTI, op. cit., cit., p. 210: «Dove il notaro confeziona il testo, il controllo di legalità è intrinseco (e preferisco, perciò, di denominarlo controllo di realizzabilità giuridica); dove egli lo riceve, il controllo di legittimità è estrinseco e negativo».

(38) In altri termini, su un testo scritto che ha raggiunto quello stato che i filologi ed i linguisti chiamano ne varietur, cioè definitivo, permanente e stabile (cfr. R. SIMONE, Testo scritto, testo parlato, testo digitale, in AA. VV., Scrittura e diritto, Milano, 2000, p. 3 e ss., spec. 18).

(39) Illuminanti, al riguardo, le parole di F. CARNELUTTI, op. cit., p. 927: «il giudizio giuridico non opera soltanto nel processo».

(40) Ed infatti, secondo il diritto pretorio elaborato dalla Corte di Cassazione a partire dal 1997, gli atti «espressamente proibiti» al notaio (ex art. 28 legge notarile) sono da identificarsi con quelli affetti da un vizio «che dia luogo ad una nullità assoluta … ed è sufficiente che la nullità risulti in modo inequivoco» anche alla luce di un consolidato orientamento interpretativo dottrinale e/o giurisprudenziale (Cass. 11 novembre 1997, n. 11128. Lungo questa via, altresì: Cass. 20 luglio 2011, n. 15892; Cass., 11 marzo 2011, n. 5913; Cass., 14 febbraio 2008, n. 3526; Cass, 7 novembre2005, n. 21493; Cass. 1 febbraio 2001, n. 1394; Cass. 19 febbraio 1998, n. 1766). Per l’approfondimentodell’articolata vicenda interpretativa intessutasi intorno al significato della locuzione atti «espressamente proibiti dalla legge» cfr.: A. DI MAJO, «La nullità “non equivoca”», in Corr. giur., 1999, p. 1159 e ss.; A. ZINGAROPOLI, op. cit., p. 30 e ss.; R. QUADRI, op. cit., spec. p. 139 e ss.; G. LA MARCA, «Intorno agli atti “espressamente proibiti” al notaio: rilevanza della nullità relativa e della nullità sanabile», in Vita not.,2009, p. 715 e ss.; L. SILIQUINI CINELLI, La responsabilità civile del notaio, Milano, 2011, spec. p. 81 e ss.; S. PAGLIANTINI, La responsabilità disciplinare del notaio tra nullità parziale, relatività della legittimazione e nullità inequivoca: a proposito di Cass. n. 24867/2010 e di Cass. n.5913/2011 (con una postilla), in AA. VV., Il diritto vivente nell’età dell’incertezza. Saggi su art. 28 L.N. e funzione notarile oggi a cura di S. Pagliantini, Torino, 2011, p. 57 e ss.

(41) Il quesito or ora sollevato è chiaramente sollecitato dalla seguente affermazione di N. IRTI, op. cit., p. 210:«A misura che il testo dell’atto sfugge alla direzione del notaro, si riduce di pari passo l’intensità del controllo … Il grado di estraneità al testo è, insieme, grado di estraneità alla legalità dell’atto». In argomento, altresì, suggerimenti preziosi si ricavano dalla lettura di G. PETRELLI, «L’indagine della volontà delle parti e la “sostanza” dell’atto pubblico notarile», cit., spec. p. 38.

(42) Così, per tutti, A. GENTILI, Dal rifiuto al recupero: il notaio e l’atto nullo, cit., spec. p. 16 e ss.

(43) Per quanto, si chiosa, l’impiego degli avverbi «espressamente» e «manifestamente» - nella lettera dell’art. 28, comma 1, n. 1 L.N. - offre un ancoraggio (anche) testuale a favore della regola secondo la quale in difetto del connotato della pronta riconoscibilità il notaio che riceve o autentica un atto inficiato da nullità non incorre in responsabilità disciplinare.

(44) Tanto che è possibile impostare una sorta di equazione ideale del tipo: “pronta riconoscibilità = non equivocità” della nullità.

(45) In merito alla distinzione tra l’ambiguità lessicale (originata dalla polisemia o dalla omonimia di una parola) e quella sintattica (determinata dal modo in cui un enunciato linguistico è costruito) si veda, per tutti, E. DICIOTTI, Interpretazione della legge e discorso nazionale, Torino, 1999, spec. p. 360 e ss.

(46) Sulla dogmatica come possibile fattore di equivocità dei testi normativi si veda R. GUASTINI, L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, 2004, spec. p. 71 e ss.

(47) Cass., 11 marzo 2011, n. 5913: «Il notaio che redige o autentica atti societari, nella specie relativi a società in accomandita semplice, contenenti clausole compromissorie che conferiscono ai soci il potere di nomina degli arbitri, non incorre nella violazione dell’art. 28, comma 1, L.N. Come è noto, infatti, secondo il consolidato insegnamento della Suprema Corte, il divieto di ricevere o autenticare atti di cui al citato articolo 28, comma 1, si riferisce agli atti affetti da nullità assoluta ed inequivoca, che cioè possa desumersi in via del tutto pacifica ed incontrastata da un orientamento interpretativo ormai consolidato. Nel caso di specie, stante il contrasto interpretativo circa la specialità ed inderogabilità del ‘modello’ di arbitrato endosocietario di cui all’art. 34, D.lgs. n.5/2003, costituisce errata applicazione dell’art. 28, comma 1, L.N. ritenere che il notaio, ricevendo o autenticando atti contenenti clausole compromissorie difformi dall’arbitrato endosocietario, incorra nella violazione del divieto di ricevere o autenticare atti affetti da nullità assoluta ed inequivoca» (la decisione è stata ampiamente analizzata da S. PAGLIANTINI, La responsabilità disciplinare del notaio tra nullità parziale, relatività della legittimazione e nullità inequivoca: a proposito di Cass. n.24867/2010 e di Cass. n. 5913/2011 (con una postilla), cit., spec. p. 90 e ss. Cfr., anche G. CORSI, «Clausola compromissoria statutaria, inequivocità della disposizione e responsabilità del notaio rogante», in Riv. not., 2011, p.900 e ss.).

(48) Per l’approfondimento del tema, cfr.: A. PICCOLO, «Arbitrato societario tra esclusività ed alternatività di modelli», in Notariato, 2011, p. 140 e ss.; E. GABELLINI,«Arbitrato societario: due questioni ancora aperte», inRiv. trim. dir. proc. civ., 2010, p. 1445 e ss.; A. BLANDINI,«La clausola compromissoria nell’arbitrato societario: sul vincolo della designazione degli arbitri a cura di soggetto estraneo», in Riv. dir. comm., 2007, I, p. 585 e ss.; E. ZUCCONI GALLI FONSECA, «L’arbitrato societario nell’applicazione della giurisprudenza» in Giur. comm.,2007, p. 935 e ss.; F. AULETTA, «La nullità della clausola compromissoria a norma dell’art. 34 D.lgs. 17 gennaio2003, n. 5: a proposito di recenti (dis-)orientamenti del notariato», in Riv. arb., 2004, p. 361 e ss.

(49) Nella misura in cui ivi si considera quale esimente della responsabilità disciplinare del notaio soltanto l’irriconoscibilità della causa di nullità che - giusta la presenza di orientamenti dottrinali e giurisprudenziali contrastanti - scaturisce dall’incertezza sul significato di una disposizione normativa.

(50) Si tratta di un profilo importantissimo, a torto trascurato dalla giurisprudenza, ma non da uno dei più attenti ed autorevoli indagatori di questa materia che, al riguardo, così scrive: «I giudici sembrano credere che i problemi di riconoscibilità della nullità si limitino agli aspetti strettamente giuridici connessi a difficoltà interpretative della norma legale. Trascurano così che molte fattispecie di nullità, con crescente frequenza soprattutto per quanto concerne le comminatorie più recenti legate agli andamenti del mercato o alla condizione della parte, dipendono non dall’interpretazione della previsione legale in sé, ma dalla ricognizione delle effettive circostanze di fatto cui essa collega la nullità che dispone» (A. GENTILI, Dal rifiuto al recupero: il notaio e l’atto nullo, cit., p. 14). Cfr. anche G. PERLINGIERI, Sanatoria e responsabilità del notaio ex art. 28, L. 16 febbraio 1913, n. 89, in AA. VV., Il diritto vivente nell’età dell’incertezza. Saggi su art. 28 L.N. e funzione notarile oggi a cura di S. Pagliantini, Torino,2011, p. 113 e ss., spec. 121 s., laddove questi sottolinea la difficoltà, anche per un notaio diligente, di individuare taluni vizi di nullità qualora essi dipendano«più che dal testo, dal contesto o da contratti collegati non facilmente conoscibili».

(51) Pur se di più eclatanti ve ne sarebbero avuto riguardo alla legislazione speciale. Anche su questo punto, si veda A. GENTILI, «Nullità di protezione e ruolo del notaio», in Riv. not., 2010, p. 285 e ss., spec. 299; ID., Dal rifiuto al recupero: il notaio e l’atto nullo, cit., p. 14, sub nota 34.

(52) Ma non solo: alla “fideiussione del donante” si è altresì fatto ricorso per tutelare l’interesse dell’acquirente di immobili di provenienza donativa; e ciò, in particolare, facendo «intervenire nell’atto di alienazione il donante che si costituisce fideiussore nei confronti dell’acquirente per le obbligazioni risarcitorie che sorgerebbero in capo al donatarioalienante qualora l’acquirente subisse l’evizione totale o parziale del bene a seguito del vittorioso esperimento nei suoi confronti dell’azione di restituzione ex art. 563 c.c. da parte dei legittimari lesi» (M. IEVA, «Retroattività reale dell’azione di riduzione e tutela dell’avente causa dal donatario tra presente e futuro», in Riv. not., 1998, I, p. 1134). Tradotto in essenza, il meccanismo in parola tende a rendere economicamente sconveniente per il legittimario l’esercizio dei propri diritti. Di fatti, l’effetto di incremento patrimoniale che deriverebbe dal vittorioso esperimento dell’azione di riduzione sarebbe prontamente azzerato dall’obbligo di garanzia (trasmesso jure successionis al legittimario) di corrispondere all’avente causa del donante un importo equivalente al valore dell’incremento medesimo.

(53) La decisione è stata commentata da C. SGOBBO, «La nullità della fideiussione prestata dal donante a garanzia di obbligazioni assunte dal donatario», in Giur. it., 2011, p. 2298 e ss.

(54) La disposizione , rubricata sotto la dizione «Divieto di pesi o condizioni sulla quota dei legittimari», stabilisce che «Il testatore non può imporre pesi o condizioni sulla quota spettante ai legittimari».

(55) La sentenza trova spalleggiamenti nella dottrina secondo cui - ai sensi dell’art. 1344 c.c. - costituisce un risultato vietato dalla legge (anche) quello di precludere al terzo l’esercizio di un diritto conferitogli da una norma imperativa. In questo senso, a conclusione di un’indagine molto accurata, argomenta V. VELLUZZI, «Il contratto in frode al terzo : individuazione della fattispecie e rapporti con la frode alla legge», in Rass. dir. civ., 2004, p. 182 e ss., spec. 223: «il contratto in frode al terzo in senso stretto è in frode alla legge in tutti quei casi in cui la posizione soggettiva del terzo può essere ricondotta nell’ambito della ratio della norma imperativa».

(56) In relazione ad una diversa area d’indagine, e precisamente in materia di formalismo contrattuale, un’autorevole dottrina ha efficacemente parlato di «punto di vista esterno all’atto …, rappresentato dalla c.d. situazione complessiva, da quella situazione cioè che fa da quadro e contesto a ogni singolo contratto e che come tale connota nei diversi casi ciascuna operazione contrattuale» (V. SCALISI, «Forma solenne e regolamento conformato: un ossimoro del nuovo diritto dei contratti?», in Riv. dir. civ., 2011, p. 419).

(57) Il notaio - per dirla alla maniera di Aurelio Gentili - non è un detective, né tanto meno un inquisitore.

(58) Per tornare all’esempio cui poc’anzi si è ricorso (la fideiussione del donante), si consideri che se il notaio al quale sia richiesto di autenticare il contratto di fideiussione è persona diversa da quella che ha rogato la donazione, il primo (se le parti non glielo dicono) neppure potrebbe sapere che si tratta di una “fideiussione del donante”.

(59) Cfr. G. PETRELLI, «Atto pubblico, scrittura privata autenticata e titolo esecutivo», cit., p. 1430.

(60) È opportuno, ai piedi di queste note, segnalare l’esistenza di un evidente difetto di coordinamento tra la disciplina attuale dell’autentica notarile (dominata dalla presenza di un penetrante controllo contenutistico sulla legalità dell’atto) e quella dettata dal codice di rito per quanto concerne la verificazione giudiziale della scrittura privata. Tant’è che oggi, per un singolare paradosso, quello che non è più possibile ottenere con la “collaborazione” del notaio (ossia la formazione di un titolo negoziale sostanzialmente nullo, ma formalmente idoneo alla trascrizione o all’iscrizione ai sensi degli artt. 2657 e 2835 c.c.) è invece possibile conseguire grazie alla “collaborazione” del giudice. Se ne ha la riprova agevolmente, se si considera che i principi processuali della domanda e della corrispondenza fra chiesto e pronunciato impedirebbero al giudice che sia investito della decisione su un’istanza di verificazione (proponibile anche in via principale ex art. 216, comma 2, c.p.c.) di estendere d’ufficio il proprio sindacato alla legalità del contenuto della scrittura.

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