Dal trust all’atto di destinazione patrimoniale. Il lungo cammino di un’idea - Prefazione
Prefazione

Per comprendere la struttura e l’efficacia del pianeta trust occorre, preliminarmente, ricostruire l’ambientazione storica nella quale si è sviluppato questo congegno giuridico.
L’amministrazione anglo-normanna, dopo la conquista dell’Inghilterra da parte di Guglielmo di Normandia (anno 1066 d.c.), si articolava in organismi di governo itineranti, che da subito iniziarono anche a svolgere la funzione di corti di giustizia. Componevano questi governi itineranti i c.d. justiciae errantes (eire nel francese dei normanni), organizzati in circuiti, distinti e prestabiliti. Le assisi degli eire si svolgevano, in giro per il paese, anche a distanza di 5 o 6 anni l’una dall’altra; tale forma di giustizia errante, se da un lato contemperava i soprusi dei potentati locali, non era sostenuta né da una attenta selezione di uomini né da un serio rigore culturale e, spesso, era in balia di sé stessa. Solo nel 1178 Enrico II (padre di Riccardo Cuor di Leone) per garantire una possibilità di appello contro le malefatte degli eire, dispose che 5 giudici sedessero in permanenza in curia regis, amministrando giustizia, diremmo oggi, di secondo grado.
I 5 giudici voluti da Enrico II, si stabilirono a Westminster Hall ed erano noti come il Bench; il miracolo del common law è essenzialmente quello di un diritto regio: «proprio come una generazione prima a Bologna il monaco Graziano ha prodotto dalla confusione dei canoni un sistema coerente di diritto canonico che derivava la sua autorità dal Papa, così Glanville e i suoi colleghi giudici sotto Enrico II (1154-1189) hanno prodotto un corpus coerente di diritto inglese che derivò la sua autorità ultima dal Re» (J. H. Baker).
La prassi della corte regia era vista come consuetudine del regno; l’ordinamento di common law si afferma, così, come “antica consuetudine del regno”.
La giustizia del caso concreto, svincolata dalla semplice applicazione di rigide norme generali, già presente nello jus praetorium romano e nel patrimonio sapienziale del medioevo, era la regola costante della common law, proprio in quanto riferibile direttamente alla sovranità regale, fonte primaria della forza di svincolarsi dalla norma per amministrare giustizia secondo equità.
Ma nel corso dei secoli le corti di common law, per affrancarsi dal potere regio, dovettero smettere di amministrare giustizia in equity.
Questo è il momento nel quale si pongono le premesse storico-giuridiche per l’istituzionalizzazione della possibilità per un suddito, insoddisfatto dal giudicato di una corte di common law, di rivolgersi ad un organo del governo regio, il Cancelliere, per ottenere un giudizio secondo equità. Non meccanica applicazione di una regola, ma giustizia secondo coscienza.
Nel XV secolo un numero sempre più cospicuo di litiganti si rivolgeva al Cancelliere del Re, di regola un alto prelato, che in forza dell’aequitas, modificava le decisioni prese dalla corte di giustizia.
La conoscenza del diritto canonico e del diritto romano fecero ben presto della Cancelleria una corte di squisita finezza giuridica; nell’era dei Tudor la Cancelleria era definita come una court of conscience e non come una court of law.
L’articolazione duale fra common law e equity segna la scena giuridica della civiltà inglese; la profonda cultura di grandi Cancellieri (Thomas Moore - Francis Bacon - Lord Nottingham) consentì di preservare «la benefica iniezione del diritto canonico nel diritto inglese» (U. Mattei).
L’ordinamento feudale prevedeva un sistema di tributi molto gravoso per i proprietari terrieri; per aggirare tali imposizioni, si cominciò ad utilizzare strumentalmente un artifizio giuridico adottato originariamente per fini più nobili.
I frati missionari francescani giunsero in Inghilterra nella XII secolo e, in forza del voto di assoluta povertà, non potevano essere proprietari di beni terreni; per sopperire alle esigenze economiche necessarie per il sostentamento delle abbazie, si affermò la pratica di intestare la proprietà terriera a determinati soggetti ad opus dei frati.
Il termine opus diventerà col tempo oes, ues, ed infine use.
Così alcune persone possedevano le terre “per l’uso” dei frati.
Questo espediente fu adottato dai proprietari terrieri per eludere i tributi propri del sistema feudale.
Il paradigma era il seguente: Tizio trasferisce un bene a Caio per l’uso di Tizio.
In base al sistema di common law Tizio non era oramai più proprietario e rimaneva senza rimedi se Caio non avesse rispettato le istruzioni ricevute, anche in presenza di un accordo iniziale sulla base del quale Caio deteneva la proprietà per l’uso di Tizio e dovesse eseguirne la volontà.
La tutela di questo use di Tizio era perseguibile solo con il ricorso alla corte di Cancelleria che giudicava secondo equity, dando soddisfazione alle legittime pretese di Tizio. Il Cancelliere non interferiva con il diritto di proprietà di Caio, di competenza della common law, ma poteva intervenire se il diritto di proprietà non venisse utilizzato secondo le originarie istruzioni di Tizio.
Comincia così delinearsi quella distinzione tipica del diritto inglese tra
- legal estate, tutelata in common law (nel nostro esempio riferibile a Caio);
- equitable estate, tutelata in equity (nel nostro esempio riferibile a Tizio).
Con lo Statute of Uses del 1535 gli uses vennero aboliti; la forza, la forza creatrice della elaborazione giurisprudenziale che dà forma alle esigenze, ai bisogni, alle pulsioni della società, finì col superare anche questo ostacolo; nel XVII secolo l’interpretazione costruì una nuova sequenza per rivitalizzare gli antichi uses.
Il trasferimento, pertanto, «a/e per l’uso di un soggetto in trust per un diverso soggetto» significava di nuovo che il primo fosse titolare della proprietà legale ed il secondo di quella proprietà che consentiva l’accesso alle corti di Cancelleria.
È importante rilevare che il rimedio equitativo era dato esclusivamente al beneficiario e non al costituente il trust.
Questa breve digressione, quasi una favola, che da Re Artù e Robin Hood, ci ha portato fino a Il nome della Rosa (U. Eco) ed all’eresia di Fra’ Dolcino su comunità dei beni e dissoluzione del concetto di proprietà privata, (Nostro Signore Gesù era proprietario degli abiti che indossava?) serve per capire quanto la struttura del trust diverga dalla nostra tradizione culturale.
Un famoso giurista tedesco (O.V. Gierke), di solida impostazione romanistica, dichiarò con stizza «Io non capisco il trust!».
La giurisprudenza che, per prima, si occupò del trust (Cassazione di Roma del 21 febbraio 1899 - Corte di Appello di Cagliari del 12 maggio 1898 - Cassazione di Napoli del 29 marzo 1909 - Tribunale di Oristano del 15 marzo 1956), con oscillazioni drastiche, dimostrò la propria inadeguatezza ad affrontare le problematiche poste dal trust.
Il quadro muta con la ratifica della Convenzione de L’Aja, anche se il successo del trust e l’alto numero di atti stipulati, sono riconducibili alla sola figura del trust c.d. interno; nessun dubbio, infatti, è stato mai prospettato rispetto ai trusts stranieri, che presentino cioè elementi di estraneità rispetto al diritto interno di là dalla legge scelta, essendo il loro riconoscimento garantito pienamente dalla Convenzione.
Lo sforzo di alcuni comparatisti (M. Lupoi - A. Gambaro) di divulgare, spiegare e diffondere la figura del trust e la piena validità ed efficacia della sua declinazione senza profili di internazionalità relativamente ai soggetti ed all’oggetto, ha il merito di aver aperto la riflessione in genere su una tematica di notevole valore pratico, ma ha il limite di aver sottovalutato alcune problematiche operative del nostro sistema di pubblicità immobiliare. La natura di convenzione di diritto internazionale privato della Convenzione de L’Aja non può non portare a ritenere (P. Schlesinger) che la stessa miri solo «a risolvere potenziali conflitti di legge, non a introdurre nell’ordinamento interno dei singoli paesi aderenti norme di diritto uniforme».
Il carattere ordinario della proprietà del trustee, ancorché proprietà deformata dalla sua funzione volta all’interesse altrui, la peculiarità della posizione giuridica del beneficiario, la lacunosità di ogni sistema rimediale proposto, sono tutte asperità che alterano la purezza del modello di trust anglosassone.
I vincoli di destinazione e gli obblighi di gestione che accompagnano il trasferimento del bene dal settlor al trustee, acutamente e certosinamente resi compatibili con il nostro ordinamento, lasciano inalterato il problema di affidare le ansie ed i bisogni dei nostri clienti ad un sistema giuridico straniero di cui si potrebbe non essere sufficientemente esperti.
Sono tra coloro che hanno subito colto la magia di questo modello di articolazione del patrimonio e di salvaguardia di specifiche finalità; il disincanto (Entzauberung) inizia con la constatazione che la scelta di una legge straniera, a volte oscura ma sempre comunque estranea ai cardini del nostro tessuto ordinamentale, potesse essere sostituita con la strutturazione di un volere razionale.
La necessità che il trust copre è l’ormai ineludibile esigenza economica e sociale di articolare il patrimonio individuale in compartimenti tra loro esenti da contagio.
Il ragionamento sulla piena importabilità del trust si coniuga con l’analisi della dottrina civilistica sulla proprietà fiduciaria e sulla dissociazione, avvertita da alcuni nella stessa, tra la titolarità formale e la titolarità sostanziale, con l’obbligazione che connota la situazione proprietaria di una sua specifica funzionalizzazione.
La proprietà nell’interesse altrui, nelle sue svariate tipizzazioni, è comunque caratterizzata dal «fatto che le facoltà di godere e di disporre del bene sono attribuite al proprietario non per soddisfare un interesse proprio, bensì un interesse altrui» (A. Saturno).
Il trasferimento della res dal fiduciante al fiduciario si intreccia indissolubilmente con lo svolgimento di una predeterminata attività da parte del fiduciario stesso sul bene trasferito, attività tesa alla realizzazione dell’interesse perseguito dal fiduciante; superata la ricostruzione di una proprietà sostanziale del fiduciante contrapposta alla proprietà formale del fiduciario, la sola prospettiva rimediale consente di attribuire la tutela al fiduciante, nonostante la piena proprietà del fiduciario.
L’orientamento giurisprudenziale favorevole, da subito, al trust interno, non ha distolto la dottrina dallo studio sulla normalizzazione nel nostro ordinamento dell’idea di responsabilità limitata (F. D’Alessandro); la tendenza a tale frammentazione patrimoniale è stata recentemente confermata dal D.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, che ha introdotto nel codice civile la società di capitali senza capitale (art. 2463-bis - società a responsabilità limitata semplificata).
L’autonomia privata tuttavia, per dato non in discussione, non poteva riuscire ad imprimere efficacia reale al vincolo di destinazione (N. Irti). La sfida, raccolta dal Notariato, è stata di studiare, proporre e poi riproporre una destinazione finalmente opponibile.
Con un lento procedere, comincia così ad emergere il profilo autonomo della destinazione; il vincolo di destinazione, nelle ricerche che hanno preceduto la nuova norma (G. Palermo), viene inquadrata come «l’espressione di un peculiare modo di disporre» e, così, ricostruita con modalità del tutto autonome rispetto al trust e collocata nell’ambito generale del potere di autoregolamentazione strumentale, con lo strumentario di tutti i meccanismi idonei per il raggiungimento del risultato sostanziale programmato dal disponente. La lunga attesa di una norma che consentisse la configurazione di uno scopo con una matrice negoziale ed ottenesse il riconoscimento dell’opponibilità della separazione, presenta, in fondo, la sola novità non conseguibile dalla volontà del disponente della segregazione del bene destinato.
La fonte del sapere è anche il continuo ritorno di pensieri e concetti, come gli aquiloni che sognano sempre di ritornare; la finestra di opportunità della nuova norma aiuta a lacerare le ragnatele dell’esistenza. Partendo dalla contrapposizione del greco antico tra ζωή e βίος e fino alle sfaccettature della parola hawaiiana aloha, la storia dell’umanità dimostra il privilegio da sempre accordato alla ricostruzione del pensiero immanente alla legge e la rilevanza dello ius non scriptum nell’interpretare lo ius scriptum, muovendo dai bisogni e dalle aspirazioni della coscienza umana; anche in una visione laica delle cose, ritengo che i principi conformino le regole.
Non possiamo pensare di trovarci di fronte ad un’entità puramente linguistica, quasi come se la destinazione fosse “un modo di dire”. L’indeterminatezza dello statuto della destinazione, fatto più di slittamenti e consonanze che di precise traiettorie, non cerca equilibri solo formali, ma insegue la possibilità di strutturare un’unica forza che tenga insieme con una circolarità assoluta la destinazione, il suo fine e la sua rilevanza esterna, realizzando le pulsioni della mano che la tiene. L’anima del nuovo art. 2645-ter è, a mio avviso, l’assoluta strumentalità ai fini nella gestione dei beni destinati, da assicurare in ogni caso; in tal senso, e solo in tal senso, un gestore diverso dal conferente garantisce una maggior trasparenza e l’effettività della destinazione.
Forse proprio per questo sforzo, partendo dalle prime letture sul trust, con le spiegazioni pazienti del prof. A. Falzea sui principi dell’ordinamento in tema di destinazione, alcuni di noi hanno dato una lettura benevola dell’art. 2645-ter c.c., visto come la danza dei dissimili di Kekulè.
La destinazione, comunque, rivendica uno spazio altro dall’universo giuridico in cui è nata! Bisogna essere capaci di assorbire anche contaminazioni e parlare in ogni caso un linguaggio che sia il gergo di un’identità.
L’atto di destinazione, nato in Germania dalle elaborazioni della teoria pandettistica dei patrimoni destinati ad uno scopo (A. Brinz), parte da lontano ed ha una lunga sedimentazione di analisi e studi, trattarlo come un bambino con i calzoni corti (nato nel 2006), significa semplicemente non saper “fare storia”.
Ho sempre pensato che proprio la lacunosità della norma fosse il terreno fertile per quella qualità tipica del Notariato di poter adattare, con il regolamento della destinazione, la regola alla vita. Il poter fare non può essere l’unico criterio legittimo di valutazione delle azioni umane; la tecnica redazionale tende a presentarsi in modo innocente, come pura formalizzazione di un mezzo ad un fine; il rischio è tuttavia quello di condannare quel fine a diventare irrilevante.
Il ruolo del notaio è proprio quello di ricercare una risposta a misura dell’uomo, della sua dignità e della sua vocazione, con una visione forte della meritevolezza dell’interesse. La volontà conta per l’interesse che serve e bisogna selezionare interessi che la coscienza comune e l’ordinamento nel suo complesso già riconoscono.
Il diritto è scritto dai giuristi, ma vive nella carne delle persone; i valori non sono, ma valgono e questa concezione del valere (gelten) si fonda sul concetto kantiano dell’a priori, che esclude la realtà dei valori, che non sono cose, ma rappresentano le condizioni secondo cui la coscienza può giudicare delle cose.
E viene così assunto come misura del proprio essere il Dasein (la struttura dell’esistenza) di M. Heidegger che non è mai uno stare in sé, ma un procedere verso di sé, con la dimensione delle emozioni e della passione dell’essere nel mondo, recuperando il proprio passato alla luce della proiezione del proprio essere. E questo essere fissa nel tempo il valore dell’interesse che la destinazione strappa all’usuale scorrere del tempo.
Nel nostro ordinamento costituzionale la tutela dei diritti fondamentali di ciascun individuo rappresenta un permanente obiettivo comune della persona e dello Stato. Il nuovo ruolo sociale dei lavoratori della conoscenza è quello di concorrere a rivalutare in chiave di sussidiarietà il ruolo delle professioni. Il principio di sussidiarietà, nella sua dimensione orizzontale, tende a ridurre all’essenziale il ruolo dello Stato (art. 118, IV, Cost.); la sussidiarietà esprime così il primato della persona. È necessario limitare l’attuazione diretta da parte dello Stato degli scopi di interesse generale che possano essere perseguiti dai privati, con la diretta partecipazione dei cittadini al conseguimento dell’interesse generale. Uno dei problemi che soffoca il nostro Paese è l’eccesso di burocrazia, una visione dello Stato che si pone, come dice la prof.ssa Violini «centralizzato, burocratizzato e monopolista nella produzione dei beni sociali».
Già nel 1835 C.A. de Tocqueville, in La democrazia in America, condannava la mentalità del sovrano che «estende il suo braccio sull’intera società; ne copre la superficie con una rete di piccole regole complicate …; esso non sprezza le volontà, ma le infiacchisce, le piega e le dirige».
Il disegno di legge, XVII legislatura, presentato dal senatore Sacconi “Semplificazioni e innovazione dell’ordinamento italiano attraverso il ruolo sussidiario delle professioni” si pone in modo eccellente in questa ottica di modernità: il principio di sussidiarietà viene declinato secondo i due corollari: quello della innovazione/semplificazione e quello della ablazione. Se rileggiamo l’art. 2645-ter e riflettiamo sulla sua valenza civica, abbiamo il dovere di sfruttarne le potenzialità nell’interesse degli individui in ombra, marginali e, in genere, per esaltare la dimensione civica del volere, anche in funzione di sussidiarietà e così, ad esempio, anche con un’offerta in campo previdenziale ed assistenziale in una previsione e revisione del welfare state; un welfare delle opportunità e delle responsabilità che sappia intervenire in anticipo rispetto al formarsi del bisogno e sappia stimolare comportamenti e stili di vita responsabili e, per questo, utili a sé e agli altri. Il governo, sviluppando un nuovo modello sociale, dovrebbe fornire incentivi a queste forme innovative; l’universalismo selettivo (Libro Bianco sul futuro del modello sociale “La vita buona nella società attiva” - approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 maggio 2009) sancisce il principio della parità dei cittadini nell’accesso alle risorse e pone i presupposti per la sostenibilità finanziaria ed il controllo della qualità dei servizi.
Il lungo cammino di un’idea, partito dai primi balbettii sul trust, si chiude con il progetto sul contratto fiduciario. La stesura che chiude questo libro è un punto di partenza, solido e strutturato, che affidiamo con fiducia al mondo politico.
Il libro si apre con un omaggio al prof. Angelo Falzea, con la riproduzione di una sua riflessione di assoluto valore: ogni volta che la rileggo, ne colgo qualche nuova sfumatura e ne capisco qualche nuovo significato.
Si chiude con le conclusioni del prof. Cesare Massimo Bianca che, con benevolenza, ha aderito a questa iniziativa editoriale.
Fra questi due “maestri ecumenici”, punto di riferimento scientifico, morale e umano, ci siamo noi con i nostri dubbi e le nostre, poche, certezze.
Ringrazio infine tutti gli Autori.

Alessandro de Donato
Notaio in Grazzanise
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