Introduzione e considerazioni generali
Introduzione e considerazioni generali*
di Angelo Falzea
Professore emerito - Accademico dei Lincei

1. Premessa

La Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, ratificata dallo Stato italiano con la legge 16 ottobre 1989 n. 364, ha portato nell’orizzonte del nostro ordinamento giuridico l’istituto del trust, caratteristico prodotto di common law. Ma si è trattato di un avvistamento ex distantibus, e ciò perché la Convenzione, lungi dal prevedere l’ingresso di quell’Istituto nell’ordinamento giuridico dei singoli Stati, si limita a dettare regole di armonizzazione delle leggi degli Stati contraenti in materia di trust ed a regolarne il riconoscimento. Quella legge di ratifica stabilisce, dunque, le condizioni perché un trust di common law possa trovare ingresso nel nostro sistema di diritto applicato, ma non ne consente l’ingresso diretto nel sistema normativo del nostro ordinamento giuridico. Ciò ha provocato una situazione profondamente disarmonica nel nostro diritto positivo, il quale formalmente non riconosce e non disciplina come proprio un istituto di cui, altrettanto formalmente, ammette l’applicazione attraverso il riconoscimento di un atto stipulato in uno Stato estero. Si è venuta così a verificare una sorta di doppiezza ordinamentale che, mentre da un verso esercita l’inventiva dei giuristi a complicati stratagemmi di aggiramento dall’altro verso sfocia in una forte pressione della prassi giuridica perché il riconoscimento indiretto si trasformi in un suo diretto accoglimento nel sistema normativo. Questa pressione è soprattutto effettuata su quegli esegeti più attenti che hanno ritenuto impraticabile, nello stato attuale del nostro diritto positivo, i tentativi di legittimare la presenza di una figura giuridica del tutto estranea alla nostra tradizione ed ai principi nei quali essa si è espressa e consolidata. Ad essi viene chiesto di farsi carico delle esigenze sostanziali che possono essere appropriatamente soddisfatte, nello stato attuale dell’evoluzione dei rapporti economici, soltanto da un istituto come il trust, suscettibile di un impiego duttile e variegato - per usare una puntuale espressione di Concetta Priore, l’artefice prima della odierna iniziativa.
È a questa forte e insistente istanza della prassi giuridica che ha inteso dare un concreto riscontro il Consiglio Nazionale del Notariato, il quale ne ha affidato l’attuazione alla Commissione propositiva. Il Convegno del 19 luglio costituisce l’esito di una laboriosa preparazione e la testimonianza della capacità del ceto notarile di cogliere le problematiche più attuali e più complesse della nostra società e di ricercarne le corrette soluzioni. Presa coscienza delle attese alimentate dalla Convenzione dell’Aja, il Notariato ha voluto impegnarsi nella ricerca di un orientamento il più possibile rispondente alle richieste della prassi ma anche il più possibile aderente ai principi ed alle regole del diritto positivo.
Desidero chiudere questa premessa con due notazioni personali. Ho accolto con animo grato l’invito del Consiglio Nazionale del Notariato, espresso attraverso la Commissione propositiva, di accompagnare la loro ricerca su una possibile apertura del nostro sistema giuridico all’istituto del trust, sia perché ben consapevole di cosa rappresentava questa problematica per la professione notarile, sia perché l’invito comportava un esperimento metodologico di grande rilievo accomunando nella ricerca di una soluzione giuridicamente corretta la esperienza di una eletta classe professionale con la esperienza di una distaccata riflessione scientifica. È stata un’occasione unica che ha lasciato il segno nel mio itinerario studioso.

2. L’orientamento della Commissione propositiva e le sue implicazioni

È divenuto un punto fermo della Commissione propositiva, - risalente, secondo la testimonianza del notaio D’Errico, al suggerimento del notaio Valentina de Donato -, che una riflessione sull’ingresso del trust nel nostro diritto positivo debba muovere dal fenomeno della destinazione allo scopo. D’Errico, che ha fatto propria questa intuizione, vede nella destinazione allo scopo addirittura l’essenza del trust, pervenendo alla categorica e impegnativa conclusione che «il negozio di destinazione dei beni allo scopo finisce con il divenire la lettura italiana del trust». In questa prospettiva è sembrato assumere una posizione di implicita marginalità la questione relativa alla natura dell’atto di destinazione e di implicita ovvietà la coniugazione della destinazione dei beni e della loro separazione dal patrimonio del destinante. Reputo perciò utile muovere dalla enunciata impostazione.
La prima verifica riguarda la enfatizzazione, nello studio della figura giuridica del trust, della destinazione allo scopo. Non si mette in dubbio la sua importanza, e il ruolo fondamentale in una eventuale proposta costruttiva dell’istituto; ma si revoca in dubbio la sua assunzione a elemento caratterizzante della figura oggetto della ricerca.

3. (Segue)

Sarebbe un grave errore, che si pagherebbe a caro prezzo nell’impegno ricostruttivo, nascondersi che il concetto di destinazione allo scopo possa valere di più di un semplice punto di avvio mentre la sua alta genericità esclude che possa costituire la base sulla quale fondare un’ipotesi dogmatica di trust all’italiana. Un sommario sguardo alla fenomenologia giuridica dimostra, infatti, che il concetto di destinazione allo scopo ricorre già - sotto il profilo della teoria generale del diritto - in tutte e quattro le categorie dogmatiche fondamentali dell’esperienza giuridica. Lo troviamo impiegato nella categoria del soggetto come in quella dell’oggetto, ma anche nella categoria dell’atto e persino in quella del fatto. Quanto alla teoria del soggetto basterà ricordare che sul concetto di patrimonio allo scopo (Zweckvermogen) una non secondaria dottrina tedesca - con Brinz, Bekker, Schwarz - ha fondato la costruzione della persona giuridica, intesa appunto, come patrimonio destinato ad uno scopo determinato. Quella teoria, è utile qui ricordarlo, poneva una distinzione netta tra il diritto soggettivo della persona fisica e quello della persona giuridica, sostenendo che rispetto a quest’ultima, a differenza di quanto accade per la persona fisica, non viene postulato un problema di appartenenza (a chi spetta?) ma un problema di destinazione (per quale scopo si ha?); e perciò non si pone come potere della volontà (secondo l’allora imperante teoria volontaristica) bensì come vincolo di beni per un determinato scopo (con chiaro riferimento alla teoria dell’interesse di R. Jhering). Giova notare come Schwarz abbia voluto dare a questa concezione una dimensione generale estendendola alla persona fisica, definita come patrimonio destinato allo scopo della sua esistenza, cioè al conseguimento delle finalità da esso liberamente scelte. A sua volta la teoria dell’oggetto è costruita sul concetto di utilità, il cui conseguimento costituisce lo scopo per il quale l’oggetto è perseguito dal soggetto e a lui attribuito. Dal coordinamento della teoria dell’oggetto con la teoria dell’atto viene ricavata, nella categoria degli atti giuridici, la figura dell’atto di destinazione, della quale sono state ricordate in questo incontro alcune storiche applicazioni legislative: l’atto di destinazione di una cosa a pertinenza - utilità od ornamento - di una cosa principale, della quale segue la sorte giuridica; l’atto di destinazione alla universalità, per la quale la cosa oggetto della destinazione entra a fare parte, condividendone le vicende giuridiche, del complesso al quale viene ad accedere; l’atto di destinazione a servitù, in forza del quale il fondo asservito spiega la sua utilità in funzione del fondo dominante. Quest’ultimo esempio suggerisce di tenere presente come la destinazione allo scopo trovi applicazione persino nella teoria del fatto naturale, dal momento che la servitù di un fondo a servizio di altro fondo può essere l’effetto di una situazione della natura e non di un fatto dell’uomo.
Tutto ciò dimostra che non può essere la figura generale della destinazione allo scopo a potere reggere da sola la costruzione di una eventuale figura italiana di trust, e che, quanto meno occorrono specificazioni e integrazioni puntuali e idonee a conferire al richiamo la posizione di base di una ben più complessa struttura.

4. (Segue)

La prima specificazione integrativa è costituita dalla separazione dei beni oggetto della destinazione dai restanti beni dell’autore della destinazione. Il “patrimonio destinato” non è, per il solo fatto della destinazione, un “patrimonio separato”. Destinazione e separazione non sono situazioni giuridiche necessariamente congiunte e di conseguenza inscindibili. Come può sussistere una separazione di beni del patrimonio del destinante senza che i beni separati vengano fatti oggetto di una autonoma destinazione di utilizzazione - il che avviene nella costituzione di garanzie reali -, così può verificarsi una destinazione di beni ad una specifica utilizzazione ma senza che essi vengano giuridicamente separati dal patrimonio del destinante. Per questa seconda ipotesi, che occorre tenere in tutta evidenza nella problematica della quale ci si occupa, basterà ricordare le tre figure classiche, alle quali di sopra si è fatto cenno, della destinazione di beni - a pertinenza, all’universalità, alla servitù -, caratterizzate tutte dalla costituzione di un vincolo giuridico di natura reale tra cose appartenenti allo stesso proprietario; vincolo che permane integro - assumendo allora la massima evidenziazione - anche quando una delle cose tra le quali esso corre venga trasferita ad altri. Perché, dunque, la destinazione allo scopo possa costituire il fondamento di un istituto che, nel nostro diritto positivo, assolva il compito che, nell’ambito della gestione degli interessi giuridicamente rilevanti, svolge nel territorio di common law il trust, appare indispensabile - come primo tratto specificativo - che al vincolo giuridico della destinazione di beni allo scopo perseguito dal destinante si accompagni la separazione dei beni oggetto della destinazione dal restante patrimonio dell’autore della destinazione. Soltanto con la separazione dei beni il loro vincolo giuridico voluto allo scopo dal destinante acquista lo stato di intangibilità che è richiesto da chi ricorre a questo istituto. Per la realizzazione dei fini del destinante appare indispensabile che, mediante l’atto di destinazione venga identificato un “centro di interesse” distinto e autonomo rispetto allo stesso autore della destinazione - la famiglia in quanto luogo di formazione di esigenze distinte da quelle dei suoi componenti, il congiunto non autosufficiente, i figli bisognevoli di avere assicurata la formazione professionale, il casato la cui rinomanza è legata alla conservazione ed alla ostensione di immobili o di oggetti di alto valore storico artistico scientifico, e via esemplificando. Il legame che si costituisce tra il distinto centro di interesse ed i beni destinati al soddisfacimento dell’interesse del quale il centro è portatore, ha l’effetto di spersonalizzare i beni “destinati” rispetto all’autore della destinazione e di legarli funzionalmente al centro identificato dal destinante. Ciò comporta la costituzione di un particolare stato giuridico dei beni “destinati”, costituito da un verso dalla loro separazione rispetto al centro di interesse rappresentato dall’autore della destinazione e dall’altro verso dal loro collegamento con il centro di interesse per il quale la destinazione è stata effettuata. Rientra in questo status la caducazione del vincolo di destinazione e della collegata situazione di separazione nel momento in cui la realizzazione dello scopo si sia perfezionata od esaurita ovvero sia divenuta impossibile.
La diversificazione e la relazione tra destinazione e separazione era venuta in evidenza a proposito della fondazione in attesa di riconoscimento.
Non si è avuta difficoltà ad ammettere che l’atto di fondazione provochi, rispetto ai beni impegnati per costituire il patrimonio dell’ente, la costituzione di un patrimonio allo scopo. Le difficoltà sono sorte per il di più: cioè per l’autonomia del bene destinato e la sua separazione rispetto al patrimonio di provenienza. Una decisione non recente della Corte di Cassazione, la n. 1427 del 1975, si era spinta a riconoscere l’autonomia e il distacco, fin dalla stipula dell’atto, dei beni destinati alla fondazione rispetto al patrimonio del destinante. E già l’art. 15 c.c., in tema di revoca dell’atto costitutivo della fondazione, aveva adottato un criterio che andava anche oltre l’autonomia e la separazione, in quanto escludeva la revocabilità della destinazione dei beni, in alternativa alla sopravvenienza del riconoscimento, dal momento in cui il fondatore “abbia fatto iniziare l’opera da lui disposta” - cioè al principio di attuazione della destinazione e di realizzazione dello scopo. Si costituisce, dunque, mediante l’atto di fondazione accompagnata dall’inizio dell’attività attuatrice e realizzatrice e prima del riconoscimento, un vincolo di indisponibilità, che costituisce un effetto maggiore rispetto alla separazione e che non solo è riduttivo ma del tutto inesatto ricondurre alla presunta volontà del fondatore.
Il tema della separazione patrimoniale è collegato a quello della soggettività della fondazione anteriormente al riconoscimento. Non ritengo indispensabile, rispetto alla problematica discussa nel convegno, approfondire tale questione - con una inevitabilmente complessa digressione - anche se l’autonomia patrimoniale è una situazione giuridica molto vicina a quella dell’autonomia soggettiva ed il nesso tra le due autonomie presenta notevoli suggestioni.

5. (Segue)

Importante e non più differibile è piuttosto il confronto con l’art. 2740 c.c. Esso costituisce, infatti, il nodo dogmatico centrale della compatibilità del trust con il sistema normativo del nostro ordinamento giuridico. Non si può dare per scontato che il problema della compatibilità risulti superato dalla riconduzione della figura giuridica in discussione al concetto di destinazione di beni allo scopo perché, come si è visto, una cosa è la destinazione allo scopo e altra cosa la separazione dei beni oggetto della destinazione dal patrimonio del destinante. E se la separazione viene intesa come sottrazione dei beni oggetto della destinazione alla garanzia dei creditori, la resa dei conti con l’art. 2740 diventa un passaggio obbligato di ogni ricerca di allocazione del trust nel nostro ordinamento giuridico.
Il confronto tra una possibile figura giuridica italiana di trust e il regime della responsabilità patrimoniale, infatti, disegnato dall’art. 2740 c.c. si articola in, due interrogativi: a) la separazione dei beni destinati allo scopo integra l’ipotesi normativa della limitazione della responsabilità del destinante? b) se comporta una tale limitazione deve riconoscersi, o invece deve escludersi che essa non rientra nei casi consentiti dalla legge?
Dal dibattito che si è svolto nel Convegno, liberamente interpretato e ricostruito, è emerso il seguente orientamento: non sembra potersi negare che la separazione dei beni destinati allo scopo comporti una limitazione della responsabilità patrimoniale del destinante; tale limitazione, tuttavia, sarebbe riconducibile ad una previsione legittimante del nostro sistema legislativo, costituita dal riconoscimento da parte del diritto positivo, in ciò rafforzato dalla garanzia costituzionale, della autonomia privata.
Non è inutile un rapido controllo - più rapido di quanto la complessità e l’importanza del problema non consentirebbe - dei termini del superiore orientamento, anche per saggiarne la resistenza ad una prima valutazione critica.
Intanto va osservato che la risposta al quesito sub a) si rivela, ad una più puntuale considerazione, assai meno ovvia di quanto una impaziente lettura può suggerire. Essa, infatti, muove dalla identificazione tra limitazione del patrimonio e limitazione della responsabilità, escludendo così la ipotesi di una limitazione del patrimonio che non comporta limitazione della responsabilità e di una limitazione della responsabilità che non sia legata ad una limitazione del patrimonio. Ma proprio queste esclusioni e, di conseguenza, la implicazione necessaria tra limitazione del patrimonio e limitazione della responsabilità, sono suscettibili di rimeditazione. Anche se l’art. 2740 c.c. collega la responsabilità ai beni del soggetto, questo collegamento serve soltanto per chiarire che la responsabilità patrimoniale coinvolge l’intero patrimonio anche futuro dell’obbligato, ma non certo per instaurare un rapporto quantitativo tra l’entità della responsabilità e l’entità del patrimonio. Insomma: come l’incremento del patrimonio non comporta un ampliamento della responsabilità, la sua riduzione non ne comporta una limitazione: occorre, dunque, tenere rigorosamente distinti gli atti che incidono direttamente sulla responsabilità, causandone un ampliamento o una limitazione, dagli atti che incidono direttamente sul patrimonio e che perciò solo indirettamente hanno influenza sulla responsabilità. Difatti come era stato il legislatore che, in applicazione della XII direttiva comunitaria, aveva limitato al patrimonio sociale la responsabilità nelle società a responsabilità limitata unipersonali, è stato pure il legislatore che nel decreto legislativo 7 gennaio 2003, n. 6 ha potuto disporre limitazioni della responsabilità patrimoniale delle società di capitali, introducendo la previsione della costituzione di patrimoni societari destinati ad uno specifico affare (artt. 2447-bis e 2447-decies). Solo alla prima ipotesi si applica l’art. 2740 c.c., con la conseguenza della nullità per illiceità degli atti che comportano direttamente una limitazione della responsabilità del soggetto. Per gli atti che incidono direttamente sul patrimonio trova invece applicazione soltanto l’azione revocatoria ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni.
Ragionando diversamente tutti gli atti di alienazione, e, più in generale tutti gli atti di disposizione, dovrebbero considerarsi come limitativi della responsabilità patrimoniale e ricadere sotto il divieto posto indirettamente dall’art. 2740 c.c. . E se non lo sono gli atti di alienazione a fortiori non possono esserlo gli atti di separazione, che certamente rappresentano un minus rispetto ad essi.
Le considerazioni adesso rassegnate trovano conforto in una considerazione empirica ulteriore. Se il diritto dovesse tradurre automaticamente il rapporto quantitativo tra atto di disposizione ed entità della responsabilità patrimoniale, dovrebbe instaurare una sorta di contabilità tra atti che incrementando il patrimonio determinano un accrescimento della responsabilità patrimoniale del soggetto e atti che causando una riduzione del patrimonio comportano una riduzione della responsabilità. E questa contabilità non potrebbe essere chiusa prima della cessazione della esistenza stessa del soggetto.
Dalla precedente serie argomentativa discende la conclusione che l’atto di destinazione allo scopo, malgrado debba comportare necessariamente, perché si attui un’ipotesi negoziale vicina al trust, la separazione dei beni oggetto della destinazione dal restante patrimonio del destinante, non incidendo direttamente sulla responsabilità del soggetto dell’operazione non si pone in contrasto con l’art. 2740 c.c., limitandosi ad esporre l’atto all’azione revocatoria.
E sembra del tutto sensata anche la seconda risposta, - e cioè che la separazione dei beni destinati allo scopo rientra nei casi consentiti dalla legge - perché l’atto di destinazione allo scopo, integrato dall’intento di separazione, tutte le volte in cui lo scopo sia lecito e meritevole di tutela, rappresenta il legittimo esercizio dell’autonomia negoziale del soggetto ed è come tale meritevole di tutela giuridica.
Questa soluzione trova uno specifico addentellato legislativo, oltre che nel richiamato art. 15 c.c., nell’art. 32 del medesimo codice, il quale prevede un trattamento differenziato, per il caso di trasformazione o di scioglimento di un ente, dei beni propri dell’ente e di quelli lasciati o donati ad esso con destinazione a scopo diverso da quello proprio dell’ente trasformato o disciolto. La dottrina ha parlato a questo proposito di “vincolo reale” - e non personale - di destinazione: vincolo che impedisce all’ente di utilizzare i beni vincolati per uno scopo diverso da quelli derivanti dalla destinazione, riconoscendosi così il collegamento necessario - e, quel che più conta, automatico - tra l’atto di destinazione e l’effetto della separazione.
Ne consegue che l’atto spiega tutti gli effetti conformi al suo contenuto. Come tutti gli atti di disposizione, anche l’atto di destinazione allo scopo, resterebbe soggetto alla aggressione dei creditori, ma nello stato giuridico nel quale si trova. E quindi con il vincolo della destinazione, ove esso sia stato protetto nelle forme che la legge prevede per gli atti di disposizione.
Dalla precedente serie argomentativa discendono le seguenti implicazioni, nelle quali si condensa il voto della classe notarile e si sciolgono - naturalmente ove risultino fondate le tesi di appoggio - le mie riserve, insistentemente dichiarate: a) ai fini della introduzione nel nostro ordinamento giuridico di una figura negoziale che risponda, anche se con opportuni adattamenti, alle esigenze che stanno a fondamento del trust di stampo italiano, è indispensabile che l’atto di destinazione allo scopo sia accompagnato dalla disposizione di separazione dei beni oggetto della destinazione rispetto al restante patrimonio del destinante; b) la disposizione di separazione, non incidendo direttamente sulla responsabilità del disponente e rientrando nell’esercizio dei poteri giuridici del destinante - in quanto proprietario dei beni destinati o comunque titolare della facoltà di disposizione correlativa all’atto di separazione - rientra nel legittimo esercizio dell’autonomia negoziale del soggetto; c) resta da stabilire quali debbono essere gli adattamenti ai quali deve essere sottoposto l’atto di destinazione di beni allo scopo integrato dalla disposizione di separazione perché possa assumere la funzione assolta dall’istituto del trust; d) in questo compito ricostruttivo potrà essere di aiuto la regolamentazione prevista dalla Convenzione dell’Aja, ma con sostanziali adeguamenti ai principi generali dell’ordinamento giuridico italiano.

6. Destinazione e fiducia

La problematica relativa alla compatibilità con il nostro ordinamento giuridico di un istituto disegnato sul modello del trust di common law ma adattato alla nostra tradizione etico-giuridica ed ai principi che governano il nostro diritto positivo, viene a complicarsi allorché la separazione giuridica dei beni oggetto del vincolo di destinazione venga attuata mediante l’intestazione dei beni destinati allo scopo ad un soggetto diverso dal disponente, sia questo soggetto diverso una persona fisica o invece una persona giuridica. Poiché la intestazione è strumentale alla realizzazione dello scopo che sta alla base della sottostante destinazione dei beni, ma implica l’attribuzione di estesi poteri giuridici nell’intestatario, la fattispecie della destinazione allo scopo viene in questa ipotesi a incrociare il fenomeno della fiducia e del negozio fiduciario, nonché, nello stesso tempo, l’istituto del mandato.
Questo aspetto è rimasto abbastanza sacrificato nelle riflessioni, già di per sé molto cariche di questioni, che sono state affrontate nel Convegno. Un mio cenno cortesemente richiamato da Mirzia Bianca, nell’incontro fiorentino-messinese sulle tematiche “Mandato Fiducia e Trust. Esperienze a confronto”, non è del tutto utilizzabile nella versione riportata negli Atti del 2003, perché il testo pubblicato, frutto della generosa dedizione della redazione, manca dell’ultima mano dell’autore. Trattandosi, peraltro di un tema che ha un ruolo importante nel presente incontro, un richiamo limitato all’essenziale mi sembra indispensabile, in attesa che se ne faccia oggetto di una specifica trattazione.
L’attenzione deve concentrarsi dunque, sull’ipotesi in cui la destinazione di beni ad uno scopo sia realizzata mediante un atto di trasferimento ad un soggetto terzo, integrato dal patto mediante il quale il terzo si impegna ad impiegare i beni a lui trasferiti per la realizzazione dello scopo stabilito dal destinante. È con questo patto che nella tematica della destinazione allo scopo fanno ingresso il mandato e la fiducia. Senza addentrarmi nel complesso argomento, richiamo in grande sintesi alcuni concetti che ritengo indispensabili, o quanto meno maggiormente utili alle finalità del presente incontro.
1. Poiché la separazione dei beni destinati allo scopo è realizzata mediante il loro trasferimento ad un soggetto terzo, quest’ultimo assume la posizione di proprietario dei beni stessi; ma, poiché il trasferimento è fatto e accettato esclusivamente per la realizzazione dello scopo della destinazione, la proprietà del terzo è soltanto formale mentre i relativi benefici sostanziali spettano al centro di interesse beneficiario dello scopo.
2. La dissociazione tra proprietà formale e proprietà sostanziale comporta la presenza nell’atto di trasferimento della proprietà formale di un pactum fiduciae, in virtù del quale il proprietario formale è tenuto a non fare altro impiego dei beni trasferiti se non quello relativo alla realizzazione dello scopo fissato con la destinazione.
3. La destinazione della proprietà fiduciaria alla realizzazione dello scopo della destinazione introduce nel negozio di trasferimento dei beni, oltre e in concorso con il pactum fiduciae, il mandato al fiduciario di utilizzare i beni trasferiti fiduciariamente per la realizzazione dello scopo della destinazione.
4. Il collegamento tra il trasferimento della proprietà formale dei beni e la destinazione allo scopo, comporta la conseguenza, già di sopra profilata su piano generale, che il raggiungimento dello scopo o la sua sopravvenuta impossibilità determinano l’obbligo del proprietario formale di ritrasferire al destinante i beni destinati allo scopo. A questo proposito va ricordata la sentenza della Corte di Cassazione n. 1798 del 1976 in tema di mandato senza rappresentanza nell’acquisto di beni immobili: la Corte, non soltanto ha ritenuto che ricorresse nella specie la figura del patto fiduciario, ma ha anche affermato che da questo patto scaturisse a carico del mandatario l’obbligo di ritrasferire al mandante l’immobile acquistato fiduciariamente.


* Studio già integralmente pubblicato, con il titolo «Introduzione e considerazioni conclusive», in AA.VV., Destinazione di beni allo scopo - Strumenti attuali e tecniche innovative, Atti della Giornata di Studio organizzata dal Consiglio Nazionale del Notariato, Roma, Palazzo Santacroce, 19 giugno 2003, in Quaderni romani di diritto commerciale a cura di B. Libonati e P. Ferro-Luzzi, Milano, 2003, p. 21 e ss.

PUBBLICAZIONE
» Indice
» Approfondimenti
ARTICOLO
» Note