L’emersione del modello della destinazione dei beni ad uno scopo
- capitolo IV -
L’emersione del modello della destinazione dei beni ad uno scopo
di Mirzia Bianca
Università “La Sapienza” di Roma

1. La destinazione dei beni ad uno scopo quale categoria dell’esperienza culturale dei paesi di civil law

Lo strumento della destinazione dei beni ad uno scopo appartiene alla tradizione giuridica italiana. Già nel codice del 1942 il legislatore italiano sceglie lo schema della destinazione dei beni ad uno scopo nelle figure della dote e del patrimonio familiare; sempre nel codice civile del 1942, all’art. 2117, è regolata la disciplina dei fondi di previdenza ed assistenza, altro tipico patrimonio destinato alle finalità previdenziali; con la riforma del diritto di famiglia del 1975, il legislatore introduce un tipico patrimonio destinato agli interessi della famiglia legittima: il fondo patrimoniale; con la riforma societaria del 2003 viene introdotto il nuovo istituto dei patrimoni societari destinati ad uno specifico affare, strumento che applica lo schema della destinazione all’attività di impresa, consentendo una frammentazione e parcellizzazione della responsabilità dell’attività della società per azioni; nel 2006 il legislatore introduce nel corpo del codice civile l’art. 2645-ter, con il quale si detta la disciplina della figura generale di atto negoziale di destinazione, la cui opponibilità ai terzi è resa possibile attraverso lo strumento della trascrizione.
In tutte queste figure normative, proprio in considerazione della scelta del modello dell’atto di destinazione e della sua configurazione quale atto reale, e quindi quale atto di organizzazione dei beni, che si differenzia dall’atto attributivo, non si è mai dubitato, per esempio, che il fondo patrimoniale potesse essere costituito da un terzo o che il destinante dell’art. 2645-ter c.c., a differenza che in altri modelli di articolazione del patrimonio, come il trust o il negozio fiduciario di tradizione romanistica, potesse conservare la proprietà dei suoi beni e consentire una destinazione con effetto di separazione patrimoniale.
Desta pertanto molto stupore leggere riflessioni o decisioni giurisprudenziali che, cancellando come una spugna, i presupposti stessi dell’atto di destinazione, confondono vincoli di destinazione e schemi di attribuzione(1).
Questa tradizione culturale italiana trova antiche radici nella teoria pandettistica dei patrimoni destinati ad uno scopo (c.d. ZweckvermoegensTheorie). Lo studio e la conoscenza di questa teoria, come in generale delle altre teorie pandettistiche ha consentito un accostamento culturale tra la dottrina italiana e la dottrina tedesca.
La teoria dei patrimoni destinati ad uno scopo ha disvelato all’interprete per la prima volta l’importanza di una teoria generale avente ad oggetto lo studio dei beni e della loro funzionalizzazione ad uno scopo, quale alternativa ad un sistema allora tutto improntato sul soggetto-persona fisica che aveva difficoltà a concepire l’esistenza di aggregazioni di beni e di persone diverse dall’uomo. In questa prospettiva, la teoria dei patrimoni destinati ad uno scopo, oltre a porsi quale primo presupposto culturale per lo studio dei patrimoni separati e in generale per lo studio degli strumenti di articolazione del patrimonio, è stata una delle prime tappe culturali per il riconoscimento del concetto di persona giuridica. È infatti significativo come nel simbolico scenario della favola di Schwarz, la teoria dei patrimoni destinati ad uno scopo fosse una delle possibili tappe dell’itinerario logico dei filosofi nell’oscuro paesaggio della personalità giuridica. È altrettanto significativo che in un’impostazione culturale decisamente soggettivistica, i patrimoni destinati ad uno scopo avessero come interlocutore stabile il soggetto, o per negare l’esistenza dello stesso (patrimoni senza soggetto di Brinz) o per identificarvisi (patrimoni personificati di Hellwig e di Bonelli).
Non a caso le prime riflessioni sulla destinazione del patrimonio ad uno scopo nascono nella dottrina italiana dallo studio sulle fondazioni e in particolare dal problema dell’ammissibilità nel nostro sistema delle fondazioni prive del suggello della personalità giuridica.
La teoria della destinazione dei beni ad uno scopo rappresenta quindi una delle alternative culturali che si offrono al giurista di civil law per lo studio e l’introduzione di un modello analogo al trust di common law.
L’altra alternativa culturale è stata la teoria del negozio fiduciario e in generale della proprietà fiduciaria che tuttavia ha scontato la difficoltà di introdurre nel nostro ordinamento una figura di proprietà speciale qual è la proprietà fiduciaria. Tale difficoltà è stata colta da altri paesi di civil law che hanno scelto questa alternativa culturale. La Francia, per introdurre il contratto fiduciario, ha dovuto farlo mediante una legge ad hoc.
Il negozio fiduciario, rappresenta tuttavia anch’esso un corollario applicativo della teoria della desti-nazione dei beni ad uno scopo, che quindi ne costituisce la matrice culturale(2).
L’Italia, pur avendo studi significativi sul negozio fiduciario e sulla proprietà fiduciaria, si è orientata verso figure speciali di destinazione dei beni ad uno scopo, come si evince dai primi modelli di articolazione del patrimonio previsti nel codice civile del 1942 e come confermato dall’introduzione di nuovi strumenti di destinazione del patrimonio di nuova generazione, quali i patrimoni societari destinati ad uno specifico affare e l’atto negoziale di destinazione dell’art. 2645-ter c.c.
Anche nelle riflessioni della dottrina la destinazione del patrimonio ha rappresentato la premessa culturale indispensabile per lo studio e l’approfondimento dei patrimoni separati. La separazione patrimoniale e in generale le ipotesi normative di patrimoni separati sono state da sempre studiate come un effetto della destinazione dei beni ad uno scopo. D’altra parte la destinazione del patrimonio ad uno scopo, intesa in senso tecnico quale destinazione reale e quindi opponibile ai terzi, non è concepibile senza una regola di limitazione della responsabilità patrimoniale.

2. I modelli di destinazione del patrimonio dell’ordinamento italiano: dalle figure statiche alle figure dinamiche di nuova generazione

Le prime figure normative di patrimoni destinati ad uno scopo compaiono nel codice civile del 1942 e sono tutte connotate da un profilo di staticità e quindi di inalienabilità dei beni. Si tratta delle destinazioni allo scopo della famiglia che trovano una prima espressione negli istituti della dote e del patrimonio familiare. In queste prime figure la destinazione è il modello prescelto dal legislatore per accantonare beni per l’interesse della famiglia, rendendoli inaggredibili da parte dei creditori e inalienabili. Stessa impostazione statica si rinviene nei fondi di previdenza ed assistenza disciplinati dall’art. 2117 del codice civile, che rappresentano la prima e originaria formula codicistica dei fondi pensione. Anche qui, come per la dote e il patrimonio familiare, la destinazione, intesa in senso statico, serve a conservare lo status quo di un complesso di beni attraverso la regola della indistraibilità e inaggredibilità.
Con la riforma del 1975 viene introdotto l’istituto del fondo patrimoniale, figura di patrimonio destinato allo scopo e alla protezione della famiglia legittima che sostituisce il vecchio modello del patrimonio familiare. Qui si coglie un primo ponte tra la concezione statica dei modelli di destinazione di vecchia generazione e i nuovi e dinamici modelli di nuova generazione.
Si consente infatti un’alienazione dei beni oggetto del fondo patrimoniale previa autorizzazione del giudice nei casi di necessità e di utilità evidente. A differenza dei vecchi modelli di destinazione ad uno scopo, il fondo patrimoniale non è del tutto inalienabile ma è alienabile sotto determinate condizioni. Quanto al profilo della pubblicità, il fondo patrimoniale ha scontato la sua funzionalizzazione agli scopi della famiglia legittima. Così è parso inevitabile, anche se non del tutto scontato, assoggettarlo al regime delle convenzioni matrimoniali, con la conseguenza di ritenere degradata a pubblicità notizia la trascrizione.
Al di là di queste riflessioni, sembra importante sottolineare come nell’ordinamento italiano, sin dal codice del 1942, lo schema della destinazione ad uno scopo sia stato il modello prescelto per consentire una speciale funzionalizzazione di beni con la correlata separazione patrimoniale.
In questo clima culturale si è inserita la ratifica della Convenzione dell’Aja sul riconoscimento dei trusts. Non a caso, a pochi anni dalla ratifica della Convenzione da parte dell’Italia, nel 2003, il Notariato italiano organizza un Convegno dedicato alla destinazione dei beni ad uno scopo, che ha sullo sfondo delle varie riflessioni l’analisi del nuovo istituto dei patrimoni societari destinati ad uno scopo introdotto dalla riforma societaria del 2003 e un progetto di legge per introdurre destinazioni di beni in favore dei soggetti portatori di gravi handicap(3).
In quel Convegno la dottrina presente riflette sull’utilità dell’atto di destinazione, rilevando la dinamicità della nuova figura dei patrimoni societari, in cui la destinazione non ha ad oggetto beni determinati ma attività. Il quesito di fondo di quella Giornata di Studio, sintetizzato mirabilmente dal prof. Angelo Falzea, è se la ratifica della Convenzione dell’Aja potesse essere una risposta concreta alla necessità di introdurre una figura generale di destinazione del patrimonio. Significative restano al riguardo le parole del Maestro Angelo Falzea che rilevava che con la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione dell’Aja si era venuta «a creare una doppiezza ordinamentale» perché «quella legge di ratifica stabilisce le condizioni perché un trust di common law possa trovare ingresso nel nostro sistema di diritto applicato, ma non ne consente l’ingresso diretto nel sistema normativo del nostro ordinamento giuridico».
Nel 2006 il legislatore introduce nel corpo del codice civile l’art. 2645-ter, atto negoziale di destinazione, confermando la propensione culturale verso l’antica teorica dell’atto di destinazione. Conformemente alla struttura dell’atto di destinazione, non si prevede il profilo attributivo, anche se il legislatore non lo nega.
In occasione della Tavola rotonda da me organizzata all’Università La Sapienza, interpreti autorevoli (Angelo Falzea e Giorgio Oppo) rilevano come la norma potesse enucleare ipotesi non attributive e ipotesi attributive. Altra autorevole dottrina (Gianfranco Palermo), pur rilevando le criticità del linguaggio del legislatore, attentamente rileva le potenzialità dell’art. 2645-ter quale norma destinata ad introdurre uno schema generale di atto di destinazione.

3. L’atto di destinazione dell’art. 2645-ter e il trust

L’introduzione dell’atto negoziale di destinazione porta inevitabilmente al confronto con il trust e in particolare con il trust interno, figura peculiare di trust convenzionale cui si applica la legge straniera scelta dalle parti.
Inizia qui un dibattito sterile e infruttuoso che vede schierarsi due opposte fazioni, con l’unico risultato di impedire il dialogo e soprattutto di impedire una lucida interpretazione dell’art. 2645- ter che potesse consentire, al di là della lettera della legge, di disvelare le potenzialità di una norma, con tante criticità ma con tante possibilità. Il confronto diventa sterile se e in quanto si mettono a paragone due istituti necessariamente diversi, dato che il trust di common law è incentrato sull’apparato rimediale che difetta invece all’atto di destinazione, come peraltro a qualsiasi modello italiano diverso dal trust di common law. D’altra parte l’assenza dell’equity vale anche per il trust interno.
Lo svilimento dell’art. 2645-ter avviene a vari livelli. Un primo livello attiene ad un’interpretazione sistematica della norma che ne mortifica del tutto la portata. La norma non viene considerata norma sulla fattispecie ma riduttivamente norma sugli effetti(4), quale disposizione che ha l’unico fine di regolare il profilo della pubblicità. Questa argomentazione viene argomentata sulla base della collo-cazione della norma nel libro VI del codice.
Un secondo livello riguarda un’interpretazione della norma che, in senso fortemente riduttivo, viene limitata ad un’interpretazione letterale. Per esempio, la norma non disciplina il profilo strutturale e gestorio, proprio perché è nella teorica stessa dell’atto di destinazione consentire un atto di destinazione non attributivo o attributivo, ma parte della dottrina non coglie questa possibilità e qualifica l’atto di destinazione “un frammento di trust”. Altro esempio: la norma non prevede testualmente l’atto di destinazione mortis causa e quindi esso viene ritenuto inammissibile(5).
Il paradosso di questa situazione è che non si coglie l’occasione per applicare una norma che consente attraverso apposita disposizione di rendere sicuro attraverso la trascrizione l’effetto di separazione patrimoniale mentre si insegue la teoria del trust interno, figura che, al di là della suggestione culturale, è fonte di costi, incertezze, responsabilità(6).
Il risultato concreto di questa situazione è che, pur avendo vari strumenti a disposizione, non si riesce ad applicarli. L’ulteriore risultato è il perenne senso di insoddisfazione dell’interprete, convinto della necessità della introduzione di un’altra legge che possa colmare le lacune del sistema.
In questo un grande merito deve essere attribuito a quella dottrina che ha riconosciuto già nel sistema l’esistenza di strumenti e di rimedi per realizzare finalità analoghe al trust(7). Ma questa capacità interpretativa e questo coraggio non appartengono a tutti.

4. Le difficoltà della giurisprudenza nell’applicazione dell’art. 2645-ter del codice civile

Proprio nell’analisi di alcune decisioni giurisprudenziali dedicate all’atto di destinazione si colgono le più vistose anomalie interpretative dell’art. 2645-ter c.c. Una prima decisione del Giudice tavolare di Trieste del 2006, riassume in poche battute la difficoltà del confronto con la teorica dell’atto di destinazione e con i suoi contenuti, proprio laddove si afferma che «la norma non costituisce la giustificazione legislativa di un nuovo negozio la cui causa sarebbe quella finalistica della destinazione del bene alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela. Non c’è infatti alcun indizio da cui desumere che sia stata coniata una nuova figura negoziale, di cui non si sa neanche se sia unilaterale o bilaterale, a titolo oneroso o gratuito, ad effetti traslativi od obbligatori». Al di là di altre riflessioni(8), sembra emergere la mancanza di consapevolezza in ordine alle caratteristiche salienti dell’atto di destinazione, tra le quali emerge l’assenza di un profilo necessariamente attributivo. Appare poi curiosa l’affermazione della assenza di una figura negoziale di destinazione, dato che il legislatore si preoccupa di fornirci elementi formali e e sostanziali della stessa.
La medesima assenza di consapevolezza si coglie in altra decisione del Tribunale di Reggio Emilia del 22 giugno 2012 dove, tra le altre affermazioni, vi è quella che l’art. 2645-ter «riguarda esclusivamente gli effetti, complementari rispetto a quelli traslativi ed obbligatori, delle singole figure negoziali cui accede il vincolo di destinazione e non consente la configurazione di un negozio destinatorio puro, cioè di una nuova figura negoziale atipica … in cui difetta un atto traslativo dell’immobile e che quindi il vincolo di destinazione dovrebbe reputarsi come autoimpresso sulla quota di proprietà di ciascuno». Queste affermazioni appaiono curiose perché negano l’essenza stessa del fenomeno della destinazione. Perché, occorre domandarsi, nel fondo patrimoniale non può accadere che il terzo conservi la proprietà sui beni che destina ad altri? Perché, ancora occorre domandarsi, nei patrimoni destinati societari la destinazione non è assolutamente compatibile con l’assenza di trasferimento?
Anche in una recente decisione del Tribunale di Roma del 21 febbraio 2013, si nega l’ammissibilità di un atto di destinazione testamentario proprio in assenza di una specifica menzione nella norma. Anche qui, come nelle altre decisioni citate, quello che non è detto dal legislatore viene negato. Si tratta di un’interpretazione letterale della norma che ne riduce ampiamente la portata con effetti mortificanti. Questa sensazione si prova quando si entra nel merito della valutazione degli interessi meritevoli di tutela di questo atto testamentario di destinazione. Si legge infatti che «quello che la testatrice aveva in animo di realizzare (garantire il mantenimento, l’istruzione e l’educazione delle figlie minori) non solo non appare assimilabile agli interessi previsti dalla norma dell’art. 2645-ter che devono connotarsi in senso etico e solidaristico, anche quando riferiti a singole persone fisiche». Al di là di ulteriori riflessioni sulla non ammissibilità dell’atto testamentario di destinazione, si prova infatti un senso di impotenza leggendo che neanche questi sarebbero interessi meritevoli di tutela! C’è da chiedersi allora quale siano gli interessi meritevoli di tutela, dato che invece altre decisioni giurisprudenziali hanno applicato l’art. 2645-ter proprio al fine di consentire il mantenimento dei figli o dell’ex coniuge.

5. La destinazione dei beni ad uno scopo quale schema generale di articolazione dei beni

A fronte di questo atteggiamento fortemente critico nei confronti della norma, la maggioranza della dottrina sia accademica che notarile rifiuta questa impostazione è significativo come proprio il mondo notarile abbia dedicato all’art. 2645-ter uno studio approfondito e complesso che analizza 50 quesiti sulla norma e sulla sua applicazione.
La verità è che l’art. 2645-ter, così come il fondo patrimoniale, i patrimoni destinati ad uno specifico affare, sono la conferma dell’appartenenza della destinazione patrimoniale alla tradizione culturale italiana. L’art. 2645-ter, pur con tutte le sue criticità, segue l’impostazione culturale di fondo del nostro sistema.
La destinazione patrimoniale è la matrice culturale che collega trasversalmente tutti questi istituti, essendo l’equivalente del trust di common law, ma con una duttilità più ampia.
Accogliendo questa prospettiva, deve ribadirsi che trust, negozio fiduciario e altri emergenti modelli siano istituti che, pur nella diversità strutturale, sono accomunati dalla stessa identità funzionale che è data dal fenomeno della destinazione dei beni ad uno scopo.
Sempre se si accoglie questa prospettiva, appare allora evidente che la destinazione dei beni ad uno scopo rappresenti lo schema generale entro il quale possono collocarsi diversi istituti, dal fondo patrimoniale, ai patrimoni societari, all’atto negoziale di destinazione dell’art. 2645-ter c.c., al trust, al contratto fiduciario, qualora dovesse essere approvata una legge che ne regolamenti l’operatività.
Il riconoscimento della stessa identità culturale della destinazione patrimoniale non significa una parificazione indifferenziata delle varie figure ma un possibile dialogo tra le stesse, evitando, come è già successo, che una figura possa essere considerata la “nemica” dell’altra, in un clima di sterile contrapposizione che non porta e non ha portato ad alcun risultato operativo concreto.
La considerazione della destinazione patrimoniale quale matrice culturale dei vari strumenti di articolazione e separazione del patrimonio comporta diversi corollari.
Un primo e sicuro corollario è la negazione di un clima di contrapposizione e di sfida. Non si tratta di vincere una battaglia culturale ma di trovare un modello che sia il più efficiente possibile, compatibilmente con il sistema rimediale italiano.
Un secondo e immediato corollario è il necessario dialogo tra la dottrina italiana e la dottrina europea, nella comune consapevolezza che non esiste una contrapposizione ma una complementarietà tra i vari modelli nella comune cornice del principio di sussidiarietà orizzontale che apre ai privati anche le tecniche di articolazione del patrimonio ad uno scopo.
Il terzo e ultimo corollario è l’abbandono di teorie che, al solo fine di introdurre forzatamente modelli stranieri, stravolgono i nostri principi e la nostra identità culturale.
Occorre infatti prendere atto della diversità tra il modello di common law del trust e altri modelli europei. Tale diversità non è né strutturale, né funzionale, ma attiene unicamente al sistema rimediale. Nella consapevolezza dell’assenza di strumenti di tutela analoghi e comparabili a quelli dell’equity, si tratta allora di trovare ed applicare con successo uno strumento che sia compatibile con il sistema di tutela del nostro ordinamento.


(1) V. § 4 del testo.

(2) V. il § 5 del testo.

(3) Il Convegno viene organizzato da Concetta Priore e gli atti vengono raccolti nel volume Destinazione di beni ad uno scopo, Milano, 2003.

(4) Con la sua consueta acutezza, v. F. GAZZONI, in E. GABRIELLI - F. GAZZONI, Trattato della trascrizione, Torino, 2012, I, T. 2, p. 183: «la previsione della destinazione anche di beni mobili registrati sarebbe assolutamente incompatibile con la collocazione nel contesto della trascrizione immobiliare, se davvero si trattasse di norma sugli effetti, anziché di disciplina dell’oggetto dell’atto».

(5) Così inedita decisione del Trib. Roma 21 febbraio 2013.

(6) Rinvio in quest’opera alle riflessioni di Lucilla Gatt e allo scritto recente di F. GAZZONI, op. ult. cit., p. 467 e ss.

(7) Nella dottrina italiana questo tributo va a Gianfranco Palermo e a Lucilla Gatt.

(8) Per la critica ad ulteriori riflessioni contenute nella decisione, rinvio a M. BIANCA, «Il nuovo art. 2645-ter. Notazioni a margine di un provvedimento del Giudice tavolare di Trieste», in Giust. civ., 2006, II, p. 187 e ss.

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