L’art. 2645-ter e il trust interno. linee evolutive
- capitolo VI -
L’art. 2645-ter e il trust interno. linee evolutive
di Daniele Muritano
Notaio in Empoli
1. Premessa
L’introduzione dell’art. 2645-ter c.c. nel nostro ordinamento venne salutata (non da tutti, per la verità) come la “risposta” dell’ordinamento italiano al trust di origine anglosassone. Si disse, all’epoca (parliamo del 2006), che l’istituto delineato nell’art. 2645-ter c.c. fosse qualcosa di molto simile, se non del tutto identica, al trust anglosassone.
Tale affermazione, in quel periodo storico, in cui rispetto alla stessa figura del trust interno le diffidenze erano molteplici (e tuttora, almeno in parte, persistono, sebbene la prassi professionale soprattutto e la giurisprudenza abbiano fatto passi da gigante sul tema) venne ritenuta “frettolosa”, perché se è vero che nella figura introdotta dalla norma si rivengono alcune delle caratteristiche proprie del trust, è altresì vero che le differenze appaiono rilevanti, in particolare con riguardo alle regole che governano la “dinamica” del trust, e in particolare l’attività del trustee. Potrebbe dirsi, in termini forse non rigorosi, ma che probabilmente rendono bene l’idea, che l’art. 2645-ter c.c. disciplina l’inizio e la fine della destinazione dei beni ma non ciò che accade (o dovrebbe accadere) “durante” la gestione(1).
Anche i primi commentatori della nuova disciplina(2) sottolinearono le forti analogie tra il negozio di destinazione(3) previsto dal diritto italiano e il trust anglosassone, senza tenere conto, peraltro, che il modello di trust del diritto inglese è, sotto diversi profili, diverso dal modello di trust c.d. internazionale. Si pensi, tanto per fare un esempio, al trust di scopo (purpose trust), ammesso in diritto inglese in pochi e ben determinati casi e invece consentito in linea generale dalle leggi del modello internazionale; alla posizione dei beneficiari; alla figura del guardiano (protector) che in diritto inglese è frutto della prassi, mentre in varie leggi del modello internazionale è espressamente disciplinata; alla durata del trust, che in diritto inglese ha una disciplina molto complessa; alla responsabilità del trustee.
Affermare quindi che l’atto previsto dall’art. 2645-ter c.c. e il trust sono istituti del tutto similari è operazione che occorre svolgere con estrema cautela.
Nel prosieguo del discorso vedremo anzitutto se l’entrata in vigore dell’art. 2645-ter c.c. ha risolto o aggravato i problemi di ambientazione del trust interno nell’ordinamento italiano e, in secondo luogo, se esistono prospettive applicative del negozio di destinazione tali da consentire agli operatori giuridici italiani di “fare a meno” del trust. Quest’ultima parte del discorso verrà qui solo accennata, essendo a essa dedicato uno dei contributi contenuti nel presente volume.
2. La situazione del trust interno prima dell’art. 2645-ter
Il trust, com’è noto, può definirsi una figura generale di negozio di destinazione e compare in Italia all’esito della ratifica della Convenzione de L’Aja dell’1 luglio 1985 ad opera della l. 16 ottobre 1989, n. 346, entrata in vigore il 1° gennaio 1992.
Con tale ratifica si crea una situazione apparentemente singolare, dal momento che il nostro paese (primo fra i paesi di civil law) si è impegnato, ai sensi dell’art. 11 della Convenzione, a riconoscere nel proprio ordinamento gli effetti dei trust che posseggono le caratteristiche di cui all’art. 2 della stessa Convenzione, senza però avere una disciplina interna generale della materia. Peraltro, il problema del “riconoscimento” dei trust, si poneva in Italia e in altri paesi già prima dell’entrata in vigore della Convenzione.
Con l’entrata in vigore della Convenzione, nei Paesi in cui essa è in vigore il “riconoscimento” del rapporto riconducibile alla nozione di trust descritta nell’articolo 2 della Convenzione non passa più, ora, attraverso altre qualificazioni del medesimo rapporto, come invece avveniva in precedenza nella prassi di numerosi paesi estranei al mondo di common law, tra cui, per l’appunto, l’Italia.
Al pari di altre convenzioni di diritto internazionale privato, la Convenzione contiene inoltre una serie di norme “di salvaguardia”, che conducono all’applicazione del diritto richiamato da altre norme di conflitto del foro.
La questione che ha fatto sorgere negli ultimi anni un vasto - e a tratti acceso - dibattito dottrinale riguarda l’ammissibilità nel nostro ordinamento del “trust interno”, cioè di un trust in cui, secondo la definizione datane da chi ha proposto tale espressione, tutti gli «elementi soggettivi e obbiettivi” siano “legati ad un ordinamento che non qualifica lo specifico rapporto come trust (nel senso accolto dalla Convenzione), mentre esso è regolato da una legge straniera che gli attribuisce quella qualificazione».
La fattispecie cui si fa principale riferimento è quella di un trust istituito in Italia da soggetti ivi residenti, su beni siti in Italia, a favore di beneficiarî ivi residenti, e in cui eventualmente il trustee sia residente in Italia e altresì si svolga in Italia l’amministrazione dei beni del trust.
Com’è noto la portata di detta legge di ratifica è discussa.
Da un lato vi è l’orientamento, che pare ormai minoritario(4) , secondo cui è riconoscibile esclusivamente il trust cosiddetto “straniero”, cioè relativo ad una fattispecie dotata di elementi di internazionalità ulteriori rispetto a quello della legge regolatrice.
Dall’altro l’orientamento dominante(5) , che ammette altresì la riconoscibilità del trust cosiddetto “interno”, in cui l’unico elemento d’internazionalità della fattispecie è rappresentato dalla legge regolatrice.
Il primo orientamento si fonda sul dato sistematico costituito dalla natura della Convenzione, la quale è, in effetti, una Convenzione di diritto internazionale privato, ciò che pertanto ne escluderebbe l’applicazione con riguardo al trust “interno” in quanto fattispecie che non manifesta alcun profilo di internazionalità.
Il secondo orientamento, favorevole al trust interno si fonda invece:
- sul disposto dell’art. 6 della Convenzione, che consente al costituente la più ampia professio iuris riguardo alla legge regolatrice del trust, purchè sia una legge che prevede l’istituto così come definito dall’art. 2 della Convenzione;
- sul fatto che la Convenzione non contiene alcuna norma che ne limiti l’applicabilità alle sole fattispecie che presentino elementi di estraneità ulteriori rispetto alla scelta della legge regolatrice;
- sull’interpretazione dell’art. 13 della Convenzione il quale stabilisce che «Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione».
Con riferimento a quest’ultima norma, la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza ritengono che essa sia rivolta ai giudici (secondo quanto indicato anche nei lavori preparatorî della Convenzione), e che attribuisca loro il potere di non riconoscere un trust interno non per il solo fatto di essere “interno”, ma solo in presenza di valide e forti ragioni, che vanno al di là del rilievo sommario secondo cui il trust, essendo “interno” non deve e non può essere riconosciuto, il che confliggerebbe, per non dire d’altro, con la libertà di scelta prevista all’art. 6 della Convenzione (che è il cardine della Convenzione).
L’art. 13 viene dunque correntemente interpretato come “norma di chiusura”, la quale consente al giudice di non riconoscere il trust regolato da legge straniera nel caso in cui, pur non trovando applicazione le norme di salvaguardia previste agli articoli 15, 16, 18 della Convenzione stessa, il giudice ritenga ugualmente il trust non meritevole di riconoscimento in quanto realizzi un “abuso di diritto”, venga utilizzato “in frode alla legge”, o comunque realizzi effetti valutati dal giudice ripugnanti all’ordinamento in cui dovrebbe essere riconosciuto.
E l’esame della giurisprudenza italiana in materia di trust mostra chiaramente come il trust non può essere utilizzato per realizzare finalità in senso lato illecite, ad esempio per frodare i creditori(6). Anzi in questi casi può dirsi che esso è addirittura maggiormente attaccabile rispetto ad analoghe finalità realizzate con tecniche consuete.
Un altro problema che ha diviso la dottrina, ma che ha avuto conferme ampiamente positive in giurisprudenza, ha riguardato la trascrizione dei trust interni aventi ad oggetto beni immobili(7).
Le critiche mosse alla trascrivibilità del vincolo in trust dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiane possono così riassumersi:
a. la proprietà del trustee sarebbe una “nuova forma di proprietà” sconosciuta al nostro ordinamento, e ciò violerebbe il numero chiuso dei diritti reali;
b. il sistema della trascrizione delineato dal codice civile è improntato a rigidi criteri di tipicità, connessi alla tipicità dei diritti reali, che non consentono di trascrivere il vincolo che il trust imprime sui beni e, più in generale, gli atti che producano effetti diversi da quelli tipici.
A fronte di tali critiche è stato chiarito, quanto alla pubblicità degli effetti traslativi (salvo il caso di trust autodichiarato in cui tali effetti non si producono), che il trasferimento di beni al trustee non crea un nuovo e atipico diritto di proprietà, in quanto, a seguito del trasferimento, i beni entrano nella piena proprietà e piena disponibilità del trustee. Pertanto, l’atto di trasferimento dal disponente a trustee sarà, a tutti gli effetti, un atto che trasferisce la proprietà di beni immobili, secondo quanto previsto dagli artt. 2643 e 2645 c.c.
Quanto alla tassatività degli atti soggetti a trascrizione, essa va intesa come regola che non trova il proprio fondamento unicamente nelle disposizioni sulla trascrizione contenute nel codice civile. Ciò non solo per il rilievo secondo cui tale tassatività non viene espressamente sancita dal codice civile, ma anche per il fatto che un numero sempre maggiore di norme contenute in leggi speciali impongono particolari obblighi di trascrizione.
L’art. 12 della Convenzione impone sicuramente allo Stato aderente l’obbligo di dare pubblicità al trust se questa è l’intenzione del trustee, anche perché, in ordinamenti come il nostro, questo pare l’unico modo per far sì che si producano gli effetti di separazione patrimoniale di cui all’art. 11, che lo Stato si è obbligato a riconoscere nel caso un determinato atto possa qualificarsi come trust.
Infine va evidenziata l’intima contraddittorietà della tesi minoritaria che esclude l’idoneità dell’art. 12 a consentire la trascrizione di un trust.
Sembra infatti privo di senso da un lato ammettere che la Convenzione imponga il riconoscimento del trust e dall’altro lato privare detto riconoscimento, escludendo la trascrizione e quindi l’opponibilità ai terzi della separazione patrimoniale tipica di ogni trust, del suo aspetto più qualificante. Una tale impostazione parrebbe divenire addirittura irragionevole con riferimento al trust straniero, la cui ammissibilità alla luce della Convenzione è - ovviamente - pacifica.
Infine, altro problema sul quale gli interpreti hanno fornito risposte non univoche, concerne il regime degli atti dispositivi di beni in trust indebitamente compiuti dal trustee.
Il problema della tutela dell’avente causa in buona fede dal trustee (cosiddetto “bona fide purchaser without notice”) è tipico del diritto inglese dei trusts(8) , e la dottrina italiana, posta di fronte all’esegesi dell’art. 11 paragrafo secondo lettera d della Convenzione, stante la non importabilità in Italia della tecnica del tracing(9) si è interrogata sui rimedi di diritto interno idonei ad assicurare un risultato il più possibile affine.
In questa sede non è possibile esporre dettagliatamente i vari orientamenti dottrinali(10).
È sufficiente segnalare che secondo un orientamento abbastanza diffuso(11) , detti rimedi potrebbero essere costituiti, alternativamente, dall’annullamento del negozio dispositivo compiuto dal trustee per conflitto di interessi ex art. 1394(12) , dall’esperimento di un’azione aquiliana di risarcimento in forma specifica ex art. 2058 nei confronti di colui che, con dolo o anche solo con colpa, abbia acquistato dal trustee e dall’impugnazione del negozio dispositivo mediante azione revocatoria(13).
3. Il trust interno dopo l’entrata in vigore dell’art. 2645-ter
Occorre a questo punto verificare se e in che misura l’entrata in vigore dell’art. 2645-ter influisce sull’ambientazione del trust interno nell’ordinamento italiano.
Immediatamente dopo l’entrata in vigore della norma, una pronuncia emessa dal giudice tavolare del tribunale di Trieste(14) in una vicenda avente a oggetto, peraltro, la questione della trascrizione di un atto di trasferimento di beni al trustee di un trust interno, prese posizione anche sulla portata dell’art. 2645-ter.
In questo provvedimento si affermò che l’art. 2645-ter non avrebbe introdotto nel nostro ordinamento un nuovo tipo di negozio di destinazione, ma soltanto «un particolare tipo di effetto negoziale, quello di destinazione … accessorio rispetto agli altri effetti di un negozio tipico o atipico cui può accompagnarsi».
La norma, secondo il tribunale, non conterrebbe alcun indice da cui desumere l’avvenuta creazione di una nuova figura negoziale, non essendone chiara né la natura unilaterale o bilaterale, né il carattere oneroso o gratuito, né la presenza di effetti traslativi o obbligatori.
Non può non notarsi, tuttavia, come la norma, sebbene imprecisa, contenga certamente numerose tracce di disciplina sostanziale (forma, soggetti, oggetto, durata, regime di responsabilità dei beni destinati), per cui la pronuncia (come anche quella recente di Trib. Reggio Emilia) desta perplessità laddove, in virtù di una sorta di interpretatio abrogans, afferma che l’art. 2645-ter in alcun modo abbia introdotto nel nostro ordinamento la disciplina di una figura negoziale.
La soluzione dei rapporti tra atto di destinazione e trust interno dipende dalla posizione che si ritiene di assumere nei confronti della Convenzione de L’Aja.
Seguendo la tesi minoritaria, si dovrebbe appunto concludere che la Convenzione de L’Aja legittimi esclusivamente il riconoscimento dei soli trust c.d. stranieri.
Qualora la fattispecie fosse munita di elementi di collegamento con un ordinamento straniero, la figura introdotta dall’art. 2645-ter dovrebbe rientrare nell’ampia nozione di trust prevista dall’art. 2
Convenzione che, va ricordato, non è modellata sulla nozione tradizionale di trust ma è più ampia, in quanto obiettivo della Convenzione era, tra l’altro, quello di consentire il riconoscimento anche delle c.d. trust-like institutions, cioè figure proprie di ordinamenti civilistici non esattamente corrispondenti al trust tradizionalmente inteso, come, appunto, il negozio di destinazione di cui si discute. L’utilizzazione dell’art. 2645-ter, allora, costituirebbe una sorta di alternativa al trust straniero, nel senso che il c.d. conferente potrebbe, nel negozio istitutivo della destinazione, scegliere, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione, la legge italiana (cioè l’art. 2645-ter) quale legge regolatrice(15).
Se invece la fattispecie fosse priva di elementi di collegamento con un ordinamento straniero, l’unico negozio di destinazione consentito - essendo vietato il ricorso al trust - sarebbe quello di cui all’art. 2645-ter.
Seguendo invece la tesi maggioritaria, secondo cui è ammissibile anche il trust interno, occorrerebbe concludere nel senso che ove la fattispecie fosse priva di collegamento con un ordinamento straniero sarebbe possibile dar vita, alternativamente, a un negozio di destinazione regolato dal diritto straniero (il trust) ovvero dal diritto italiano (il negozio di destinazione ex art. 2645-ter)(16).
Quanto ai riflessi dell’introduzione dell’art. 2645-ter sulla trascrizione dei trust c.d. immobiliari(17) si osserva quanto segue, fermo restando che la tesi assolutamente prevalente è nel senso della loro trascrivibilità.
Interno o straniero che sia il trust, la legittimità della trascrizione potrebbe oggi ritenersi fondata o solo sull’art. 2645-ter che consentirebbe quindi la trascrizione, non essendo sufficiente argomentare ai sensi dell’art. 12 della Convenzione ovvero anche sull’art. 12 della Convenzione, per cui l’art. 2645- ter costituirebbe null’altro che la conferma della trascrivibilità di un trust.
L’una o l’altra posizione potrebbero assumersi a seconda che si escluda oppure - in linea con la tesi dominante - si ammetta la natura di norma self-executing dell’art. 12 della Convenzione.
Con riferimento al trust, seguendo tale tesi, l’unica norma su cui fondare la trascrizione del trust resterebbe l’art. 12 della Convenzione, sempre che lo stesso si ritenga norma self-executing.
L’introduzione dell’art. 2645-ter fa sorgere inoltre, con riguardo al trust c.d. interno, ulteriori e importanti problemi.
Anzitutto se i requisiti formali (“atto in forma pubblica”) e di durata massima (90 anni o la vita della persona fisica beneficiaria) previsti da tale norma debbano essere o meno soddisfatti da un trust avente ad oggetto i beni indicati dall’art. 2645-ter.
In secondo luogo, ammesso che detto requisito formale debba essere rispettato anche per la stipulazione di un trust, se si tratti di requisito richiesto ai soli fini della sua trascrizione ovvero ai fini della sua stessa validità.
Sul punto può osservarsi che ove si desse al quesito risposta affermativa ne deriverebbe una notevole differenza rispetto a quanto previsto dalla Convenzione de L’Aja, il cui art. 3 si limita a prevedere la sufficienza della semplice forma scritta per il riconoscimento dei trust.
Inoltre, ove si ritenga che l’espressione “atti in forma pubblica” contenuta nell’art. 2645-ter, sia riferibile esclusivamente agli atti tra vivi(18) ne deriverebbe un’ulteriore divergenza rispetto al trust, che secondo l’art. 2 della Convenzione è riconoscibile anche se contenuto in atto mortis causa(19).
Quanto al requisito della durata, l’art. 8, paragrafo secondo, lettera f, della Convenzione, rimanda alla legge regolatrice del trust, la quale a volte prevede durate massime compatibili con quella prevista dall’art. 2645-ter, altre volte durate massime maggiori o addirittura illimitate, che quindi non sarebbero consentite perchè incompatibili con la nuova norma.
Il punto di fondo è se l’art. 2645-ter possa o meno considerarsi come nuova norma interna imperativa ex art. 15 Conv., non derogabile da un trust(20).
Altri profili di divergenza tra negozio di destinazione di diritto italiano e trust che non mancheranno di suscitare discussioni, meritano di essere segnalati, anche perchè si tratta di profili che rilevano ai fini dell’eventuale scelta dell’autonomia privata in merito all’utilizzazione dell’uno o dell’altro istituto.
Prima questione è se il negozio di destinazione possa essere solo non traslativo o possa realizzarsi anche mediante trasferimento di beni ad un gestore.
In astratto il negozio di destinazione potrebbe infatti realizzarsi(21) secondo due alternative: mediante un trasferimento dei beni dall’autore della destinazione ad un soggetto terzo-gestore, cui accede la costituzione del vincolo di destinazione, ovvero mediante mera apposizione di detto vincolo su beni che restano di proprietà dall’autore della destinazione.
Qualora si ammetta che il negozio possa essere traslativo, l’interprete dovrà farsi carico di individuare il contenuto della posizione giuridica del soggetto cui vengono trasferiti i beni e in particolare di verificare se costui è titolare di un vero e proprio diritto di proprietà, sebbene nell’interesse altrui; o se la sua posizione giuridica sia assimilabile a quella di un fiduciario; quali riflessi avrà sul piano successorio e del diritto di famiglia la ricostruzione nell’uno e nell’altro senso; se in entrambi i casi si tratterà di diritto “isolato” rispetto al restante patrimonio del soggetto conferitario; il regime di responsabilità patrimoniale dei beni trasferiti.
Occorre infatti chiedersi se questo trasferimento di beni al gestore determini sempre e comunque, rispetto al disponente, l’interruzione del nesso dominicale o se invece l’autonomia privata possa “modulare” gli effetti del trasferimento stesso, potendo quindi liberamente stabilire un trasferimento al gestore della proprietà “piena” o un trasferimento esclusivamente funzionale allo svolgimento dell’attività di amministrazione del bene, ferma rimanendo la proprietà in capo al disponente, similmente a quanto la legge consente di fare in materia di fondo patrimoniale ai sensi dell’art. 168, comma 1.
Non v’è dubbio comunque, che rispetto al trust la differenza sarebbe evidente, perchè nel trust l’effettivo trasferimento della proprietà al trustee è effetto naturale della fattispecie.
Altra divergenza rispetto al trust riguarda i beni oggetto del negozio di destinazione.
L’art. 2645-ter menziona, quale oggetto iniziale di esso, i beni immobili e i beni mobili registrati, mentre successivamente esso precisa che sono oggetto del fondo destinato non solo quanto ha formato oggetto dell’apporto iniziale (“i beni conferiti”), ma anche i frutti che successivamente siano stati prodotti da detti beni (i quali frutti - evidentemente - avranno natura di beni mobili non registrati).
Ci si chiede quindi se possano o meno costituire oggetto della destinazione anche beni mobili non registrati e quindi se detta norma, sebbene topograficamente collocata nella parte del codice civile dedicata alla trascrizione, esprima un principio di generale ammissibilità del negozio di destinazione tout court nell’ordinamento italiano.
Può osservarsi che, qualora si seguisse la tesi restrittiva ne risulterebbe indubbiamente una minore appetibilità dell’art. 2645-ter rispetto al trust, il cui oggetto può essere costituito da qualunque bene suscettibile di valutazione economica.
Ulteriore divergenza, collegata al problema dell’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 2645-ter, concerne la surrogazione reale.
Nel trust, infatti, si verifica sempre il fenomeno della cosiddetta “surrogazione reale”, che consiste nell’immediata e automatica sostituzione del bene alienato con il suo corrispettivo (a dispetto della sua eventuale natura di bene fungibile) e di quest’ultimo con il bene che venga grazie a esso successivamente acquistato, senza che venga mai meno l’effetto della separazione patrimoniale connesso all’esistenza di un trust fund.
Aderire alla tesi restrittiva in merito alla natura dei beni suscettibili di destinazione, l’istituto risulterebbe caratterizzato dagli stessi limiti operativi propri del fondo patrimoniale, riproponendosi tutte le questioni in merito all’esistenza o meno di un obbligo di reimpiego, a carico del c.d. conferente o del gestore (nel caso di negozio di destinazione con trasferimento di beni), del ricavato dall’alienazione a titolo oneroso dei beni destinati.
Infine non è chiaro se l’art. 2645-ter consenta di configurare un negozio di destinazione “discrezionale” o di “di mero scopo”, ciò che, entro certi limiti, è certamente possibile realizzare tramite il ricorso al trust.
La norma non pare escludere la soluzione estensiva(22) , sia perché utilizza l’ampia e generica espressione «realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche»(23) , sia (e soprattutto) perché attribuisce la legittimazione ad agire per la realizzazione del fine di destinazione non solo al conferente, ma anche a “qualsiasi interessato”, cioè a una categoria di soggetti che appare più ampia di quella dei “beneficiari” e che ben può ricomprendere coloro che potrebbero ricevere vantaggio da siffatto peculiare tipo di negozio di destinazione.
Rispetto al trust, l’eventuale negozio di destinazione di diritto italiano sarebbe differente sotto vari profili: la durata, che non potrebbe essere illimitata: gli scopi, che potrebbero essere diversi da quelli altruistici; la mancanza di un soggetto che controlli il gestore, cioè il guardiano, figura obbligatoria nelle leggi straniere regolatrici del trust di scopo e che nel caso dell’art. 2645-ter potrebbe essere introdotto solo per effetto di una scelta espressa in tal senso.
4. Il superamento delle criticità proprie dell’atto di destinazione ex art. 2645-ter e la configurabilità di un trust di diritto interno
Come si ricava dall’analisi sommariamente svolta, la norma dell’art. 2645-ter lascia irrisolti numerosi problemi, che i contributi presenti in questo volume si propongono di indagare al fine di individuare praticabili e soddisfacenti soluzioni.
Senza pretesa di completezza, mi pare siano ancora lontani dal ricevere soluzioni condivise i seguenti problemi:
- l’impiego dei beni destinati per finalità diverse da quelle proprie della destinazione;
- le conseguenze dell’attività dispositiva sui beni destinati in violazione della destinazione;
- la natura dell’azione esperibile a tutela della destinazione e i poteri del giudice;
- il regime di responsabilità dei beni destinati rispetto alle obbligazioni insorte;
- se i beni destinati facciano parte della successione mortis causa o del regime patrimoniale della famiglia dell’eventuale gestore cui essi venissero trasferiti;
- il rapporto tra l’art. 2645-ter e le norme imperative dell’ordinamento.
La norma, che contiene poche disposizioni relative alla “fisiologia” del negozio, è del tutto muta riguardo alla sua “patologia”, la cui disciplina va integralmente ricostruita dall’interprete su basi sistematiche.
Il “contenuto” del negozio va integralmente “costruito” dall’operatore giuridico, che nel caso di specie è, obbligatoriamente, il notaio, ed è possibile, quindi, che importanti aspetti del negozio non vengano disciplinati. Le lacune andranno quindi colmate facendo ricorso all’interpretazione, con quali conseguenze in punto di certezza dei diritti e delle situazioni giuridiche è facile immaginare.
La scelta del legislatore del ricorso all’atto pubblico quale “fattore di ingresso” dell’atto di destinazione nell’ordinamento giuridico va comunque valorizzata al massimo grado, in quanto si tratta di un’ulteriore conferma di come il “sistema Notariato” svolga un ruolo essenziale per il corretto funzionamento del sistema giuridico.
Ciò comporterà, per il notariato, l’esigenza di rifuggire da utilizzazioni “disinvolte” della norma, comprendendone, per così dire lo “spirito”, onde evitare che lo strumento offerto dal legislatore venga sfruttato, con ciò determinandone probabilmente il fallimento, e pesanti ricadute per la categoria, a fini fraudolenti o, comunque, lontani dalle ragioni che stanno alla base della sua emanazione.
L’individuazione delle soluzioni applicabili ai problemi posti dall’atto di destinazione potrebbe ricevere linfa dall’esperienza professionale e giurisprudenziale in materia di trust, da considerare come piattaforma conoscitiva da cui partire per provare a costruire un “modello” di atto di destinazione che vada al di là di quanto scritto nella norma. Alcune delle disposizioni ricavabili dalla lettura della norma potrebbero quindi essere lette come semplici previsioni di default, applicabili in mancanza di diverse opzioni esercitate dall’autonomia privata, ciò che, inevitabilmente, impone un’attenta analisi della ratio sottostante a ciascuna di esse.
Si potrebbe quindi andare “oltre il trust”, in una sorta di transizione virtuosa dal trust interno retto della legge straniera, che è la figura attualmente utilizzata dalla stragrande maggioranza del ceto professionale, al trust (o come si voglia chiamare) di diritto interno, le cui regole saranno quelle elaborate dalla prassi professionale, divenuta ormai uno dei formanti del diritto accanto alla legge, alla giurisprudenza e alla dottrina.
Provare a leggere un atto di trust dal quale sia espunto il richiamo della legge regolatrice straniera può a tal fine essere un’utile esperienza. Il richiamo della legge straniera, anche alla luce della giurisprudenza, da cui si ricava che il giudice decide applicando non la legge straniera, bensì quella italiana(24) , sembra essere divenuta quasi una clausola di stile, quell’elemento di estraneità necessario, secondo la corrente lettura della Convenzione de L’Aja, per consentire il prodursi della separazione patrimoniale ai sensi dell’art. 11 della Convenzione medesima(25).
Forse è giunto il momento di provare a “costruire” un modello di destinazione patrimoniale attraverso lo sfruttamento pieno dell’art. 2645-ter, norma importantissima ai fini della pubblicità e dell’opponibilità ai terzi della destinazione, ma che andrebbe interpretata andando oltre il dato letterale, così sposando la visione di quell’autorevole dottrina(26) che, all’indomani della sua emanazione, invitava il ceto professionale a indagarla con una certa indulgenza, ritenendo che il legislatore, con la sua introduzione, non avesse fatto altro che prendere atto dell’esistenza di un fenomeno, la destinazione patrimoniale, già esistente e operante nell’ordinamento, aggiungendo un importante tassello, la previsione della trascrizione, idoneo a consentirne il pieno operare nell’ordinamento. Sposare una tale autorevole opinione consentirebbe, peraltro, di ritenere possibile oggetto di destinazione, come nel trust, qualsiasi posizione giuridica soggettiva, risolvendo i conflitti sulla base della generale regola della data certa.
Uno spunto in tale direzione viene da un recente provvedimento giurisprudenziale(27) in cui si afferma che anche laddove si seguisse l’opinione (oggi minoritaria) secondo cui la Convenzione de L’Aja è una mera convenzione di diritto internazionale privato un trust c.d. interno non potrebbe per ciò solo essere considerato nullo, essendo ciò impedito dalla presenza dell’art. 1322 c.c. Se così non fosse, da un lato qualsiasi contratto non regolato da una legge italiana sarebbe sempre nullo e, dall’altro, il trust sarebbe istituto discriminato rispetto ad altre tipologie negoziali. Da qui l’idea secondo cui il richiamo della legge straniera, contenuto negli atti istitutivi di trust interno, potrebbe avrebbe valore esclusivamente sul piano negoziale, per cui le norme della legge straniera, “tradotte” nell’atto istitutivo di trust, non sarebbero altro che “clausole” dell’atto, da interpretarsi applicando la “legge” italiana (intesa in senso ampio, come complesso di regole non esclusivamente di fonte legislativa ma di fonte anche non legislativa o almeno di fonte non solo legislativa).
La separazione patrimoniale determinata da siffatto atto troverebbe sostegno normativo non nella Convenzione de L’Aja bensì nell’art. 2645-ter, da intendersi anche come norma che consente ad atti atipici di produrre tale effetto (argomentando dal richiamo all’art. 1322, secondo comma, c.c.).
All’autonomia privata sarebbe così consentito sia di stipulare un atto che ricalchi il contenuto dell’art. 2645-ter c.c. sia un atto atipico rispetto al quale l’art. 2645-ter c.c. serve esclusivamente per il prodursi dell’effetto di separazione patrimoniale e per consentire la trascrizione di esso qualora abbia ad oggetto immobili.
(1) Per alcune considerazioni puntuali sulla differenze tra atto di destinazione e trust cfr. M. LUPOI, «Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust», in Trusts e attività fiduciarie (di seguito Taf), 2006, p. 169 e e ss. (da cui saranno tratte le successive citazioni) e in Riv. not., 2006, p. 467 e e ss.
(2) Cfr. A. BUSANI, «Differenze e analogie di due istituti che si intrecciano», in Il Sole 24 Ore del Lunedì del 13 marzo 2006, p. 30; ID., «Il trust trova la regola base», in Il Sole 24 Ore del 9 luglio 2005; G. PETRELLI, «La trascrizione dell’atto di destinazione», in Riv. dir. civ., 2006, p. 161 e ss.
(3) Il termine “negozio di destinazione” viene qui utilizzato per designare la specifica ipotesi in cui, per volontà di un soggetto, uno o più beni vengono vincolati ad uno scopo (cioè soggiacciono ad un vincolo di destinazione di tipo “reale” e non meramente obbligatorio) e detto vincolo risulta rafforzato da un meccanismo di separazione patrimoniale. Tale specifica ipotesi si inserisce nel più ampio fenomeno del cosiddetto “atto di destinazione”, il quale comprende gli atti giuridici (di natura negoziale o meno) per effetto dei quali dei beni subiscono un vincolo giuridico di tipo finalistico, accompagnato o meno da un meccanismo di separazione patrimoniale.
(4) Per la tesi contraria ai trusts interni cfr. per tutti in dottrina L. CONTALDI, Il trust nel diritto internazionale privato italiano, Milano, 2001, p. 123 e ss.; F. GAZZONI, «In Italia tutto è permesso, anche quel che è vietato (lettera aperta a Maurizio Lupoi sul trust e su altre bagattelle)», in Riv. not., 2001, p. 1247 e ss.; ID., «Tentativo dell’impossibile (osservazioni di un giurista “non vivente” su trust e trascrizione)», in Riv. not., 2001, p. 11 e ss.; C. CASTRONOVO, «Il trust e “sostiene Lupoi” », in Eur. e dir. priv., 1998, p. 441 e ss.; in giurisprudenza Trib. Belluno (decr.) 25 settembre 2002, in Taf, 2003, p. 255; Trib. S.Maria Capua Vetere (decr.) 14 luglio 1999, in Taf, 2000, p. 51; Trib. Napoli (decr.) 1° ottobre 2003, in Taf, 2004, p. 74; App. Napoli (decr.) 27 maggio 2004, in Taf, 2004, p. 570.
(5) Per la tesi favorevole ai trusts interni cfr. per tutti in dottrina M. LUPOI, Trusts, Milano, 2001, spec. p. 533 e ss.; S. BARTOLI, Il trust, Milano, 2001, p. 597 e ss. e p. 603 e ss.; L. F. RISSO - D. MURITANO, «Il trust: diritto interno e Convenzione de L’Aja. Ruolo e responsabilità del notaio», studio approvato dal Consiglio Nazionale del Notariato, in CNN Notizie del 22 febbraio 2006; in giurisprudenza, Trib. Bologna 1 ottobre 2003, in Taf, 2004, p. 67; Trib. Reggio Emilia 27 agosto 2011, in Taf, 2012, p. 61.
(6) Cfr. Trib. Firenze 6 giugno 2002, in Taf, 2004, p. 256; Trib. Torino 9 febbraio 2004, in Taf, 2005, p. 414; Trib. Milano 16 giugno 2009 in Taf, 2009, p. 533, in Dir. fall., 2009, II, p. 498, con nota di DI MAIO, «Il trust e la disciplina fallimentare: eccessi di consenso», in Corr. giur., 2010, p. 522, con nota di GALLUZZO, «Validità di un trust istituito da una società in stato di decozione»; Trib. Milano 17 luglio 2009, in Taf, 2009, p. 628 e in Dir. fall., 2009, II, p. 523; Trib. Milano 30 luglio 2009, in Taf, 2010, p. 80; Trib. Milano 22 ottobre 2009, in Corr. mer., 2010, p. 388; App. Milano 29 ottobre 2009, in Taf, 2011, p. 146; Trib. Reggio Emilia 14 marzo 2011, in Soc., 2011, p. 855; Trib. Mantova 18 aprile 2011, in Taf, 2011, p. 529; Trib. Brindisi 28 marzo 2011, in Taf, 2011, p. 639.
(7) Per la tesi favorevole alla pubblicità immobiliare del trust cfr. in giurisprudenza: quanto al sistema della trascrizione, Trib. Chieti (decr.) 10 marzo 2000, in Taf, 2000, p. 372; Trib. Bologna (decr.) 18 aprile 2000, in Taf, 2000, p. 372-374; Trib. Pisa (decr.) 22 dicembre 2001, in Taf, 2002, p. 241 nonché in Riv. not., 2002, p. 188; Trib. Milano (decr.) 29 ottobre 2002, in Taf, 2003, p. 270; Trib. Verona (decr.) 8 gennaio 2003, in Taf, 2003, p. 409; Trib. Parma (decr.) 21 ottobre 2003, in Taf, 2004, p. 73; quanto al sistema tavolare: Trib.Trento - sez. dist. di Cavalese (decr.) 20 luglio 2004, in Taf, 2004, p. 573; Trib. Trento-sez. dist. di Cles (decr.) 7 aprile 2005, in Taf, 2005, p. 406; Trib. Trieste (decr.) 23 settembre 2005, in Corr. mer., 2005, p. 1277 e in Taf, 2006, p. 83. Per la minoritaria tesi contraria cfr. in giurisprudenza: quanto al sistema della trascrizione, Trib. Napoli 1 ottobre 2003 (decr.), in Taf, 2004, p. 74; App. Napoli (decr.) 27 maggio 2004, in Taf, 2004, p. 570; quanto al sistema tavolare: Trib. Belluno (decr.) 25 settembre 2002, in Taf, 2003, p. 255.
(8) La stessa Convenzione, all’art. 15 paragrafo primo lettera f, sottolinea l’esigenza di coordinare il diritto dei trusts con eventuali norme interne poste a tutela dei terzi che agiscono in buona fede.
(9) Sul tracing nel diritto inglese cfr. A. UNDERHILL - D. J. HAYTON, Law relating to Trusts and Trustees, Londra, 2003, p. 880 e ss.; S. BARTOLI, op. cit., p. 238 e ss.
(10) Cfr. sul punto S. BARTOLI, op. cit., p. 564 e ss.
(11) Cfr. M. LUPOI, Trusts, cit., p. 608 e ss.; S. BARTOLI, op. cit., p. 564 e ss.; A. PALAZZO, «Successione, trust e fiducia», in Vita not., 1998, p. 772-773; A. GUARNERI, Atti di disposizione illegittimi del trustee e possibili rimedi in civil law, in AA.VV., I trusts in Italia oggi a cura di I. Beneventi, Milano, 1996, p. 118 e ss.
(12) «Infatti, esiste una alterità fra il trustee e lo scopo del trust, che al primo è stato commesso di realizzare; da questa alterità discende la configurabilità del conflitto di interessi, se non anche un difetto di legittimazione negoziale, e dunque l’applicazione dell’art. 1394, certo analogica» (così M. LUPOI, op. ult. cit., p. 611).
(13) Poiché l’indebito negozio dispositivo del trustee costituisce inadempimento di un’obbligazione e, come tale, è lesivo del diritto di credito vantato nei suoi confronti dal beneficiario. Su tale tematica cfr. altresì F. DI CIOMMO, «Per una teoria negoziale del trust», in Corr. giur., 1999, p. 640 e p. 784-785; ID., «Brevi note in tema di azione revocatoria, trust e negozio fiduciario», in Foro it., 1999, I, c. 1470-1472, il quale precisa che il beneficiario potrà agire in revocatoria pur se non vanti un credito attualmente esigibile a conseguire la prestazione del trustee, citando a conforto quella recente giurisprudenza (cfr. Cass. 22 gennaio 1999, n. 591 e Cass. 29 marzo 1999, n. 2971, la prima delle quali reperibile in Foro. it., 1999, I, c. 1469- 1475) che conferisce - appunto - la legittimazione in oggetto anche al titolare di un credito allo stato inesigibile.
(14) Trib. Trieste 7 aprile 2006, in Taf, 2006, p. 417. In senso sostanzialmente analogo Trib. Reggio Emilia, 22 giugno 2012, in Taf, 2013, p. 57. In dottrina, sul tema cfr. P. MANES, «Il trust abitativo, l’art. 2645-ter come norma sugli effetti e prove di un trust giudiziale», in Contr. impr., 2013, p. 605 e ss.
(15) Si condivide pertanto quanto in tal senso prospettato da G. PETRELLI, op. cit., § 17.
(16) Nello stesso senso cfr. M. LUPOI, «Gli atti di destinazione …», cit., p. 171 e ss.
(17) Intendendosi per tale la trascrizione del trasferimento dei beni dal disponente al trustee ovvero la trascrizione del vincolo contro il disponente/trustee nel caso del trust c.d. autodichiarato.
(18) Come ha ritenuto Trib. Roma 18 maggio 2013, inedita.
(19) Secondo G. PETRELLI, op. cit., dovrebbe essere valido un negozio di destinazione contenuto in un testamento (sia esso olografo, segreto o pubblico), ma solo quello contenuto in un testamento pubblico potrebbe essere trascritto e, quindi, opposto ai terzi. Ritiene ammissibile un negozio di destinazione testamentario anche M. LUPOI, op. ult. cit., p. 170.
(20) Un trust di durata superiore a quella prevista dall’art. 2645-ter, sebbene valido secondo la legge regolatrice, potrebbe, rispetto all’ordinamento italiano, alternativamente: a) essere dichiarato nullo per violazione dell’art. 2645-ter (sempre che la si ritenga norma imperativa ex art 15 Conv.); b) essere dichiarato valido entro i limiti di durata previsti dall’art. 2645-ter, che sostituirebbe di diritto, ai sensi dell’art. 1339, la difforme clausola sulla durata contenuta nell’atto istitutivo del trust.
(21) Così come accade per il fondo patrimoniale e per il trust. Ammette il negozio di destinazione sia con che senza trasferimento di beni ad un gestore G. PETRELLI, op. cit., § 3, che in pratica ritiene il punto pacifico. Nello stesso senso M. LUPOI, op. ult. cit., p. 170. Possibilista al riguardo parrebbe, altresì, A. BUSANI, I notai, cit., p. 29, per il quale nella nuova norma codicistica «non c’è …, anche se non la si può escludere a priori, alcuna attività traslativa». Dà invece per scontato che il nuovo istituto non possa che risolversi nell’imposizione del vincolo su beni che restano di proprietà del destinante F. GAZZONI, Osservazioni, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile a cura di M. Bianca, Milano, 2007, il quale al § 1 ritiene fuorviante il termine “conferente” in quanto - a suo dire - «chi destina il bene … ovviamente non conferisce un bel niente rimanendo proprietario».
(22) Nello stesso senso appare altresì M. LUPOI, op. ult. cit., p. 172, per il quale «la nozione di beneficiario, pur presente, è appena accennata». In senso contrario al negozio di destinazione di mero scopo cfr. invece G. PETRELLI, op. cit., § 7, il quale si limita ad affermare - in modo apodittico - che la norma «esige testualmente la presenza di almeno un beneficiario, il cui interesse il vincolo di destinazione dovrebbe soddisfare».
(23) Sulla genericità della formulazione legislativa cfr. altresì M. LUPOI, op. ult. cit., p. 170, per il quale «siamo nella vaghezza e il campo semantico di “riferibili” ha un contenuto giuridico minimo, come se si dicesse “che riguardano”: su questo contenuto minimo non si può costruire più che tanto (o poco)».
(24) Cfr. ad es. Trib. Milano 26 gennaio 2013, in www.ilcaso.it, che sostituisce il trustee mediante un provvedimento ex art. 700 c.p.c. e impone la modifica del trust, senza porsi minimamente il problema delle legge applicabile.
(25) D’altro canto non pare che in sede di stipula dell’atto istitutivo di trust la scelta della legge straniera avvenga con le necessarie consapevolezza e ponderazione. Non è da escludere, anzi, che in taluni casi la scelta avvenga in modo del tutto casuale.
(26) Cfr. A. FALZEA, Riflessioni preliminari, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, a cura di M. Bianca, Milano, 2007, p. 3 e ss.
(27) Cfr. Trib. Urbino 11 novembre 2011, in Taf, 2012, p. 401.
|
 |
|