Destinazione e tutela di soggetti deboli
- capitolo VIII -
Destinazione e tutela di soggetti deboli
di Arnaldo Morace Pinelli
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
1. Atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e fondo patrimoniale
In ambito familiare, soprattutto per garantire il mantenimento dei figli minori, è dato riscontrare una delle sicure applicazioni dell’art. 2645-ter c.c. Dottrina e giurisprudenza concordano, infatti, nel ritenere la tutela dell’interesse familiare finalità meritevole ai fini della stipula dell’atto negoziale di destinazione(1).
Si discute, tuttavia, se sia ammissibile un atto di destinazione volto alla soddisfazione dei bisogni della famiglia, atteso che esiste una figura tipica per raggiungere un siffatto obiettivo, cioè il fondo patrimoniale.
La questione non è marginale, in considerazione delle differenze tra le due fattispecie. Invero diversa è, innanzitutto, la portata del vincolo: mentre l’impignorabilità dei beni destinati ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. è assoluta, nel senso che gli stessi non sono aggredibili dai creditori per scopi estranei o diversi rispetto a quelli individuati nell’atto di destinazione, con riguardo ai beni che confluiscono nel fondo patrimoniale assume rilevanza lo stato soggettivo del creditore, essendo consentita l’esecuzione su di essi a coloro che abbiano esercitato il credito ignorando l’estraneità del debito ai bisogni della famiglia (art. 170 c.c.). Secondo la più recente giurisprudenza, inoltre, è a carico del debitore la prova che tale estraneità era conosciuta dal creditore(2). D’altro canto, mentre l’art. 2645- ter c.c. nulla dice circa l’amministrazione dei beni e la loro alienabilità, puntuali indicazioni in tal senso si rinvengono in tema di fondo patrimoniale (artt. 168 e 169 c.c.). Si consideri poi che il fondo patrimoniale tendenzialmente si scioglie in coincidenza col venire meno del matrimonio (art. 171 c.c.), mentre un atto di destinazione costituito ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. potrebbe sopravvivere anche a tale evento, potendosi stabilire la durata del vincolo «per un periodo non superiore a novanta anni» o «per la durata della vita della persona fisica beneficiaria». Neppure vi è coincidenza tra i beni vincolabili ai sensi dell’art. 2645-ter e quelli che possono confluire in un fondo patrimoniale ex art. 167 c.c. Infine, mentre è espressamente consentito costituire un fondo patrimoniale per testamento (art. 167 c.c.), è controverso che l’atto di destinazione, nel silenzio dell’art. 2645-ter c.c., possa originare da un atto mortis causa(3).
Preliminarmente occorre, tuttavia, farsi carico del problema concernente la portata dell’art. 2645-ter c.c. Se si ritiene, infatti, che tale norma si limiti a disciplinare un particolare tipo di effetto, quello di destinazione, accessorio a quelli prodotti dai negozi tipici o atipici cui accederebbe, garantendolo con l’opponibilità(4) , e non già una nuova fattispecie giuridica, il problema della “convivenza” nell’ordinamento tra atti di destinazione e fondo patrimoniale neppure si pone, non potendosi utilizzare l’art. 2645-ter c.c. per dare vita ad un negozio destinatorio “puro” nell’interesse della famiglia. Peraltro, a nostro avviso, come ritiene la dottrina più autorevole(5) , la nuova norma, pur risolvendo il problema della trascrizione del vincolo di destinazione (e, quindi, «dell’opponibilità collegata alla limitazione di responsabilità»(6) ) introduce una nuova fattispecie giuridica, quella appunto dell’atto negoziale di destinazione, dettandone uno statuto minimo (forma, durata del vincolo, individuazione dei beni ad esso assoggettabili, meritevolezza dello scopo, ecc.). Non può, quindi, dubitarsi del suo valore sostanziale, essendo «la disciplina degli atti di destinazione … insieme disciplina dell’atto di destinazione e dell’effetto di separazione patrimoniale»; se si guarda, invece, soltanto all’effetto della destinazione, come è stato efficacemente rilevato, inevitabilmente si cade in una vera e propria «trappola ermeneutica»(7).
L’art. 2645-ter c.c. introduce, quindi, un nuovo atto tipico, l’atto di destinazione, avente però un contenuto atipico, nel senso che la tipicità del negozio di destinazione riguarda la sua struttura ma non il suo contenuto, rimesso all’autonomia delle parti e sottoposto al giudizio di meritevolezza richiamato dalla norma.
Ciò premesso e venendo al problema che stiamo esaminando, secondo una prima opinione, nelle situazioni in cui il legislatore ha previsto uno schema tipico di separazione patrimoniale (come nel caso del fondo patrimoniale) deve essere escluso il ricorso alla fattispecie prevista dall’art. 2645-ter c.c., prevalendo la lex specialis sulla disciplina generale stabilita da tale ultima norma. Verrebbe, altrimenti, eluso l’istituto tipico previsto dal legislatore. Gli atti di destinazione potrebbero al massimo operare in ambiti diversi, per la realizzazione di risultati simili a quelli perseguiti mediante le fattispecie legali, potendosi ritenere lecita, ad esempio, la destinazione di beni per soddisfare i bisogni del convivente o dei figli all’interno di una famiglia di fatto(8).
Ad avviso di una diversa opinione, l’atto di destinazione per la realizzazione dei bisogni della famiglia sarebbe ammissibile anche all’interno della famiglia fondata sul matrimonio, a condizione che a un siffatto negozio vengano applicate le medesime regole inderogabili previste per il fondo patrimoniale. Ciò in quanto «l’ordinamento non può consentire ai privati di regolare un interesse, pur sicuramente meritevole di tutela, in maniera difforme rispetto alle valutazioni inderogabili già compiute nella disciplina dettata in vista della tutela di quel medesimo interesse o di un interesse analogo». In particolare, secondo siffatta opinione, dovrebbero estendersi all’atto di destinazione la previsione dell’art. 168, ult. comma, c.c., che rinvia alle norme relative all’amministrazione della comunione legale per l’amministrazione del fondo patrimoniale, e l’art. 169 c.c., che richiede il consenso di entrambi i coniugi per gli atti di straordinaria amministrazione e l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, in presenza di figli minori(9). Parimenti inderogabili - è stato osservato - dovrebbero ritenersi il principio per cui il patrimonio separato deve soddisfare tutti i bisogni della famiglia, cosicché non sarebbe ammissibile «una segregazione per il soddisfacimento solo di alcuni bisogni familiari inizialmente predeterminati o facenti capo ad alcuni membri»(10) , e la previsione dell’art. 171 c.c., che sostanzialmente limita la durata del fondo patrimoniale a quella del matrimonio(11).
A nostro avviso la soluzione del problema non può prescindere dalla considerazione delle origini storiche del fondo patrimoniale, che ne giustificano i caratteri ed il peculiare ambito di operatività. La separazione patrimoniale è, infatti, consentita soltanto nell’ambito della famiglia fondata sul matrimonio ed in vista del soddisfacimento di tutti i suoi bisogni.
Il patrimonio familiare è stato introdotto per la prima volta nel codice civile del 1942, sotto l’influenza della concezione pubblicistica del diritto di famiglia, all’epoca dominante in Italia(12). Allo scopo di «assicurare la prosperità di una famiglia che sorge», intesa quale ente superindividuale, portatore di interessi superiori e collettivi, veniva consentita la creazione di un patrimonio separato in deroga al fondamentale principio dell’illimitata responsabilità patrimoniale del debitore, sancito dal primo comma dell’art. 2740 c.c.(13) Per il legislatore del 1942, «il nuovo istituto del patrimonio familiare … costituisce una delle più felici innovazioni legislative, in quanto assicura, secondo le finalità del regime, il rafforzamento del nucleo familiare e il benessere della famiglia»(14). La fondamentale funzione che i codificatori attribuivano al nuovo istituto emerge, del resto, dalla sua stessa collocazione all’interno del capo VI del libro I: «Questa particolare importanza, che il patrimonio familiare è destinato ad avere, ha indotto ad apportare una modificazione nella sistemazione della materia relativa al regime patrimoniale della famiglia, quale risultava dal progetto, anteponendosi agli altri istituti quello del patrimonio familiare, il quale appare meglio rispondente, nelle attuali condizioni della società, alle esigenze della famiglia»(15).
Il fondo patrimoniale, introdotto dalla riforma del 1975, del patrimonio familiare ha ereditato la ratio, essendo volto «a garantire un substrato patrimoniale alla famiglia nucleare» e caratterizzandosi «quale speciale vincolo di destinazione per la realizzazione degli scopi della famiglia»(16).
Anche se, rispetto al patrimonio familiare, il vincolo si è alquanto attenuato, per la volontà del legislatore del 1975 di raggiungere un compromesso tra le istanze di coloro che auspicavano la soppressione dell’istituto, ritenuto un ostacolo alla circolazione della ricchezza, in contrasto con le esigenze dell’economia moderna, e quelle di chi ne pretendeva il mantenimento nell’ordinamento, rinvenendo in esso, dopo l’abrogazione della dote, l’unico strumento riconosciuto all’autonomia privata per dar vita ad un patrimonio separato nell’interesse della famiglia.
Come è noto, la concezione pubblicistica del diritto di famiglia è stata superata dalla nostra Costituzione. Gli artt. 2 e 29 Cost. hanno introdotto un nuovo modello di famiglia, incentrato sui valori della persona, e la tutela della libertà e dei diritti del singolo prevale sempre rispetto a quella della famiglia stessa, attualmente ricondotta tra le formazioni sociali all’interno delle quali l’individuo svolge la propria personalità.
In questo mutato contesto, a nostro avviso è possibile configurare un meccanismo di protezione della famiglia (rectius: dei suoi membri) diverso da quello previsto dalla fattispecie tipica del fondo patrimoniale, che affonda le sue origini in un substrato culturale ormai estraneo all’ordinamento, e la nuova fattispecie dell’atto di destinazione è in grado di offrire tutela alle nuove e molteplici esigenze dei singoli, che all’interno della famiglia crescono e sviluppano la propria personalità. La protezione costituzionale della persona consente di ritenere certamente meritevoli siffatti interessi, indipendentemente dal fatto che già esista una fattispecie tipica (il fondo patrimoniale, appunto), che attesta una sicura valutazione di meritevolezza operata dal legislatore con riguardo all’interesse rappresentato dalla soddisfazione dei bisogni della famiglia.
Ci sembra, in altri termini, che il giudizio di meritevolezza, espresso dall’ordinamento con riguardo alla disciplina del fondo patrimoniale, non impedisca l’individuazione di nuovi e specifici interessi meritevoli, in ambito familiare, tutelabili attraverso l’atto di destinazione opponibile ai terzi.
In particolare, ci pare possibile che, attraverso lo strumento previsto dall’art. 2645-ter c.c., determinati beni possano essere destinati a realizzare esigenze peculiari di taluni soltanto dei componenti deboli della famiglia (ad esempio un figlio portatore di handicap, come del resto espressamente consente la norma) e che il vincolo possa avere una durata superiore a quella del matrimonio e del raggiungimento della maggiore età da parte dei figli: la fattispecie atipica (nel contenuto), anziché tutelare una famiglia intesa quale ente in sé, secondo il modello delineato dalla concezione pubblicistica del diritto di famiglia - alla base del patrimonio familiare e, seppure in modo attenuato, del fondo patrimoniale, che tale istituto ha sostanzialmente riproposto -, consente di garantire la molteplice varietà degli interessi e la personalità dei singoli, secondo il nuovo modello di famiglia alla quale partecipano, introdotto dalla Costituzione.
Tale possibilità, più in generale, consente di ridare linfa alla separazione patrimoniale nell’interesse della famiglia, giacché la rilevanza attribuita agli specifici interessi anche di taluni soltanto dei suoi componenti permette di liberarsi del riferimento alla nozione dei “bisogni della famiglia”, che è alla base della costituzione del fondo patrimoniale ed è stata interpretata dalla giurisprudenza, nel chiaro intento di arginare l’uso fraudolento dell’istituto, in modo talmente ampio (si è giunti a ritenere inerente ai bisogni della famiglia qualsiasi debito nascente dall’attività imprenditoriale o professionale dei coniugi, tra cui i debiti fiscali(17) ), da rendere il vincolo sostanzialmente inoppo-nibile ai creditori, a dispetto della funzione di protezione della famiglia che l’istituto è chiamato a svolgere. Dall’interpretazione di tale nozione dipende, infatti, l’estensione dell’area dei creditori della famiglia, che, ai sensi dell’art. 170 c.c., possono aggredire i beni e i frutti del fondo patrimoniale.
In tale prospettiva il fondo patrimoniale è destinato ad assumere un ruolo ancora più marginale di quello in cui lo ha relegato l’esperienza pratica e l’atto di destinazione una funzione centrale.
Il fondo patrimoniale, quando sia costituito dai coniugi, è strettamente collegato al momento contributivo, cioè al regime primario ed inderogabile, giacché i beni conferiti sono per definizione destinati «a far fronte ai bisogni della famiglia» (art. 167 c.c.) e i loro frutti devono essere impiegati per la realizzazione delle medesime esigenze: in altri termini, attraverso tale convenzione matrimoniale i coniugi adempiono l’obbligo di contribuzione di cui all’art. 143 c.c. Quando sia costituito da un terzo, il fondo patrimoniale integra di regola una liberalità o comunque un atto gratuito, pur potendo configurare adempimento di un dovere, ed è comunque funzionale a garantire l’interesse della famiglia.
Alla domanda se l’atto di destinazione possa essere utilizzato per realizzare il medesimo interesse posto alla base del fondo patrimoniale a nostro avviso deve essere data risposta positiva, giacché i due istituti, per le rilevanti differenze che abbiamo individuato, non si pongono in rapporto di genere a specie, ma si collocano su un medesimo piano, in posizione di alternatività.
L’atto di destinazione è comunque preferibile, sia in considerazione dell’effetto di separazione più rimarchevole che determina, tutelando maggiormente la famiglia a svantaggio dei creditori, sia per la più articolata disciplina che il ricorso alla fattispecie atipica consente all’autonomia privata. Resta fermo, peraltro, che, in siffatta ipotesi, la disciplina inderogabile del fondo patrimoniale non può essere elusa. Ci riferiamo, in particolare, alla previsione dell’art. 168 ult. comma, che rinvia alle norme relative all’amministrazione della comunione legale per l’amministrazione del fondo patrimoniale. Le regole poste dall’art. 169 c.c. non presentano, invece, carattere inderogabile, potendo i coniugi - secondo l’opinione a nostro avviso preferibile - prevedere la libera alienabilità, ipotecabilità e vincolabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale senza il consenso di entrambi ovvero, in presenza di figli minori, sulla base del loro mero consenso, senza necessità di autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria(18). Analogamente a quanto ritiene parte della dottrina e della giurisprudenza in tema di fondo patrimoniale, ci sembra possibile prevedere lo scioglimento convenzionale del vincolo di destinazione, anche in presenza di figli minori e senza la necessità di autorizzazione giudiziale(19). Ci pare, inoltre, che sia possibile prevedere anche una durata del vincolo superiore a quella del fondo patrimoniale, che superi l’esistenza della famiglia stessa, ove vi siano figli maggiorenni non economicamente autosufficienti o sia comunque sopravvenuta la crisi coniugale, in tal modo realizzandosi in modo più appropriato l’interesse dei membri della famiglia.
Non osta all’ammissibilità dell’atto di destinazione con finalità analoghe al fondo patrimoniale il fatto che il coniuge o i coniugi conferenti beneficino parzialmente della destinazione. Se, invero, l’art. 2645-ter c.c., prevedendo l’altruità dell’interesse, preclude la possibilità di un’autodestinazione a vantaggio (esclusivo) del disponente, nulla impedisce, secondo autorevole dottrina, che quest’ultimo, attraverso la destinazione, possa realizzare anche un personale interesse con la stessa compatibile(20) , come accade appunto nel caso che stiamo esaminando, laddove tra i bisogni della famiglia che l’atto di destinazione si propone di realizzare rientrano anche quelli del conferente.
Fermo che beneficiari dell’atto saranno i membri della famiglia costituita dai coniugi conferenti, presenti e futuri, il collegamento con l’obbligo contributivo è fondamentale per individuare la nozione di famiglia cui, nella specie, occorre fare riferimento. Se l’atto, indirizzato alla soddisfazione dei bisogni della famiglia, è, in ultima analisi, destinato all’adempimento del dovere di contribuzione, operante all’interno della famiglia nucleare, beneficiari della destinazione saranno i coniugi e i loro figli, anche adottivi e sopravvenuti in epoca successiva alla sua stipula. Quest’ultimi, però, entro i limiti in cui opera l’obbligo contributivo e, quindi, fin tanto che siano minorenni o economicamente non autosufficienti, ovvero, allorché siano divenuti patrimonialmente autonomi, sino a quando convivano con i loro genitori e siano, quindi, tenuti alla contribuzione, ai sensi dell’art. 315-bis c.c., cui corrisponde, in virtù della solidarietà familiare, analogo dovere contributivo a carico dei genitori.
Venendo all’ipotesi in cui, come pure ci sembra possibile, l’atto di destinazione sia utilizzato per realizzare esigenze determinate, comunque valutabili come meritevoli, anche di taluni soltanto dei membri della famiglia, l’autonomia privata - a nostro avviso - non è condizionata in alcun modo dalla disciplina inderogabile del fondo patrimoniale, non sussistendo ragione di estendere regole proprie di una fattispecie sostanzialmente diversa.
Si è, infine, posto in dottrina il problema se l’atto di destinazione, perlomeno nel primo caso, cioè quando persegua la medesima finalità del fondo patrimoniale e sia funzionale alla soddisfazione dei bisogni dell’intera famiglia, sia riconducibile ad una convenzione matrimoniale atipica, con il conseguente assoggettamento alla disciplina di cui agli artt. 159 e ss. c.c.
La risposta presuppone la soluzione di problemi non agevoli, che possono soltanto essere accennati in questa sede, quale quello della stessa nozione di convenzione matrimoniale, autorevolmente ritenuta «alquanto oscura»(21) , e quello dell’ammissibilità o meno, nel nostro ordinamento, di convenzioni matrimoniali atipiche(22).
Ove si aderisca alla tesi che ritiene configurabili le convenzioni matrimoniali atipiche, riconoscendo ad esse l’ampia funzione di sottoporre beni determinati ad un particolare regime di appartenenza, amministrazione e circolazione, «diverso da quello che si applicherebbe in assenza della convenzione matrimoniale, e cioè diverso dal diritto comune dei beni e degli acquisti patrimoniali», indipendentemente anche dalla natura bilaterale o unilaterale dell’atto(23) , quando uno o entrambi i coniugi destinino singoli beni alla soddisfazione dei bisogni della famiglia, ai sensi dell’art. 2645-ter, ci troveremmo in presenza di una convenzione matrimoniale atipica, con conseguente applicazione della disciplina prevista dagli artt. 159 e ss. c.c. Cosicché, ai fini dell’opponibilità ai terzi dell’atto di destinazione, l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio, prevista dall’art. 162 c.c., dovrebbe essere integrata dalla trascrizione, prevista dall’art. 2645-ter c.c., risultando entrambe le formalità indispensabili, con l’insorgenza del non trascurabile problema del loro coordinamento, dato che la trascrizione ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. non può essere degradata ad un mero strumento di pubblicità notizia, giacché la norma riconnette espressamente alla trascrizione l’effetto di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione.
A conclusioni opposte deve pervenirsi ove - come ci sembra preferibile - si neghi la configurabilità di convenzioni matrimoniali atipiche, restringendosi la nozione di convenzione matrimoniale agli atti mediante i quali i coniugi, derogando all’art. 159 c.c., adottano o modificano un regime patrimoniale, nell’ambito di quelli previsti dalla legge(24) , ovvero quando le convenzioni matrimoniali vengano comunque circoscritte ai soli accordi programmatici attraverso i quali i coniugi stabiliscono il regime patrimoniale della famiglia, disciplinando la proprietà dei beni e la sorte degli acquisti futuri, con la conseguenza però di escludere il fondo patrimoniale dal novero dei regimi patrimoniali della famiglia, determinando esso un mero «regime di singoli beni», vincolati a vantaggio della famiglia(25).
Si aggiunga a tali considerazioni che il carattere essenzialmente unilaterale dell’atto costitutivo del vincolo osta a ricondurlo nell’ambito delle convenzioni matrimoniali, inquadrabili tra i negozi bilaterali (o plurilaterali), di cui sono parti entrambi i coniugi ed eventualmente, nel caso del fondo patrimoniale, il terzo o i terzi che conferiscono i beni al fondo.
2. Atti di destinazione e comunione legale
È controverso se i beni appartenenti alla comunione legale possano o meno essere vincolati mediante un atto di destinazione.
La questione, invero, si è già posta con riguardo al fondo patrimoniale, essendosi interrogata la dottrina circa la possibilità di fare confluire nel patrimonio separato di cui agli artt. 167 e ss. c.c. beni in regime di comunione legale.
L’opinione contraria muove dal presupposto che la sovrapposizione dei due regimi (comunione legale e fondo patrimoniale) condurrebbe «alla costruzione di una disciplina complessiva dalle linee inestricabili»(26). Quella favorevole, prevalente in dottrina, ritiene invece possibile il concorso tra le due discipline, con il preciso limite che i coniugi non possono eludere, attraverso la costituzione del fondo patrimoniale, le norme inderogabili della comunione legale, in particolare quelle relative all’amministrazione dei beni (artt. 180 e ss. c.c.) e all’eguaglianza delle quote (art. 194 c.c.)(27).
Indubbiamente l’assoggettamento dei beni in comunione legale al vincolo del fondo patrimoniale determina una deroga alle regole poste dall’art. 186 e ss. c.c., che individuano i criteri di responsabilità della comunione legale verso i terzi, giacché l’effetto separativo che il fondo patrimoniale determina privilegia categorie di creditori diverse rispetto a quelle considerate da tali norme. La deroga appare, tuttavia, possibile dato che, pur essendo collegata ad un atto di autonomia privata, cioè alla stipula del fondo patrimoniale, trova la sua fonte nella legge.
Mutatis mutandis, con talune accortezze, è a nostro avviso possibile vincolare attraverso un atto di destinazione, di cui all’art. 2645-ter c.c., un bene in regime di comunione legale.
Non è questa la sede per esaminare le varie teorie sulla natura e sulla funzione della comunione legale. Secondo l’opinione a nostro avviso preferibile, sussiste un ineludibile collegamento tra comunione e dovere di contribuzione, nel senso che i beni assoggettati al regime legale sono destinati alla soddisfazione dei bisogni della famiglia. Il regime di comunione - come è stato autorevolmente rilevato - realizza l’obbligo di «collaborazione nell’interesse nella famiglia» imposto dall’art. 143 c.c., volto a favorire la crescita e lo sviluppo della personalità dei singoli membri della famiglia(28). E poiché la collaborazione, sul piano patrimoniale, si traduce nel dovere di contribuzione, la comunione dei beni è strettamente correlata al dovere di contribuzione, nel senso che, «entrato in applicazione il regime di comunione, il dovere di contribuzione si estende ai beni comuni»(29).
In considerazione dell’indicato collegamento, l’atto di destinazione, che abbia ad oggetto beni sottoposti al regime di comunione, deve - a nostro avviso - della comunione rispettare la peculiare funzione e, quindi, essere finalizzato alla soddisfazione dei bisogni della famiglia. Anche qui, il collegamento tra comunione legale e obbligo contributivo è fondamentale per individuare la nozione di famiglia cui, nella specie, occorre fare riferimento e - per quanto rilevato al superiore § 1 - beneficiari della destinazione saranno i coniugi e i loro figli, anche adottivi e sopravvenuti in epoca successiva alla sua stipula, fin tanto che persista l’obbligo contributivo.
Come abbiamo visto, il fatto che i coniugi conferenti beneficino parzialmente della destinazione non osta alla stipulabilità dell’atto, giacché se il disposto dell’art. 2645-ter c.c. impedisce con certezza l’autodestinazione, a vantaggio (esclusivo) del disponente, si ritiene possibile che quest’ultimo, attraverso la destinazione, possa realizzare anche un personale interesse con la stessa compatibile. L’atto di destinazione non ci sembra però stipulabile se la famiglia sia composta soltanto dai due coniugi conferenti.
L’atto di destinazione dovrà mutuare la disciplina inderogabile della comunione legale, in particolare le norme in tema di amministrazione dei beni comuni, spettante ad entrambi i coniugi (art. 180 e ss.), ed il principio di parità delle quote, espresso dall’art. 194 c.c.
Proprio in applicazione dell’art. 180 c.c., l’atto di destinazione dovrà essere posto in essere da entrambi i coniugi, rientrando tra quelli di straordinaria amministrazione.
Il vincolo apposto sui beni comuni, ai sensi dell’ultima parte dell’art. 2645-ter c.c., ne determina l’inaggredibilità da parte dei creditori per scopi estranei o diversi rispetto a quelli individuati nell’atto di destinazione, quindi un effetto di separazione patrimoniale di per sé estraneo alla disciplina della comunione legale. Si verifica, quindi, una deroga ai principi di responsabilità del regime patrimoniale legale (artt. 186-189 c.c.), che, pur collegata ad un atto negoziale (l’atto di destinazione, appunto), trova la sua fonte nella legge ed è comunque giustificata in quanto consente di tutelare in modo più pregnante l’interesse familiare, la cui salvaguardia deve ritenersi, in linea di massima, valore preminente rispetto alla tutela delle ragioni, puramente patrimoniali, del ceto creditorio(30). Deve inoltre considerarsi che, consentendo l’esecuzione sui beni vincolati soltanto per i debiti contratti per la realizzazione dello scopo della destinazione, si favorisce, indirettamente, l’esercizio del credito per la soddisfazione dei bisogni della famiglia e, quindi, la realizzazione dell’interesse familiare.
Ci sembra che l’atto di destinazione che vincola al soddisfacimento dei bisogni della famiglia taluni beni appartenenti ai coniugi in comunione legale abbia effettivamente natura di convenzione matrimoniale, giacché ci troviamo in presenza di un accordo che altera il regime patrimoniale legale, con applicazione dell’art. 210, primo comma, c.c. Devono, quindi, ritenersi applicabili all’atto di destinazione, in tale circoscritta ipotesi, le disposizioni di cui agli artt. 159 e ss. c.c.
3. Destinazione e crisi familiare
Si è posto in dottrina ed in giurisprudenza il problema se la nuova figura dell’atto di destinazione prevista dall’art. 2645-ter c.c. possa essere utilizzata durante la crisi coniugale, per vincolare beni di proprietà di uno o di entrambi i coniugi in vista dell’adempimento degli obblighi di mantenimento che sorgono a favore del coniuge debole e dei figli minori o maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti, eventualmente stabilendosi anche che, al termine della durata della destinazione, i beni vengano trasferiti in favore dei soggetti beneficiari.
La soluzione positiva presuppone ovviamente a monte la condivisione della già riferita opinione secondo la quale l’art. 2645-ter c.c. ha introdotto una nuova fattispecie sostanziale, giacché se si relega la portata della norma alla previsione dell’effetto di destinazione, accessorio rispetto a quelli prodotti dai negozi tipici o atipici, cui si dovrebbe accompagnare garantendolo con l’opponibilità, deve coerentemente negarsi la configurabilità di «un negozio destinatorio puro … su un immobile senza accompagnare al vincolo il negozio traslativo della proprietà del bene», cui il vincolo di destinazione dovrebbe necessariamente accedere(31).
Se invece - come riteniamo - l’art. 2645-ter c.c. ha introdotto una nuova figura di diritto sostanziale, nulla osta ad ammettere la possibilità di stipulare un atto di destinazione in funzione della regolamentazione della crisi coniugale, quando il vincolo garantisca l’adempimento dell’obbligo legale di mantenimento del coniuge debole e dei figli, interesse certamente meritevole di tutela e prevalente rispetto a quello di natura meramente patrimoniale di cui sono portatori gli eventuali creditori del coniuge conferente.
Parte della dottrina si è chiesta se un atto di destinazione siffatto integri o meno una convenzione matrimoniale, anche perché, più in generale, è stato recentemente affermato, con dovizia di argomenti, che gli accordi traslativi tra coniugi, conclusi in sede di separazione o di divorzio e comunque prima dello scioglimento del matrimonio o della cessazione dei suoi effetti civili, costituirebbero convenzioni matrimoniali, con tutto quello che ne consegue, sia per quanto riguarda la necessaria presenza del notaio alla stipula dell’atto, sia in tema di pubblicità, essendo necessaria, ai fini dell’opponibilità ai terzi, l’annotazione della convenzione sull’atto di matrimonio. Secondo tale opinione, deve infatti negarsi, da un canto, che le convenzioni matrimoniali debbano avere soltanto carattere programmatico, come dimostrerebbero il fondo patrimoniale e la comunione convenzionale, che possono avere natura dispositivo-attributiva, e, dall’altro, che tali negozi postulino il normale svolgimento della convivenza, come dovrebbe arguirsi dal richiamo che l’art. 162, terzo comma, c.c. opera all’art. 194 c.c., relativo allo scioglimento della comunione, il cui secondo comma riconosce al giudice, «in relazione alle necessità della prole e all’affidamento di essa», il potere di «costituire in favore di uno dei coniugi l’usufrutto su una parte dei beni spettanti all’altro coniuge». Secondo la riferita opinione, «il rinvio all’art. 194, nella sua interezza, induce a ritenere, ragionevolmente, che la convenzione matrimoniale possa (anzi: debba) senz’altro essere stipulata in una fase di crisi del matrimonio».(32)
Indipendentemente dalla complessa questione - cui abbiamo accennato - se siano ammissibili, nel nostro ordinamento, convenzioni atipiche, alle quali dovrebbe necessariamente essere ricondotto un atto di destinazione stipulato ai sensi all’art. 2645-ter c.c., volto a regolare determinati rapporti patrimoniali tra i coniugi al momento della loro crisi, a nostro avviso deve escludersi che possano rientrare tra le convenzioni matrimoniali gli atti finalizzati a regolamentare i profili patrimoniali della crisi coniugale, essendo queste destinate a disciplinare la comunione di vita coniugale, non più esistente al momento della pronuncia della separazione. Non è casuale, infatti, che l’art. 160 c.c. ponga quale limite all’autonomia privata dei coniugi, che si accingono a stipulare una convenzione matrimoniale, il rispetto dei diritti e dei doveri che sorgono dal matrimonio, i quali esistono soltanto finché dura la loro comunione di vita, giacché il provvedimento di separazione li sospende.
Quando si tratta di convenzioni matrimoniali viene soprattutto in considerazione l’obbligo di contribuzione, di cui la separazione personale dei coniugi determina però l’estinzione. Come è stato autorevolmente rilevato, dalle sue ceneri sorge l’obbligazione di mantenimento, la quale è radicalmente diversa, per contenuto e struttura: mentre l’obbligo di contribuzione grava su entrambi i coniugi ed è commisurato ai bisogni della famiglia, a seguito della separazione sorge tra i coniugi, ricorrendone i presupposti, un rapporto di debito-credito del tutto nuovo, in base al quale, ove vi sia una significativa disparità patrimoniale tra di essi, quello economicamente più agiato è tenuto a garantire all’altro la conservazione del tenore di vita matrimoniale che da solo non è in grado di mantenere(33).
Tali conclusioni non ci sembrano contraddette alla luce del richiamo che l’art. 162 c.c. opera all’art. 194 c.c., norma che sancisce, innanzitutto, la necessità di dividere in parti uguali tra i coniugi i beni in comunione legale. Autorevole dottrina ha posto in luce come il suddetto richiamo costituisca un relitto storico di scarso significato(34) , potendosi, al più, supporre che esso, semplicemente, «importi l’impossibilità di escludere con effetto retroattivo, e sia pure solo inter partes, l’applicazione del regime legale»(35).
Diversa questione è quella di stabilire se, nel corso di una separazione giudiziale o di un divorzio contenzioso, il giudice abbia il potere di regolare i rapporti economici tra i coniugi attraverso un provvedimento atipico che imponga la costituzione di un vincolo di destinazione. Ciò, da un canto, allo scopo di meglio garantire l’adempimento dell’obbligazione di mantenimento, dato che i beni vincolati non potrebbero essere sottratti alla peculiare destinazione e non sarebbero aggredibili dai creditori del conferente, atteso l’effetto di separazione patrimoniale che l’atto di destinazione determina su di essi, e, dall’altro, per l’indubbia duttilità dello strumento, che potrebbe anche prevedere l’affidamento della gestione dei beni ad un terzo, sempre a maggior garanzia dell’adempimento dell’obbligazione di mantenimento, e modalità attuative più articolate, funzionali, ad esempio, alle mutevoli esigenze dei figli, collegate alla loro crescita.
La questione si è posta in tema di trust e taluni autori propendono per la soluzione affermativa(36).
A nostro avviso, perlomeno considerando la fattispecie descritta dall’art. 2645-ter c.c., un provvedimento del giudice della separazione o del divorzio che imponga ai coniugi la costituzione di un vincolo di destinazione, nell’interesse del coniuge debole o dei figli, non è configurabile.
Innanzitutto occorre considerare che il vincolo di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c. trova la sua fonte in un atto di autonomia privata, avendo l’atto di destinazione natura negoziale. In secondo luogo, il potere del giudice della separazione o del divorzio di incidere sul patrimonio dei coniugi, imponendo un vincolo destinatorio, è privo di qualsiasi base normativa e deve, pertanto, ritenersi inconfigurabile. Un potere siffatto non può, infatti, certamente essere radicato negli artt. 156, quarto comma, c.c. e 8, primo comma, l. div., che, in caso di pericolo d’inadempienza, consentono al giudice di imporre idonea garanzia, reale o personale, al coniuge su cui incombe l’obbligo di mantenimento. A parte, appunto, che l’esercizio di un siffatto potere è condizionato al concreto riscontro di un pericolo di inadempienza, condivisibilmente la giurisprudenza, interpretando tali norme, ha chiarito che il giudice può soltanto ordinare genericamente al coniuge o all’ex coniuge di prestare idonea garanzia reale o personale ma non può costituire direttamente una determinata garanzia(37).
Si consideri inoltre che, secondo l’opinione a nostro avviso preferibile, la trascrizione dell’atto di destinazione ha efficacia costitutiva, sia per quanto riguarda l’insorgenza del vincolo di destinazione, sia per quanto concerne l’effetto della separazione patrimoniale e sarebbe, invero, poco plausibile che l’insorgenza di un vincolo di destinazione, imposto dall’autorità giudiziaria (ove ritenuto configurabile), possa venire subordinata all’assolvimento di un onere pubblicitario. Del resto, come è stato autorevolmente rilevato proprio allo scopo di delimitare la sfera applicativa della nuova norma, «atti, secondo il linguaggio legislativo in materia di pubblicità legale, sono soltanto quelli posti in essere nell’esercizio dell’autonomia privata, non quelli promananti da una autorità, nell’esercizio del potere dalla legge attribuitole»(38).
A conclusioni diverse non ci sembra sia possibile pervenire anche ove si ammetta che la trascrizione del vincolo di destinazione abbia valore dichiarativo (condizionando l’opponibilità ai terzi del vincolo, comunque già efficace inter partes)(39) e, soprattutto, assumendo che l’art. 2645 c.c. costituisca norma di completamento, oltre che dell’art. 2643 c.c., anche dell’art. 2645-ter c.c.(40) , di modo che, suo tramite, potrebbe procedersi, ipoteticamente, alla trascrizione di un provvedimento giudiziale produttivo dei medesimi effetti giuridici che scaturiscono dall’atto di destinazione. A nostro avviso, infatti, in assenza di qualsiasi base normativa, non è comunque configurabile un potere del giudice di costituire un vincolo sui beni di proprietà dei coniugi.
4. La destinazione nelle unioni di fatto
Pacificamente si ritiene che l’atto di destinazione possa essere utilizzato per regolamentare i rapporti economici che emergono all’interno delle unioni di fatto, vincolando beni determinati al mantenimento del convivente, durante il rapporto, alla sua cessazione ed, eventualmente, in caso di premorienza. Il mantenimento del convivente e le attribuzioni compiute in favore del convivente debole al termine del rapporto, pur non costituendo obblighi giuridici, integrano doveri morali, il cui adempimento è certamente meritevole. Ed anzi, l’art. 64 L.fall. rende esenti dalla sanzione dell’inefficacia di diritto gli atti compiuti in adempimento di un dovere morale, in considerazione della particolare finalità etica che, attraverso essi, viene perseguita, valori ritenuti prevalenti rispetto all’interesse di natura meramente patrimoniale dei creditori. Più in generale, tale funzione rende siffatti atti non assoggettabili alla revocatoria fallimentare e ordinaria.
Del resto la convivenza ha assunto meritevolezza costituzionale, dato che le unioni di fatto vengono pacificamente ricondotte tra le formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost., all’interno delle quali l’individuo svolge la propria personalità, e l’atto di destinazione può avere, in quest’ambito, «ampio spazio applicativo per le potenzialità di tutela e rafforzamento di valori costituzionalmente significativi»(41). Tali principi, a nostro avviso, prescindono dal sesso dei conviventi, riguardando anche le unioni di fatto tra persone omosessuali.
Pur non potendo i conviventi accedere al fondo patrimoniale, che notoriamente presuppone l’esistenza del matrimonio, secondo un autore le norme inderogabili che caratterizzano tale fattispecie tipica dovrebbero essere applicate analogicamente anche all’atto di destinazione costituito nell’ambito della famiglia di fatto(42).
A nostro avviso, tuttavia, non vi è motivo di effettuare questo travaso di norme, giacché le unioni di fatto non sono in alcun modo assimilabili alla famiglia fondata sul matrimonio: le prime sono improntate a criteri d’assoluta libertà, mentre i diritti e gli obblighi che il matrimonio pone a carico dei coniugi giustificano una diversa disciplina dei loro rapporti patrimoniali, incentrata sul criterio della responsabilità.
L’atto di destinazione dovrà indicare i beneficiari del vincolo (il convivente, i figli di entrambi o quelli nati da precedenti rapporti), eventualmente per relationem, indicando i futuri componenti di uno specifico nucleo familiare (i nascituri), non essendo possibile fare mero riferimento alla famiglia di fatto, essendo tale formazione sociale priva dell’«elemento formale ed unificante che consente l’immediato riconoscimento di tutti i suoi componenti presenti o futuri rispetto al momento genetico di un qualunque atto d’autonomia che possa riguardarli»(43).
5. Il vincolo nell’interesse del disabile e dell’incapace
La tutela delle persone disabili, espressamente considerata dall’art. 2645-ter c.c., deve certamente considerarsi meritevole e può essere posta alla base di un atto di destinazione. Del resto la tutela di tali soggetti - unitamente al mantenimento, all’istruzione e al sostegno economico dei discendenti privi di mezzi adeguati di sostentamento - costituiva una delle tassative ipotesi in cui era consentita la creazione di un vincolo destinatorio secondo l’art. 1 dei progetti di legge nn. 3972 e 5414, presentati alla Camera dei Deputati nella XIV legislatura, rispettivamente il 14 maggio 2003 e il 10 novembre 2004, che costituiscono gli antecedenti storici della nuova norma codicistica.
Ragionevolmente devono ritenersi parimenti meritevoli gli atti di destinazione posti in essere nell’interesse di soggetti incapaci. In tale categoria di soggetti possono ricomprendersi, a nostro avviso, non soltanto coloro che sono sottoposti ad una limitazione della capacità di agire (interdetti, inabilitati e beneficiari dell’amministrazione di sostegno), ma anche gli incapaci naturali affetti da malattie in grado di influire sull’autodeterminazione della persona, adeguatamente certificate. Si pensi, ad esempio, all’epilessia, a determinate forme invalidanti o a taluni processi degenerativi tipici della vecchiaia (morbo di Alzheimer, arteriosclerosi, demenza senile, ecc.). La protezione di tali soggetti deboli deve ritenersi certamente meritevole ai sensi dell’art. 2645-ter c.c., sussistendo le medesime esigenze di tutela che hanno giustificato l’espressa considerazione dei disabili.
Ben diverso è il problema se un soggetto incapace possa vincolare i propri beni mediante un atto di destinazione, nel proprio esclusivo interesse. La dottrina risponde negativamente, sia perché l’art. 2645-ter c.c. non consente l’autodestinazione, sia perché verrebbero in tal modo eluse «le norme che demandano all’autorità giudiziaria il controllo sulla gestione dei beni dell’incapace»(44) , a meno che il gestore non sia sottoposto ai medesimi controlli e alle medesime autorizzazioni giudiziali previste in ipotesi di interdizione, inabilitazione e amministrazione di sostegno.
Ulteriore problema è quello se, pur in assenza di una specifica disposizione che lo consenta, sia possibile vincolare i beni dell’incapace attraverso un provvedimento giudiziale, nell’esercizio dei generali poteri di intervento a tutela degli incapaci che la legge riconosce all’autorità giudiziaria. A nostro avviso al quesito deve essere data soluzione negativa, sia per l’impossibilità di un’autodestinazione, cui sostanzialmente darebbe vita un provvedimento siffatto, sia per la rilevata efficacia costitutiva della trascrizione dell’atto di destinazione, ai fini dell’insorgenza del vincolo oltre che dell’effetto della separazione patrimoniale. Indipendentemente dal fatto che l’art. 2645-ter c.c. pone alla base del vincolo di destinazione un negozio giuridico, sarebbe, invero, poco plausibile che l’insorgenza di un vincolo di destinazione, imposto dall’autorità giudiziaria, possa essere condizionata dall’assolvimento di un onere pubblicitario.
Una sentenza di merito(45) ha, peraltro, ritenuto trascrivibile, ai sensi dell’art. 2645-ter c.c., un decreto del giudice tutelare che, nel dichiarare aperta una procedura di amministrazione di sostegno, aveva interdetto al soggetto sottoposto alla procedura il compimento di atti di disposizione della proprietà di un immobile, adibito alla sua abitazione. Ciò ravvisando la necessità di «adeguare» il sistema codicistico, affiancando «al tradizionale sistema» di tutela del beneficiario, «c.d. patologico», esperibile ex post, attraverso l’annullamento degli atti eventualmente posti in essere «in violazione delle disposizioni di legge o di quelle contenute nel decreto che istituisce l’amministrazione di sostegno» (art. 412 c.c.), «una nuova forma di tutela … fisiologica e preventiva», che l’art. 2645-ter c.c. consentirebbe.
Tale provvedimento è stato però criticato dalla dottrina. Indipendentemente dalla possibilità di porre, quale fonte della destinazione, un provvedimento giudiziale, è certo che l’art. 2645-ter c.c. si limita a disciplinare l’opponibilità ai terzi di un vincolo di destinazione, comportante separazione patrimoniale, attraverso la trascrizione, senza dettare alcuna specifica regola di indisponibilità dei beni destinati. In mancanza di espressa disposizione normativa, che deroghi il principio della libera circolazione dei beni, deve escludersi che l’opponibilità del vincolo di destinazione, nei confronti dei terzi, possa determinare anche «l’invalidità o l’inefficacia dell’atto dispositivo»(46). Come è stato rilevato dalla dottrina più attenta, trova applicazione «il principio generale che stabilisce che l’opponibilità del vincolo ai terzi acquirenti significa solamente, non la paralizzazione della circolazione, ma la circolazione del bene con il vincolo»(47). In altri termini, «nell’atto di destinazione disciplinato dall’art. 2645-ter, il bene oggetto del vincolo è liberamente alienabile, ma l’alienazione comporta l’ambulatorietà del vincolo» (res transit cum onere suo)(48).
Ed anche ove il vincolo fosse rafforzato dalla previsione di una clausola di inalienabilità dei beni destinati, ai sensi dell’art. 1379 c.c., ci troveremmo in presenza di una tutela meramente obbligatoria e non di tipo reale, affidata a rimedi risarcitori, giacché l’eventuale trascrizione di una siffatta clausola, in assenza di una norma che espressamente la prevede, non ne determinerebbe l’opponibilità ai terzi, giacché il sistema della trascrizione - secondo l’opinione a nostro avviso preferibile - è chiuso e dominato dalla tipicità(49).
Alla luce di tali considerazioni, la trascrizione, ai sensi dell’art. 2645-ter c.c., di un provvedimento giudiziale, quale quello pronunciato dalla richiamata sentenza di merito, che non costituisce un vincolo di destinazione ma impone un divieto di disposizione, non rende opponibile alcunché ai terzi, indipendentemente dalla natura dell’atto trascritto. Cosicché, nonostante la disposta trascrizione, la salvaguardia dei diritti del beneficiario della procedura di amministrazione di sostegno non può che essere affidata al rimedio previsto dall’art. 412 c.c. e la nuova «forma di tutela fisiologica e preventiva», individuata dalla corte d’appello di Roma, in realtà non tutela alcunché.
(1) Cfr. F. GAZZONI, La trascrizione degli atti e delle sentenze, in Trattato della trascrizione diretto da E. Gabrielli - F. Gazzoni, II, Milano, 2012, p. 182.; A. DE DONATO, Il negozio di destinazione nel sistema delle successioni a causa di morte, in AA.VV., La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile a cura di M. Bianca, Milano, 2007, p. 42.
(2) Cass. 5 marzo 2013, n. 5385, in Guida al dir., 2013, 13, p. 56.
(3) In senso favorevole, cfr. A. DE DONATO, op. cit., p. 45 e ss. In senso contrario, si vedano, da ultimo, S. NARDI, Testamento e rapporto contrattuale, Roma, 2012, p. 123 e ss., e Trib. Roma, 18 maggio 2013, n. 10975.
(4) Trib. Reggio Emilia, 22 giugno 2012, in Trusts, 2013, p. 57 e ss.; Trib. Trieste, 7 aprile 2007, in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, p. 524; Trib. Reggio Emilia, 26 marzo 2007, in Riv. dir. civ., 2008, II, p. 451, con nota di A. MORACE PINELLI, «Tipicità dell’atto di destinazione ed alcuni aspetti della sua disciplina».
(5) F. GAZZONI, op. ult. cit., p. 183; P. SPADA, Conclusioni, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 201; M. BIANCA, Novità e continuità dell’atto negoziale di destinazione, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 32 e ss.; M. D’ERRICO, La trascrizione del vincolo di destinazione nell’art. 2645-ter c.c.: prime riflessioni, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 123.
(6) F. GAZZONI, «Osservazioni sull’art. 2645-ter c.c.», in Giust. civ., 2006, I, 173.
(7) M. BIANCA, Destinazioni patrimoniali e attuazione del vincolo, in Le nuove forme di organizzazione del patrimonio, a cura di G. Doria, Torino, 2010, p. 51. Più in generale, sul punto, della stessa autrice, cfr. «Il nuovo art. 2645- ter c.c. Notazioni a margine di un provvedimento del giudice tavolare di Trieste», in Giust. civ., 2006, II, 1p. 89.
(8) G.A.M. TRIMARCHI, «Negozio di destinazione nell’ambito familiare e nella famiglia di fatto», in Notariato, 2009, p. 438; M. CEOLIN, «Il punto sull’art. 2645-ter a cinque anni dalla sua introduzione», in Nuova giur. civ. comm., 2011, II, p. 376; S. MEUCCI, La destinazione di beni tra atto e rimedi, Milano, 2009, p. 223.
(9) R. QUADRI, «L’art. 2645-ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione», in Contr. e impr., 2006, p. 1756 e ss.
(10) T. AULETTA, «Riflessioni sul fondo patrimoniale», in Fam. pers. succ., 2012, p. 334 e ss.
(11) Così G.A.M. TRIMARCHI, op. cit., p. 439.
(12) Sulla concezione pubblicistica del diritto di famiglia, cfr. A MORACE PINELLI, La crisi coniugale tra separazione e divorzio, Milano, 2001, p. 60 e ss. ed ivi ulteriori riferimenti.
(13) Si legge nella Relazione al Re, n. 111: «L’istituto tende ad assicurare la prosperità di una famiglia che sorge, mira a provvedere ai bisogni dei figli, dei quali si ignora il numero, per un periodo di tempo non preventivamente determinabile».
(14) Relazione al Re, n. 110.
(15) Relazione al Re, n. 110.
(16) Così M. BIANCA, Commento all’art. 167 c.c., in Commentario breve al diritto di famiglia a cura di A. Zaccaria, p. 458 e, soprattutto, cfr., della stessa autrice, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova, 1996, 48.
(17) Per un’ampia rassegna di giurisprudenza, cfr. V. BELLOMIA, «La tutela dei bisogni della famiglia, tra fondo patrimoniale e atti di destinazione», § 2, in corso di pubblicazione in Dir. fam., 2013.
(18) Cfr., da ultimo, Trib. Milano, 29 aprile 2010, in Fam. e dir., 2011, p. 53.
(19) Cfr. T. AULETTA, op. ult. cit., p. 333, e, in giurisprudenza, Trib. minorenni Venezia, 7 febbraio 2001, in Riv. not., 2001, 1189.
(20) M. BIANCA, «L’atto di destinazione: problemi applicativi», in Riv. not., 2006, p. 1183; G. DE NOVA, «Esegesi dell’art. 2645-ter c.c.», in Atti notarili di destinazione di beni: art. 2645-ter c.c., Atti del convegno di Milano del 19 giugno 2006, in www.scuoladinotariatodellalombardia.org.
(21) Cfr. R. SACCO, Commento all’art. 162 c.c., in Commentario al diritto italiano della famiglia a cura di G. Cian - G. Oppo - A. Trabucchi, III, Padova, 1992, p. 21.
(22) Per la ricostruzione della problematica, cfr. S. PATTI, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Trattato Zatti, III, Milano, 2002, p. 7 e ss.
(23) E. ROPPO, Convenzionali matrimoniali, in Enc. giur. Treccani, IX, Roma, 1988, p. 2 e ss.
(24) C.M. BIANCA, Diritto civile, II, La famiglia. Le successioni, Milano, 2001, p. 76 e 144, ove l’illustre Maestro, esaminando l’art. 161 c.c., osserva che «il recepimento di norme straniere o di usi non può comunque andare oltre determinate deroghe ai regimi tipici, non essendo consentito ai privati creare nuovi regimi patrimoniali».
(25) E. RUSSO, L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, in Le convenzioni matrimoniali ed altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983, p. 155 e ss., p. 181 e ss., p. 190 e ss.
(26) G. CIAN - G. CASAROTTO, Fondo patrimoniale della famiglia, in App. noviss. Dig. it., III, Torino, 1980, p. 832 e ss.
(27) T. AULETTA, Il fondo patrimoniale, Milano, 1990, p. 100 e ss.
(28) G. OPPO, «Autonomia negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi», in Riv. dir. civ., 1997, I, p. 22.
(29) A. FALZEA, «Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia», in Riv. dir. civ., 1977, I, p. 627 e ss.
(30) Sul punto, cfr. A. MORACE PINELLI, Interesse della famiglia e tutela dei creditori, Milano, 2003, p. 1 e ss.
(31) Tale criticabile principio è stato affermato da Trib. Reggio Emilia, 22 giugno 2012, cit., sull’erroneo presupposto che l’art. 2645-ter c.c. costituisca norma sugli effetti.
(32) L. GATT, «Convenzioni matrimoniali: verso il superamento dell’orientamento dominante della Cassazione, in Fam., persone e successioni», 2009, p. 910 e ss.
(33) A. FALZEA, op. cit., p. 609.
(34) Così R. SACCO, op. cit., p. 26.
(35) G. GABRIELLI, Commento all’art. 162 c.c., in Commentario al codice civile diretto da P. Cendon, I, Torino, 1991, p. 444.
(36) Cfr. M. DOGLIOTTI - F. PICCALUGA, I trust nella crisi della famiglia, in Il trust nel diritto delle persone e della famiglia a cura di M. Dogliotti - A. Braun, Milano, 2003, p. 138.
(37) Cfr., da ultimo, App. Bari, 14 novembre 1984, in Giur. it., 1985, I, 2, p. 488, con nota di L. BARBIERA, «Tendenze riduttive del criterio assistenziale nell’assegno di divorzio».
(38) G. GABRIELLI, «Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei Registri immobiliari», in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 324.
(39) Secondo tale opinione, occorre distinguere i due profili effettuali. La trascrizione dell’atto di destinazione avrebbe valore per un verso dichiarativo e per un verso costitutivo. Cfr. A. ZACCARIA - S. TROIANO, Gli effetti della trascrizione, Torino, 2008, p. 192.
(40) M. BIANCA - M. D’ERRICO - A. DE DONATO - C. PRIORE, L’atto notarile di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, Milano, 2006, p. 57 e ss.
(41) G.A.M. TRIMARCHI, op. cit., p. 436.
(42) R. QUADRI, op. cit., p. 1757.
(43) G.A.M. TRIMARCHI, op. cit., p. 437.
(44) R. QUADRI, op. cit., p. 1755.
(45) App. Roma, 19 gennaio 2009, in Riv. dir. civ., 2009, II, p. 495, con nota di A. MORACE PINELLI, «Trascrizione degli atti negoziali di destinazione e amministrazione di sostegno».
(46) M. BIANCA, Vincoli di destinazione del patrimonio, in Enc. giur. Treccani, XV aggiornamento, Roma, 2007, p. 7; ID., «L’atto di destinazione ...», cit., p. 1189.
(47) Cfr. M. BIANCA, Vincoli di destinazione …, cit., p. 7.
(48) M. BIANCA, «Trustee e figure affini nel diritto italiano», in Riv. not., 2009, p. 581.
(49) F. GAZZONI, «Il cammello, la cruna dell’ago e la trascrizione del trust», in Rass. dir. civ., 2003, I, 957; ID., «Il cammello, il leone, il fanciullo e la trascrizione del trust», in Riv. not., 2002, p. 1118.
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