Gli atti di destinazione e l’attività di impresa
- capitolo IX -
Gli atti di destinazione e l’attività di impresa
di Marco Maltoni
Notaio in Forlì

1. Premessa. Il metodo di indagine proposto, a quesiti e risposte

Con sempre maggior assiduità si sollecita l’impiego atti di destinazione al servizio dell’attività di impresa.
Le cronache giudiziarie segnalano il frequente ricorso al trust come strumento di ausilio per la soluzione di crisi di impresa, e la stessa prassi interpretativa ne evidenzia le potenzialità a tal fine(1).
Anche la destinazione ex art. 2645-ter c.c. ha fatto la sua comparsa nell’agone delle procedure concorsuali, seppur in misura apparentemente più circoscritta, forse per i limiti oggettivi che la connotano, non essendo capace di accogliere entità diverse dai beni immobili e dai beni mobili registrati. Nei due casi noti di impiego, a supporto di iniziative concordatarie, «al fine di evitare che l’aggressione disordinata del patrimonio dell’impresa in crisi potesse comportare una dispersione di valore che danneggiasse i creditori ed impedisse un’equa distribuzione degli effetti dell’insolvenza», la giurisprudenza si è espressa in maniera contrastante, nell’uno considerando la destinazione ex art. 2645-ter c.c. soluzione degna di riconoscimento da parte dell’ordinamento(2), nell’altro fulminandola con la declaratoria di nullità(3).
Il tema della compatibilità dell’atto di destinazione con l’esercizio dell’attività di impresa non è nuovo: la dottrina ha già avuto modo di soffermarsi, seppur con diversi accenti, sulla questione, e sembra pervenuta a conclusioni non concordi, anche per la disomogeneità delle premesse assunte da ogni interprete in ordine alla configurazione dell’atto di destinazione.
Sia detto in proposito che vale per il sottoscritto quanto da altri autorevolmente notato, con il consueto acume: ovvero che «è sempre singolare vedere il pensiero giuridico in difficoltà a dominare una sua creatura; eppure l’istituto della destinazione patrimoniale atipica genera notevoli imbarazzi in dottrina. In eguale imbarazzo, come tutti sanno si trovò anche il dottor Frankestein. In quel caso è ragionevole credere che ciò sia stato per aver con pezzi eterogenei cucito un corpo senz’anima. In questo?
Anche l’art. 2645-ter c.c. rischia di essere un corpo senz’anima. I molti pezzi che lo compongono, l’atto pubblico, i beni registrati, il termine temporale, l’identikit dei beneficiari, la meritevolezza degli interessi, il vincolo di destinazione, la trascrizione, l’opponibilità, la legittimazione assoluta, la relativa indisponibilità, la limitazione della responsabilità patrimoniale, di per sé non arrivano a illuminarlo. Come l’infelice creatura letteraria, non potrà agire se in lui non si riveli la scintilla della ragione, che accende gli esseri con i quali esso vorrebbe convivere: la fondazione, il fondo patrimoniale, il fondo pensioni, il patrimonio dedicato ad un affare, il negozio fiduciario, il trust»(4).
Attese le premesse, è doveroso dichiarare fin da subito lo strumentario interpretativo di cui mi servirò per studiare la questione del rapporto che può instaurarsi fra atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e attività di impresa.
Sul piano della definizione della fisionomia giuridica del primo, le riflessioni seguenti assumeranno come punti cardinali le scelte interpretative espresse nello studio n. 357-2012/C della Commissione Studi Civilistici del Consiglio Nazionale del Notariato, approvato in data 20 luglio 2012.
Dunque, si muoverà dalla convinta adesione alla tesi per la quale:
i. l’art. 2645-ter c.c. sembra conferire «cittadinanza ad una figura giuridica … di carattere generale dell’atto di destinazione», che si aggiunge alle varie ipotesi di destinazione giuridicamente rilevante di uno o più beni ad una determinata funzione (fondo patrimoniale, azienda, patrimoni destinati …);
ii. qualora vi sia un istituto tipico che consenta il medesimo effetto destinatorio o comunque l’ordinamento già attribuisca rilevanza alla destinazione impressa a determinati beni, è assai dubbio che l’autonomia privata possa ricorrere all’atto di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c., che finirebbe per alterare gli equilibri fra interessi contrapposti fissati dal legislatore con la disciplina tipica;
iii. è connaturale alla struttura ed alla funzione dell’atto di destinazione l’altruità dell’interesse che si intende soddisfare, essendo dubbio, tuttavia, se l’altruità debba essere rapportata alla persona del destinante o del gestore (con la conseguenza che sarebbe possibile trasferire ad altri un bene perché lo destini al perseguimento di un interesse del disponente, certamente essendo per tutti inammissibile l’identificazione in un unico soggetto delle qualità di destinante, gestore e beneficiario).
Sul piano del metodo di indagine, la trattazione verrà articolata su quesiti puntuali, adottando quindi una modalità conoscitiva ed espositiva che, sebbene inelegante, consente di ridurre il problema, frantumandolo, a dimensioni per lo scrivente più accettabili. Mi chiederò, quindi, in prima battuta:
- l’imprenditore individuale può costituire un vincolo ex art. 2645-ter c.c. su taluni suoi beni, al fine di destinarli all’esercizio della sua attività di impresa?
- una società può organizzare il suo patrimonio costituendo un vincolo di destinazione su taluni suoi beni per esercitare attività di impresa?
- una società può costituire un vincolo di destinazione su taluni suoi beni nell’interesse altrui? Dalle risposte che si riuscirà ad offrire ai quesiti esposti si tenterà di trarre alcuni corollari più generali.

2. L’imprenditore individuale può destinare, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2645-ter c.c., propri beni all’esercizio della sua attività di impresa?

Muovendo dai presupposti interpretativi dichiarati, mi pare che la risposta non possa che essere negativa, per una pluralità di ragioni.
Innanzitutto, “l’impresa implica sempre una destinazione patrimoniale”, a cui l’ordinamento, a determinati effetti, ascrive rilevanza, innanzitutto sul piano della disciplina della circolazione dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, e poi, ulteriormente, insieme ad altri antecedenti, sul piano della “attivazione di regimi della garanzia generica divergenti rispetto al diritto comune” (art. 186 c.c. e art. 190 c.c.) e sul piano del regime distributivo dei beni acquistati durante il matrimonio (art. 178 c.c.)(5).
Alla destinazione a servizio di un’iniziativa imprenditoriale non è connesso alcun effetto di separazione tra patrimonio aziendale e rimanente parte del patrimonio dell’imprenditore (emblematico in proposito l’art. 2217 c.c., ai sensi del quale l’inventario, da redigersi all’inizio dell’esercizio dell’impresa e successivamente ogni anno, deve contenere la valutazione non solo delle attività e passività relative al’impresa, ma anche «delle attività e passività dell’imprenditore estranee alla medesima»), alcun effetto segregativo, dunque alcun effetto sul piano della garanzia patrimoniale; né ad essa è ascritto, normativamente, carattere di stabilità, potendo l’imprenditore distrarre a suo piacimento i beni dalla funzionalizzazione aziendale.
Mi pare che l’opzione di politica legislativa in tal senso sia nitida e risulti ulteriormente suffragata dall’introduzione della società di capitali unipersonale come modello organizzativo al servizio dell’esercizio individuale dell’impresa in regime di responsabilità limitata. È noto, infatti, che sarebbe stato ben possibile percorrere altre vie, fino ad introdurre l’impresa individuale a responsabilità limitata, come consentito dalla XII direttiva (il cui art. 7 ammette «a favore degli imprenditori unici, la costituzione di un’impresa con responsabilità limitata ad un patrimonio destinato ad una determinata attività, purché per questo tipo di impresa siano previste garanzie equivalenti a quelle imposte dal diritto comunitario alle società cui si applica la presente direttiva»), sull’esempio del modello portoghese e, più di recente, dell’esperienza francese(6). Si è invece confermata la scelta di consentire la specializzazione del ceto creditorio per effetto della destinazione al servizio di un’iniziativa imprenditoriale solo ricorrendo alla «destinazione entificata»(7).
Il che mi pare precluda all’autonomia privata la possibilità di battere vie diverse, mediante la destinazione patrimoniale di cui all’art. 2645-ter c.c., in violazione della stessa XII direttiva, che pretende che in ogni caso siano assicurate ai terzi garanzie equivalenti a quelle imposte dal diritto comunitario alle società con unico socio.
Vi è carenza di meritevolezza, se non addirittura di liceità, dello scopo perseguito(8).
Ulteriormente, in senso negativo sembra potersi addurre che l’atto di destinazione è meritevole se lo scopo perseguito è volto a soddisfare un interesse altrui(9). La destinazione al servizio della propria attività di impresa mira, al contrario, a soddisfare un interesse del disponente medesimo, quale destinatario finale dei risultati dell’attività esercitata con i beni destinati: anche sotto tale profilo non sembra pertanto meritevole e quindi opponibile ai terzi(10) (11).

3. Una società può organizzare il suo patrimonio costituendo un vincolo di destinazione su taluni suoi beni per esercitare attività di impresa?

Per le stesse ragioni sembra assai sospetta la possibilità di avvalersi dell’atto di destinazione per provocare separazioni nel patrimonio di una società, con conseguente selezione dei creditori.
Come noto, per conseguire tale scopo l’ordinamento già consegna agli operatori l’istituto del patrimonio destinato ad uno specifico affare (art. 2447-bis c.c.).
Secondo parte della dottrina tale figura è indice del giudizio positivo dell’ordinamento per la destinazione di beni per finalità imprenditoriali, e sembra quindi concedere un’apertura anche ad atti di destinazione atipici volti a perseguire finalità consonanti, nel rispetto delle norme imperative che disciplinano il patrimonio destinato codificato.
Seguendo tale direttrice interpretativa, taluno legittima cautamente la separazione del patrimonio sociale anche di una società a responsabilità limitata, avvalendosi dell’atto di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c., nei limiti entro i quali è concesso ad una società per azioni costituire un patrimonio destinato ex artt. 2447 e c.c., ovvero nel limite del dieci per cento del patrimonio netto, «e più in generale nel pieno rispetto dei principi posti dal legislatore nella disciplina del patrimonio destinato ad uno specifico affare»(12).
La tesi non convince.
In primo luogo, non sembra ascrivibile particolare valore interpretativo all’argomento della meritevolezza funzionale.
Come già rilevato, l’iniziativa economica postula una destinazione di beni, a cui l’ordinamento attribuisce rilevanza: come autorevolmente rammentato, «la destinazione a servizio di un’iniziativa collettiva ha sempre comportato una più o meno marcata separazione tra patrimonio aziendale e patrimoni domestici dei destinanti», sebbene atteggiata dalla legge come attribuzione, «postulandosi un “ente di scopo” al quale la cosa destinata è attribuita»(13).
Il problema non è l’an, ma il quomodo; non se la destinazione di beni all’esercizio dell’impresa sia meritevole (quesito a cui si deve offrire risposta certamente affermativa), ma quali siano le modalità tramite le quali è legittimamente attuabile.
Sul piano funzionale il patrimonio destinato ex art. 2447-bis c.c. è pacificamente inteso come strumento di organizzazione alternativo alla società uni personale, costituita mediante conferimento o mediate scissione(14).
Il dato suggerisce una riflessione. Società e patrimonio destinato ex art. 2447 c.c. rappresentano tecniche alternative di attuazione di un’identica destinazione (esercizio dell’attività di impresa), per la soddisfazione del medesimo interesse (in ultima istanza, quello dei soci investitori).
L’equivalenza funzionale suggerisce allora di non trascurare un corollario interpretativo che ne potrebbe discendere: se l’art. 2249 c.c. afferma il principio di tipicità delle società, precludendo all’autonomia privata la facoltà di creare modelli organizzativi dell’attività di impresa eccentrici, a tutela degli interessi dei terzi, inevitabilmente coinvolti, lo stesso principio, per le medesime ragioni, dovrebbe valere anche rispetto alle destinazioni imprenditoriali non entificate.
In altri termini, avendo presente l’esigenza di tutela dei terzi, sembra arduo consentire che l’attività di impresa possa essere svolta avvalendosi di uno schema “aperto” come l’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c.
In definitiva è un problema di disciplina, quindi di regole. Su questo piano si rileva che:
i. la possibilità di avvalersi patrimoni destinati è concessa, sul piano normativo, alla sola società per azioni;
ii. il ricorso a tale modello organizzativo dell’affare è circondato da una serie di cautele, che si traducono in altrettante norme imperative;
iii. l’opponibilità della segregazione ai creditori sociali (e ai terzi) è subordinata all’attuazione della pubblicità della delibera istitutiva nel registro delle imprese (artt. 2447-quater c.c. e 2447- quinquies, primo comma, c.c.);
iv. qualora nel patrimonio destinato siano compresi beni immobili o beni mobili registrati, si richiede ulteriormente la trascrizione nei rispettivi registri.
Sembra difficile perorare l’applicazione (analogica?) del limite del dieci per cento del patrimonio netto e, in generale, dei “principi” (rectius: delle regole di soluzione dei conflitti che possono insorgere con i terzi) espressi nella disciplina contenuta negli artt. 2447-bis c.c. e ss. per concludere a favore dell’impiego della destinazione ex art. 2645-ter c.c. per perseguire fini corrispondenti a quelli dei patrimoni destinati ad uno specifico affare.
Già la scelta di circoscrivere la fruizione dello strumento all’impresa organizzata in forma di SpA esprime una valutazione puntuale del legislatore, che sembra enfatizzare la logica finanziaria dell’operazione, e quindi la coerenza con il modello azionario(15): condivisibile o meno, l’articolazione del patrimonio è consentita solo adottando tale modello, e l’autonomia privata non è autorizzata a svolgere attività di supplenza alle opzioni politiche del legislatore(16).
Al di là di tale constatazione, sembra assai arduo, già ad un mero confronto testuale, postulare la sovrapposizione/integrazione dei frammenti di disciplina contenuti nell’art. 2645-ter c.c con norme tratte da quella, ben più articolata, di cui agli art. 2447-bis e ss. c.c.
Già si potrebbe porre un problema di oggetto: la destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c. è opponibile ai terzi sono qualora sia impressa a beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri, non all’insieme di beni e rapporti che consentono lo svolgimento di un affare, che evoca chiaramente la nozione di operazione economica. L’oggetto del patrimonio destinato è diverso da quello dell’atto di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c. poiché in quest’ultimo, in ragione della sua funzione, non assume rilevanza il rapporto che lega più beni, ma rilevano solo i singoli beni in quanto tali, le utilità dei quali, atomisticamente considerati, sono dedicate al perseguimento di uno scopo puntualmente fissato.
L’atto di destinazione, in altri termini, non è schema di organizzazione (come la società o il patrimonio destinato) di attività (che qualifica il rapporto che “lega” fra loro beni di qualsiasi natura ma anche debiti, crediti, posizioni contrattuali), ma solo atto di disposizione di singoli beni, specificamente individuati, che può essere strumentale ad un’attività, alla stregua di qualsiasi altra vicenda negoziale.
Al di là di tali considerazioni, e forse per tale ragione, mi pare che emerga un problema di tutela dei terzi.
In caso di costituzione di un patrimonio destinato la linea difensiva degli stessi è attestata sul diritto di opposizione di cui all’art. 2447-quater c.c., che presuppone la pubblicità della deliberazione sociale istitutiva del patrimonio destinato. Sennonché, occorre tener presente che, per opinione dominante, il sistema della pubblicità commerciale nel registro delle imprese è informato al principio di tassatività delle iscrizioni, poiché, ai sensi dell’art. 2188 c.c., sono iscrivibili solo gli atti previsti dalla legge(17).
Il diritto di opposizione attua un rimedio preventivo, coerente con l’attività di impresa, per taluno addirittura preclusivo del successivo esercizio dell’azione revocatoria. Rimedio inscindibilmente dipendente dalla pubblicità commerciale.
Per società diverse dalle SpA non è prevista la costituzione di patrimoni destinati all’esercizio di attività di impresa; per gli atti di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c. non è prevista l’iscrivibilità nel Registro delle imprese.
Se la ratio del principio di tipicità delle iscrizioni è individuata nell’esigenza di non far gravare sui terzi l’onere di consultare il Registro delle imprese e di far sopportare loro le conseguenze che il mancato assolvimento comporta se non nei casi normativamente previsti, mi pare che manchino i presupposti per consentire, in via interpretativa, l’iscrizione nel Registro delle imprese della delibera di una Srl costitutiva di un “patrimonio destinato” tramite il medio dell’art. 2645-ter c.c. e quindi per ammettere l’impiego dell’atto di destinazione per perseguire finalità equivalenti a quelle del patrimonio destinato di cui all’art. 2447-bis c.c.
Si torna quindi al principio di tipicità delle destinazioni per l’esercizio dell’attività di impresa; o forse, più propriamente, degli schemi organizzativi dell’attività di impresa.
In definitiva, la presenza di un istituto tipico e la sua previsione nel solo ambito della disciplina della SpA pongono, a mio avviso, una decisiva pregiudiziale ostile alla possibilità di avvalersi di istituti atipici per perseguire il medesimo scopo, anche (o forse a maggior ragione) da parte di società di tipo diverso.
I dati normativi esprimono chiaramente le scelte (e le valutazioni) del legislatore in termini di compatibilità fra destinazione e (organizzazione dell’) attività di impresa ed in ordine alla soluzione dei conflitti di interessi che la segregazione patrimoniale e la conseguente selezione dei creditori genera. Conflitto - sia detto - che ricorre fra l’interesse dei soci a massimizzare a proprio vantaggio i risultati dell’attività di impresa mediante una diversa articolazione del patrimonio e l’interesse dei creditori a non subire riduzioni della garanzia patrimoniale generica su cui avevano fatto affidamento.
Ne deriva quindi, a mio avviso, che:
- non sembra superare il vaglio di meritevolezza la destinazione ex art. 2645-ter c.c. di taluni beni immobili (o mobili registrati) ad uno specifico affare, nuovo o meno, per i motivi accennati, ovvero per la ricorrenza di una fattispecie di destinazione tipica dotata di uno statuto speciale;
- non sembra trascurabile, nemmeno nella fattispecie, l’argomento ulteriore dell’irrilevanza normativa, agli effetti dell’art. 2645-ter c.c., della destinazione impressa per il perseguimento di un interesse del disponente stesso, essendo la destinazione patrimoniale ex art. 2447-bis c.c. volta non a tutelare l’interesse di alcuni creditori (che è risultato strumentale e non fine), ma a consentire lo svolgimento di un affare nell’interesse del disponente medesimo, cioè della società (e dei suoi soci), con gestione rimessa allo stesso disponente;
- la possibilità di avvalersi della destinazione concessa nell’art. 2645-ter c.c. in ambito societario passa allora attraverso l’identificazione di scopi diversi da quelli che sono astrattamente perseguibili con il patrimonio destinato ad uno specifico affare, e dalla conseguente valutazione di compatibilità di tali scopi con le caratteristiche funzionali della società (ente a scopo di lucro).

4. Prima conclusione, all’esito del tentativo di risposta ai primi due quesiti

Volendo trarre in maniera icastica un primo corollario dal confuso argomentare della pagine precedenti, proporrei la seguente conclusione: la destinazione ex art. 2645-ter c.c. può essere solo atto di cui ci si può avvalere nell’ambito dell’attività di impresa, ma non più, né diversamente, di un qualsiasi atto dispositivo, sia esso vendita, costituzione di ipoteca o anche donazione.
Niente a che a fare, quindi, non solo con la società unipersonale, ma neanche con il patrimonio destinato ad uno specifico affare ex art. 2447-bis c.c., che è pur sempre schema organizzativo dell’attività di impresa.
Ne risulta allora improprio qualsiasi tentativo di assimilazione funzionale.

5. Una società può costituire un vincolo di destinazione su taluni suoi beni?

Alla luce delle conclusione proposta diviene naturalmente consequenziale affrontare il terzo dei quesiti proposti in epigrafe.
Già la fervida immaginazione applicativa della prassi non ha mancato di dar prova di sé. Si è infatti posto il caso del socio di maggioranza di una società a responsabilità limitata il quale ha offerto alla medesima società la rinuncia ad un finanziamento da lui effettuato “in cambio” della costituzione di un vincolo di destinazione su immobili sociali a favore del figlio disabile.
Alla questione specifica, ed alla domanda generale mi pare si debba trovar soluzione e risposta applicando né più né meno le coordinate interpretative ordinarie di cui si avvale per decidere intorno alla legittimità di un qualsiasi atto dispositivo posto in essere da una società.
La fattispecie particolare può essere rubricata come negozio di scambio (quindi a titolo oneroso) a favore di terzo, come tale non foriera di problemi inusuali, anzi, a mio avviso, pienamente legittima, così come lo sarebbe la vendita o la concessione onerosa a terzi dell’usufrutto di un bene sociale(18).
Potrebbe anche accadere che i genitori, unici soci di una società, desiderino vincolare un bene sociale a favore del figlio disabile.
Si torna allora alla domanda generale, la risposta alla quale potrà essere reperita riproponendo le argomentazioni e le conclusioni di dottrina e giurisprudenza in ordine alla compatibilità fra scopo di lucro e atti gratuiti(19).
In proposito giova rammentare che la stessa via interpretativa è stata seguita allorchè si è trattato di decidere in merito alla legittimità della costituzione di un fondo patrimoniale da parte di una società, fondo patrimoniale che condivide, con l’atto ex art. 2645-ter c.c., la funzione di imprimere a singoli beni la destinazione ad uno scopo(20).
In estrema sintesi, escluso che ci si possa porre un problema di capacità della società, essendo pacificamente generale, la questione si concentra sul tema della strumentalità o meno dell’atto gratuito al perseguimento dello scopo lucrativo.
Se l’atto, per quanto gratuito, è animato da un interesse della società disponente, anche solo di immagine, l’atto è legittimo, in quanto mediatamente funzionale all’utilità sociale e quindi al perseguimento del lucro. Si propongono usualmente gli esempi di “donazioni strumentali” a scuole, ospedali, enti culturali, entri di assistenza, enti pubblici, enti religiosi.
La conclusione non muta se, anziché donare un bene, la società si “limita” a vincolarlo a tempo al perseguimento dell’interesse di uno qualunque degli stessi soggetti beneficiati(21).
Il problema si pone allora solo se, come nell’esempio prospettato, l’atto di destinazione ex art. 2645- ter c.c. non risulti essere, nemmeno indirettamente, strumentale al perseguimento dello scopo lucrativo.
Come si dice per le donazioni, non essendo un problema di capacità, tutto si riduce ad una questione di responsabilità degli amministratori, poiché nemmeno l’oggetto sociale è un limite oggi opponibile ai sensi dell’art. 2384 c.c., salvo che non si provi l’accordo fraudolento fra amministratori e terzo (che deve aver agito intenzionalmente a danno della società(22)); conclusione a cui bisogna accedere con maggior cautela qualora disponente sia una società di persone, vista la diversa lettura che usualmente si offre dell’art. 2298 c.c.(23)
Le considerazioni proposte consentono di trarre un’ulteriore corollario “di metodo”: al quesito se la società può destinare ex art. 2645-ter c.c alcuni beni immobili alla soddisfazione delle ragioni di taluni suoi creditori non si deve rispondere osservando la vicenda dalla prospettiva della compatibilità dell’atto con l’attività di impresa, o della capacità della società a disporre in tal modo di parte (singoli beni) del suo patrimonio, perché si tratta di angolo di visuale fuorviante, quindi di ragionamento inutile. Piuttosto, la legittimità della fattispecie deve essere vagliata con la lente delle regole di tutela dei creditori e di quelle che presiedono alle procedure concorsuali, seguendo la linea interpretativa anche di recente applicata in tema di analisi della compatibilità e della funzionalità del trust rispetto alle procedure concorsuali(24), questione sulla cui vicinanza a quella qui accennata non vi è bisogno di indugiare. Né più, né meno, di quello che accadrebbe rispetto agli atti posti in essere da un soggetto debitore, a prescindere dal fatto che sia ente o persona fisica, e a prescindere di quale ente sia.

6. Destinazione ex art. 2645-ter c.c. all’esercizio di un’impresa altrui?

Alla luce delle conclusioni proposte, viene da chiedersi se sia legittimo destinare, ex art. 2645-ter c.c., un bene all’esercizio dell’altrui attività di impresa.
In termini pratici il caso potrebbe essere così prospettato: un soggetto (persona fisica o ente) destina un bene immobile, di cui conserva la proprietà (destinazione auto dichiarata), al perseguimento dell’interesse altrui ad esercitare un’attività di impresa; oppure trasferisce ad altri un bene immobile gravato del vincolo di destinazione suddetto.
Ancor più precisamente, la destinazione potrebbe attuarsi sia consentendo all’imprenditore di fruire delle utilità d’uso o dei frutti del bene, sia concorrendo ad integrare le garanzie offerte dall’imprenditore medesimo ai propri creditori, che potranno avvantaggiarsi sia dei frutti del bene sia del ricavato della vendita del medesimo per soddisfare le loro ragioni.
In termini generali, non si ravvisano ragioni ostative. Peraltro, già non accade che un soggetto, persona fisica o ente, metta un suo bene o addirittura il suo patrimonio “a disposizione” dell’altrui attività di impresa prestando garanzie (ipoteche, pegni, fideiussioni)?
La questione potrebbe assumere toni diversi allorché la destinazione voglia rappresentare strumento di partecipazione all’attività (altrui) di impresa.
Potrebbe pensarsi all’atto di destinazione come strumento attuativo di un’associazione in partecipazione, visto che comunemente si annoverano fra gli apporti possibili ai sensi dell’art. 2549 c.c. le prestazioni di servizi o di garanzie(25).
Rispetto all’impresa collettiva (società), la destinazione di risorse per l’esercizio dell’attività si realizza mediante l’atto tipico denominato “conferimento”, con una disciplina propria, anche in punto di utilità (beni o diritti) che ne possono essere oggetto.
Con riferimento alle società di persone potrebbe proporsi un ragionamento analogo a quelle sopra lumeggiato, tenuto conto che i possibili oggetto di apporto nelle associazioni in partecipazione «coinciderebbero, secondo l’orientamento dominante con quelli del conferimento in società (di persone)»(26).
Se beneficiaria debba essere una SpA, è da escludere invece qualsiasi possibilità di concorrenza dell’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. al “tradizionale” atto di conferimento a capitale, poiché da un lato, se il bene rimane nella gestione altrui, vi sarebbe violazione del principio della integrale liberazione del capitale, intesa come libera disponibilità immediata del bene in capo ai gestori dell’impresa sociale(27); dall’altro l’apporto (il trasferimento della titolarità di un diritto reale) in società del bene con il vincolo di impiegarlo per l’esercizio dell’attività di impresa identificata tramite “l’oggetto sociale” significa conferirlo, perché il conferimento altro non è che destinazione di un bene a tal fine (destinazione che è atteggiata, dall’ordinamento, come attribuzione(28)).
Il ragionamento potrebbe essere diversamente articolato qualora sia individuata quale beneficiaria una società a responsabilità limitata, alla luce dell’art. 2464, sesto comma, c.c. Assimilando infatti la “gestione” del bene immobile in funzione della destinazione impressa (a favore dell’impresa) ad una prestazione d’opera o di servizio, potrebbe immaginarsi il ricorso all’atto di destinazione per ottenere partecipazioni sociali, a condizione che sia prestata la fideiussione prevista nella norma richiamata, e con la precisazione che socio può essere solo il “gestore”, e che pertanto si deve ricorrere alla destinazione auto-dichiarata.
A corollario delle suggestioni proposte si potrebbe dedurre la possibilità di ricorrere alla destinazione per sottoscrivere strumenti finanziari ex art. 2346 ultimo comma, c.c., che possono essere emessi a fronte dell’apporto di opera o servizi, sulla base di un accordo ricondotto dalla dottrina al contratto di associazione in partecipazione(29).
L’ammissibilità delle soluzioni applicative ipotizzate dipende dalla possibilità di quantificare il valore delle utilità ritraibili dalla destinazione dei beni a favore della società. Questione difficile da risolvere in astratto ed a priori, dovendo essere vagliata con riferimento alle singole fattispecie concrete a cui si intenderebbe dar vita.


(1) Si segnala in tal senso il recentissimo ed approfondito lavoro di BUSANI - FANFARA - O. MANNELLA, Trust e crisi d’impresa, Ipsoa, 2013.

(2) Trib. Lecco, 26 aprile 2012, per il quale «il vincolo di destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. non richiede un giudizio di utilità sociale degli interessi che le parti perseguono. Di conseguenza, l’utilizzo del negozio di destinazione nell’ambito di una proposta concordataria, al fine di garantire la soddisfazione proporzionale dei creditori non muniti di cause di prelazione, appare degno di riconoscimento da parte dell’ordinamento, in quanto con la trascrizione del vincolo si rende conoscibile la crisi, si preserva il patrimonio da atti di distrazione, si evita che alcuni creditori possano avvantaggiarsi dalle informazioni acquisite in virtù delle svolgimento della propria attività professionale».

(3) Trib. di Verona, 13 marzo 2012, pubblicata su IlCaso.it. Il caso richiamato è emblematico di un possibile interesse applicativo, ma il significato interpretativo della sanzione non deve essere sopravalutato, in quanto fondata sulla presunta incompatibilità dell’istituto con le regole concorsuali.

(4) A. GENTILI, Destinazioni patrimoniali, trust e tutela del disponente, in Le nuove forme di organizzazione del patrimonio a cura di G. Doria, Torino, 2010, p. 193-194.

(5) P. SPADA, Destinazioni patrimoniali ed impresa (patrimonio dell’imprenditore e patrimoni aziendali), in Le nuove forme di organizzazione del patrimonio, cit., p. 42.

(6) G.B. PORTALE, «Società a responsabilità limitata senza capitale sociale e imprenditore individuale a con “capitale destinato», in Riv. soc. 2010, p. 1237.

(7) Come definita da P. SPADA, op. cit., 43.

(8) Così anche U. LA PORTA, «L’atto di destinazione di beni allo scopo trascrivibile ai sensi dell’art. 2645-ter c.c.», in Riv. not., 2007, da Banca Dati DeJure Giuffrè. Per l’Autore, «l’interesse del disponente all’esercizio della attività di impresa individuale in regime di responsabilità limitata - astrattamente soddisfacibile attraverso un atto di destinazione reale - non può trovare risposta a mezzo del veicolo introdotto dall’art. 2645-ter c.c.: soprattutto dopo la generalizzazione della società capitalistica uni personale, l’assunzione dello schema organizzativo della produzione degli atti di impresa proprio della struttura societaria a responsabilità limitata o per azioni risulta normativamente imposta per la soddisfazione di un interesse (ad esercitare l’impresa capitalistica in regime di limitazione di responsabilità) che non può seguire via diversa per trovare soddisfazione».

(9) In tal senso, nitidamente, A. GENTILI, op. cit., p. 197, per il quale «l’autodestinazione manca di causa. Infatti, finché la fattispecie non fuoriesce in qualche modo dalla sfera del disponente, dà vita ad un irrilevante rapporto uni soggettivo in cui si varrebbe erigere ad autonoma situazione giuridica una facoltà già compresa nel potere dominicale».

(10) In tal senso, in maniera molto nitida, G. GABRIELLI, «Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei Registri immobiliari», in Riv. dir. civ., 2007, p. 231, (da Banca Dati Ipsoa), per il quale «l’inammissibilità della costituzione di vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale, a norma dell’art. 2645-ter c.c., nel caso in cui l’interesse perseguito sia esclusivamente proprio del soggetto gravato, ha una conseguenza di rilievo: la destinazione dei beni ad un’attività di impresa o ad uno specifico affare non può mai giustificare gli effetti dell’art. 2645-ter … La separazione al fine della destinazione di beni all’esercizio dell’impresa può attuarsi soltanto attraverso la costituzione di un distinto soggetto di diritti, quale è la società uni personale, in aderenza ai modelli all’uopo prescritti dalla legge (artt. 2325 comma 2 e 2462 comma 2 c.c.); la separazione al fine della destinazione di beni ad uno specifico affare è consentita, a prescindere dalla costituzione di un distinto soggetto di diritti, soltanto alle società per azioni, nel rispetto del modello all’uopo previsto dalla legge (artt. 2447-bis e ss. c.c.)».

(11) In senso contrario alla meritevolezza di un atto di destinazione posto in essere da persona fisica per finalità imprenditoriali si esprime anche R. QUADRI, «L’art. 2645-ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione», in Contr. e impr., 2006, p. 1717 (da Banca dati Ipsoa), con argomentazioni tuttavia basate sull’impossibilità di applicare norme di trasparenza come quelle imposte dalla disciplina degli atti di destinazione ad uno specifico affare (artt. 2447-bis e ss. c..c), e per il rischio di elusione che quindi ne consegue; nonché F. STEIDL, «Gli interessi riferibili ad imprese e ad altri enti», in Negozi di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, in I Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, 2007, p. 315 e ss., in particolare p. 321.

(12) Cosi R. QUADRI, op. cit., p. 23; nello stesso senso R. LENZI, «I patrimoni destinati: costituzione e dinamica dell’affare», in Riv. not., 2003, p. 543 , per il quale «l’utilizzazione dello schema generale ex art. 2645-ter c.c. consentirà quindi di ampliare l’ambito soggettivo di destinazione di beni ad uno specifico affare, consentendo l’operazione anche a società a responsabilità limitata … purché l’assetto disciplinare risolva in maniera soddisfacente le esigenze evidenziate e risolte, secondo la valutazione che ne ha fatto il legislatore, nella fattispecie legale».

(13) Esemplare in tal senso è il conferimento in società, che «pur essendo, come comportamento empiricamente osservato, una destinazione di beni a servizio di un’iniziativa collettiva - ma oggi anche individuale - è trattato come attribuzione», vale a dire è regolato dalla disciplina che presiede al trasferimento di beni o diritti fra soggetti diversi: così P. SPADA, op. cit., p. 42.

(14) Per tutti M.R. DE RITIS, La costituzione dei patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Il nuovo diritto delle società, Liber Amicorum Gian Franco Campobasso diretto da Abbadessa e Portale, Milano, 2006, p. 822 e ss.; G. PESCATORE, La funzione di garanzia dei patrimoni destinati, Milano, 2008, p. 99 e ss.; così anche P. SPADA, op. cit., 44.

(15) Così in particolare A.L. NIUTTA, Sub. art. 2447-bis, in Commentario romano al nuovo diritto delle società diretto da D’Alessandro, II, 2, 2011, p. 925.

(16) In tal senso è orientata la dottrina dominante: per tutti G. PESCATORE, op. cit., 159, ove ampi rinvii.

(17) In tal senso, ex multis, C. IBBA, Gli atti da iscrivere, in MARASÀ - IBBA, Il Registro delle imprese, Torino, 1997, p. 81.

(18) In tal senso anche, rispetto al tema della possibilità di costituire un fondo patrimoniale da parte di una società, G. TRAPANI, Studio n. 2527 del Consiglio Nazionale del Notariato «La costituzione del fondo patrimoniale da parte di una società», approvato dalla Commissione Studi Civilistici il 13 settembre 2000, nel quale si dice espressamente, rispetto al problema della strumentalità dell’atto rispetto all’oggetto sociale, che «laddove il terzo-società, come rappresentato, intenda costituire un fondo patrimoniale a favore di due coniugi, l’eventuale emersione di profili di onerosità del contratto, rende ben più semplice la prova di una siffatta correlazione. In tal ultimo caso, vigeranno le normali regole per gli atti di straordinaria amministrazione delle società, quale che sia il tipo di rispettiva appartenenza dell’ente».

(19) Sul tema, si segnala in particolare l’esaustivo Studio n. 26-2010 del Consiglio Nazionale del Notariato, estensore A. RUOTOLO, «Atti gratuiti e scopo lucrativo», approvato dalla Commissione Studi di Impresa il 15 aprile 2010, in cui ampi riferimenti dottrinali. Di recente, anche, S. SALVATORE, «Capacità di donare delle società lucrative», in Contr. e impr., 1998, p. 864 e ss.

(20) Studio n. 2527 del Consiglio Nazionale del Notariato, estensore G. TRAPANI, op. cit.

(21) In senso forse più restrittivo, ma non troppo lontano dalla presa posizione di queste pagine D.U. SANTOSUOSSO, Atti atipici di destinazione del patrimonio e patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Le nuove forme di organizzazione del patrimonio a cura di G. Doria, Torino, 2010, p. 130, per il quale «qualora l’atto benefico abbia comunque un risvolto utile nell’interesse sociale, per esempio come ritorno commerciale di immagine, o in quanto utile per i risultati concreti che ne può trarre il processo industriale … occorrerà valutare caso per caso …».

(22) In tal senso, si veda, recentemente, N. ABRIANI - P. MONTALENTI, L’amministrazione: vicende del rapporto, poteri, deleghe e invalidità delle deliberazioni, in Le società per azioni, Trattato di diritto commerciale diretto da Cottino, Padova, 2010, p. 612, i quali segnalano che la rigorosa espressione normativa sta ad indicare «che la protezione del terzo cessa soltanto in presenza di un suo comportamento doloso», inteso dalla giurisprudenza come coscienza e volontà di arrecare pregiudizio alla società».

(23) Sul tema V. BUONOCORE, Società in nome collettivo, Trattato Schlensinger, Milano, 1995, p. 158, il quale ribadisce che «la determinazione dell’oggetto sociale non comporta alcuna limitazione alla capacità della società stessa … le società rimangono capaci anche se trascendono e perfino tradiscono il loro scopo: con l’ulteriore avvertenza che tale conclusione non ha nulla a che vedere col problema dell’ambito dei poteri degli organi sociali, né con quello delle competenze a compiere gli atti che non rientrano nell’oggetto sociale». Peraltro, nelle società di persone sono opponibili ai terzi le limitazioni al potere di rappresentanza iscritte nel Registro delle imprese, e anche quelle non iscritte, se si prova che i terzi ne hanno avuto conoscenza. Agendo l’interesse sociale come limite al potere di rappresentanza, la sua violazione può essere opponibile al terzo, a differenza di quanto accade nelle società di capitali.

(24) A. BUSANI - C. FANFARA - O. MANNELLA, Trust e crisi d’impresa, Ipsoa, 2013.

(25) Per un’ampia disanima G. MIGNONE, L’associazione in partecipazione, in Commentario Schlensiger, Milano, 2008, p. 409.

(26) G. MIGNONE, op. cit., p. 409. Per tutti con riferimento alle società di persone BUONOCORE, op. cit., p. 161 e ss.

(27) Da ultimo in tal senso N. ABRIANI, I conferimenti, in Le società per azioni, Trattato di diritto commerciale diretto da Cottino, Padova, 2010, p. 140, per il quale «è necessario - e al contempo sufficiente - che la società acquisti, con il consenso del conferente, l’immediata ed effettività disponibilità del bene, sì da poterlo utilizzare e trarne tutte le utilità, senza necessità di ulteriore cooperazione da parte del socio».

(28) Cfr. P. SPADA, op. cit., p. 41.

(29) Secondo la dottrina gli apporti a fronte dell’emissione di strumenti finanziari potrebbero essere rappresentati anche da obblighi di non fare, dal consenso all’uso del nome, cose future, cose altrui, cose generiche. M. NOTARI - A. GIANNELLI, Sub. art. 2346 c.c., in Azioni, a cura di M. Notari, Commentario alla riforma delle società diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, Milano, 2008, p. 74.

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