Riflessioni sul vincolo testamentario di destinazione ex art. 2645-ter c.c.
- capitolo XI -
Riflessioni sul vincolo testamentario di destinazione ex art. 2645-ter c.c.
di Carmine Romano
Notaio in Napoli

1. Considerazioni introduttive

Oggetto di queste riflessioni è l’analisi delle possibilità operative del vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. in materia successoria. In particolare, appare interessante verificare, alla luce dei principi sottesi alla disposizione appena richiamata, se tale istituto possa trovare la propria fonte in un testamento, e, in caso di risposta affermativa, in qual misura detto vincolo possa incidere sulla regolamentazione degli interessi successori del testatore. Ove si riconoscesse una siffatta possibilità operativa, all’autonomia testamentaria si aprirebbero nuovi scenari: il programma attributivo dei beni del de cuius potrebbe essere affiancato da un programma destinatorio grazie al quale il testatore preordina le finalità in vista delle quali informare l’utilizzo dei cespiti attribuiti.
In via preliminare, giova rilevare come un’analisi finalizzata a comprendere la compatibilità tra negozio testamentario e causa destinatoria costituisca espressione di un mutato atteggiamento, che sia consentito definire culturale, in ordine ai possibili contenuti della scheda testamentaria. Per lunghi anni, infatti, il pensiero dominante riconosce all’atto di ultima volontà profili esclusivamente attributivi, da realizzare attraverso le forme tipiche dell’istituzione di erede e del legato: secondo l’interpretazione diffusa in tale temperie storico giuridica, l’articolo 587 c.c. “disegna” il profilo funzionale generico della disposizione testamentaria (l’attribuzione di sostanze del testatore), mentre la successiva norma dell’art. 588 c.c. specifica in che modo detta attribuzione possa realizzarsi, attraverso le forme della istituzione di erede e del legato. In tal modo, alla ricostruzione della funzione testamentaria in chiave attributiva fa riscontro la tipicità delle disposizioni attraverso cui detta causa si realizza. Accogliendo siffatte premesse ricostruttive, uno strumento a causa destinatoria e segregativa ben difficilmente potrebbe trovare collocazione tra le disposizioni testamentarie.
Reagendo a simili impostazioni, la dottrina più moderna riconosce all’autonomia testamentaria significati ed ambiti di maggiore ampiezza nel disciplinare gli interessi del testatore per il tempo successivo alla morte, e ciò in ragione di un’analisi sistematica che tenga conto delle diverse forme di intervento del testatore nel regolamento successorio (il pensiero va alle disposizioni divisionali, al modus, alla dispensa da imputazione, fino a giungere al controverso tema della diseredazione). L’attribuzione di sostanze del testatore costituisce, in tale rinnovata prospettiva, soltanto un tassello del più complesso mosaico funzionale realizzabile attraverso il negozio testamentario, cui viene riconosciuta l’idoneità a dettare, in senso ampio, una disciplina di interessi patrimoniali per il tempo successivo alla morte(1). Testamento in senso sostanzale è, dunque, negozio dal più ampio respiro, la cui “causa generica” è quella di consentire al testatore di regolare in vario modo i propri interessi patrimoniali(2). Un simile background dottrinale stimola l’analisi verso una verifica dei possibili contenuti della scheda testamentaria e la destinazione patrimoniale diventa uno dei temi di maggiore interesse.
Nelle pagine che seguono, l’analisi si svolgerà secondo un triplice angolo prospettico.
Comprendere se, ed in qual misura, l’autonomia testamentaria possa imporre vincoli di destinazione nella programmazione di un assetto successorio impone, in primo luogo, di volgere lo sguardo all’elaborazione dottrinale formatasi con riferimento al vincolo di destinazione costituito con atto inter vivos. È su quest’ultima ipotesi che si concentrerà, nelle considerazioni iniziali, la nostra attenzione, alla ricerca di dati, di natura strutturale e funzionale, che costituiscano il prisma attraverso il quale impostare una riflessione in ordine a possibili scenari di destinazione testamentaria. Solo una volta compreso cosa sia consentito all’autonomia negoziale allorquando il vincolo trovi titolo in un atto inter vivos, sarà possibile verificare gli ambiti di operatività della autonomia testamentaria, e ciò considerando che quello testamentario è negozio retto da un microsistema disciplinare, quello del secondo libro del codice civile, munito di coerenza sistematica, e basato su principi in parte diversi da quelli vigenti in materia contrattuale. In questa prima parte del lavoro, l’istituto sarà, invero, analizzato nei suoi aspetti essenziali, in quella che sia consentito definire la sua minima unità effettuale, rinviando a trattazioni specialistiche per ulteriori approfondimenti.
Nella seconda parte del lavoro, saranno analizzate le differenti tesi sostenute in ordine all’ammissibilità del vincolo di fonte testamentaria. Acquisito il dato della possibilità di innestare nel regolamento testamentario la previsione di un vincolo di destinazione, con gli effetti di cui all’art. 2645- ter c.c., saranno analizzate le possibili, diverse disposizioni testamentarie, frutto dei delicati equilibri nella combinazione tra disposizione attributiva jure successionis e destinazione patrimoniale. Attraverso questo percorso ricostruttivo, l’analisi ci condurrà alla terza implicazione della tematica in oggetto: la tutela dei diritti dei legittimari, e dunque la verifica dell’idoneità di un atto, munito di causa destinatoria, a ledere “posizioni riservate”.

2. L’istituto di cui all’articolo 2645-ter c.c. nei suoi tratti fisionomici essenziali

2.1. La destinazione vincolata

A norma dell’articolo 2645-ter c.c., «gli atti in forma pubblica, con i quali i beni immobili o i beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone fisiche con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322 c.c. secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato, anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915 c.c. primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».
Nonostante l’infelice collocazione della norma in materia di trascrizione, il legislatore introduce, con tale disposizione, una figura generale di atto negoziale di destinazione(3), in forza del quale uno o più beni vengono vincolati ad uno scopo, e detto vincolo, come si vedrà, risulta rafforzato da un meccanismo di separazione patrimoniale.
Ma cosa si intende per “destinazione vincolata”? Con il negozio in oggetto, il disponente prevede un utilizzo del bene orientato ad un fine specifico: si ha, pertanto, una programmazione soggettiva delle possibilità di impiego, il che si traduce nella preordinazione della proprietà ad uno scopo predeterminato. Per effetto dell’atto di destinazione, i beni subiscono un vincolo giuridico di ordine finalistico: viene selezionato un interesse, in vista del quale i beni devono essere utilizzati («i beni e i loro frutti possono essere utilizzati unicamente per la realizzazione del fine di destinazione»). Ciò comporta quella che in dottrina è stata definita «trasformazione strutturale del potere dispositivo», con il passaggio da un agire libero ad un agire funzionale. L’imposizione del vincolo obbliga al perseguimento della finalità prospettata, potendo i soggetti interessati agire contro il proprietario del bene per la sua attuazione.
A fronte del contenuto positivo dell’atto di destinazione, vi è il contenuto negativo del vincolo: il proprietario del bene vede circoscritte le facoltà di utilizzazione del bene stesso, essendogli precluse forme di utilizzo diverse da quelle funzionali allo scopo. Il vincolo, dunque, circoscrive e condiziona i poteri del soggetto proprietario, con «conseguente restrizione di carattere impeditivo imposta alla sfera di godimento e di disposizione di un bene»(4).
Invero, già prima dell’introduzione dell’art. 2645-ter c.c. l’ordinamento offriva all’interprete diversi esempi di “destinazione vincolata”: si pensi, per limitare l’attenzione solo a taluni istituti codicistici, alla disciplina delle pertinenze (art. 817 c.c.), della costituzione di servitù per destinazione del padre di famiglia (art. 1062 c.c.), al fondo patrimoniale (art. 167 c.c.), alla fondazione, (artt. 14 e ss c.c.) o ancora, alla disciplina dell’azienda (art. 2555 c.c.). Le diverse ipotesi di destinazione recepite dal nostro ordinamento presentano un dato costante: la destinazione determina l’applicazione di un particolare regime giuridico ai beni, ed in taluni casi si accompagna ad un meccanismo di separazione patrimoniale. In dottrina(5), si parla di «volontario inserimento del bene in un ordinamento», sia quello della cosa principale, dell’impresa, della famiglia, del costituendo ente. L’atto di destinazione è, dunque, tale da imprimere una determinata funzione al diritto dominicale, con conseguente mutamento nella condizione giuridica dei beni. «Carattere peculiare dell’effetto di destinazione è … quello di incidere sullo statuto dei cespiti patrimoniali in funzione del perseguimento di interessi differenti rispetto a quelli che presiedono la sua regolazione generale»(6). L’atto, nel proprio profilo funzionale, realizza una «predeterminazione di interessi e programmazione di condotte funzionali alla loro realizzazione»(7). Ne consegue una “efficacia conformativa” del negozio sui beni che ne formano oggetto(8).
I caratteri appena esposti ricorrono, invero, anche nella destinazione vincolata ai sensi dell’articolo 2645-ter c.c., con una rilevante peculiarità: nell’istituto in oggetto, il legislatore non traccia un fine specifico al quale l’utilizzo del bene venga preordinato, ma, con una disposizione di più ampio respiro, rimette all’autonomia privata la scelta degli scopi, in vista dei quali la destinazione del bene sia impressa(9). La norma si limita a richiedere che detti scopi rispondano ad interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, condizione, questa, perché il vincolo produca l’ulteriore effetto della separazione patrimoniale, opponibile ai terzi a seguito di trascrizione. Diversamente da quanto accade per gli istituti in precedenza richiamati, gli interessi - in vista dei quali la destinazione è vincolata ex art. 2645-ter c.c. - non sono preventivamente e rigorosamente selezionati dal legislatore, se non attraverso la necessità che essi siano particolarmente qualificati. Sul piano assiologico, il legislatore richiede soltanto che la destinazione sia preordinata ad un fine socialmente rilevante. Con felice espressione, in dottrina si è sottolineato come la norma offra la destinazione vincolata all’autonomia privata della solidarietà, precludendola invece all’autonomia privata dell’opportunità(10).

2.2. Il profilo effettuale

Il profilo effettuale della destinazione vincolata non si riduce, invero, alla sola programmazione di modalità di utilizzo del bene. L’imposizione del vincolo ex art. 2645-ter c.c. produce, infatti, immediate conseguenze sullo statuto giuridico dei beni stessi. Il potere conformativo del “conferente” determina una incidenza dello scopo sulla applicazione delle regole che governano il patrimonio in una duplice direzione: da un lato, la destinazione incide sulle regole di responsabilità patrimoniale, rendendo il patrimonio destinato inaggredibile dai creditori per obbligazioni estranee allo scopo («specificazione della responsabilità patrimoniale»)(11); dall’altro, il patrimonio destinato subisce limitazioni relative agli atti di disposizione(12).
Sia consentito dedicare alcune considerazioni al profilo della responsabilità patrimoniale. Il legislatore prevede testualmente che i beni vincolati possano essere oggetto di esecuzione per i soli debiti contratti nell’interesse della destinazione: si determina, pertanto, un effetto tipicamente segregativo, di separazione patrimoniale tra il cespite, oggetto di destinazione vincolata, ed il restante patrimonio del conferente. I beni destinati vengono sottratti al principio di responsabilità patrimoniale generica, essendo gli stessi esposti ad esecuzione per i soli debiti contratti in ragione della finalità cui sono preordinati. La segregazione patrimoniale è di tipo unidirezionale: i beni destinati non possono essere oggetto di esecuzione se non per debiti assunti nel perseguimento della destinazione, ma non è vera la proposizione reciproca; per la realizzazione coattiva di questi debiti possono essere, infatti, espropriati anche i beni appartenenti al patrimonio generale del destinante o del gestore, in caso di vincolo dinamico(13).
Si registra, pertanto, un’ulteriore ipotesi di separazione patrimoniale, introdotta in osservanza della riserva di legge di cui all’articolo 2740 c.c., rispetto alla quale colpisce il “profilo generale” della disposizione in commento. Come sottolineato nel precedente paragrafo, il legislatore non offre ad interpreti ed operatori del diritto una fattispecie tipica, ma si limita a riconoscere l’effetto segregativo ogni qualvolta la destinazione vincolata sia finalizzata a perseguire interessi socialmente rilevanti, che abbiano una valenza prioritaria rispetto a quelli del ceto creditorio. Proprio in ragione del profilo generale della destinazione vincolata, in dottrina(14)si è sottolineato come si imponga oggi una rilettura dell’articolo 2740 c.c. che tenga conto della evoluzione del sistema: il principio di responsabilità patrimoniale non riflette più il dogma di indivisibilità del patrimonio ma, rimanendo principio di rango costituzionale, esso si concentra sul profilo di affidamento del ceto creditorio, in un’esigenza di informare i terzi sui vincoli che possano pregiudicare la propria posizione giuridica.

2.3. Il profilo strutturale

Individuato il profilo effettuale del vincolo di destinazione, è possibile ora compiere alcune considerazioni sulla struttura del relativo atto. In argomento, giova sottolineare come la norma dell’articolo 2645-ter c.c. non imponga un modello strutturale “tipico”, non configurandosi quale “norma sulla fattispecie”. Compito dell’interprete è, pertanto, quello di individuare le strutture negoziali adeguate rispetto alla causa destinatoria.
La prevalente opinione ritiene compatibile l’effetto di destinazione, innanzi illustrato, con una duplice tipologia di vincolo: a) il vincolo “statico”, senza trasferimento della titolarità del bene (cosiddetto vincolo autodichiarato), con possibile indicazione di beneficiari di reddito o, anche, di beneficiari finali allo scadere del vincolo; b) il vincolo “dinamico”, con trasferimento della proprietà dal “conferente” ad un terzo gestore(15), cui viene affidato il compito di attuazione del disegno destinatorio.
Non è, dunque, coessenziale alla causa destinatoria una vicenda traslativa, se non quando essa si riveli strumentale alla stessa realizzazione dello scopo di destinazione. In caso di “autodestinazione” (o, anche, di vincolo “autodichiarato”), la vicenda effettuale si esaurisce nell’ambito dell’unica sfera giuridica del conferente, producendo pur sempre gli effetti tipici della destinazione, ossia la funzionalizzazione del regime di utilizzo del bene e la separazione patrimoniale: il “conferente”, cioè, viene reso titolare di distinte masse patrimoniali, senza dover ricorrere all’espediente della soggettivizzazione conseguente all’erezione di una persona giuridica(16). Il negozio di destinazione mantiene, anche in questa ipotesi, la sua particolare efficacia conformativa, cui si è fatto riferimento nelle precedenti considerazioni.
In caso di vincolo dinamico, il terzo gestore acquista una proprietà “strumentale”, conformata, finalisticamente destinata alla realizzazione dello scopo. Per quanto non espressamente prevista, la possibilità che, al fine dell’attuazione della destinazione, il bene venga trasferito al soggetto attuatore si evince dalla trama normativa dell’art. 2645-ter c.c.-. Così, il legislatore, nello stabilire che per la realizzazione dello scopo possa agire (anche) il conferente, sembra sottintendere un’ulteriore posizione giuridica, cui viene demandata l’attività di realizzazione dello scopo, e dunque una alterità soggettiva tra conferente e gestore, «non essendo ipotizzabile un’azione giudiziaria del conferente nei confronti di sé stesso»(17). La stessa terminologia utilizzata, per quanto non univoca, sembra deporre nel senso dell’ammissibilità di una attribuzione strumentale ad un gestore: parlare di “soggetto conferente” e beni “conferiti” evoca un trasferimento sotteso alla vicenda destinatoria. In tal modo, il profilo effettuale del vincolo di destinazione si avvicina a quello normalmente ascrivibile ad un trust, in una progressione triangolare che vede protagonisti autore della destinazione, attuatore, beneficiario della stessa. Rinviando alle trattazioni specialistiche sul punto, ravvisare una figura di un soggetto terzo gestore significa ritenere che lo stesso consegua una proprietà funzionale, strumentale perché finalizzata all’attuazione del vincolo.
In entrambe le fisionomie che l’istituto può assumere, statico o dinamico, il profilo genetico può essere scomposto in un momento istitutivo, attinente alla creazione del vincolo, ed un momento dispositivo, implicante la modifica della condizione giuridica dei beni del disponente, modifica che consiste nella degradazione del disponente a proprietario vincolato dei beni (vincolo statico) o nell’attribuzione ad un terzo gestore della proprietà vincolata.
Sul piano prettamente strutturale, l’orientamento prevalente in dottrina ritiene che l’imposizione del vincolo sia frutto di una volontà unilaterale(18). Si sottolinea, infatti, come «se peculiarità dell’atto di destinazione è quella di incidere sulla funzione e sullo statuto giuridico di un bene o di un patrimonio, si può concludere che esso, di per sé, pur inserito in forme negoziali complesse, non interessa la sfera giuridica di altri soggetti, diversi dal disponente: ha, perciò, struttura unilaterale»(19). La asserita unilateralità non appare, invero, lesiva né della posizione giuridica dei bene-ficiari, né di quella dei creditori anteriori alla destinazione. Quanto ai primi, questi possono sempre rinunziare al beneficio in loro favore secondo il principio invito beneficium non datur. Quanto alla posizione giuridica dei creditori anteriori alla destinazione, essi trovano tutela nella esperibilità dell’azione revocatoria, nel caso di intento fraudolento, o dell’azione di simulazione.

3. La discussa ammissibilità di un vincolo testamentario di destinazione: le diverse tesi dottrinali. La compatibilità tra il profilo funzionale dell’istituto ed il regolamento testamentario

Le considerazioni proposte nel corso del precedente paragrafo affidano alla nostra analisi importanti dati, di ordine funzionale e strutturale: a) dalla norma dell’art. 2645-ter c.c. emerge un istituto dal profilo generale, espressione dell’idoneità dell’atto di destinazione ad incidere sullo statuto proprietario dei beni, determinando una vicenda segregativa degli stessi, a condizione che il fine destinatorio risponda ad interessi meritevoli di tutela; b) sul piano strutturale, il legislatore non impone una fattispecie tipica; per opinione comune, idonea a determinare l’effetto destinatorio è la sola volontà del soggetto titolare dei beni, di talché il negozio ha, di regola, struttura unilaterale.
È giunto il momento di comprendere se una volontà destinatoria, cui riconoscere gli effetti di cui all’art. 2645-ter c.c., possa essere “calata” in una scheda testamentaria, divenendo così la vicenda destinatoria parte integrante di un programma successorio, in genere finalizzato alla sola devoluzione di sostanze del testatore.
Nel tentativo di offrire adeguata risposta a tale interrogativo, l’interprete non può non partire dal dato letterale dell’art. 2645-ter c.c.: il legislatore non menziona il testamento tra i possibili titoli costitutivi del vincolo de quo, limitandosi a prevedere che la destinazione venga effettuata «mediante un atto in forma pubblica». Nella sua laconicità, oltre al riferimento all’atto pubblico, la norma non offre particolari indicazioni strutturali, il che ha dato luogo a differenti letture in sede dottrinale.
Tra i primi interpreti della disposizione, diverse sono state le voci che si sono espresse in senso negativo, sulla base di argomenti di ordine letterale e sistematico. Sul piano letterale, nel testo dell’articolo 2645-ter c.c. sono stati individuati tre indici nel senso della inammissibilità del vincolo di destinazione di fonte testamentaria: il legislatore, nel tracciare la fattispecie destinatoria, parla di “atto pubblico”, con il quale, in vista di un «interesse meritevole di tutela … ai sensi dell’articolo 1322 secondo comma» è possibile destinare beni immobili o mobili registrati ad un fine destinatorio, per l’osservanza del quale possono agire lo stesso conferente e, anche quando questi è «ancora in vita», gli altri soggetti interessati. Atto pubblico, interesse meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., nonché il dato della legittimazione attiva in capo al conferente sono elementi che, nell’analisi di parte della dottrina, depongono in maniera univoca nel senso di una configurazione strutturale dell’atto costitutivo del vincolo di destinazione esclusivamente in termini di atto tra vivi(20).
Quanto al riferimento all’ “atto pubblico”, stride, invero, la diversa scelta normativa operata rispetto ad istituti che, con quello in oggetto, condividono una causa destinatoria “generica”, quali l’atto costitutivo di fondazione o di fondo patrimoniale: in entrambi i casi il legislatore, con scelta netta che sgombra il campo da equivoci ricostruttivi, annovera il testamento tra i possibili titoli costitutivi.
L’interesse meritevole di tutela, che segna il discrimen tra la destinazione giuridicamente rilevante (che sia tale da “conformare” lo stesso statuto proprietario dei beni) e quella giuridicamente irrilevante, costituisce dato la cui riconducibilità all’autonomia testamentaria è fortemente discussa, venendo richiamata in questa sede l’acuta dottrina che, nell’interrogarsi su profili ed ambiti dell’autonomia testamentaria, ritiene che la volontà del testatore debba soggiacere al solo giudizio di liceità, avendo scontato in origine la positiva valutazione in ordine alla meritevolezza dell’interesse del testatore a disciplinare la propria vicenda successoria(21). Il voluto testamentario, in altri termini, non subisce un controllo in termini di socialità dell’intenzione e dello scopo, bensì esclusivamente in termini di conformità a norme di legge. Si sottolinea, pertanto, come il rinvio all’articolo 1322 c.c. abbia valenza decisiva per testimoniare l’intenzione legislativa di limitare all’atto inter vivos la costituzione del vincolo destinatorio. Detta norma, infatti, è chiaramente fuori dal sistema disciplinare tracciato, per la materia successoria, dal libro II del codice civile.
Infine, il dato della legittimazione attiva, nel momento in cui riconosce al conferente nonché, «anche quando questi è ancora in vita», agli altri soggetti interessati la possibilità di agire per l’attuazione del vincolo, sembra tracciare la vicenda effettuale del vincolo di destinazione con esclusivo riferimento all’ipotesi di operatività immediata del vincolo, per la cui attuazione può attivarsi lo stesso autore del negozio, non essendo considerata l’eventualità di un differimento della destinazione ad un momento successivo alla morte del disponente.
Il convincimento in ordine alla inammissibilità di un negozio testamentario costitutivo del vincolo di destinazione si rafforza, nell’analisi di parte della dottrina, in ragione di alcune considerazioni di ordine sistematico. La collocazione della norma, dettata in materia di trascrizione e posta tra l’articolo 2645-bis c.c. relativo alla trascrizione di contratto preliminare e l’art. 2646 c.c., in tema di trascrizione del contratto di divisione, appare difficilmente spiegabile con una possibile genesi testamentaria; il legislatore non sembra affatto considerare una tale eventualità operativa, tant’è che non adegua il disposto dell’articolo 2648 c.c. in materia di trascrizione dell’accettazione di eredità o del legato(22).
In sede giurisprudenziale, viene posto l’accento sui rapporti con il principio della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c., affermandosi che la disposizione dell’art. 2645-ter c.c., in quanto norma che importa deroga a siffatto principio, sia di stretta interpretazione, «insuscettibile di un’interpretazione estensiva, oltre i limiti tracciati dalla norma»(23).
A fronte della predetta posizione negativa, progressivamente in dottrina prevale un orientamento di maggiore apertura, cui si ritiene di dover aderire, teso a considerare il testamento pubblico possibile fonte del vincolo in oggetto(24). Gli argomenti appena esposti dalla dottrina di segno contrario vengono, invero, analiticamente contestati, “punto per punto”.
Così, si sottolinea come, allorquando si parli di vincolo costituito “per atto pubblico”, ciò non valga ad escludere la forma testamentaria. L’atto pubblico, infatti, non è in antitesi con l’atto di ultima volontà, quale il testamento, ma è espressione dell’esigenza, avvertita dal legislatore, di un controllo particolarmente pregnante nella fase genetica del vincolo, che si vuole consapevole e ponderata. La vicenda effettuale, invero, presenta immediate ricadute nella sfera giuridica non solo delle parti, ma anche dei terzi (si pensi alla circolazione giuridica dei beni vincolati, o alla segregazione patrimoniale), il che ha indotto il legislatore a richiedere la forma dell’atto pubblico «quale modalità di formazione dell’atto maggiormente idonea ad assicurarne l’univocità e la pubblica fede»(25).
La complessità degli effetti, e soprattutto quelle che sia consentito definire le “esternalità” del vincolo, impongono che lo stesso sia adeguatamente conoscibile da parte dei creditori del disponente e di eventuali terzi aventi causa (requisito formale), e che esso venga costituito per un interesse meritevole di maggior tutela rispetto a quello dei medesimi creditori (requisito sostanziale o assiologico). L’attività di adeguamento e controllo, da parte del notaio, assume pertanto profili quanto mai incisivi, nel prospettare al conferente significati e conseguenze della destinazione vincolata. È questo, allora, il senso da riconoscere al riferimento all’atto pubblico, che non può perciò dirsi preclusivo del ricorso allo strumento testamentario: l’intervento notarile, infatti, ben può esplicarsi, con i medesimi significati, nel ricevere un testamento. L’atto pubblico, quale forma ad substantiam, va allora interpretato quale “atto di notaio”, che può realizzarsi nelle forme di atto tra vivi e di ultima volontà. Sia consentito notare come, in tale ultimo caso, il controllo notarile sia chiamato a proiettare l’interesse destinatorio in un assetto successorio, dovendo la destinazione realizzarsi nel tempo successivo alla morte del “conferente”.
A riprova della fondatezza di simili argomentazioni, si sottolinea l’univocità del dato normativo allorquando il legislatore abbia inteso disconoscere il testamento quale fonte di un negozio, come nel caso della costituzione di ipoteca(26).
Vengono, altresì, progressivamente contestati gli ulteriori argomenti esposti in precedenza.
La previsione di una legittimazione del conferente ad agire, per attuare il fine destinatorio, fa riferimento ad una tra le possibili vicende effettuali del vincolo, senza per questo escludere l’eventualità che, essendo la disposizione istitutiva calata in un programma testamentario, l’attuazione del fine destinatorio debba avvenire dopo la morte del conferente, nel qual caso legittimati ad agire (a tutela dell’effettiva realizzazione del vincolo) sarebbero i suoi eredi nonché “gli altri soggetti interessati”: in parte qua, pertanto, la disposizione non sembra poter escludere una efficacia del vincolo differita al momento della apertura della successione(27).
Quanto ai rapporti con la disposizione dell’art. 2740 c.c., al di là del pervicace atteggiamento giurisprudenziale, gli istituti di profilo generale introdotti negli ultimi anni dal legislatore (il riferimento va, oltre che alla fattispecie oggetto di indagine, ai patrimoni destinati ex art 2447-bis c.c., oltre che ad istituti di legislazione speciale) rendono indifferibile una rimeditazione dei rapporti tra le ipotesi di separazione patrimoniale ed il principio della responsabilità generica. Invero, continuare a costruire simili rapporti in termini di regola (art. 2740 c.c.) ed eccezioni rischia di risolversi in una prospettiva semplicistica e come tale inadeguata, in quanto non idonea ad intercettare le nuove istanze sottese alle ipotesi di separazione patrimoniale.
Melius re perpensa, al di là delle ricostruzioni di un dato normativo di per sé laconico, è soprattutto una la considerazione che si fa strada tra gli interpreti, conducendo a differenti esiti ricostruttivi. Si è detto in precedenza che la disposizione dell’art. 2645-ter c.c. non sia norma di fattispecie, non individui un tipo negoziale strutturalmente definito: essa, quale norma sostanziale, introduce una categoria giuridica (l’atto negoziale di destinazione), ma non definisce una fattispecie con pienezza di elementi di identificazione e di disciplina. L’art. 2645-ter c.c. disegna siffatta categoria giuridica principalmente intorno ad un dato funzionale; gli indici di ordine strutturale, pur presenti (atto pubblico, durata, riferibilità di interessi attraverso predefinite categorie di soggetti beneficiari), non sono tali da identificare un istituto con una sua tipicità ontologica. Della destinazione vincolata viene riconosciuta una potenziale rilevanza per il diritto, in ragione della vicenda effettuale che dall’atto trae origine, ma non emerge dal dato normativo una struttura definita. La norma, in altri termini, si limita a sancire la compatibilità con il nostro ordinamento di un effetto giuridico già noto in ipotesi tipiche(28). La stessa scelta terminologica del legislatore, “Atto di destinazione”, è indice di una precisa opzione «in favore della più estesa libertà di scelta da parte del destinante della categoria giuridica di iniziativa da adottare, in relazione alle circostanze», per concludere che «qualunque tipo di atto, che sia adatto alla finalità della destinazione allo scopo, può essere portato alla formalizzazione notarile e dal notaio munito di quella formalità aggiuntiva costituita dalla trascrizione»(29).
In ragione delle considerazioni appena esposte, a parere di chi scrive, interrogarsi sull’ammissibilità di una destinazione testamentaria non significa cedere alla tentazione di interpretazioni estensive del dato normativo: trattasi, di contro, di opzione ermeneutica in grado di valorizzare il respiro generale della destinazione vincolata, dando alla previsione normativa ogni significato che sia compatibile con il sistema.
Simile approccio ricostruttivo mina alla radice l’impianto argomentativo prodotto in ordine alla inammissibilità del vincolo testamentario di destinazione. Se, infatti, l’articolo 2645-ter c.c. non è norma sulla fattispecie, ciò significa che non c’è un paradigma legale di riferimento, sul piano strutturale, per gli atti di destinazione: la lettera della norma, allora, non preclude sforzi ricostruttivi tesi a verificare la compatibilità tra l’autonomia testamentaria e l’effetto destinatorio quale contemplato dalla disposizione in oggetto. Il che rende quanto mai stimolante l’analisi, giacché la sposta su un terreno squisitamente funzionale, essendo essa chiamata a verificare se la causa destinatoria si concili con i possibili ambiti dell’autonomia testamentaria nella predisposizione del regolamento successorio.
Nel condurre una tale verifica, occorre sottolineare un dato di primaria importanza: se l’ordinamento consente al testatore di incidere sul regime di appartenenza dei beni, attraverso il trasferimento della proprietà o la costituzione di diritti limitati sugli stessi, non si vede perché il testatore non possa incidere sul regime di utilizzazione dei beni stessi, con l’imprimere ad essi una determinata finalità. Tale convincimento risulta suffragato da una analisi del microsistema del diritto successorio, dalla quale emerge che la destinazione patrimoniale non può dirsi estranea al regolamento testamentario di interessi. Nessuno contesta, infatti, che il testatore, una volta attribuite sostanze del suo patrimonio, possa fare obbligo all’erede o al legatario di destinarle per l’attuazione di determinate finalità, attraverso una disposizione che di regola avrà natura di modus, ma che potrà altresì integrare legato allorquando il fine destinatorio sia dal testatore preordinato all’attribuzione di un diritto ad un soggetto determinato. È, inoltre, testualmente previsto che il testatore possa imprimere ai beni relitti una destinazione tipica in termini di costituzione (diretta o indiretta) di fondazione, o ancora in termini di costituzione di fondo patrimoniale, nel qual caso l’atto di destinazione determina il sorgere di conseguenze giuridicamente rilevanti sul piano dello statuto proprietario dei beni. La stessa Convenzione dell’Aja in materia di trust offre sollecitazioni nel senso della possibilità di programmare una vicenda segregativa e destinatoria attraverso lo strumento testamentario(30).
Gli indici di ordine sistematico sembrano, dunque, consentire la costituzione di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. con disposizione testamentaria.
Resta da chiarire il richiamo alla meritevolezza degli interessi, probabilmente l’argomento più complesso da affrontare. In precedenza, si è affermato che la destinazione vincolata diventi giuridicamente rilevante, implicando separazione patrimoniale, solo se sorretta da interesse meritevole. In argomento, occorre valorizzare le considerazioni compiute nella prima parte dell’analisi, ove si è detto che il potere conformativo del soggetto conferente diventa giuridicamente rilevante solo se finalizzato ad istanze socialmente rilevanti. La “cruna dell’ago” della giuridica rilevanza della destinazione è, dunque, rappresentata dalla preminenza dell’interesse destinatorio rispetto ad altre istanze in qualche modo implicate dalla vicenda in oggetto: il pensiero va, in primo luogo, all’interesse dei terzi aventi causa e del ceto creditorio. Ove l’interesse destinatorio non superi il giudizio di meritevolezza, il vincolo di destinazione, per quanto lecito, non sarà tale da determinare il sorgere del particolare statuto proprietario previsto dalla norma in oggetto; si tratterà di una destinazione valida, ma senza conseguenze in termini di obbligatorietà della destinazione e separazione patrimoniale.
Ricostruito in questi termini il dato della meritevolezza dell’interesse (quale indice di un doveroso bilanciamento delle istanze sottese alla destinazione), può affermarsi quanto segue: la volontà del testatore è libera di prevedere un vincolo di destinazione; per poter essere “calato” nella scheda testamentaria, un tale vincolo soggiace unicamente ad un giudizio di liceità. Ove poi esso persegua interessi meritevoli di tutela, quella destinazione dà luogo ad una proprietà conformata, che vede nell’obbligatorietà della destinazione e nella segregazione patrimoniale i propri tratti salienti. L’interesse meritevole di tutela è dato, sia consentito, interno alla causa destinatoria, necessario affinchè essa possa produrre l’effetto di conformazione dello statuto proprietario; tale requisito segna il discrimen tra una destinazione vincolata fine a se stessa ed una destinazione giuridicamente rilevante a fini di segregazione patrimoniale. Il testatore è libero di orientare come meglio crede il proprio programma successorio purché lecito; tuttavia, solo ove la destinazione vincolata, impressa ai beni che ne sono oggetto, sia finalizzata ad interessi riconosciuti dall’ordinamento come meritevoli, ne consegue la separazione patrimoniale. Il dato della meritevolezza dell’interesse, in questa rinnovata prospettiva, non appare incompatibile con l’eventualità che il programma destinatorio trovi il proprio profilo genetico in un negozio di ultima volontà.

4. La forma della scheda testamentaria

Affermata la legittimità di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. di fonte testamentaria, l’analisi è chiamata ora a verificare se qualsivoglia testamento si riveli idoneo allo scopo ovvero sia necessario optare per il solo testamento pubblico.
A riprova della problematicità della materia, anche il profilo formale è stato oggetto di differenti ricostruzioni dottrinali. Una prima tesi, richiamandosi al principio di equivalenza delle forme testamentarie quanto agli effetti producibili, ha affermato che il vincolo ex art. 2645-ter c.c. possa essere validamente costituito con qualsivoglia forma testamentaria, sia la scheda olografa, segreta o pubblica(31).
A supporto di simile conclusione, si adducono argomentazioni di ordine sistematico: ove si ritenesse idoneo allo scopo il solo testamento pubblico, lo stesso dovrebbe essere revocato unicamente in forma pubblica, il che costituirebbe un’ulteriore deroga alla fungibilità delle schede testamentarie. Inoltre, si afferma, per il caso di fondazione testamentaria, non si dubita che la stessa possa essere costituita, oltre che a mezzo di testamento pubblico, altresì mediante una scheda olografa.
Invero, appare preferibile ritenere che, una volta ammessa la costituzione diretta per testamento di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c., non si possa prescindere dalla forma pubblica(32), necessaria a garantire la ponderata e consapevole formazione della volontà destinatoria, il filtro di legalità che la norma richiede per l’opponibilità del vincolo, la corretta redazione delle clausole, la necessaria univocità degli effetti. Come perspicuamente notato in dottrina, «il testamento olografo non sembra poter supportare quella affidabilità richiesta nella fase genetica della formazione del vincolo di destinazione, in relazione al particolare rilievo che l’ordinamento riconosce al ministero notarile, caratterizzato da quella terzietà ed imparzialità che, esperita l’indagine della volontà del testatore e la consequenziale attività di informazione e chiarimento in ordine al contenuto precettivo ed agli effetti della disposizione testamentaria, possa conformare la stessa all’indirizzo normativo fissato dall’articolo in esame»(33).
Non può, invero, ritenersi che l’intervento notarile possa esplicarsi, con analoghi significati, nel verbale di pubblicazione di testamento olografo, formalità estrinseca al testamento, che interviene quando il voluto testamentario già si è compiutamente realizzato, con il più limitato scopo di accertare e rendere ufficiale l’esistenza di una volontà privata(34). Detto verbale non può supplire, ex post, al mancato intervento notarile nella fase genetica del vincolo: essendosi già formata la volontà del testatore nella scheda olografa, non sarebbe più possibile scongiurare un utilizzo improprio dell’istituto della destinazione vincolata(35).
Non sembri ardito, in conclusione, ritenere di dover trattare il tema della forma testamentaria in maniera non dissimile a quello della meritevolezza dell’interesse perseguito. Si è detto, nelle considerazioni che precedono, che l’art. 2645-ter c.c. non è norma di fattispecie, non offre all’interprete una struttura tipica, un modello di riferimento. Ciò nonostante, essa è norma sostanziale, in cui il legislatore “disegna” la fase genetica del vincolo di destinazione intorno a pochi dati essenziali (atto pubblico, durata, meritevolezza dell’interesse), lasciando poi che questi elementi si compongano in differenti strutture negoziali. Ebbene, se ciò è vero, nessuno dubita che il testatore possa vincolare la destinazione dei beni in una scheda testamentaria olografa, come nessuno dubita che in un testamento pubblico lo stesso testatore possa imporre destinazioni vincolate per la realizzazione di finalità che non siano meritevoli di tutela. In entrambi i casi, tuttavia, la destinazione non potrà avere conseguenze giuridicamente rilevanti, reagendo sullo statuto proprietario dei beni, e dunque non potrà tradursi in separazione patrimoniale. La norma dell’art. 2645-ter affida ad interpreti ed operatori pratici un perimetro normativo entro il quale può realizzarsi la vicenda effettuale disegnata dal legislatore: ove si esca da questo perimetro, si è usciti dalla disposizione dell’art. 2645- ter c.c. e la volontà testamentaria, beninteso lecita, non potrà sortire gli effetti riconducibili all’istituto in oggetto.

5. Ipotesi di disposizioni testamentarie

Giunti a tali esiti ricostruttivi, appare interessante chiarire come il testatore possa strutturare la disposizione costitutiva del vincolo testamentario di destinazione.
L’analisi in primo luogo si orienterà sulla costituzione diretta del vincolo: a mezzo di essa, la vicenda segregativa e destinatoria diviene parte integrante del programma testamentario.
Nelle considerazioni introduttive si è sottolineato come la prevalente opinione ritenga compatibile la vicenda effettuale di cui all’art. 2645-ter c.c. con una duplice tipologia operativa: a) il vincolo “statico”, senza trasferimento della titolarità del bene (cosiddetto vincolo autodichiarato), con possibile indicazione di beneficiari di reddito nonché di beneficiari finali allo scadere del vincolo; b) il vincolo “dinamico”, con trasferimento della proprietà dal “conferente” ad un terzo gestore, anche definito “attuatore” della destinazione vincolata. Se nella prima ipotesi gli effetti dell’atto si esauriscono nell’ambito dell’unica sfera giuridica del conferente, producendo pur sempre le conseguenze tipiche della destinazione, ossia la funzionalizzazione del regime di utilizzo del bene e la separazione patrimoniale, in caso di vincolo dinamico si assiste, nella vicenda destinatoria, ad un trasferimento strumentale, in ragione del quale il terzo gestore acquista una proprietà conformata, destinata alla realizzazione dello scopo. È interessante verificare come dette fattispecie possano essere strutturate all’interno di un regolamento successorio di fonte testamentaria.
La prima ipotesi ricostruttiva è quella del vincolo di destinazione dinamico, con attribuzione dei beni al terzo gestore. Nella vicenda effettuale del vincolo di destinazione, l’attribuzione patrimoniale al soggetto attuatore presenta i medesimi caratteri (attribuzione strumentale, temporanea, finalisticamente orientata) che sono propri dell’attribuzione al trustee nella sequenza ascrivibile al trust. Appare congruo, allora, far tesoro in questa sede delle argomentazioni sviluppate dalla dottrina formatasi con riguardo a tale istituito(36). L’attribuzione all’attuatore, per quanto contenuta in un testamento, riceve la propria giustificazione causale non dal programma successorio, ma dal programma destinatorio. Essa, infatti, si spiega solo in vista della destinazione vincolata: il testatore non manifesta alcuna volontà liberale nei confronti dell’attuatore, non gli offre alcuna delazione, ma semplicemente conferisce un incarico fiduciario che sarà funzionale alle esigenze del vincolo, per l’adempimento del quale viene disposto il trasferimento di beni. Siffatto trasferimento vede, dunque, la sua causa colorarsi di significati diversi da quelli meramente attributivi, iscrivendosi in un disegno funzionale che va oltre la figura del gestore. A riprova di ciò, all’attuatore viene trasferita non una proprietà piena, ma una proprietà “conformata”, finalisticamente destinata agli scopi della destinazione.
La strumentalità dell’attribuzione stride, invero, con la qualificazione in termini di erede o legatario dell’avente causa, e questo non tanto per considerazioni di carattere patrimoniale, quanto per il ruolo che l’attuatore è chiamato a svolgere nel programma divisato dal testatore. In altri termini, se Tizio istituisce erede Caio ed affida alla scheda testamentaria una serie di legati che esauriscono il valore dell’asse ereditario, non è a dubitarsi che l’istituzione di erede mantenga i propri significati nell’ambito del programma successorio, per quanto “svuotata” di utilità patrimoniali. Nell’ipotesi di vincolo dinamico, tuttavia, non accade soltanto questo: il testatore assegna beni determinati ad un soggetto (gestore) affinché questi li amministri nel rispetto di un fine destinatario. Senza voler scomodare definizioni diffuse nella dottrina tradizionale (erede quale continuatore della personalità del de cuius), appare evidente che, nel programma testamentario, il gestore ha un ruolo che mal si addice alla sua qualità ereditaria: non subentra nell’universum jus, ma attua la volontà del testatore, in una sequenza triangolare nella quale la sua posizione è strumentale ed ancillare rispetto alla realizzazione dell’interesse meritevole che giustifica la destinazione. L’assenza di un intento esclusivamente attributivo esclude, altresì, che l’attuatore possa essere qualificato come legatario, pur quando consegua beni determinati. Se, invero, nelle pagine precedenti si è riconosciuta al programma testamentario una complessità funzionale che va oltre l’attribuzione delle sostanze del testatore, ogni tentativo di giustificare nuovi istituti con le tradizionali forme dell’istituzione di erede e legato si rivela inappagante, giacché l’utilizzo di schemi causali tipici sovente costituisce “abito” inadeguato per la qualificazione delle disposizioni del testatore. L’attribuzione all’attuatore presenta originalità funzionale, trovando titolo unicamente nella vicenda destinatoria(37).
Le conclusioni appena esposte traggono forza da un’ulteriore argomentazione. Ove si qualificasse detta attribuzione in termini di istituzione di erede o legato, ne discenderebbero gravi conseguenze sul piano della responsabilità patrimoniale. Qualificandosi erede il soggetto attuatore, infatti, i principi del diritto successorio imporrebbero di ritenere che egli risponda (ultra vires o, in caso di accettazione beneficiata, intra vires), di tutti i debiti ereditari, e ciò anche con i beni vincolati nella destinazione; ove, invece, lo si qualifichi legatario, in ossequio al principio nemo liberalis nisi liberatus, in caso di concorso con i creditori ereditari, l’attuatore sarebbe posposto, di talché nell’eventuale liquidazione dell’attivo andrà ricompreso anche il bene oggetto di destinazione. I principi del diritto successorio sembrano entrare in insanabile contrasto con quelli dettati dall’art. 2645-ter c.c. In entrambe le ipotesi prospettate (attuatore istituito erede o legatario), l’istituzione del vincolo, da parte del testatore, difficilmente riuscirebbe a produrre un effetto autenticamente segregativo, con il rischio che le istanze dei creditori ereditari incidano sulla stessa attribuzione all’attuatore, minando alla radice il disegno destinatorio, e così prevalendo sulle diverse istanze dei creditori della destinazione.
Le considerazioni innanzi espresse impongono di valorizzare l’autonomia funzionale dell’attribuzione all’attuatore del vincolo, raggiungendo conclusioni simili a quelle proposte in dottrina in relazione all’attribuzione al trustee: una volta ammesso che il vincolo di destinazione ex art. 2645- ter c.c. possa essere costituito con disposizione testamentaria, laddove il programma destinatorio preveda l’attribuzione dei beni vincolati ad un terzo gestore, detta disposizione costituisce tertium genus di attribuzione patrimoniale di fonte testamentaria, non riconducibile né all’istituzione di erede né al legato. Ove il programma destinatorio preveda l’elargizione di rendite a terzi, questi saranno legatari di credito; il soggetto beneficiario finale, nel cui interesse la destinazione è prevista, sarà destinatario anch’egli di un legato, la cui natura, reale o obbligatoria, risente delle scelte di fondo in ordine alla natura giuridica della posizione beneficiaria nel vincolo di destinazione.
Nel caso, invece, di vincolo statico, la disposizione testamentaria si limita ad imporre il fine destinatorio ex art. 2645-ter c.c.; successivamente, la vicenda attributiva del bene così vincolato, non essendo resa necessaria dall’attuazione del vincolo, seguirà unicamente le logiche del diritto successorio, potendo avvenire a titolo di eredità o di legato. In siffatta ipotesi, la creazione del vincolo si accompagna ad una vicenda circolatoria mortis causa, con cui si coordina secondo i principi del collegamento negoziale. Il testatore a) istituisce il vincolo (sul piano redazionale, la costituzione del vincolo è prius rispetto all’attribuzione dei beni, sì da consentire al testatore di avere la legittimazione alla destinazione stessa e successivamente attribuire beni destinati); b) trasmette i beni, già vincolati, all’erede o legatario (res transit cum onere suo). L’attribuzione di sostanze (nelle forme dell’istituzione di erede e del legato) è “causalmente fuori” dal vincolo ex art. 2645-ter c.c., ed ha ad oggetto beni già vincolati, e dunque una proprietà “conformata”, resa tale dall’imposizione del vincolo. Sia consentito sottolineare come siano astrattamente possibili tanto l’attribuzione del bene vincolato al soggetto individuato quale beneficiario del vincolo, quanto una attribuzione patrimoniale ad un soggetto terzo (diverso dal beneficiario), il quale, pur avendo la titolarità del bene, dovrà soggiacere alla destinazione vincolata a beneficio di terzi.
L’ipotesi di vincolo statico offre l’occasione per compiere un’ulteriore considerazione in ordine al negozio istitutivo. Al riguardo, occorre sottolineare come la disposizione testamentaria possa determinare costituzione diretta del vincolo (riconducibile al paradigma dell’art. 2645-ter c.c.) solo allorquando essa si riferisca a determinati beni (immobili o mobili registrati, secondo il testo normativo). Quid juris laddove il testatore abbia consegnato alla scheda testamentaria una disposizione a titolo universale, limitandosi genericamente a costituire vincolo di destinazione? Come si concilia una simile disposizione con l’esigenza di determinatezza dell’oggetto del vincolo? Interrogativi simili, invero, sono stati oggetto di approfondimento in materia di fondo patrimoniale costituito per testamento, in ordine al quale, se parte della dottrina ha ritenuto nulla la disposizione (relativa alla totalità dell’asse o a parte di essa) per indeterminatezza dell’oggetto(38), altra tesi, in una prospettiva conservativa della disposizione, ha concluso per la validità della stessa, con costituzione del fondo patrimoniale limitatamente ai beni che siano idonei a costituirne oggetto(39).
Ebbene, a parere di chi scrive, la questione può essere risolta, nella materia de qua, tenendo in considerazione le peculiarità dei tratti fisionomici dell’istituto oggetto di indagine: nelle considerazioni precedenti si è detto che, a seguito del “negozio conformativo”, taluni beni subiscono un vincolo di tipo finalistico con conseguente mutamento dello statuto proprietario; laddove le finalità rispondano ad interessi meritevoli di tutela, preventivamente vagliati, alla destinazione fa riscontro la separazione patrimoniale. Ebbene, sia consentito notare come l’indagine in ordine alla meritevolezza dell’interesse perseguito non può non coinvolgere una verifica, in termini di congruità ed opportunità, relativa ai beni che si intende vincolare allo scopo: trattasi, allora, di indagine preventiva che, nel valutare il fine destinatorio, implica necessariamente la considerazione dei beni vincolati. Un vincolo di fonte testamentaria, genericamente riferito a tutti i cespiti che, all’apertura della successione, siano compatibili con lo schema delineato dall’articolo 2645-ter c.c., sarebbe vincolo genericamente costituito, come tale inidoneo a dar luogo alla vicenda effettuale tipizzata dalla norma in commento. Dunque, la volontà testamentaria può dirsi correttamente formata, ai fini di cui alla norma in commento, solo allorquando abbia ad oggetto beni individuati dal testatore, sui quali è in grado di essere effettuata una valutazione in ordine al perseguimento di interessi meritevoli di tutela. La determinatezza dei beni oggetto di vincolo non implica, necessariamente, la devoluzione degli stessi a titolo di legato. Appare congruo ritenere che essa possa realizzarsi anche nelle forme dell’istituzione di erede, tutte le volte in cui la delazione a titolo universale riesca a coniugarsi con una specificazione dei beni attribuiti: il riferimento va ai casi di institutio ex re certa e di divisione del testatore ex art. 734 c.c.
Il testamento, infine, può essere fonte indiretta del vincolo di destinazione, il che accade quando il testatore faccia obbligo, all’erede o al legatario, di destinare ex art. 2645-ter c.c. uno o più beni, oggetto di attribuzione, a beneficio di terzi determinati. In simile ipotesi, la disposizione testamentaria è fonte mediata del vincolo, il quale sorgerà per effetto di un atto a struttura inter vivos posto in essere in adempimento dell’obbligazione imposta dal testatore. La disposizione in oggetto attribuisce al terzo beneficiario il diritto a pretendere che l’onerato costituisca il vincolo de quo: trattasi di legato di comportamento negoziale, definito, con espressione descrittiva, «legato di vincolo di destinazione»(40). In dottrina è stata sottolineata l’opportunità che il testatore, nel confezionare la clausola testamentaria, individui con precisione gli “obblighi destinatori”, in tal modo evitando che la discrezionalità dell’onerato, in fase esecutiva, possa alterare il programma destinatorio(41).

6. L’incidenza della destinazione testamentaria sui diritti dei legittimari

La riconosciuta possibilità, per il testatore, di prevedere un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. nell’ambito della regolamentazione testamentaria di interessi successori, impone di affrontare, in conclusione dell’analisi, il tema delle possibili interferenze tra destinazione vincolata e tutela dei legittimari. Come per qualsivoglia manifestazione di autonomia del testatore, anche nella materia in oggetto si impone il rispetto di posizioni riservate dall’ordinamento.
Il tema delle possibili incidenze della disposizione sui diritti dei legittimari induce a trattare distintamente due ipotesi: la destinazione vincolata, infatti, può essere orientata a beneficio dello stesso legittimario, oppure a vantaggio di terzi, con possibile lesione dei diritti del legittimario che rimanga estraneo al disegno destinatorio del disponente.
Si faccia, in primo luogo, il caso in cui il testatore intenda vincolare la destinazione di beni costituenti la quota di legittima di un suo familiare. Il pensiero va all’ipotesi in cui il testatore abbia un figlio minore, o incapace, e si determini ad utilizzare lo strumento offerto dall’art. 2645-ter c.c. a tutela di soggetti deboli. Invero, la disposizione che vincoli la destinazione di beni destinati a formare la quota di legittima, per quanto animata da intenti di protezione del beneficiario, non sembra poter sfuggire al giudizio di nullità a norma dell’art. 549 c.c.
Giova rilevare, in questa sede, come il divieto di pesi e condizioni, previsto dalla richiamata disposizione, per comune opinione debba intendersi non già limitato all’onere e a disposizioni condizionali in senso tecnico, ma vada esteso ad ogni disposizione che diminuisca, vel in quantitate vel in tempore, i diritti riservati ai legittimari, «o comunque modifichi la loro posizione giuridica rispetto ai beni assegnati alla riserva oppure li assoggetti a vincoli in ragione dell’attribuzione di tali beni»(42). La norma in oggetto appare, dunque, finalizzata a colpire qualsiasi disposizione che, pur non incidendo sul valore quantitativo della legittima, limiti il pieno godimento e la libera disponibilità dei beni attribuiti al legittimario (disposizione intenzionalmente lesiva dei diritti riservati). Si parla, al riguardo, di una lesione qualificata della legittima, che viene pregiudicata nella consistenza giuridica ed economica(43).
Siffatti caratteri, invero, ricorrono nel caso in cui il testatore vincoli la destinazione di beni destinati a formare la legittima: al legittimario, infatti, verrebbe assegnata una proprietà non piena, ma “conformata” al fine destinatorio; laddove, poi, il testatore intenda avvalersi dello schema “triangolare” che prevede l’attribuzione dei beni ad un soggetto attuatore, il legittimario non conseguirebbe la titolarità dei beni all’apertura della successione, realizzandosi una conversione, non consentita dall’ordinamento, del diritto reale alla legittima in diritto obbligatorio. La ineluttabilità del dato normativo impone di giungere a simile conclusione pur quando la disposizione istitutiva del vincolo, lungi dal voler essere “intenzionalmente lesiva” dei diritti del legittimario, abbia come scopi la protezione di soggetti deboli. La perentorietà della norma dell’art. 549 c.c. non sembra consentire altre conclusioni, almeno fino a quando non si diffonda in dottrina una pur auspicata lettura in chiave assiologica del dato normativo(44).
Ciò chiarito, l’analisi è chiamata ora a verificare se vi siano margini in cui la costituzione del vincolo di destinazione su beni costituenti la legittima possa dirsi lecita. Viene in considerazione, in primo luogo, l’ipotesi in cui il testatore vincoli la destinazione di alcuni beni e li attribuisca al legittimario a titolo di legato in sostituzione di legittima ex art. 551 c.c. L’esempio appena proposto induce ad affrontare il tema della applicabilità del divieto di pesi e condizioni ex art. 549 c.c. anche al legato tacitativo. L’economia del presente lavoro consente di fare solo un breve cenno ad una tematica estremamente complessa, che vede contrapposti due differenti letture interpretative. Per una tesi tradizionale, diffusa in sede tanto dottrinale quanto giurisprudenziale, essendo la disposizione finalizzata comunque a comporre la legittima (tacitandola), il testatore dovrà rispettare i limiti imposti dall’ordinamento in ordine alla composizione della quota di riserva, ivi incluso il divieto di pesi e condizioni(45). Portata determinante viene riconosciuta alla lettera dell’art. 551 c.c., nella parte in cui dispone che il legato sostitutivo gravi sulla quota indisponibile, il che conferma la natura di legittima, benché in una veste peculiare (a titolo di legato) dell’attribuzione così operata. A fronte di tale tesi, si registra in dottrina il progressivo formarsi di un ampio orientamento di segno contrario(46), il quale, appellandosi al carattere tacitativo della attribuzione, ne sottolinea l’autonomia ontologica: trattasi di disposizione che sostituisce, e non integra la quota di legittima, per cui non soggiace alle prescrizioni normative in ordine alla connotazione morfologica di tale quota. Essendo la tacitazione operata a mezzo di legato, in mancanza di limitazioni desumibili dalla lettera della norma, detto legato potrà avere effetti reali o obbligatori, e potrà altresì essere gravato da modalità di vario genere. Accogliendo detta impostazione, che ritiene non applicabile il disposto dell’art. 549 c.c. al legato in sostituzione di legittima, sarebbe ammissibile la costituzione di vincolo di destinazione di beni destinati al legittimario, ove detta costituzione sia preordinata ad una attribuzione tacitativa a norma dell’art. 551 c.c.
Una seconda ipotesi ricostruttiva, che può essere avanzata, è quella di una disposizione che riproduca, sul piano effettuale, il meccanismo operativo della cautela sociniana quale previsto dall’art. 550 c.c.; il testatore attribuisce al legittimario beni di valore più ampio della legittima (in ipotesi, legittima e disponibile), a condizione che accetti la costituzione del vincolo di destinazione, libero essendo il legittimario di optare per una disposizione quantitativamente più limitata (alla sola legittima) ma senza alcun vincolo. Giova rilevare, in questa sede, come l’utilizzo del meccanismo condizionale “in funzione sociniana”, quale strumento riconosciuto al testatore per diversificare il trattamento successorio del legittimario, sia stato affermato da autorevole dottrina(47).
Infine, il vincolo testamentario di destinazione può rivelarsi, all’apertura della successione, “quantitativamente lesivo” dei diritti dei legittimari: in tale ipotesi operativa, il legittimario è “terzo” rispetto alla destinazione vincolata, e l’attribuzione patrimoniale, che nel vincolo di destinazione trova titolo, lede quantitativamente i suoi diritti. Sia consentito sottolineare la differenza di questa seconda ipotesi di lavoro rispetto alla prima: nel caso analizzato in precedenza, la disposizione vincolata premia il legittimario, ma gli assegna beni finalisticamente vincolati ad uno scopo: detto vincolo, si è detto, integra di regola peso sulla legittima. Nella seconda ipotesi ricostruttiva, il legittimario è fuori dal disegno del conferente testatore, non essendo contemplato tra i beneficiari della destinazione vincolata. In applicazione dei principi generali, il legittimario potrà agire in riduzione, neutralizzando in via giudiziaria il disegno destinatorio di fonte testamentaria.


(1) Per una critica all’interpretazione del testamento in termini esclusivamente attributivi, G. AZZARITI, «Diseredazione ed esclusione di eredi», in Riv. trim. dir. proc. civ, 1968, p. 1198 e ss.; L. BIGLIAZZI GERI, Il testamento, Milano 1976, p. 269 e ss.; M. BIN, Contributo allo studio del contenuto del testamento, Torino, 1966, p. 222 e ss; G. CRISCUOLI, Le obbligazioni testamentarie, Milano, 1980, p. 203 e ss.

(2) La regolamentazione post mortem di interessi patrimoniali costituisce formula che «ha il pregio di indicare, in sintesi, la molteplicità di effetti che possono conseguire al negozio testamentario, che è fonte di diritti, di obbligazioni, dì obblighi soltanto morali, di raccomandazioni», così G. BONILINI, voce Testamento, in Dig., disc. priv., sez. civ., Torino, 1999, p. 342.

(3) M. BIANCA - M. D’ERRICO - A. DE DONATO - C. PRIORE, L’atto notarile di destinazione, Milano, 2006, p. 9.

(4) A. SANDULLI, «Natura ed effetti dell’imposizione di vincoli paesistici», in Riv. trim. dir. pubbl., 1961, p. 810.

(5) G. GALLONI, Potere di destinazione e impresa agricola, Milano, 1974, p. 20 e ss.

(6) R. DI RAIMO, L’atto di destinazione dell’art. 2645-ter: considerazioni sulla fattispecie, in Atti di destinazione e trust (art. 2645-ter del codice civile) a cura di G. Vettori, Padova, 2008, p. 52.

(7) R. DI RAIMO, op. cit., p. 69 e 70.

(8) U. LA PORTA, L’atto di destinazione di beni allo scopo trascrivibile ai sensi dell’articolo 2645-ter. c.c., in Atti di destinazione e trust (art. 2645-ter del codice civile), cit., p. 87.

(9) M. NUZZO, «L’interesse meritevole di tutela tra liceità dell’atto di destinazione e opponibilità dell’effetto della separazione patrimoniale», in Famiglia e impresa: strumenti Negoziali per la separazione patrimoniale, in I Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, 2010, p. 28.

(10) P. SPADA, Conclusioni, in La trascrizione dell’atto di destinazione a cura di M. Bianca, Milano, 2007, p. 203.

(11) Cfr. U. LA PORTA, op. cit., p. 87.

(12) M. BIANCA, Atto negoziale di destinazione e separazione, in Atti di destinazione e trust (art. 2645-ter del codice civile), cit., p. 17.

(13) Il carattere unidirezionale della separazione può anche essere schematizzato in questo modo: a) i creditori generali del titolare dei beni “conferiti” potranno agire solo sulla parte del patrimonio non soggetta al vincolo; b) i creditori della destinazione (ossia, i creditori rispetto ad obbligazioni contratte in vista dello scopo di destinazione) potranno agire sia sui beni destinati, sia sul restante patrimonio del debitore. Per la natura unilaterale della separazione patrimoniale, in dottrina, G. PETRELLI, «La trascrizione degli atti di destinazione», in Riv. dir. civ., 2006, p. 161 e ss, ed in particolare par. 15; R. LENZI, «Le destinazioni atipiche e l’art. 2645-ter c.c. », in Contr. e impr., 2007, p. 245; M. BIANCA - M. D’ERRICO - A. DE DONATO - C. PRIORE, op. cit., p. 433; R. FRANCO, «Il nuovo art. 2645-ter c.c.», in Notariato, 2006, p. 325; A. DI SAPIO, «Patrimoni segregati ed evoluzione normativa: dal fondo patrimoniale all’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c.», in Dir. fam. e pers., 2007, p. 1258; S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione nel diritto di famiglia e delle persone, Milano 2011, p. 301.

(14) M. BIANCA, op. ult. cit., p. 32 e ss; l’Autrice nota come nel caso di fondo patrimoniale la separazione patrimoniale è accordata in vista di un interesse familiare, nel caso di patrimoni separati nel settore finanziario (dai fondi comuni di investimento ai patrimoni delle Sim, ai patrimoni oggetto di cartolarizzazione) è la destinazione all’investimento che legittima e giustifica le forme di separazione patrimoniale.

(15) S. BARTOLI, op. cit., p. 69; M. BIANCA - M. D’ERRICO - A. DE DONATO - C. PRIORE, op. cit., p. 13 e 32; R. FRANCO, op. cit., p. 315.

(16) U. LA PORTA, op. cit., p. 109.

(17) M. BIANCA - M. D’ERRICO - A. DE DONATO - C. PRIORE, op. cit., p. 31.

(18) Per un’ampia ricostruzione della tematica, S. BARTOLI, op. cit., p. 75 e ss.-. Cfr. anche G. PETRELLI, op. cit., § par. 3; F. SANTAMARIA, Il negozio di destinazione, Milano 2009, p. 22 e ss; M. BIANCA, «L’atto di destinazione. Problemi applicativi», in Riv. not., 5, 2006, p. 1175; M. NUZZO, op. cit., p. 59 e ss; G. VETTORI, Atto di destinazione e trascrizione. L’art. 2645-ter, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 181. Ritengono, invece, che la fattispecie vada ricostruita in termini di contrattualità F. GAZZONI, Osservazioni, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, p. 217e ss., G. GABRIELLI, «Vincoli di destinazione importanti separazione e pubblicità nei Registri immobiliari», in Riv. dir. civ., 2007, p. 221; G. BARALIS, «Prime riflessioni in tema di art. 2645-ter c.c.», in Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, in I Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, 2007, p. 145. Costituisce eccezione alla normale unilateralità dell’atto impositivo del vincolo, il caso in cui beneficiaria sia la pubblica amministrazione.

(19) R. DI RAIMO, op. cit., p. 66.

(20) Cfr., M. IEVA, «La trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni o ad altri enti o persone fisiche (art. 2645- ter del codice civile) in funzione parasuccessoria», in Riv. not., 2009, p. 1289 e ss.; A. MERLO, «Brevi note in tema di vincolo testamentario di destinazione», in Riv. not., 2007, p. 512.

(21) G. BONILINI, Autonomia testamentaria e legato. I legati cosiddetti atipici, Milano, 1990, p. 64.

(22) A. MERLO, op. cit., p. 511.

(23) Trib. Roma 18 maggio 2013, attualmente ined.

(24) G. GABRIELLI, op. cit., p. 321 e ss; M. BIANCA - M. D’ERRICO - A. DE DONATO - C. PRIORE, op. cit., p. 13; A. DE DONATO, Il negozio di destinazione nel sistema delle successioni a causa di morte, in La trascrizione dell’atto di destinazione, cit., p. 45, G. DE ROSA, «Atti di destinazione e successione del disponente», in Atti del Convegno Atti notarili di destinazione dei beni: art. 2645- ter c.c., Milano, 2006, p. 1 e ss.; G. PETRELLI, op. cit., p. 161 e ss.

(25) G. PETRELLI, op. cit., p. 162 e ss.

(26) G. PETRELLI, op. cit., p. 162 e ss.

(27) F. SPOTTI, Il vincolo testamentario di destinazione, in Le disposizioni testamentarie diretto da G. Bonilini e coordinato da V. Barba, Torino, 2012, p. 165.

(28) U. LA PORTA, op. cit., p. 82 e ss. 29 A. FALZEA, Riflessioni preliminari, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 3.

(30) G. PETRELLI, op. cit., p. 161.

(31) S. MEUCCI, La destinazione di beni tra atto e rimedi, Milano, 2009, p. 308; R. QUADRI, «L’art. 2645-ter c.c. e la nuova disciplina degli atti di destinazione», in Contr. e impr., 2006, p. 1717.

(32) S. BARTOLI, op. cit., p. 66; G. GABRIELLI, op. cit., p. 336; S. PATTI, «Gli atti di destinazione e il trust nel nuovo art. 2645-ter», in Vita not., 2006, p. 979.

(33) A. DE DONATO, op. cit., p. 46.

(34) A. DE DONATO, op. cit., p. 47.

(35) F. SPOTTI, op. cit., p. 167.

(36) S. BARTOLI, «La natura dell’attribuzione mortis causa al trustee di un trust testamentario - II parte», in Taf, 2004, p. 178 e ss.

(37) S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione nel diritto di famiglia e delle persone, cit., p. 101.

(38) M. IEVA, Manuale di tecnica testamentaria, Padova, 1996, p. 75.

(39) G. CIAN - G. CASAROTTO, Fondo patrimoniale della famiglia, in Noviss. Dig. it., Appendice III, Torino, 1982, p. 831.

(40) Cfr. G. DE ROSA, op. cit., § 2; F. SPOTTI, op. cit., p. 187. 41 G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, 2009, p. 807.

(42) L. MENGONI, Successioni per causa di morte. Parte speciale, Successione necessaria, Milano, 1967, p. 99 e ss.

(43) Mentre la lesione meramente quantitativa è esposta all’azione di riduzione, sempre che, all’apertura della successione, risulti che il testatore si è spinto, nelle sue attribuzioni, oltre il limite consentito dall’ordinamento (lesione meramente eventuale, da verificare all’apertura della successione), quella sanzionata dall’art. 549 c.c. è una lesione aggravata, giacché, ponendo un peso o una condizione sulla legittima, il testatore manifesta una volontà chiara nel senso di gravare e pregiudicare i diritti del legittimario. Cfr. G.B. FERRI, Legittimari, in Comm. al codice civile a cura di Scialoja Branca, BolognaRoma 1981, p. 102 e ss.

(44) R. FRANCO, «Trust testamentario e liberalità non donative: spiragli sistematici per una vicenda delicata», in Riv. not., 2009.

(45) G.B. FERRI, Successioni in generale, Artt. 456-511, in Comm. al codice civile a cura di Scialoja Branca, cit., p. 123; G. BONILINI, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, V ed., Torino, 2010, p. 150, nonché, in giurisprudenza, Cass. 2 settembre 1953, in Foro it., 1954, I, p. 456.

(46) G. TAMBURRINO, voce Successione necessaria, dir. priv., in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. 1348 e ss., ed in particolare p. 1364; E. CANTELMO, I legittimari, Padova, 1991, p. 85; M. IEVA, Manuale di tecnica testamentaria, Padova, 1996, p. 24.; M. FERRARIO HERCOLANI, Il legato in sostituzione di legittima, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni diretto da G. Bonilini, III, p. 337.

(47) L. MENGONI, Successioni per causa di morte. Parte speciale, Successione necessaria, Milano, 1967, p. 367 e ss.

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