Il contenuto delle clausole
- capitolo XII -
Il contenuto delle clausole
di Daniele Muritano
Notaio in Empoli

Quali clausole deve contenere un atto di destinazione? È consigliabile o persino necessario redigere un atto che sia, per quanto possibile, “autosufficiente”? Oppure occorre assumere una posizione minimalista, rinviando al sistema ordinamentale per la soluzione dei problemi nascenti da eventuali lacune?
La risposta a tali interrogativi non è semplice, dipendendo essa dal tipo di approccio interpretativo che si ritiene di assumere nei confronti della norma dell’art. 2645-ter, c.c., la quale da un lato, a causa del suo scarno contenuto, è stata non senza ragioni criticata, dall’altro, tuttavia, merita di essere apprezzata per gli ampi spazi che essa mette a disposizione all’autonomia privata, libera di deter- minare il contenuto dell’atto di destinazione in applicazione dell’art. 1322 c.c. Il che, tuttavia, non deve far perdere di vista il rispetto delle norme imperative del nostro ordinamento, che anche un atto di destinazione deve - ma trattasi di ovvia considerazione - rispettare.
La prospettiva interpretativa adottata nei contributi che costituiscono il presente volume è quella di un’ampia apertura all’autonomia privata. L’idea è vedere nell’atto di destinazione non un modello rigido ma, tutto al contrario, flessibile, aperto alla previsione di clausole opportunamente modu- labili in relazione agli interessi e alle finalità che con detto atto i privati intendono perseguire. Un modello, quindi, che vada anche al di là dello stretto dato letterale, considerandosi quindi le previsioni contenute nella norma in linea di massima derogabili laddove non vi siano conflitti insa- nabili di natura sistematica.
Se, quindi, si ritiene ammissibile un’interpretazione evolutiva dell’art. 2645-ter, c.c., con l’obiettivo di consentire agli operatori un suo utilizzo “virtuoso”, rifuggendo da una lettura che conduca al risultato di considerare la norma un insuccesso del legislatore, non sembra dubbio che l’atto non possa, meglio non debba, essere ridotto entro schemi precostituiti. Occorre pertanto affermare con forza che non esiste “l’atto di destinazione” ma “tanti” atti di destinazione. D’altro canto, è il caso di ribadirlo, è lo stesso legislatore a mostrare di credere, nella stessa norma dell’art. 2645-ter, c.c., a quest’idea, tant’è che richiama espressamente l’art. 1322 c.c.
Il contenuto dell’atto di destinazione si dovrà pertanto sostanziare nella redazione di una sorta di “programma” che il disponente/gestore dovrà seguire per la realizzazione degli interessi. È evidente, in tale prospettiva, l’utilità della prassi applicativa in materia di trust, il cui atto istitutivo, appunto, è ormai comunemente definito quale “programma”.
Fatta questa premessa, dal punto di vista strutturale può ipotizzarsi un atto di destinazione senza o con - per chi l’ammette - trasferimento di beni a un gestore, replicandosi così, anche per il diritto italiano, la dicotomia cui si assiste in materia di trust.
Nel primo caso, evidentemente, l’atto conterrà, oltre al programma, anche la descrizione dei beni destinati e non vi sarà alcuna disposizione di beni in favore di terzi.
Nel secondo caso, invece, oltre al programma, l’atto conterrà il trasferimento dei beni a un terzo gestore (e per tale ragione dovrà contenere, nel caso di beni immobili, tutte le menzioni richieste dalle varie leggi speciali a pena di nullità) e potrà anche darsi l’eventualità - sebbene rara - che il trasferimento dei beni segua l’atto di destinazione quale programma. Ciò peraltro non dovrebbe comportare difficoltà dal punto di vista concettuale, poiché il trasferimento del bene destinato dal disponente al gestore troverà la propria causa nel primo atto e il rapporto tra atto di destinazione e atto traslativo dei beni in favore del gestore dovrà - direi pacificamente - essere ricostruito in termini unitari.
È facile constatare infatti che tale atto ha un effetto attributivo di per sé neutro e la sua causa andrà rinvenuta nel programma contenuto nell’atto di destinazione, cui l’attribuzione stessa è funzionale.
Sarà tuttavia opportuna la redazione contestuale, proprio per fare emergere le ragioni che hanno condotto il disponente alla stipula dell’atto, consentendo quindi di verificare se per quella specifica fattispecie siano state osservate le norme di salvaguardia, in sostanza non si sia “abusato” dell’atto per realizzare un risultato che il nostro ordinamento vieta.
Questo discorso serve a porre l’attenzione, per quanto concerne i criteri redazionali, anzitutto sul fatto che poiché l’atto di destinazione deve essere finalizzato alla realizzazione di interessi meri- tevoli di tutela non selezionati dal legislatore ma da selezionare da parte del disponente, da esso dovrà emergere, appunto, la sua causa (concreta). È quindi essenziale che l’atto di destinazione espliciti le ragioni per le quali esso viene istituito e le finalità che con lo stesso si intendono perseguire, in modo da renderne trasparenti gli obiettivi per una loro immediata verifica di merite- volezza e non contrarietà con norme imperative del nostro ordinamento.
L’indicazione delle finalità della destinazione, peraltro, potrebbe non essere sufficiente, perché ciò che è fondamentale è che la destinazione avvenga effettivamente.
Non è da escludere infatti che il disponente si sia determinato a stipulare l’atto per ragioni che nulla hanno a che vedere con la realizzazione di interessi meritevoli di tutela ma, al contrario, con la mera finalità di separare i beni destinati dal proprio patrimonio al fine di sottrarli ai propri creditori.
Per quanto riguarda la struttura dell’atto, oltre alla premessa, necessaria per le ragioni appena esposte, si può proporre una sua distinzione in varie parti, anche al fine di renderlo meglio “leggibile”.
Anzitutto una parte dedicata alle disposizioni generali, nella quale dovrebbero trovare luogo le clausole che disciplinano il momento iniziale di efficacia della destinazione e la sua eventuale irre- vocabilità o revocabilità unilaterale (qualora la si ritenga ammissibile); l’individuazione delle persone del disponente e del beneficiario (anche mediante rinvio ad altra parte dell’atto a costui dedicata); l’individuazione dei beni destinati, sede in cui potrebbe trovare luogo, qualora la si ritenga ammissibile, la clausola sulla surrogabilità dei beni destinati; l’individuazione del gestore o attuatore della destinazione (coincida o meno con il disponente); la durata della destinazione, con le connesse clausole relativa alla cessazione del vincolo, tema trattato in uno specifico contributo presente in questo stesso volume.
Dovrebbe quindi seguire una parte dell’atto dedicata alla disciplina dell’attuazione del vincolo o, più esattamente, delle modalità di realizzazione degli interessi. Si tratterà, in particolare, di disci- plinare i poteri del gestore/attuatore, i rapporti con i terzi contraenti e aventi causa per atto negoziale, gli obblighi di reimpiego del ricavato dall’eventuale alienazione dei beni destinati (clausola anch’essa dipendente dalla posizione che si ritiene di assumere in merito all’operatività del principio della surrogazione reale), le obbligazioni del gestore/attuatore finalizzate a mantenere separati i beni destinati da quelli personali con i connessi obblighi di custodia; le clausole relative all’eventuale successione nell’ufficio di gestore.
Un’ultima parte dovrà essere dedicata all’individuazione concreta dei beneficiari e alle modalità di impiego dei beni destinati per la realizzazione dei loro interessi, con particolare riguardo all’utiliz- zazione degli eventuali frutti prodotti dai beni medesimi.
Si potrebbe a tal fine ipotizzare, sempre nell’ottica di un’interpretazione non restrittiva della norma, una replica, anche per l’atto di destinazione, della distinzione tra beneficiari delle utilità prodotte dai beni destinati e beneficiari finali dei beni medesimi. In tale prospettiva dovrebbe quindi ammettersi che al termine della destinazione non si produca una mera cessazione del vincolo ma che a questa si accompagni il trasferimento dei beni destinati al beneficiario indicato nell’atto isti- tutivo, nè più nè meno ciò che accade nel trust.
Analogamente, si potrebbe concepire, nel pieno rispetto delle norme imperative del nostro ordi- namento, anche una destinazione che preveda, ad esempio, un impiego discrezionale dei beni a vantaggio di beneficiari, dando luogo, quindi, a una destinazione che consenta da un lato di accu- mulare gli eventuali frutti prodotti dai beni destinati e, dall’altro, di utilizzare i frutti medesimi per sovvenire esigenze di mantenimento proprie del beneficiario, con trasferimento finale dei beni a soggetti determinati o determinabili sulla base delle regole contenute nell’atto istitutivo.
I contributi che seguono non ambiscono certo a dare vita a un formulario dell’atto di destinazione, che per le ragioni esposte non potrebbe comunque essere esaustivo, attesa anche la continua evoluzione del “catalogo” degli interessi meritevoli di tutela. Piuttosto, essi servono a individuare aree problematiche, rispetto alle quali un ruolo determinante dovrà essere svolto dalla sensibilità del singolo giurista, chiamato in qualche misura a “sfidare” principi che si ritenevano consolidati (per tutti il principio della responsabilità patrimoniale universale) e ad applicare anche a tale fatti- specie principi dettati per fattispecie analoghe.
Si pensi, per tacer d’altro, al tema dell’operatività o meno dell’effetto di surrogazione reale che assume un rilievo centrale rispetto alle prospettive applicative dell’istituto che i contributi contenuti in questo volume intendono favorire. Oppure, anzi direi ancor prima, alla prospettiva secondo cui il vincolo di destinazione non va visto come avente a oggetto i beni bensì il loro valore giuridico-economico, così come accade nel trust. È evidente che ciò da un lato implica adesione alla teoria che individua nella surrogazione reale una tecnica di conservazione dell’integrità del valore del patrimonio destinato e di separazione del patrimonio, dall’altro impone una formulazione delle clausole dell’atto di destinazione che tenga conto di ciò, come si è già fatto rilevare prima.
Altro tema che impone un’accurata redazione delle clausole riguarda i poteri di alienazione dei beni destinati da parte del gestore, soprattutto quando si tratti di alienazione “patologica”, cioè in violazione del fine programmato nell’atto di destinazione. Il problema dell’efficacia di tale atto, trattato nel contributo di Rolando Quadri presente in questo stesso volume è, dall’angolo visuale proprio del notaio, deputato a garantire la sicurezza della circolazione giuridica e dei diritti, fondamentale.
Il lavoro di “costruzione” dell’atto di destinazione non è e non sarà facile e tal fine potrà certamente essere utile, come già detto, l’esperienza professionale e giurisprudenziale in materia di trust, da considerare come piattaforma conoscitiva da cui partire per provare a costruire un “modello” di atto di destinazione che vada al di là di quanto scritto nella norma, andando finalmente “oltre il trust”, in una sorta di transizione virtuosa dal trust interno retto della legge straniera, che è la figura attualmente utilizzata dalla stragrande maggioranza del ceto professionale, al trust (o come si voglia chiamare) di diritto interno, le cui regole saranno quelle elaborate dalla prassi professionale, divenuta ormai uno dei formanti del diritto accanto alla legge, alla giurisprudenza e alla dottrina.

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