La circolazione del bene destinato
- capitolo XIV -
La circolazione del bene destinato
di Rolando Quadri
Notaio in Santa Maria la carità

1. Il problema

Uno dei caratteri che la dottrina è solita individuare, già anteriormente all’introduzione nel corpo del codice civile dell’art. 2645-ter, in relazione ai beni rientranti nelle variegate ipotesi di “patrimonio separato” diffuse nel panorama normativo ed in aggiunta alla limitazione di responsabilità (in deroga al principio generale posto dall’art. 2740, comma 1, c.c.), è quello della limitazione del potere di disposizione dei medesimi beni, i quali, cioè, non potrebbero essere distratti dallo scopo cui sono destinati, quasi venendosi a configurare una sorta di divieto di alienazione o, comunque, un vincolo di indisponibilità(1).
Senza ripetere quanto già in altra sede rilevato(2), in assenza di disposizioni idonee ad imporre in maniera inequivocabile un vincolo di indisponibilità sul bene destinato, nonché alla luce dell’analisi dei principi generali dell’ordinamento, regolanti la circolazione e, in particolare, l’opponibilità degli atti dispositivi, appare opportuno discostarsi dal tradizionale orientamento, alla cui stregua una delle caratteristiche connaturate all’idea stessa del “patrimonio separato” sarebbe senz’altro da individuarsi nel medesimo vincolo di indisponibilità dei beni ivi ricompresi. Così dovendosi necessariamente pervenire alla conclusione nel senso che l’eventuale inefficacia dell’atto di disposizione del bene destinato posto in essere per la realizzazione di finalità estranee allo scopo della destinazione debba dipendere, in effetti, dall’opponibilità dello stesso vincolo di destinazione al terzo contraente.
Quanto fin qui rilevato non pare contraddetto dalla disciplina degli atti di destinazione contenuta nel sopra citato art. 2645-ter c.c. Al riguardo, infatti, non può farsi a meno di rilevare come la medesima disposizione, nella parte conclusiva, si limiti a prevedere che «i beni conferiti ed i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione»: l’enunciazione del vincolo di destinazione dei beni allo scopo prefissato non sembra idonea a risolvere, cioè, il problema dell’opponibilità del vincolo medesimo, allorché il bene destinato sia oggetto di un successivo atto di disposizione. Il legislatore, in altre parole, non prende posizione in merito al profilo della circolazione del bene destinato, né delinea la sorte dell’atto dispositivo medesimo, ove posto in essere per finalità estranee rispetto a quelle che caratterizzano la vicenda destinatoria.

2. La circolazione dei beni ricompresi nel fondo patrimoniale e dei beni ricompresi nel patrimonio destinato ad uno specifico affare

Diversamente rispetto ad altre fattispecie regolate, con riguardo all’istituto del fondo patrimoniale il legislatore traccia una esplicita (ancorché non del tutto lineare) disciplina, peraltro in parte derogabile dall’autonomia privata, relativamente all’alienazione dei beni ricompresi nel fondo stesso: il riferimento è all’art. 169 c.c., ove si pone la duplice regola dell’agire congiunto dei coniugi e dell’autorizzazione giudiziale in presenza di figli minori («se non è stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale se non con il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei soli casi di necessità od utilità evidente»).
A prescindere dalle diverse proposte esegetiche che, in relazione alla disposizione da ultimo menzionata, risultano con varie sfumature prospettate dalla dottrina, l’ampio margine di discrezionalità (almeno apparentemente) riconosciuto ai coniugi dall’art. 169 c.c. ha indotto a sottolineare il carattere “tenue” del vincolo di indisponibilità dei beni costituenti il fondo patrimoniale(3). La circostanza sulla quale, tuttavia, vale la pena soffermarsi, è quella della predisposizione di un articolato regime pubblicitario, consistente nel duplice sistema dell’annotazione a margine dell’atto di matrimonio e nella trascrizione nei Registri immobiliari: un simile regime pubblicitario, in effetti, vale ad escludere che il terzo contraente con il coniuge (o con i coniugi) possa essere all’oscuro del vincolo di destinazione gravante sui beni oggetto dell’atto dispositivo. Ne consegue che, nell’ipotesi di violazione dell’art. 169 c.c., della norma, cioè, deputata a regolare il regime circolatorio dei beni del fondo, il vincolo di indisponibilità risulta sempre opponibile al terzo contraente e, quindi, l’atto illegittimo di disposizione versa necessariamente in una situazione patologica, salvo verificare di quale forma di patologia si tratti (“annullabilità”, “nullità” o “inefficacia”).
Tale conclusione, peraltro, sembra trovare implicita conferma nell’intenzione del legislatore, tradottasi nella duplice regola disposta con l’art. 169 c.c.: la prima, nel senso di attribuire ai coniugi il potere di verificare la pertinenza dell’atto ai bisogni della famiglia, quasi a voler escludere che l’atto dispositivo posto in essere con il consenso di entrambi i coniugi possa reputarsi estraneo ai bisogni della famiglia; la seconda, in presenza di figli minori, nel senso di attribuire quella stessa valutazione all’autorità giudiziaria, quasi a voler significare che, in presenza di figli minori, i bisogni della famiglia tendono ad identificarsi (fino al punto di sovrapporsi) con i bisogni di questi ultimi.
Anche in tema di patrimoni destinati ad uno specifico affare è dato riscontrare una regola idonea ad esprimere una disciplina, ancorché non esaustiva, dell’atto dispositivo del bene rientrante nel medesimo patrimonio destinato. L’art. 2447-quinquies, ult. comma, c.c., infatti, prevede testualmente che «gli atti compiuti in relazione allo specifico affare debbono recare espressa menzione del vincolo di destinazione; in mancanza ne risponde la società con il suo patrimonio residuo». È del tutto evidente, nella materia in oggetto - e volendo limitare il discorso alla circolazione dei beni immobili - come la trascrizione del vincolo di destinazione rappresenti condizione per l’opponibilità del vincolo medesimo (art. 2447-quinques, comma 2, c.c.) e come, pertanto, il regime pubblicitario cui risultano sottoposti i beni immobili ricompresi nel patrimonio destinato ad uno specifico affare debba necessariamente rilevare anche ai fini dell’opponibilità dei relativi atti dispositivi.
Atteso che la trascrizione del vincolo, infatti, rende il medesimo sempre opponibile nei confronti del terzo contraente, di assoluto rilievo, ai fini della circolazione del bene destinato, appare il criterio della “espressa menzione del vincolo”: con la conseguenza che, in assenza della dovuta espressa menzione del vincolo stesso, l’atto dispositivo dovrà reputarsi inefficace. Qualora, al contrario, l’atto dispositivo del bene immobile sia posto in essere con espressa menzione del vincolo, l’efficacia del medesimo atto dispositivo sembra dipendere dallo stato soggettivo del terzo contraente. In tal caso, cioè, l’espressa menzione del vincolo, in una con le risultanze dei diritti immobiliari, crea una sorta di presunzione di conformità dell’atto dispositivo allo scopo della destinazione e, dovendosi presumere, secondo i principi generali, la buona fede in capo al terzo contraente, sarà a carico dei soggetti interessati - in particolare, i creditori del patrimonio destinato allo specifico affare - l’onere di dimostrarne la mala fede, al fine di far valere l’inefficacia dell’atto dispositivo.

3. Ricostruzione del profilo della circolazione dei beni destinati ai sensi dell’art. 2645-ter c.c.

In assenza di soluzioni derivanti da prescrizioni normative, l’interprete non può che ricavare le regole attinenti alla circolazione del bene destinato ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. dai principi complessivamente emergenti dal tessuto normativo in tema di circolazione di beni e diritti, cercando di conciliare gli stessi principi con le peculiarità del singolo vincolo di destinazione, in modo che risulti sempre garantita, nel modo più pieno e, in ogni caso, in armonia con i suddetti principi, l’effettività dello stesso vincolo di destinazione. Al riguardo, il richiamo dell’analoga problematica della circolazione, dianzi operato in relazione agli istituti del fondo patrimoniale e del patrimonio destinato ad uno specifico affare, sembra aver messo in evidenza taluni principi, da ritenersi senz’altro applicabili, in linea generale, ad ogni ipotesi di circolazione di beni destinati.
Da un lato, infatti, le regole dell’agire congiunto dei coniugi e dell’eventuale autorizzazione giudiziale in presenza di figli minori paiono potersi considerare espressione di quell’esigenza, dal carattere così generale da poter assurgere al rango di principio, che la circolazione del bene destinato debba svolgersi tendenzialmente tenendo nella dovuta considerazione gli interessi ricollegabili a quei soggetti che, in ultima analisi, risultano i beneficiari della destinazione medesima (nel caso di specie, i coniugi ed i figli minori), mediante la predisposizione di strumenti tali da garantirne un elevato grado di protezione (sempre nel caso di specie, appunto, il consenso di entrambi i coniugi e, eventualmente, l’autorizzazione giudiziale).
Dall’altro lato, in effetti, la regola dell’espressa menzione del vincolo, contemplata dall’art. 2447- quinquies, ult. comma, c.c. in relazione agli atti compiuti in relazione allo specifico affare, ove intesa quale manifestazione dello scopo dell’atto dispositivo, nel senso, cioè, di esplicitazione della necessaria pertinenza dello stesso atto dispositivo alla realizzazione dello specifico affare, potrebbe farsi derivare dall’esigenza, qui particolarmente avvertita dal legislatore ma estensibile alle altre vicende destinatorie, di consentire al terzo contraente di formare correttamente il proprio affidamento in merito allo stipulando atto dispositivo.
Alla luce di quanto fin qui osservato, si comprende, allora, come il tema della circolazione del bene destinato finisca col ruotare attorno alla conciliazione di almeno due opposti interessi: l’interesse del beneficiario della vicenda destinatoria a che il bene non sia sottratto alla finalità prefissata (con conseguente violazione del vincolo posto nella parte conclusiva dell’art. 2645-ter c.c.); l’interesse del terzo contraente, acquirente del bene destinato, a che sia tutelato il proprio affidamento, ove correttamente formatosi, sulla bontà dell’acquisto compiuto. E se, inoltre, l’esigenza di contemperare i due rilevati interessi, da ultimo sottolineata, appare fondata, sembra quanto meno discutibile il tradizionale orientamento alla cui stregua una delle caratteristiche dei “patrimoni di destinazione” sarebbe senz’altro da individuarsi, oltre che nella limitazione di responsabilità, anche nel preteso vincolo di indisponibilità del bene destinato, con la conseguente affermazione della ineludibile inefficacia o addirittura nullità dell’eventuale atto dispositivo dello stesso bene destinato per finalità estranee allo scopo prefissato dal disponente all’atto della costituzione del vincolo di destinazione. Una soluzione in tal senso, infatti, ancorché ispirata ad un indiscutibile favor per la protezione del beneficiario, appare chiaramente lesiva dell’ulteriore (ma dal punto di vista sistematico non meno importante) esigenza di garantire la tutela dell’affidamento del terzo contraente.
La necessità di individuare, quali regole di circolazione del bene destinato, i criteri maggiormente idonei a garantire la bontà dell’acquisto in capo al terzo contraente rappresenta, quindi, un passaggio obbligatorio per ogni tentativo ermeneutico che cerchi di affrontare il tema degli atti di destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. senza limitarsi al profilo (ancorché rilevante) del momento costitutivo, bensì esaminando la relativa problematica nella piena consapevolezza che il bene, una volta vincolato, appare inesorabilmente destinato a circolare, nel complesso quadro rappresentato da un sistema, quale quello delineato nel nostro ordinamento, nel cui ambito la certezza dei traffici giuridici e degli acquisti assume il ruolo di principio fondamentale.

4. Il criterio della “espressa menzione del vincolo”

Nella prospettiva d’indagine volta ad individuare regole di circolazione compatibili con il principio di certezza dei traffici giuridici e degli acquisti, tali da garantire, almeno tendenzialmente, la bontà dell’acquisto compiuto dal terzo contraente, ci si deve domandare se ed in quale misura sia consentito applicare, con gli opportuni adattamenti, la disciplina contemplata in tema di patrimoni destinati ad uno specifico affare anche all’atto dispositivo del bene destinato ai sensi dell’art. 2645-ter c.c.; se ed in quale misura, cioè, sia consentito applicare la regola della “espressa menzione del vincolo”, nel senso sopra chiarito, anche agli atti dispositivi aventi ad oggetto un bene destinato ai sensi dell’art. 2645-ter c.c.; se, infine, nella redazione dell’atto dispositivo del bene destinato debba espressamente farsi menzione che lo stesso atto viene posto in essere in esecuzione del vincolo di destinazione e, in particolare, per realizzare il medesimo vincolo di destinazione. Nonostante il silenzio del legislatore sul punto, non pare azzardato ipotizzare che quello della espressa menzione del vincolo costituisca principio di carattere generale, ancorché indicato dal solo art. 2447-quinquies, ult. comma, c.c. Del resto, la conclusione in tal senso pare meglio coniugarsi con la condivisibile concezione di fondo, che individua nella destinazione patrimoniale un sistema complesso di regole che non si limitano all’art. 2645-ter c.c. e che, anzi, devono necessariamente trarsi dall’ordinamento complessivamente inteso(4).
Peraltro, anche a non voler reputare senz’altro operante la soluzione nel senso dell’obbligatorietà del criterio - in quanto espressione di principio di carattere generale - dell’espressa menzione del vincolo negli atti dispositivi di beni destinati, una regola ispirata al medesimo criterio potrebbe essere prevista in via convenzionale all’atto della costituzione del vincolo di destinazione e, quindi, pur non assurgendo al rango di regola legale, risulterà idonea ad assumere il ruolo di regola convenzionale di circolazione del bene destinato.
Ci si potrebbe, allora, domandare, quale valore possa attribuirsi all’introduzione convenzionale della regola della “espressa menzione del vincolo” negli atti dispositivi del bene destinato ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. Come risposta al predetto interrogativo potrebbe ragionevolmente qui invocarsi l’applicazione dell’art. 1352 c.c.: disposizione, quest’ultima, che consente alle parti di pattuire la c.d. forma volontaria, per la futura conclusione di un contratto(5). In particolare, adattando, con le opportune cautele, la norma in parola alle esigenze dettate dal caso concreto, quello ipotizzato potrebbe essere configurato in termini di patto che, pur non incidendo sulla complessiva forma del futuro contratto (ad es., la forma dell’atto pubblico), vada a determinare esclusivamente un limitato profilo del medesimo contratto (nel caso di specie, l’espressa menzione del vincolo). Con l’ulteriore precisazione che l’espressa menzione del vincolo dovrà presumersi necessaria ai fini della validità dell’atto, fatta salva una diversa previsione che sposti l’operatività della regola formale così inserita dal piano della validità a quello dell’efficacia dell’atto. Dal punto di vista dell’opponibilità di un simile patto nei confronti del terzo contraente, la relativa pubblicità sembra da affidarsi esclusivamente al “Quadro D” della nota di trascrizione dell’originario atto di destinazione.
Alla luce di quanto fin qui osservato, emerge l’importanza della delicata attività del notaio nella redazione dell’atto di destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. Al riguardo, pare possibile ipotizzare due distinte clausole da inserirsi, appunto, nell’atto costitutivo del vincolo di destinazione: l’una, per l’ipotesi in cui la regola dell’espressa menzione del vincolo sia introdotta ai fini della validità del successivo atto dispositivo del bene destinato; l’altra, per l’ipotesi in cui la stessa regola sia contemplata esclusivamente ai fini della efficacia del medesimo atto dispositivo.

(A) Art. …) Atti dispositivi del bene destinato
Gli atti di alienazione, di costituzione di diritti reali ivi inclusi diritti reali di garanzia, nonché gli altri atti comunque eccedenti l’ordinaria amministrazione, aventi ad oggetto il bene destinato allo scopo di cui sopra, potranno essere compiuti soltanto per la realizzazione del fine di destinazione e, quindi, dovranno recare, a pena di nullità dell’atto medesimo, l’espressa menzione dello stesso vincolo di destinazione.

(B) Art. …) Atti dispositivi del bene destinato
Gli atti di alienazione, di costituzione di diritti reali ivi inclusi diritti reali di garanzia, nonché gli altri atti comunque eccedenti l’ordinaria amministrazione, aventi ad oggetto il bene destinato allo scopo di cui sopra, potranno essere compiuti soltanto per la realizzazione del fine di destinazione e, quindi, dovranno recare, a pena di inefficacia dell’atto medesimo, l’espressa menzione dello stesso vincolo di destinazione.

5. La circolazione del bene destinato con il consenso del beneficiario

Appare del tutto evidente che il criterio della espressa menzione del vincolo, in quanto formale, non sia idoneo a garantire, in concreto, nella circolazione del bene destinato, la relativa pertinenza allo scopo prefissato dal disponente all’atto della costituzione del vincolo di destinazione. Parimenti di agevole comprensione è la considerazione dell’importanza della posizione del “beneficiario”, titolare di quell’interesse che, in effetti, giustifica l’intera vicenda destinatoria.
In questa prospettiva, il consenso del beneficiario all’atto dispositivo potrebbe risultare idoneo a porre una presunzione di conformità dello stesso atto dispositivo allo scopo della destinazione. Del resto, esemplare si mostra, al riguardo, il richiamo alla regola dell’agire congiunto dei coniugi, prevista dall’art. 169 c.c. ai fini della circolazione dei beni ricompresi nel fondo patrimoniale, secondo quanto sopra più volte ribadito.
Una regola di circolazione del bene destinato da formularsi nel rispetto della posizione del beneficiario potrebbe prevedere la necessità del consenso espresso del beneficiario, in quanto unico arbitro della propria situazione soggettiva. Ampliando, pertanto, le clausole prospettate nel precedente paragrafo, secondo la duplice alternativa:

(A) Art. …) Atti dispositivi del bene destinato
Gli atti di alienazione, di costituzione di diritti reali ivi inclusi diritti reali di garanzia, nonché gli altri atti comunque eccedenti l’ordinaria amministrazione, aventi ad oggetto il bene destinato allo scopo di cui sopra, potranno essere compiuti soltanto per la realizzazione del fine di destinazione e, quindi, dovranno recare, a pena di nullità dell’atto medesimo, l’espressa menzione dello stesso vincolo di destinazione.
Gli atti di cui sopra potranno essere compiuti esclusivamente con il consenso del beneficiario anch’esso sopra individuato, ovvero del legale rappresentante di quest’ultimo e previo rilascio delle necessarie autorizzazioni da parte della competente Autorità giudiziaria.

(B) Art. …) Atti dispositivi del bene destinato
Gli atti di alienazione, di costituzione di diritti reali ivi inclusi diritti reali di garanzia, nonché gli altri atti comunque eccedenti l’ordinaria amministrazione, aventi ad oggetto il bene destinato allo scopo di cui sopra, potranno essere compiuti soltanto per la realizzazione del fine di destinazione e, quindi, dovranno recare, a pena di inefficacia dell’atto medesimo, l’espressa menzione dello stesso vincolo di destinazione.
Gli atti di cui sopra potranno essere compiuti esclusivamente con il consenso del beneficiario anch’esso sopra individuato, ovvero del legale rappresentante di quest’ultimo e previo rilascio delle necessarie autorizzazioni da parte della competente Autorità giudiziaria.

Peraltro, in relazione alla regola ipotizzata nella formulazione della seconda parte delle clausole di cui sopra, non può farsi a meno di svolgere due considerazioni idonee, in un certo senso, a limitarne la possibile portata applicativa.
In primo luogo, infatti, se il consenso del beneficiario all’atto dispositivo, da un lato, pare rappresentare senz’altro una garanzia nel senso della più approfondita valutazione dell’interesse del beneficiario medesimo, lo stesso consenso, dall’altro, può costituire un concreto ostacolo alla circolazione del bene destinato e, quindi, in ultima analisi, può rendere non tanto agevole la gestione del bene destinato, soprattutto nelle ipotesi di conflitto, contrasto o, comunque, dissidio, tra gestore e beneficiario medesimo.
In secondo luogo - e questa è considerazione intimamente connessa alla precedente - la partecipazione del beneficiario all’atto dispositivo ben potrebbe dipendere dal rilascio di eventuali autorizzazioni (ad es., nel caso di minori e incapaci), così venendo a dilatare i tempi necessari al perfezionamento dello stesso atto dispositivo, con il conseguente rischio di pregiudizio proprio per l’interesse del medesimo beneficiario.
Le due considerazioni da ultimo svolte, quindi, devono indurre il notaio che riceva l’incarico di predisporre l’atto di destinazione ad indagare correttamente la volontà del disponente, soprattutto in relazione alla finalità da questi enunciata, al fine di comprendere se, effettivamente, lo stesso disponente abbia intenzione, in concreto, di limitare, per le ragioni dianzi esposte, la circolazione del bene destinato, mediante l’introduzione della regola del consenso del beneficiario.

6. La circolazione del bene destinato senza il consenso del beneficiario

Quanto fin qui rilevato sembra indurre a soffermarsi, allora, sulle ipotesi in cui all’atto di disposizione del bene vincolato partecipino esclusivamente il titolare-gestore del bene ed il terzo contraente: tali risultando, del resto, le fattispecie maggiormente diffuse nella prassi contrattuale.
Al fine di risolvere il conflitto tra il beneficiario della destinazione ed il terzo acquirente, non appare azzardato adottare, quale criterio che tenga nella dovuta considerazione i contrapposti interessi nella prospettiva del tendenziale relativo bilanciamento, quello della combinazione della espressa menzione del vincolo con il principio di buona fede, onde determinare l’efficacia o inefficacia dell’atto dispositivo del bene destinato.

6.1 La circolazione del bene destinato senza l’espressa menzione del vincolo e senza il consenso del beneficiario

Nell’ipotesi in cui all’atto di disposizione del bene vincolato partecipino esclusivamente il titolaregestore del bene destinato ed il terzo contraente, senza l’espressa menzione del vincolo, stante il regime di pubblicità immobiliare che caratterizza lo stesso vincolo di destinazione, quest’ultimo non può che reputarsi opponibile nei confronti del terzo contraente e, pertanto, l’atto dispositivo in parola dovrà ritenersi inefficace a prescindere dalla effettiva pertinenza del medesimo allo scopo della destinazione. In altre parole, solo l’enunciazione dello scopo dell’atto dispositivo, nel senso dell’affermazione della relativa pertinenza alle finalità che mediante la destinazione si intendono perseguire, consente di operare quel collegamento tra l’atto dispositivo e la stessa vicenda destinatoria. Una conclusione in tal senso, in effetti, sembra collocare in posizione di preminenza la posizione del beneficiario della destinazione, non ravvisandosi motivi di tutela dell’affidamento del terzo contraente, in quanto il vincolo di destinazione che grava sul bene oggetto dell’atto dispositivo è, per quanto rilevato, di per sé conoscibile, stante il regime di pubblicità immobiliare.
Qualora si obietti che, a voler così opinare, anche un eventuale atto dispositivo pertinente allo scopo della destinazione, ma posto in essere senza il collegamento formale al vincolo, resterebbe colpito da inefficacia, è agevole replicare con un duplice ordine di argomentazioni. In primo luogo, infatti, in tema di fondo patrimoniale, l’art. 169 c.c., nel porre la regola dell’agire congiunto dei coniugi, reputa sufficiente il consenso di entrambi ai fini della corretta circolazione del bene, senza che, all’uopo, sia necessaria la valutazione della pertinenza dell’atto ai bisogni della famiglia. In secondo luogo, non può escludersi che, nella fattispecie prospettata, il beneficiario della destinazione, possa ratificare l’atto dispositivo inefficace, ove ne ravvisi la pertinenza allo scopo della destinazione(6).
È radicalmente da escludersi, invece, che il bene destinato possa circolare gravato dal vincolo di destinazione. Gli obblighi che gravano sul gestore del bene destinato, sia o non sia esso anche titolare del medesimo bene, sia o non sia applicabile, in tutto o in parte, agli stessi obblighi la disciplina del mandato, non possono venire a gravare sul terzo contraente: la scelta del gestore del bene, infatti, risulta connotata da un elemento di fiduciarietà rispetto al quale il terzo contraente è da ritenersi del tutto estraneo(7).

6.2 La circolazione del bene destinato con l’espressa menzione del vincolo e senza il consenso del beneficiario

L’ipotesi in cui all’atto di disposizione del bene immobile vincolato prendano parte esclusivamente il titolare-gestore del bene destinato ed il terzo contraente rappresenta, per così dire, l’ipotesi fisiologica. In altre parole, allora, ai fini della corretta redazione dell’atto dispositivo del bene vincolato e nella prospettiva di garantire la stabilità degli effetti del medesimo atto dispositivo, sembra rendersi necessaria l’espressa menzione del vincolo, vale a dire l’enunciazione della circostanza che l’atto sia posto in essere in attuazione o esecuzione del vincolo stesso.
È del pari evidente che, qualora l’atto dispositivo, oltre che formalmente, risulti altresì sostanzialmente pertinente allo scopo della destinazione, nessun dubbio può insorgere sulla relativa piena efficacia. Maggiormente problematica, invece, è l’ipotesi in cui, nonostante la menzione del vincolo, l’atto debba ritenersi comunque estraneo alla finalità prefissata dal disponente all’atto della costituzione del vincolo. Al riguardo, il criterio dello stato soggettivo del terzo contraente, nel senso della relativa buona fede o mala fede, appare l’unico in grado di affermare o escludere la piena efficacia dell’atto dispositivo.
Qualora, infatti, l’atto dispositivo, nonostante l’espressa menzione del vincolo, sia posto in essere per finalità estranee allo scopo della destinazione ma, al momento del suo perfezionamento, il terzo risulti in buona fede, deve reputarsi prevalente, rispetto all’interesse del beneficiario della destinazione, l’interesse dell’ordinamento alla tutela dell’affidamento incolpevole dello stesso terzo contraente e, in ultima analisi, alla certezza e stabilità dell’acquisto da questi compiuto.
Dal sistema della destinazione patrimoniale complessivamente inteso, poi, per delineare la posizione del beneficiario, sembra emergere la necessità di richiamare le regole dettate per lo svolgimento dell’attività degli enti e, in particolare, delle società di capitali, al fine di ricavare un principio adattabile anche alla materia qui in esame. In quella sede (artt. 2384 e 2475-bis c.c.), infatti, si pone la regola alla cui stregua le limitazioni ai poteri dell’organo amministrativo - risultanti dallo statuto o da una decisione dell’organo competente (nelle società per azioni), ovvero dall’atto costitutivo o dall’atto di nomina (nelle società a responsabilità limitata) - non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società. Se, allora, il fenomeno degli enti deve essere ricostruito in termini di destinazione patrimoniale mediante soggettivizzazione(8), in che cosa differirebbe l’atto compiuto dall’amministratore della società con eccesso di potere rispetto all’atto compiuto dal gestore del bene destinato per finalità estranee allo scopo della stessa destinazione (mediante separazione patrimoniale)? Dovendosi, necessariamente, dare risposta negativa al quesito prospettato e, cioè, dovendosi, sempre necessariamente, ravvisare la palese affinità delle due ipotesi, la tutela del beneficiario della destinazione si sposterà sul piano risarcitorio, al pari di quanto avviene per i creditori sociali (art. 2394 c.c.).
Nella differente ipotesi, al contrario, nella quale, nonostante l’espressa menzione del vincolo, il terzo contraente versi in mala fede al momento del perfezionamento dell’atto dispositivo del bene destinato, in quanto consapevole della circostanza dell’estraneità del medesimo atto dispositivo alle finalità prefissate, quest’ultimo sarà colpito dall’inefficacia, non potendosi ravvisare quell’esigenza di tutela del terzo contraente, il cui affidamento, in effetti, non pare formatosi incolpevolmente. Non può farsi a meno di rilevare, al riguardo, che l’espressa menzione del vincolo, in una con le risultanze dei Registri immobiliari, sia idonea a creare una presunzione di conformità dell’atto dispositivo allo scopo della destinazione: la stessa presunzione di conformità, tuttavia, è destinata a cadere qualora sia dimostrata la mala fede del terzo contraente. Inoltre, secondo i principi generali, dovendosi la buona fede presumersi in capo al terzo contraente, sarà a carico del soggetto (o dei soggetti) interessato (o interessati) l’onere di provarne la mala fede, onde far valere l’inefficacia dell’atto dispositivo illegittimamente compiuto.

7. Circolazione del bene destinato e regime patrimoniale della famiglia

L’esame delle problematiche connesse alla circolazione dei beni già oggetto di vincolo di destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. non può prescindere da una sintetica riflessione concernente i relativi rapporti con il regime patrimoniale della famiglia. A tal fine, appare necessario distinguere le due ipotesi che, dal punto di vista strutturale, possono ragionevolmente prospettarsi: (A) l’ipotesi, per così dire, maggiormente aderente al dato letterale dell’art. 2645-ter c.c., nella quale, cioè, il titolare del bene imprima sul medesimo il vincolo di destinazione, assumendo, conseguentemente, il ruolo di gestore del bene medesimo; (B) l’altra, parimenti diffusa nella prassi e ravvisabile in numerose fattispecie tipizzate di destinazione patrimoniale, nella quale l’imposizione del vincolo di destinazione sia accompagnata dal trasferimento (strumentale) del bene dal disponenteconferente ad altro soggetto (gestore), il quale, appunto, finisce con l’acquistare, in relazione allo stesso bene, una titolarità strumentale alla realizzazione dello scopo prefissato.
Nell’ipotesi sub A, in effetti, il problema del regime patrimoniale della famiglia sembra assumere un rilievo marginale, attesa la circostanza che, qualora il bene da vincolarsi appartenga ai coniugi in regime di comunione legale dei beni, il consenso di entrambi sarà necessario ai fini del perfezionamento dello stesso atto di destinazione e, quindi, anche dei successivi atti di disposizione del bene destinato.
Nell’ipotesi sub B, al contrario, la circostanza che colui il quale riceva il bene dal conferente risulti, al momento del perfezionamento dell’atto di destinazione, coniugato in regime di comunione legale dei beni, non può che indurre a domandarsi quale sia la sorte del bene acquistato dallo stesso gestore. Al riguardo, appare intuitivo rilevare come il bene destinato, pur entrando nella sfera giuridica del titolare-gestore del medesimo, debba considerarsi sottratto alla regola generale posta dall’art. 177, lett. a, c.c. e, quindi, escluso dal novero dei beni rientranti nella comunione legale(9): l’acquisto del bene destinato da parte di colui che ne assume la gestione, infatti, non è acquisto di titolarità piena, bensì acquisto di titolarità strumentale, che si giustifica in capo allo stesso gestore esclusivamente in vista della realizzazione delle finalità che sono alla base della medesima vicenda destinatoria.
L’esclusione dell’acquisto dalla comunione legale dei beni, nella fattispecie da ultimo prospettata, pare trovare fondamento non tanto nella previsione di cui all’art. 179, lett. b, c.c., che si riferisce, tra gli altri, ai beni «acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione», non potendosi qualificare, sotto il profilo causale, l’atto di destinazione alla stregua di un atto di natura donativa, quanto, piuttosto, nella regola contenuta nella successiva lett. d, della medesima disposizione, che esclude dalla comunione legale i beni «che servono all’esercizio della professione del coniuge». Una simile proposta ricostruttiva presuppone, ovviamente, un concetto estremamente lato di “attività professionale” del coniuge, tale da ricomprendervi, cioè, nella prospettiva di una funzionalizzazione del bene all’attività svolta dal soggetto, anche le ipotesi di gestione di beni propri nell’interesse altrui: caratteristica, quest’ultima, dei fenomeni di destinazione patrimoniale(10).


(1) Cfr., per tutti, anche per gli opportuni ulteriori riferimenti, M. BIANCA, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova, 1996, p. 28 e ss.

(2) Il riferimento è a R. QUADRI, «La circolazione dei beni del “patrimonio separato”», in Nuova giur. civ. comm., 2006, II, p. 12 e ss., nonché ID., La destinazione patrimoniale. Profili normativi e autonomia privata, Napoli, 2004, p. 38 e ss. e passim.

(3) Per tutti, G. GABRIELLI, voce Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, p. 304. Per l’esame delle differenti proposte di lettura dell’art. 169 c.c. e, quindi, per l’affermazione del potere più o meno ampio dei coniugi di derogare alle regole ivi contenute, basti qui rinviare, anche per gli opportuni riferimenti bibliografici a R. QUADRI, «Alienazione di beni costituiti in fondo patrimoniale e autorizzazione giudiziale», in Nuova giur. civ. comm., 2001, I, p. 170 e ss. nonché, più di recente, ID., voce Fondo patrimoniale, in Enc. giur., XVI, Roma, 2007, p. 6 e ss.

(4) Sembra questa la conclusione, se non se ne tradisce il senso, anche dell’approfondita riflessione di L. GATT, Dal trust al trust. Storia di una chimera, Napoli, 2010, p. 239 e passim.

(5) Sulla forma volontaria, per tutti, anche per gli opportuni ulteriori riferimenti, C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Milano, 2000, p. 296 e ss.

(6) Del resto, la soluzione prospettata nel testo, nel senso, cioè, di attribuire al beneficiario della destinazione il potere di ratificare l’atto dispositivo illegittimamente compiuto dal gestore del bene vincolato, pare, più in generale, conciliarsi con il principio di carattere generale, enunciato dall’art. 1399 c.c., che attribuisce all’interessato il potere di ratificare l’atto compiuto dal falsus procurator.

(7) Per una più ampia ricostruzione della posizione del “gestore”, nel quadro della fattispecie delineata dall’art. 2465-ter c.c., basti qui rinviare a R. QUADRI, «L’art. 2645-ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione», in Contr. e impr., 2006, p. 1724 e passim. Peraltro, l’eventuale “trasferimento”, per così dire, dell’obbligo di gestione del bene destinato dal gestore originario al terzo acquirente del medesimo bene destinato, potrebbe prospettarsi esclusivamente nell’ipotesi in cui ciò risponda ad un programma effettivamente concordato da tutti i soggetti coinvolti nella vicenda destinatoria (appunto, disponente, gestore e terzo). In tal senso, in effetti, sembrerebbe deporre proprio quell’elemento di fiduciarietà, cui si è fatto cenno nel testo, che deve ritenersi alla base della scelta del gestore, compiuta da parte del disponente in sede di costituzione del vincolo. Per quanto dianzi rilevato, pare a maggior ragione da respingersi ogni conclusione nel senso dell’automatico “trasferimento” dell’obbligo di gestione nella sfera giuridica del terzo contraente: quest’ultimo, altrimenti, si vedrebbe esposto al rischio dell’assunzione del predetto obbligo di gestione in assenza di manifestazione di volontà in tal senso ed in assenza di espressa previsione normativa (e, quindi, in ultima analisi, in contrasto con i principi generali dell’ordinamento in tema di assunzione del debito).

(8) Del resto, anche sul versante degli enti del libro I c.c., si prevede (art. 19) che le limitazioni del potere di rappresentanza che non siano pubblicate non possono essere opposte ai terzi, salvo che si provi che essi ne fossero a conoscenza. Rispetto al sistema legislativamente delineato per le società di capitali - pur emergendo un differente rilievo della pubblicazione della limitazione e pur divergendo il requisito soggettivo da verificarsi in capo al terzo («aver intenzionalmente agito a danno della società», nelle società di capitali; mera “conoscenza” della limitazione del potere rappresentativo, negli enti del libro I c.c.), probabilmente per una maggiore esigenza di tutela del terzo quando abbia a contrattare con un ente che agisca per fini di lucro - medesima appare, comunque, anche in relazione al sistema degli enti del libro I c.c. (ed ancorché, secondo quanto rilevato, meno intensamente garantita), quell’esigenza di tutela dell’affidamento incolpevole del terzo contraente. Quanto dianzi sottolineato non può che rappresentare un’ulteriore conferma dell’idea della destinazione patrimoniale quale sistema caratterizzato da un nucleo di regole, pur divergenti sotto taluni profili, ma in sostanza ispirate agli stessi principi.

(9) Sul punto, v. anche G. PETRELLI, «La trascrizione degli atti di destinazione», in Riv. dir. civ., 2006, II, p. 168.

(10) Se, come rilevato nel testo, l’acquisto del bene destinato da parte del gestore del medesimo deve ritenersi riconducibile alla previsione di cui all’art. 179, lett. d, c.c., appare estremamente importante che, nella redazione dell’atto di destinazione, si faccia emergere la dichiarazione del coniuge del gestore prevista dallo stesso art. 179, comma 2, c.c., proprio al fine di consentire una più lineare futura circolazione dello stesso bene destinato.

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