Le clausole regolative dei rapporti intergestori
- capitolo XV -
Le clausole regolative dei rapporti intergestori
di Massimo Saraceno
Notaio in Roma
1. Premessa
L’analisi delle relazioni giuridiche fra masse patrimoniali distinte, ma gestite dal medesimo soggetto, sarebbe naturalmente destinata a svolgersi sul piano dell’individuazione della disciplina ad esse applicabile ove fossero sopite le dispute, tutte invero in chiave dogmatica, sull’esatta individuazione del “grado” di autonomia di tali patrimoni rispetto a quello generale del soggetto o di altrettanti “patrimoni di destinazione” allo stesso riconducibili.
Al contrario, il superamento del dogma dell’unità del patrimonio non ha di per sé contribuito a chiarire l’esatta portata dei termini “patrimonio autonomo” e “patrimonio separato”, cui recentemente si è aggiunto quello di “patrimonio segregato”, ancora promiscuamente utilizzati nella teoria e nella prassi con un grado di confusione tale da imporre a chi voglia occuparsi della comunicazione patrimoniale fra masse distinte, seppur non personificate, di chiarire la loro portata semantica alla luce delle elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali consolidatesi nel corso degli ultimi anni, ma soprattutto dei molteplici ed eterogenei dati positivi.
Indagine, quest’ultima, da condursi in questa sede senza alcuna pretesa di esaustività, ma solo strumentalmente all’obiettivo di prefigurare un quadro sufficientemente chiaro dei potenziali rapporti interpatrimoniali fra compendi separati.
2. La graduazione della separazione patrimoniale nel diritto positivo
È noto come la civilistica italiana abbia mutuato dall’esperienza tedesca le prime compiute elaborazioni dottrinali relative al distacco di un complesso di beni e rapporti dal patrimonio di provenienza senza necessariamente postulare un processo di personificazione del patrimonio separato(1).
La tradizionale linea di demarcazione tra “patrimonio autonomo” da un lato e “patrimonio separato” dall’altro è stata tracciata dalla dottrina italiana nel senso di riservare la prima espressione a quelle masse facenti capo ad una pluralità di soggetti che ne siano contitolari, quali ad esempio i fondi delle associazioni non riconosciute, i patrimoni delle società sprovviste di personalità giuridica, e sussumere nella seconda tutti quei fenomeni, già presenti nel codice civile, caratterizzati dalla riconducibilità dei rapporti ad un unico soggetto, quali l’eredità giacente, l’eredità beneficiata, il patrimonio del concepito e del nascituro non concepito, il patrimonio familiare (e ora il fondo patrimoniale), il patrimonio sottoposto a liquidazione concorsuale(2).
È stato, peraltro, messo in luce come si tratti di una distinzione terminologica meramente descrittiva, in quanto nelle fattispecie sopra delineate come esemplificative di fenomeni di patrimoni autonomi si suole ormai riconoscere una soggettività giuridica propria, di talché la «qualificazione di autonomia non si giustifica posto che un vero e proprio distacco di un dato nucleo patrimoniale da uno più ampio può verificarsi soltanto se ad esso non faccia seguito l’imputazione di tale nucleo ad un nuovo soggetto, anche se non fornito di personalità»(3).
Quindi l’alterità soggettiva che contraddistinguerebbe le fattispecie normativamente previste di “patrimonio autonomo” rispetto alla massa patrimoniale di provenienza e al suo titolare non porrebbe, ove si accettasse la cennata dicotomia, particolari problemi, né ricostruttivi né disciplinari, per ammettere compiute forme di relazione giuridica fra gli stessi.
L’indagine dovrà piuttosto focalizzarsi su quei fenomeni di oggettivizzazione dei patrimoni destinati ad uno scopo nei quali l’interesse destinatorio sia sotteso a più o meno complessi procedimenti di fonte legislativa o negoziale, ma anche in quest’ultimo caso comunque riconducibili ad espresse disposizioni legislative, che determinino un’articolazione del patrimonio generale del soggetto tale da incidere sul regime della responsabilità.
Un nucleo di disciplina comune è, dunque, rinvenibile in tutte le forme di separazione patrimoniale “da destinazione”, nel senso che la limitazione di responsabilità ex art. 2740 comma 2 c.c. a dati elementi patrimoniali è il requisito minimale per isolare una parte del patrimonio del soggetto ai fini della realizzazione degli interessi destinatori. Il grado di colorazione funzionale del patrimonio destinato deve essere, pertanto, tale da precludere l’aggressione degli elementi che lo costituiscono da parte dei creditori generali del soggetto per finalità estranee agli interessi destinatori.
La destinazione è idonea a determinare forme di articolazione del patrimonio e di aggregazione di beni in ragione degli interessi di volta in volta perseguiti, ma non produce l’effetto di separazione se non quando gli interessi destinatori siano oggetto di una valutazione legale tipica che integri la fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 2740 c.c. oppure quando, nell’ipotesi di destinazione negoziale c.d. atipica, il giudizio relazionale del caso concreto conduca ad un particolare apprezzamento positivo della qualità degli scopi della destinazione ritenuti prevalenti rispetto al valore della tutela del ceto creditorio(4)del destinante.
Occorre piuttosto verificare, per i fini che qui interessano, se a quel dato minimale proprio di ogni separazione patrimoniale, incidente sul regime di responsabilità, si aggiungano in ogni caso ulteriori caratteristiche strutturali in termini di insensibilità della massa distinta rispetto alle vicende del titolare del patrimonio generale tali da condurre ad una ricostruzione unitaria della categoria del patrimonio separato oppure se la diversa graduazione della separazione patrimoniale nell’ordinamento positivo debba piuttosto condurre a decostruire la categoria dei patrimoni separati come fenomeno unitario.
L’esame va condotto con rigorosa analisi, non tanto dei termini adoperati dal legislatore, quanto della disciplina dettata in termini di unilateralità o bilateralità del regime di responsabilità, di cause estintive del soggetto o del patrimonio separato, di regime patrimoniale della famiglia, di poteri dispositivi e gestori, di rapporti interpatrimoniali fra le varie masse riconducibili allo stesso titolare. Non sono, quindi, soltanto le espressioni “patrimoni distinti”, “masse distinte”, “unità o pluralità dei patrimoni” che devono orientare l’interprete verso l’affermazione di un maggior grado di autonomia di quei patrimoni il cui tessuto normativo evidenzi lessicalmente un distacco di una parte di beni e rapporti dal patrimonio residuo, ma i contenuti della disciplina applicabile alle evoluzioni dinamiche dei vari patrimoni separati, dai quali è possibile trarre conclusioni dotate di un maggior grado di affidabilità in ordine alla diversa capacità di essi a costituire autonomi centri non personificati di imputazione giuridica.
Solo l’esito di tale indagine, peraltro limitata (per l’ottica squisitamente notarile della ricerca) ai casi di patrimoni separati suscettibili di ricomprendere beni immobili, potrà condurre a ricostruire i contenuti di possibili rapporti interpatrimoniali fra masse separate, ma riconducibili al medesimo soggetto, nel senso che l’ampiezza delle possibili relazioni giuridiche fra le stesse sarà da valutarsi come direttamente proporzionale al grado di autonomia da riconoscere al patrimonio separato del soggetto rispetto al suo patrimonio generale o di altrettanti patrimoni separati gestiti dallo stesso(5).
È significativa, in chiave sistematica, l’evoluzione normativa della disciplina dei fondi comuni di investimento di tipo chiuso approdata, con le modifiche apportate al Tuf dall’art. 32 del D.l. 78/2010, nella definizione contenuta all’art. 1 comma 1 lett. j, di “patrimonio autonomo” e nel compiuto effetto di separazione patrimoniale delineato dall’art. 32 «il patrimonio autonomo è distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione del risparmio e da quello di ciascun partecipante, nonché da ogni altro patrimonio gestito dalla medesima società»; effetto che, sul piano della responsabilità, si riflette nella disposizione di cui all’art. 36 comma 6 «delle obbligazioni contratte per suo conto, il fondo comune di investimento risponde esclusivamente con il proprio patrimonio».
Peraltro, in assenza di una qualsiasi struttura organizzativa minima propria, con rilevanza esterna, il fondo - essendo gestito interamente dalla società di gestione - non assurge a ente dotato di propria soggettività giuridica, come è stato recentemente ribadito da un intervento chiarificatore della Cassazione(6)in tema di pubblicità immobiliare: la mancanza di poteri di autodeterminazione - neanche parziale - delle proprie scelte e linee guida del proprio agire (ciò in cui risiederebbe il nucleo minimale della soggettività giuridica), ha indotto la Suprema Corte a ravvisare nel fondo esclusivamente un patrimonio “autonomo”(7)dotato di una capacità propria di intrattenere rapporti giuridici.
Sul complesso dei beni apportati al fondo emerge chiaramente dalla cennata disciplina la creazione e l’attribuzione di una legittimazione legale della società di gestione ad amministrare il fondo nell’interesse dei partecipanti; una titolarità, dunque, formale, sia pure funzionalizzata(8)al perseguimento degli interessi dei partecipanti.
Si potrebbe, anzi, ritenere che i tradizionali schemi dominicali siano insufficienti a descrivere il rapporto gestorio intercorrente fra il soggetto (la Sgr) e l’oggetto della gestione (il fondo), nel senso che le facoltà che compongono il diritto soggettivo di proprietà, e cioè la gestione e il potere di disposizione, il godimento dei beni e la facoltà di appropriarsi dei frutti, e la responsabilità patrimoniale sono permeati da limitazioni intrinseche che affievoliscono il legame fra il soggetto e l’oggetto al punto da dover ammettere come sia arduo «configurare un diritto unitariamente inteso di proprietà in capo alla Sgr sui beni del Fondo»(9).
La società di gestione è, pertanto, il “mero” gestore di un patrimonio capace di instaurare rapporti giuridici suoi propri e dotato del massimo grado di autonomia patrimoniale riconoscibile ad un complesso di beni destinato ad uno scopo(10).
Il che, sul piano della responsabilità, si evince dall’assoluta insensibilità dei beni del fondo alle obbligazioni contratte sia dalla società di gestione (art. 36 comma 6 Tuf ) in nome proprio o per conto di altri fondi dalla stessa gestiti, sia dalla banca depositaria o dai singoli partecipanti; insensibilità ritenuta peraltro bilaterale, dal momento che sembra da escludersi la responsabilità sussidiaria della Sgr nei confronti delle obbligazioni del fondo(11).
Ma anche la perfetta “dissociazione fra proprietà e controllo”, che consegue alla totale privazione dei partecipanti del fondo, a fronte dell’investimento iniziale, di poteri di indirizzo nella gestione, depone per il totale distacco della massa patrimoniale in cui si sostanzia il fondo dal patrimonio di coloro che operano l’investimento iniziale; fenomeno proprio anche delle società di capitali, ma con un maggior grado di distacco degli investitori rispetto ai soci di una società di capitali, in quanto i primi sono tenuti essenzialmente ad operare soltanto la scelta iniziale della Sgr secondo l’adesione ad un programma organizzativo iniziale (il regolamento) senza che l’assemblea dei partecipanti abbia successivi poteri di intervento nell’attività di gestione, neanche sotto il più limitato profilo della individuazione degli amministratori, se non il potere di revoca dell’incarico gestorio.
Anche in sede di liquidazione si riscontra un’assoluta mancanza di commistione fra il patrimonio della Sgr e quello dei fondi, tant’è che il riparto è effettuato unicamente fra i partecipanti del fondo e, in caso di mancata riscossione delle somme da parte degli aventi diritto, non si verifica alcuna attribuzione in capo alla Sgr che ha istituito il fondo(12).
Una separazione patrimoniale, dunque, perfetta, costituente una forma di articolazione del patrimonio che rappresenta un’alternativa, perfettamente equivalente sul piano funzionale, alla creazione di una persona giuridica(13).
Sul piano della pubblicità immobiliare, se si seguisse l’orientamento espresso dalla Suprema Corte(14)la trascrizione dovrebbe operarsi a favore della società di gestione, mentre la distinzione fra beni collegati ad un fondo e beni collegati ad altro fondo, ma facenti capo alla medesima Sgr, dovrebbe risultare da specifica annotazione «idonea a rendere nota ai terzi l’esistenza del vincolo pertinenziale a favore del fondo».
La non compiuta evoluzione del processo di soggettivizzazione dei fondi non esclude, peraltro, l’ipotizzabilità di una trascrizione direttamente a favore del fondo, non potendo dirsi tale opzione aprioristicamente esclusa dall’art. 2659, n. 1, c.c., alla luce delle modifiche apportate ad opera della legge 52/1985 per le associazioni non riconosciute, ritenute estensibili anche ad «associazioni di fatto con struttura evanescente»(15).
Com’è stato acutamente rilevato(16), un’organizzazione - pur minimale - esiste anche nei fondi ed è rinvenibile nell’assemblea dei partecipanti al fondo, con poteri tutt’altro che indifferenti, potendo giungere anche alla revoca dell’incarico gestorio, ovvero nell’assemblea degli obbligazionisti, notoriamente qualificata come associazione atipica.
Ma, senza giungere alla estremizzazione concettuale di ritenere che, a meri fini pubblicitari, il fondo si soggettivizza per gli scopi pratici di cui all’art. 2659, n. 1, c.c. (una sorta, come si è detto(17), di entificazione monofunzionale), la possibilità di trascrivere direttamente a favore del fondo può discendere anche da un’interpretazione estensiva della nozione di “parte”, non necessariamente circoscritta ad enti soggettivizzati, ma suscettibile di estendersi potenzialmente anche a centri autonomi di imputazione giuridica dotati del massimo grado di autonomia patrimoniale(18).
Anche nel trust, la separazione patrimoniale, ridenominata “segregazione”(19), assume i connotati di un distacco perfetto di specifici elementi patrimoniali dal patrimonio generale del disponente e tale, comunque, da non ingenerare confusione neanche con quello del trustee.
Nell’ottica dell’apprezzamento di una diversa graduazione della separazione patrimoniale negli eterogenei dati normativi, la segregazione del trust si caratterizza, in virtù di un pacifico orientamento dottrinale, per una limitazione di responsabilità bidirezionale, nel senso, da un lato, che i creditori personali del trustee non possono aggredire i beni in trust e, dall’altro, che i creditori aventi titolo nella destinazione da trust non possono aggredire, neanche in via sussidiaria, i beni personali del medesimo trustee: il che non potrebbe avvenire se non nell’ottica di una compiuta forma di separazione patrimoniale, che potrebbe essere colorata dall’attributo “perfetta” piuttosto che essere sostituita dal sostantivo “segregazione”, sia dal patrimonio generale del soggetto dal quale quei dati elementi che vanno a comporre il trust fund si staccano che da quello del gestore-trustee.
La completezza del distacco del nucleo di dati elementi patrimoniali costituenti il trust fund è, inoltre, confermato dalla loro esclusione dalla eventuale comunione legale dei beni e dalla successione del trustee, costituendo sotto tale profilo l’art. 11 lett. c, della Convenzione dell’Aja una deroga all’art. 177 comma 1 lett. a, c.c., nonché ai principi codicistici in materia di successione legittima o testamentaria(20).
Pur non essendo revocabile in dubbio che dall’impianto normativo della Convenzione dell’Aja emerga chiara tale reciproca insensibilità (dei beni in trust rispetto ai creditori personali del trustee e dei beni del trustee rispetto alle obbligazioni inerenti al trust), non può omettersi di rilevare come, secondo il diritto inglese, il trustee risponda anche con il proprio patrimonio personale, abbia egli o meno palesato al terzo la propria qualità di trustee, salvo che nel contratto stipulato con il terzo non vi sia una clausola che preveda espressamente l’esclusione della responsabilità con i beni del trustee per le obbligazioni inerenti al trust; con ciò atteggiandosi detta separazione patrimoniale, in diritto inglese, come unilaterale(21).
Indici normativi, dunque, dai quali è possibile desumere, se non la soggettività giuridica(22)del trust, quantomeno una completa autonomia del patrimonio, tale da renderlo un centro di imputazione di qualsiasi rapporto, obbligatorio o reale, capace di interagire con il patrimonio generale del trustee o di altrettanti patrimoni in trust facenti capo allo stesso trustee.
In tale direzione si muove una recente giurisprudenza di merito in materia di pubblicità immobiliare(23)che - pur negando l’affermazione di una qualche forma di soggettività giuridica in capo al trust - sembra legittimare la prassi di consentire la trascrizione contro il disponente e a favore del trust (con il proprio codice fiscale), a margine della quale annotare il rapporto gestorio a favore del trustee. Come già accennato per i fondi comuni di investimento, sembrerebbe assistersi alla stessa evoluzione nella prassi in materia di pubblicità immobiliare che ha accompagnato la modifica dell’art. 2659 c.c. ad opera della legge 27 febbraio 1985, n. 52, allorchè è stata introdotta la possibilità di trascrivere direttamente a favore di un’associazione non riconosciuta (e non degli associati) con evidente allargamento dei confini concettuali della nozione di “parte”: cioè la “parte” a favore della quale deve avvenire la trascrizione non è più soltanto una persona, fisica o giuridica, ma anche un’organizzazione non personificata portatrice di interessi giuridicamente rilevanti e ora, in una prospettiva evolutiva, sembrerebbe anche un patrimonio autonomo non soggettivizzato, purché caratterizzato da una perfetta separazione patrimoniale, che sia funzionalizzato al raggiungimento di interessi meritevoli di tutela(24).
L’obiezione che potrebbe muoversi, de iure condito, a quest’impostazione è che il principio di tassatività al quale è informato l’intero sistema della pubblicità immobiliare in generale, che governerebbe anche l’ambito dei soggetti a favore dei quali operare le formalità trascrittive ex art. 2659 c.c,, non consenta una trascrizione così strutturata.
Al di là del tecnicismo pubblicitario, che peraltro presenterebbe - ove si accogliesse la tesi della trascrivibilità a favore del trust - l’indubbio vantaggio di evitare una nuova trascrizione nell’ipotesi di mutamento del trustee (ma solo un annotamento del rapporto gestorio in favore del nuovo trustee), è evidente come la conclusione in tema di trascrizione muova dall’idea di configurare il trust fund quale un centro autonomo di interessi e relazioni giuridiche senza postulare un processo di entificazione del patrimonio che conduca necessariamente all’affermazione della soggettività giuridica(25).
La ricostruzione sistematica della disciplina in tema di patrimoni destinati delle società per azioni dimostra, invece, come il legislatore abbia inteso riconoscere un minor grado di separazione di tali patrimoni rispetto a quello generale della società.
A fronte dell’effetto di insensibilità del patrimonio destinato alle obbligazioni della società che consegue al perfezionamento della fattispecie complessa costituita dall’iscrizione della delibera nel Registro delle imprese, dal decorso dei sessanta giorni senza che i creditori abbiano fatto opposizione e, in caso di beni immobili, dalla trascrizione della deliberazione medesima, è espressamente prevista da un lato la salvezza della responsabilità illimitata della società per le obbligazioni derivanti da fatto illecito (art. 2447-quinquies, comma 3, c.c.) e, dall’altro, la riserva in favore della società degli eventuali residui della liquidazione dei patrimoni destinati in conseguenza del fallimento della società (arg. ex art. 155, comma 3, L.fall.), che esclude qualsiasi diritto dei soggetti che hanno effettuato apporti ai sensi dell’art. 2447-ter lett. d, c.c. o dei portatori di strumenti finanziari di partecipazione, ai sensi dell’art. 2447 lett. e, c.c.
L’idoneità, dunque, del patrimonio destinato nelle società per azioni a essere funzionalizzato al perseguimento di un interesse d’impresa non spezza definitivamente il legame con la società dal cui patrimonio generale è gemmato quello destinato, di talché la separazione è evidentemente imperfetta.
Al pari dei patrimoni destinati nelle società, anche il grado di separazione che consegue alla separazione patrimoniale da destinazione negoziale ex art. 2645-ter c.c non giunge ad un livello assoluto di autonomia rispetto al patrimonio dell’attuatore della separazione.
L’imperfezione della separazione patrimoniale è, in primo luogo, connessa al carattere unilaterale della limitazione della responsabilità per i debiti da destinazione, intesa nel senso che i creditori il cui titolo sia connesso alla destinazione possono soddisfarsi anche sul restante patrimonio dell’attuatore della destinazione (coincida o meno con il destinante), rimanendo invece discutibile soltanto se tale potere di aggressione del patrimonio generale dell’attuatore abbia carattere solidale o meramente sussidiario(26).
Il carattere solidale della reponsabilità del patrimonio residuo dell’attuatore rispetto ai beni costituenti il patrimonio destinato per i debiti da destinazione sembrerebbe poter discendere, sul piano tecnico, dall’assenza di un’espressa previsione normativa che contempli la sussidiarietà nonché, in chiave assiologia, dalla particolare meritevolezza degli interessi destinatori, da apprezzarsi in un’ottica pubblicistica, che giustificherebbe il potere dei creditori funzionali (da destinazione) di aggredire i beni non destinati del debitore-attuatore.
Ma il carattere relazionale della meritevolezza richiede una comparazione fra gli interessi dei beneficiari della destinazione con quelli di cui sia portatore il ceto creditore del destinante per stabilire se a questi ultimi debba essere preclusa l’escutibilità del patrimonio destinato, non certo per condurre il favor dei creditori da destinazione negoziale fino al punto di riconoscere loro un potere illimitato di aggressione del patrimonio residuo del debitore/attuatore.
Anche il profilo dinamico della gestione dei beni destinati è idoneo a disvelare un non compiuto distacco dei beni destinati rispetto al residuo patrimonio dell’attuatore della destinazione.
In primo luogo, nei casi di destinazione negoziale che non si risolva nella “mera” imposizione del vincolo di destinazione, ma importi il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale sui beni destinati in favore dell’attuatore della destinazione, all’ingresso dei beni destinati nel patrimonio dell’attuatore, ove costui sia coniugato in regime di comunione legale dei beni, l’esclusione dalla comunione legale non consegue ex se dal carattere meramente strumentale e non definitivo della titolarità del diritto reale trasferito in capo all’attuatore(27)o, addirittura, dal ruolo di esercente un ufficio di diritto privato, analogo a quello del trustee, che farebbe collocare l’acquisto de quo al di fuori della logica degli acquisti in regimi di comunione legale dei beni(28).
L’esclusione non può neanche fondarsi sull’art. 179 comma 1 lett. b, c.c., atteso il carattere non liberale del trasferimento “strumentale” all’attuatore, ma esclusivamente sull’art. 179 comma 1, lett. d, c.c.(29), applicato in via analogica, assimilando la professione del coniuge a qualsiasi altra attività - anche non strettamente professionale - svolta nell’interesse altrui (cioè per scopi non inerenti la famiglia dell’attuatore), il che richiede non soltanto una dichiarazione programmatica dell’attuatore della destinazione di voler funzionalizzare il bene destinato agli scopi della destinazione, ma anche la dichiarazione del coniuge dell’attuatore volta a condividere quell’intento programmatico ove il trasferimento abbia ad oggetto beni immobili (art. 179 comma 2 c.c.).
Il carattere non definitivo della detta esclusione può, inoltre, conseguire all’utilizzazione ex post dei beni destinati per scopi diversi da quelli per i quali il trasferimento è avvenuto, di guisa che l’opponibilità del carattere personale dei beni destinati e la loro non confusione con il resto dei beni in comunione legale dipenderà da una circostanza di fatto, spesso di non facile verificazione(30), indipendente dall’intervento adesivo del coniuge dell’attuatore ex art. 179 comma 2 c.c.
Il che evidenzia, ulteriormente, l’attenuazione dei profili di separazione patrimoniale rispetto al trust, in cui l’esclusione dalla comunione legale - una volta che il trust sia riconosciuto nell’ordinamento interno - è destinata ad operare ope legis in virtù dell’art. l’art. 11 lett. c, della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, costituendo - come si è detto - a tutti gli effetti una deroga all’art. 177 comma 1 lett. a, c.c., non ricavandosi da alcuna disposizione la ricaduta del trust fund nella comunione legale del trustee neanche nei casi di abuso del trustee o distrazione dell’utilizzo dei beni dagli scopi propri del trust.
Anche le vicende successorie che interessano i beni destinati ex art. 2645-ter c.c. denotano un minor grado di separazione patrimoniale rispetto al trust, in cui è testualmente previsto che i beni in trust non cadono nella successione del trustee (art. 11 lett. c, della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985).
Negli atti di destinazione occorre distinguere fra il caso in cui il destinante sia anche attuatore (c.d. negozio di destinazione autodichiarato) dall’ipotesi di dissociazione soggettiva fra destinante e attuatore.
Nel primo caso, se nell’atto di destinazione la morte del destinante è prevista quale causa di cessazione del vincolo di destinazione, i beni si trasferiranno mortis causa agli eredi o ai successori a titolo particolare di costui affinché vengano successivamente ritrasferiti con atto inter vivos al beneficiario finale, se nominato; altrimenti, in caso di mancata nomina di un beneficiario finale, essi si trasferiranno agli eredi o ai successori a titolo particolare liberi dal vincolo.
Ove, invece, la destinazione debba continuare in quanto nulla è stato previsto nell’atto di destinazione, i beni destinati si trasferiranno mortis causa agli eredi o ai successori a titolo particolare gravati dal vincolo di destinazione, ferma la necessità di nomina di un nuovo attuatore che, secondo una certa impostazione, potrebbe essere nominato “in sostituzione” anche dal destinante-attuatore con atto inter vivos in previsione della propria morte senza che ciò impinga nel divieto dei patti successori(31).
La soluzione non è dissimile in caso di morte dell’attuatore diverso dal destinante: i beni destinati si trasferiscono mortis causa ai suoi eredi o legatari, con obbligo di ritrasferimento ai beneficiari finali, se la destinazione è destinata a cessare, oppure gravati dal vincolo in caso di permanenza della destinazione (con nomina di nuovo attuatore da parte del destinante).
La mancanza di alcuna deviazione dalle regole generali in tema di trasmissione mortis causa dei beni destinati ex art. 2645-ter c.c. evidenzia come essi continuino a fare parte del patrimonio generale di colui il quale, sia pure solo formalmente (come l’attuatore diverso dal destinante), ne sia titolare al momento della morte senza che il particolare regime di responsabilità cui essi sono soggetti conduca ad un processo di entificazione di quella parte del patrimonio suscettibile di sottrarlo alle vicende circolatorie a causa di morte del patrimonio generale.
3. I rapporti intergestori nei patrimoni separati
L’apprezzamento della giuridicità dei rapporti fra patrimoni separati, pur in difetto di intersoggettività, è il diretto corollario della frantumazione del dogma dell’unità del patrimonio riconducibile al soggetto; relazioni suscettibili di instaurarsi fra il patrimonio generale del soggetto e patrimonio separato nonché fra patrimoni separati gestiti dal medesimo soggetto.
Già la disciplina codicistica dei patrimoni separati caratterizzati da una dimensione statica, in cui cioè la separazione patrimoniale è in funzione dell’interesse di assicurare l’isolamento dei rapporti giuridici nei casi di provvisoria incertezza nell’individuazione del soggetto che sarà destinato ad esserne il titolare (come nei casi di eredità giacente, di accettazione d’eredità con beneficio d’inventario o di patrimonio del concepito e del nascituro non concepito), ha costituito il substrato normativo su cui la civilistica tradizionale ha innestato le fondamenta dogmatiche per la costruzione della figura del rapporto giuridico unisoggettivo(32).
L’elaborazione di tale categoria concettuale, basata principalmente sull’art. 490 comma 2 c.c., testimonia come solo normalmente la coincidenza soggettiva fra i due poli del rapporto ne comporta l’estinzione per confusione, ma solo nella misura in cui il mantenimento in vita del rapporto non disveli una qualche utilità pratica, cioè non sia funzionale al conseguimento di un interesse giuridicamente apprezzabile. L’asse della giuridicità dei rapporti unisoggettivi si sposta, dunque, anche solo considerando i patrimoni separati statici presenti nell’impianto tradizionale del codice civile, verso una prospettiva obiettiva, incentrata cioè sui centri di interesse, non necessariamente confluenti verso la medesima direzione per il solo fatto di appartenere al medesimo soggetto.
La distinzione fra gli interessi dei creditori ereditari e quelli degli eredi giustifica, pertanto, la separazione del patrimonio del defunto da quello dell’erede e alimenta le potenziali relazioni giuridiche che fra essi possono instaurarsi, sia pure strumentali allo scopo della liquidazione dell’eredità.
Accanto al testuale mantenimento in vita dei rapporti obbligatori già preesistenti fra erede e de cuius (art. 490, n. 1 c.c.), atto a impedire che si operi l’estinzione dei diritti di credito e debito per confusione, la dottrina tradizionale non ha avuto difficoltà ad ammettere l’estensione della regola della separazione patrimoniale anche ai diritti reali, non già peraltro sul piano del trasferimento o costituzione ex novo di diritti reali fra il patrimonio separato e quello generale dell’erede beneficiato, quanto piuttosto sul versante della permanenza dei diritti reali limitati di cui era titolare l’erede su beni del defunto e, viceversa, di quelli che spettavano al defunto sui beni dell’erede(33).
L’inoperatività, quindi, delle regole di cui agli artt. 1014, n. 2 e 1072 c.c. in materia di usufrutto e servitù vale, in materia di eredità beneficiata, a segnare il limite di responsabilità dell’erede rispetto ai creditori ereditari, nel senso cioè che la mancata estinzione per confusione è in funzione della limitazione del potere di aggressione del creditore ereditario al valore del diritto reale limitato già facente capo al de cuius.
La confusione delle contrapposte qualità del rapporto giuridico in un unico soggetto non ne è, pertanto, inderogabilmente causa di estinzione quanto, piuttosto, un accidente nel corso dello svolgimento delle relazioni giuridiche che è idoneo ad alterare la loro struttura in ragione della prevalenza della qualifica giuridica sul soggetto, «sino a rendere possibile il sorgere o il permanere di più qualifiche e corrispondenti posizioni giuridiche, di regola contrapposte, nonostante l’identità del soggetto, portatore di entrambe»(34).
S’impone, a questo punto, affinchè l’affermazione secondo la quale la confusione non conduce in ogni caso all’estinzione del rapporto non sembri circoscritta al fenomeno dei patrimoni separati, un chiarimento d’ordine sistematico.
Non necessariamente la confusione impeditiva dell’estinzione del rapporto deriva, quale conseguenza diretta, dalla separazione dei patrimoni, come nel caso di accettazione beneficiata dell’eredità, potendo essa derivare, pur nell’unità del soggetto e del patrimonio, dalla dualità dei titoli di acquisto dei diritti.
Così, nel prelegato posto a carico dell’unico erede, nel quale è dato assistere alle maggiori tensioni interne per riconoscere rilevanza giuridica al rapporto unisoggettivo, il patrimonio del prelegatario-erede è unico, nel senso che il bene oggetto del legato è sin dall’apertura della successione destinato a confondersi con il residuo patrimonio del prelegatario, senza pertanto che si possa ravvisare quel nucleo minimo di disciplina - cioè la limitazione di responsabilità - che è proprio di ogni patrimonio separato; eppure la dualità dei titoli di acquisto ha condotto la più autorevole dottrina civilistica a giustificare l’utilità della permanenza delle distinte qualità (erede e legatario) del prelegatario.
Il tentativo di superamento delle tesi tradizionalmente orientate a negare la concepibilità di un legato a carico dell’unico erede, siccome caratterizzato da un’inammissibile confluenza dell’onorato e dell’onerato in un unico soggetto(35), si è svolto o sul piano della quiescenza del rapporto(36), che riprenderebbe vigore in caso di rinunzia all’eredità (o, in termini equivalenti, nelle ipotesi di nullità, annullabilità, revocazione dell’accettazione o, ancora, in caso di prescrizione del diritto di accettazione), ovvero per il riconoscimento una sua fisiologica utilità sia per il differente modo di acquisto a titolo di prelegatario rispetto all’eredità (automatico, senza bisogno di accettazione) che per la differente disciplina rispetto alle imputazioni in caso di azione di riduzione e rispetto ai debiti dei quali, come prelegatario e nei limiti del prelegato avente per oggetto una cosa certa, non risponde, salva separazione da esercitarsi dai creditori(37).
Un’utilità giuridica al mantenimento in vita del rapporto che non discende, dunque, dalla distinzione dei patrimoni, cioè da nuclei di interessi contrapposti, in quanto pur sempre riconducibile all’unica sfera del prelegatario, ma dall’autonomia e dalla diversità dei titoli di acquisto, che prevalgono sull’identità del soggetto e dei patrimoni.
Sul piano sistematico, tale prospettazione comincia ad orientare verso una prima conclusione, e cioè che le relazioni giuridiche fra patrimoni separati riconducibili allo stesso soggetto costituiscono una species del più ampio genus dei rapporti unisoggettivi, la giuridicità dei quali non presuppone - se non normalmente - l’esistenza di due masse patrimoniali.
È evidente che quando dal profilo statico di due o più masse appartenenti al medesimo soggetto, il cui paradigma è costituito - come si è visto - dall’eredità beneficiata, si passa ad un profilo dinamico dei patrimoni separati, nei quali al carattere meramente conservativo si sostituisce la funzione gestoria del patrimonio, le relazioni giuridiche fra patrimoni separati riconducibili allo stesso soggetto sono inevitabilmente destinate ad accrescersi fino ad arrivare, potenzialmente, a seconda della diversa graduazione della separazione patrimoniale, a strutturarsi alla stessa stregua di rapporti intersoggettivi, pur in difetto di intersoggettività.
La felice espressione di “rapporti intergestori”, utilizzata alla fine degli anni settanta da autorevole dottrina(38)per designare i possibili rapporti fra sezioni speciali della medesima Azienda di credito o fra quelle e l’Azienda stessa, va in questa prospettiva recuperata e riadattata ai nuovi fenomeni di separazione patrimoniale dinamica sia nell’impresa, nell’ambito dei patrimoni di destinazione delle società per azioni, che nella proprietà, cioè nei trusts e, sia pur con minor intensità, nei patrimoni di destinazione ex art. 2645-ter c.c.
Che di adattamento terminologico si tratti e non identificazione dello stesso fenomeno giuridico è assolutamente pacifico sol che si consideri che non poteva e non può dubitarsi dell’assenza in capo alle sezioni speciali, in difetto di un’espressa previsione di legge, di una propria soggettività né di una qualche forma di separazione patrimoniale, se non di tipo amministrativo e contabile.
Dall’autonomia statutaria degli Istituti di credito poteva discendere un’articolazione delle varie Sezioni in distinti rami d’azienda con pari autonomia organizzativa e gestoria e al più, sul piano dei reciproci rapporti, possibili scambi di liquidità, anche potenzialmente produttivi di interessi e da inscrivere nelle rispettive rendicontazioni contabili, atta quindi a consentire una «distinta e diretta configurazione del nesso imprenditoriale fra le operazioni medesime»(39), ma insuscettibile di far venir meno l’imputazione dei risultati raggiunti e degli effetti delle diverse gestioni imprenditoriali all’unico patrimonio.
In quest’area di autonomia organizzativa e contabile, caratterizzata dall’imposizione ad una parte del patrimonio aziendale di un vincolo di gestione, non si riscontrava alcun vincolo reale di destinazione, opponibile ai terzi e ai creditori, tale da imporre una selezione delle classi di creditori con diversi poteri di aggressione dei beni in funzione dell’attuazione della destinazione, di talché nelle ipotesi di violazione delle regole gestorie i creditori mantenevano il potere di agire nei confronti dell’intero, unico, patrimonio riferibile al soggetto.
Questa lucida analisi, coerente con le premesse da cui muoveva, cioè con la rigida tipizzazione normativa dei patrimoni separati priva di alcun riscontro in ambito bancario, ha finito in realtà per influenzare anche la dottrina più moderna(40), che sembra relegare ad un piano intrasoggettivo(41)e meramente contabile anche la rilevanza dei rapporti fra patrimonio generale della società e i patrimoni destinati ex artt. 2447-bis e ss. c.c.
Le relazioni giuridiche fra patrimonio generale della società e patrimoni destinati o fra patrimoni destinati sarebbero, secondo questa dottrina, idonee, in mancanza di un’alterità soggettiva, a generare situazioni analoghe, ma non identiche, a quelle di “credito” e di “debito”; con ciò allineandosi quest’impostazione alle più risalenti elaborazioni dottrinali fondate sul rilievo che «l’autonomia del patrimonio separato rispetto al patrimonio residuo del soggetto rende d’altra parte possibile, se non un vero e proprio scambio di rapporti giuridici fra l’una e l’altra sfera, che sarebbe assurdo dato che agli opposti poli del rapporto starebbe lo stesso soggetto, per lo meno una scambio di valori»(42).
Ma laddove la separazione patrimoniale discenda dalla legge in base ad un valutazione legale tipica (come, appunto, nei patrimoni destinati ex artt. 2447-bis e ss. c.c. ovvero nei fondi comuni di investimento) ovvero alla stregua di un giudizio comparativo di meritevolezza nei casi di destinazione negoziale c.d. atipica, non v’è alcuna ragione logica per negare che possano coesistere, in capo allo stesso soggetto, nuclei patrimoniali con piena autonomia e indipendenza, capaci di propri rapporti e insensibili alle vicende del patrimonio residuo o di altrettanti patrimoni separati riconducibili al soggetto; così come - coerentemente - non deve escludersi che le mutue relazioni fra essi intercorrenti assurgano al rango di veri e propri rapporti giuridici.
Ci si sposta, in questa prospettiva, da una visione soggettivistica a una considerazione obiettiva degli interessi che la separazione patrimoniale intende realizzare: ad un pluralità di interessi ruotanti attorno ad un nucleo di beni e diritti corrispondono altrettanti patrimoni nei casi in cui, è bene ribadirlo, i suddetti interessi abbiano costituito oggetto di valutazione legale tipica o la loro valorizzazione sia l’esito di un giudizio comparativo di meritevolezza tale da giustificare l’eccezione di cui al secondo comma dell’art. 2740 c.c.
L’emancipazione della nozione di patrimonio dal soggetto che ne è titolare evidenzia come non sia più logicamente necessario la ricerca del nesso fra soggetto e patrimonio e che l’attenzione sia piuttosto da incentrarsi sulle attività alle quali il complesso di beni e diritti è orientato per la realizzazione di determinati interessi.
Assunto, pertanto, che antecedente logico per l’instaurazione o il mantenimento dei rapporti giuridici non è la dualità dei soggetti, ma dei patrimoni, l’analisi dei possibili rapporti “interpatrimoniali” (più che intergestori, essendo quest’ultima definizione utilizzata per definire i rapporti fra strutture non aventi alcun grado di reciproca autonomia giuridica) dovrà essere sì svolta in funzione della pluralità di interessi coinvolti, ma anche della struttura del patrimonio, in relazione cioè al maggior o minor grado di autonomia dello stesso rispetto al restante nucleo di beni e diritti del soggetto.
La accennata destrutturazione del concetto di soggetto di diritto, ha indotto parte della dottrina tradizionale(43)a ritenere, sul piano dei rapporti obbligatori interpatrimoniali, possibile tout court la compensazione fra reciproci debiti e crediti imputabili a distinti patrimoni separati facenti capo allo stesso soggetto. Si tratta del diretto corollario dell’imputazione dei rapporti obbligatori a sfere patrimoniali separate, ancorché confluenti in un unico soggetto, la cui caratteristica sarebbe data dall’invertibilità delle posizioni giuridiche, di talché uno dei soggetti, sempre nella sua unica veste giuridica, viene definito debitore o creditore dell’altro, e viceversa(44).
A quest’impostazione si è obiettato che l’estinzione del rapporto giuridico per compensazione fra patrimoni separati sia da escludersi quando la separazione sia funzionale ad una destinazione giuridicamente rilevante per i terzi, in quanto la compensazione vanificherebbe sempre la destinazione particolare del patrimonio separato e sarebbe, perciò, inammissibile(45).
In realtà, il meccanismo della compensazione non opera nel caso di specie differentemente che tra “persone”; il mancato soddisfacimento del diritto di credito può, in ogni caso, comportare un depauperamento del patrimonio del proprio debitore, ma la tutela del creditore, e deve dirsi anche del creditore particolare da destinazione sul patrimonio separato, si sposta sul piano dell’esperibilità dell’azione revocatoria, peraltro limitata ai casi di compensazione volontaria, nei casi cioè in cui l’attività volontaria del debitore sia intenzionalmente preordinata alla sottrazione di parte del proprio patrimonio alle ragioni dei creditori attraverso la rimozione dei limiti per l’operatività della compensazione legale o giudiziale(46).
Nei casi di compensazione legale l’estinzione reciproca dei rapporti di debito e credito avviene automaticamente, prescindendo dalla verifica degli interessi riconducibili al patrimonio destinato, che non è prevista da alcuna disposizione normativa, così come in caso di compensazione giudiziale al giudice è sottratta qualsiasi valutazione di tali interessi, dovendo egli limitarsi a verificare se il debito opposto in compensazione sia di facile e pronta liquidazione (art. 1243, comma 2 c.c.).
Inoltre, la compensazione non comporta di per sé alcuna lesione dell’integrità del patrimonio destinato in quanto consente la contemporanea estinzione di un debito del patrimonio destinato verso il patrimonio generale o verso altrettanti patrimoni separati del soggetto, cosicchè la variazione quantitativa della consistenza patrimoniale è nulla(47).
Ulteriori profili di obbligatorietà dei rapporti fra patrimonio generale e patrimoni destinati si riscontrano nelle ipotesi di unilateralità della separazione, cioè nei casi in cui la destinazione di un nucleo di rapporti patrimoniali verso un determinato scopo o in favore di determinati beneficiari non esclude che i creditori aventi titolo nella destinazione possano soddisfarsi anche sul patrimonio generale del soggetto, il che accade - ad esempio - per la responsabilità illimitata ex lege del patrimonio della società verso i creditori involontari del patrimonio destinato da fatto illecito ovvero quando ciò sia espressamente previsto dalla delibera istitutiva del patrimonio destinato (art. 2447-quinquies comma 3 c.c.) o, ancora, negli atti di destinazione ex art. 2645-ter c.c.(48)
Al di là della qualificazione della responsabilità del patrimonio residuo come solidale o sussidiaria, non è dubitabile che il titolare del patrimonio generale avrà azione di regresso nei confronti del patrimonio separato (o viceversa) ove costretto a pagare nei confronti dei creditori per l’intero ammontare, essendo l’obbligazione contratta nell’interesse esclusivo di quest’ultimo (rectius per gli scopi della destinazione del patrimonio separato) ex art. 1298 comma 1 c.c.(49)e che possano essere fatte valere, almeno in astratto, nei confronti del titolare del patrimonio generale che agisce in regresso tutti i fatti estintivi, impeditivi o limitativi del debito se precedenti all’adempimento e se avrebbero potuto essere opposti al creditore all’epoca dell’adempimento ivi compresa, in particolare, l’eccezione di prescrizione.
Il gioco delle eccezioni nell’azione di regresso non deve dirsi aprioristicamente precluso dall’identità del soggetto, da un lato titolare del patrimonio generale e dall’altro gestore del patrimonio separato per il conseguimento degli interessi destinati, sia perché non è escluso che a tutela degli interessi destinati il destinante abbia nominato in sede di istituzione del patrimonio destinato, accanto all’attuatore della destinazione, anche un controllore, attribuendogli poteri di azione in caso di inerzia o conflitto di interessi dell’attuatore(50), sia in quanto non può negarsi una legittimazione delle classi creditorie ad esercitare il potere di sostituirsi in via surrogatoria,
ricorrendo i presupposti di cui all’art. 2900 c.c., al titolare delle masse patrimoniali separate(51).
Alla luce di siffatte valutazioni teleologiche del rapporto giuridico, non più necessariamente incentrato sul soggetto, deve anche ammettersi la possibilità della prestazione di garanzie personali o reali su beni appartenenti al patrimonio generale del soggetto a favore dei creditori aventi titolo nella destinazione o, viceversa, su beni riconducibili al patrimonio destinato in favore dei creditori generali sia pure, per queste ultime ipotesi, con alcune limitazioni funzionali che affettano sin dall’origine i beni ricompresi nei patrimoni destinati.
In linea generale, per l’ipoteca, le obiezioni fondate sulla constatazione che tale diritto reale di garanzia sarebbe suscettibile di costituirsi a favore di se stesso solo in ordinamenti diversi dal nostro, come in quello tedesco (ove è previsto l’istituto del Grundschuld: §§ 1163 e 1168 BGB), che ammettono garanzie senza accessorietà, sono facilmente superabili attraverso la considerazione che v’è sempre un rapporto principale riconducibile ad un patrimonio al quale accede quello di garanzia, quest’ultimo da riferirsi invece all’altro patrimonio che, pur stando accanto al primo ed avendo in comune con esso il soggetto, ne è distaccato.
Pertanto, nulla esclude che venga costituita un’ipoteca, con effetti e disciplina equivalenti a quelli derivanti dalla costituzione da parte di un terzo datore (art. 2868 e ss. c.c.), su beni del patrimonio generale a garanzia di obbligazioni assunte dal patrimonio destinato per gli scopi della destinazione.
Si tratterà, piuttosto, di verificare se la disciplina in esame sia applicabile tout court oppure richieda il fisiologico adattamento alle peculiarità della fattispecie: più in particolare, l’adesione alla tesi(52)del carattere solidale della responsabilità del patrimonio generale per le obbligazioni del patrimonio destinato avrà quale riflesso operativo la necessità di pattuire espressamente il beneficio della preventiva escussione del patrimonio destinato ex art. 2868 c.c., mentre ove si ritenga immanente un principio generale di sussidiarietà quella pattuizione apparirà superflua, potendo il creditore avente titolo nella destinazione aggredire il patrimonio generale del soggetto solo dopo aver infruttuosamente escusso il patrimonio destinato.
Così, potrà trovare applicazione il diritto di regresso di cui all’art. 2871 comma 1 c.c. ovvero la surrogazione ipotecaria del “terzo” adempiente nell’ipoteca già spettante al creditore con effetti inter partes conseguenti automaticamente al pagamento, ma nei confronti dei terzi subordinati all’annotazione di cui all’art. 2843 c.c.
In altri termini, il titolare del patrimonio generale che paghi il creditore avente titolo nella destinazione potrà surrogarsi nei diritti e nelle garanzie vantate da quest’ultimo nei confronti del patrimonio destinato, e anche nell’ipoteca già iscritta sui beni facenti parte del patrimonio destinato, a margine della quale verrà eseguita l’annotazione di surrogazione a favore del titolare del patrimonio generale, senza che tale identità soggettiva possa ingenerare estinzione dell’ipoteca per estinzione dell’obbligazione derivante dalla confusione ex art. 2878 n. 3 c.c., cioè dalla riunione in unico soggetto delle rispettive qualità di debitore e creditore, rimanendo comunque distinti i patrimoni.
Del pari, con riguardo all’ammissibilità della fideiussione fra patrimonio generale e patrimonio separato, non può eccepirsi che l’art. 1255 c.c. si limita a prevedere che la convergenza, in unico soggetto, delle qualità di creditore e debitore non determina l’estinzione dell’obbligazione di garanzia sempre che esista un interesse per la sua permanenza, ma non legittima la costituzione iniziale di un rapporto personale di garanzia.
In effetti, a parte l’operatività nel sistema di un principio generale, già presente nella Relazione ministeriale al codice civile (n. 576), secondo il quale è ben possibile che la «stessa persona risponda sotto due diversi titoli di uno stesso obbligo», l’inutilità della permanenza (o della costituzione iniziale, il che è giuridicamente e logicamente equivalente) di un rapporto di garanzia in caso di coincidenza nello stesso soggetto della qualifiche di debitore e fideiussore può predicarsi solo in caso di unicità del patrimonio, quando cioè non v’è alcun incremento della garanzia patrimoniale del creditore, ma non quando il patrimonio su cui s’appunta la garanzia è diverso da quello che risponde delle obbligazioni del debitore poiché, in quest’ultimo caso, l’interesse del creditore alla costituzione o al mantenimento della garanzia è in re ipsa e non solo eventuale, come previsto all’art. 1255 c.c.
A tali considerazioni d’ordine generale, volte semplicemente a rendere compatibili con il sistema delle garanzie la dualità dei patrimoni riconducibili allo stesso soggetto, che può pertanto assumere nel contempo la posizione di debitore e garante, appare opportuno apportare i necessari temperamenti derivanti dalle particolarità funzionali di ogni patrimonio destinato.
Infatti, mentre nel caso di costituzione di garanzia su beni del patrimonio generale a favore dei creditori particolari del patrimonio destinato, la posizione dei creditori generali può essere astrattamente compromessa dalla riduzione della consistenza patrimoniale del patrimonio generale a favore dei creditori particolari aventi titolo nella destinazione ma, al pari di ogni altra prestazione di garanzia in favore di terzi, ciò legittimerà - ricorrendone i presupposti - l’esperimento dell’azione revocatoria (art. 2901, comma 2 c.c.), nell’ipotesi di prestazione di garanzia su beni facenti parte del patrimonio destinato a favore di quelli generali del soggetto la sanzione sarà quella da riconnettersi a qualsiasi violazione del vincolo di destinazione, cioè al compimento di atti importanti un abuso dei poteri gestori.
Il problema degli atti dispositivi (ma la questione è identica ove prospettata per atti costitutivi di garanzie reali) posti in essere dal gestore di un patrimonio separato in violazione degli obblighi assunti per gli scopi della destinazione è stato prevalentemente studiato per il trust ed ha condotto alle soluzioni più disparate: dall’annullamento per conflitto di interessi fra lo scopo del trust e l’attività del trustee(53), in applicazione analogica dell’art. 1394 c.c., ad una generale azione recuperatoria sul mero presupposto del compimento dell’atto lesivo(54)fino alla configurazione di un rimedio equitativo consistente nell’exceptio doli quale strumento di risoluzione di un conflitto circolatorio fra l’avente causa di un trustee e il beneficiario.
Con riferimento agli atti di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c., esclusa la plausibilità delle argo-mentazioni volte a far discendere dal compimento dell’atto distrattivo sanzioni apprezzabili sul piano della validità dell’atto, quali la nullità o l’annullabilità, mutuando la disciplina sanzionatoria dall’art. 169 c.c. in materia di fondo patrimoniale(55), in quanto dall’obbligo di “impiego” dei beni per la realizzazione della destinazione sancito da tale norma non può desumersi una generalizzata sanzione di invalidità dell’atto dispositivo, la soluzione del problema va ricercata nell’analisi dei profili di opponibilità del vincolo trascritto su altri titoli incompatibili(56).
In realtà, la mancata riproduzione dell’art.169 c.c. in materia di destinazione negoziale c.d. atipica si spiega con carattere squisitamente dinamico della destinazione(57), nel senso che una volta trascritto il vincolo di destinazione, esso è suscettibile di circolazione, ma affettato dal vincolo di destinazione: l’avente causa (inter vivos) è, pertanto, un soggetto al quale il vincolo di destinazione prioritariamente trascritto (rispetto alla trascrizione dell’atto di alienazione) può essere opposto(58).
Per ricondurre questo ragionamento al tema della garanzia reale prestata dall’attuatore (che può essere anche il conferente nel caso di destinazione non traslativa) su beni del patrimonio destinato a garanzia di un creditore generale del medesimo, è evidente che la garanzia prestata su beni del patrimonio destinato per scopi estranei alla destinazione, purché il vincolo di destinazione sia stato regolarmente trascritto, sarà inefficace rispetto ai beneficiari e ai creditori particolari aventi titolo nella destinazione(59).
Il problema più delicato che si pone nell’individuazione delle possibili relazioni fra patrimoni separati appartenenti al medesimo soggetto è quello di verificare se siano fra essi ammissibili atti traslativi o costitutivi di diritti reali, pur in difetto di alterità soggettiva.
Non risulta che la questione sia stata oggetto di approfondimento da parte della civilistica tradizionale, neanche in materia di rapporto giuridico unisoggettivo(60), probabilmente perché la staticità dei patrimoni separati previsti nell’impianto tradizionale del codice civile non faceva risaltare i profili gestori di tali patrimoni la cui analisi s’impone, invece, con particolari tratti di problematicità, nello studio e nelle applicazioni pratiche dei patrimoni separati c.d. dinamici.
In linea di prima approssimazione, si potrebbe ritenere radicalmente nullo ogni trasferimento a titolo oneroso di diritti reali da un patrimonio separato all’altro, ma entrambi riconducibili al medesimo soggetto per difetto di causa trattandosi, in difetto di alterità soggettiva, di un’ipotesi di acquisto di cosa propria.
In un’ottica oggettivistica della causa, quale cioè funzione economico-sociale del negozio, per come essa è stata tradizionalmente intesa da Emilio Betti(61)in poi, il difetto dello scambio di cosa contro prezzo integrerebbe, nell’ipotesi di acquisto di cosa propria, la fattispecie della nullità ex art. 1418 c.c. per difetto di uno degli elementi essenziali del contratto, cioè appunto la causa(62).
Ma anche le elaborazioni più moderne sul concetto di causa, che escludono in radice che un contratto tipico possa essere dichiarato nullo per mancanza di causa, in quanto essa finirebbe per coincidere con quella che è stata individuata, per il tramite di un giudizio svolto a monte dal legislatore, come tipica funzione dei contratti appartenenti a quel dato tipo(63), e identificano tale elemento essenziale nell’espressione oggettivata delle finalità soggettive che le parti contraenti vogliono, in concreto, perseguire, non giungono a risultati sostanzialmente diversi: si postula, per l’acquisto di cosa propria, più che la nullità per mancanza di causa, una vera e propria inconfigurabilità del negozio, atteso che, a differenza della mancanza di causa che presuppone l’avvenuta qualificazione giuridica del negozio, qui difetterebbe in radice la giuridicità della convenzione.
È evidente che tali impostazioni, fondate sulla constatazione dell’inutilità dell’acquisto della cosa propria in difetto di un interesse giuridicamente apprezzabile del soggetto, risentono del dogma dell’unità e indivisibilità del soggetto e del patrimonio, che si è visto progressivamente sgretolandosi con il proliferare dei patrimoni separati previsti dal codice civile e dalle leggi speciali.
L’autonomia dei patrimoni è in funzione della pluralità degli interessi sottesi alla loro creazione, non dei soggetti titolari dei patrimoni stessi; quindi l’eterogeneità di tali interessi giustifica l’interazione fra patrimoni separati, anche in punto di trasferimento o costituzione di diritti reali dall’uno all’altro.
Né tale interazione potrebbe essere negata fondando l’asserita illegittimità di un trasferimento in senso tecnico sulla constatazione che mancherebbe il referente soggettivo per l’imputazione del diritto reale trasferito, avendo la lezione di Riccardo Orestano(64)inequivocabilmente dimostrato come nell’ordinamento positivo sia ormai giunto a maturazione un compiuto processo di obiettivizzazione del diritto soggettivo, anche di natura reale, culminato nel riconoscimento che «in rerum natura non esistono diritti soggettivi, esistono interessi che sorgono da determinati fatti e che, in quanto la legge li riconosca e li garantisca, noi chiamiamo diritti»(65).
L’alterità degli interessi sottesi ai diversi patrimoni giustifica, dunque, la riferibilità di un complesso di situazioni giuridiche attive ad un determinato patrimonio, i cui poteri verranno esercitati dal soggetto che ne è il titolare, o nell’interesse proprio, se trattasi del suo patrimonio generale, o in funzione dell’interesse destinatorio, in qualità di attuatore, se riferite al patrimonio destinato.
Se, in linea generale, potrebbe pertanto predicarsi l’ammissibilità di un trasferimento in senso tecnico fra patrimoni separati riferibili al medesimo soggetto, è evidente come la diversa graduazione delle forme di separazione patrimoniale incida sensibilmente sulla comunicazione di situazioni giuridiche attive fra patrimoni.
In altri termini, un trasferimento potrebbe postularsi fra patrimoni separati in cui la separazione patrimoniale rispetto al patrimonio generale del soggetto o di altrettanti patrimoni separati riconducibili al medesimo soggetto giunga ad un compiuto e definitivo distacco di un nucleo di rapporti per il conseguimento di determinati interessi, come accade nei fondi comuni di investimento e nel trust, dove la separazione è stata definita “perfetta” e il carattere definitivo del distacco esclude possibili commistioni di interessi.
A tale stregua potrebbe ipotizzarsi una vendita tra trusts gestiti dallo stesso trustee ovvero fra fondi comuni di investimento di tipo chiuso gestiti dalla medesima società di gestione, con tutto ciò che ne consegue in punto di applicabilità dello statuto normativo dei trasferimenti immobiliari (menzioni urbanistiche, conformità catastale, attestato di certificazione energetica) e delle relative disposizioni fiscali.
Una diversa ricostruzione dei rapporti intergestori connotati, per così dire, dalla natura reale dei diritti che si “spostano” da un patrimonio all’altro potrebbe essere quella di ipotizzare non un trasferimento vero e proprio, ma un atto avente il valore di mera modifica interna della proprietà, che ad avviso di taluni potrebbe addirittura essere trascritto ex artt. 2643 e 2645 c.c., pur in difetto di effetti traslativi in senso tecnico(66).
Ma nei casi di separazione imperfetta, come nei patrimoni destinati delle società per azioni, ma ancora di più nei patrimoni di destinazione ex art. 2645-ter c.c., in cui il nucleo essenziale della disciplina ruota intorno alla selezione dei creditori, tant’è che in ragione di tale mero vincolo di inespropriabilità soggettiva relativa, parte della dottrina(67)preferisce parlare di distinzione di beni soggetti ad un diverso regime esecutivo più che di separazione in senso proprio, tale dato strutturale si pone in conflitto con la configurabilità (anche in ottica meramente possibilista) di un trasferimento in senso proprio.
Ovviamente, ciò non significa che saranno impediti possibili rapporti interpatrimoniali fra patrimonio generale e patrimoni destinati, e in particolare quelli di cui all’art. 2645-ter c.c., ma soltanto che tali relazioni gestorie dovranno dirsi compatibili con la struttura imperfetta della separazione patrimoniale e strettamente funzionali al perseguimento degli interessi destinatori.
4. I rapporti intergestori (rectius interpatrimoniali) nei patrimoni di destinazione ex art. 2645-ter c.c.
Prima di indagare, alla luce e nei limiti dianzi chiariti, quali possano essere le possibili interrelazioni fra il patrimonio generale del soggetto e i beni destinati nella fattispecie destinatoria c.d. atipica di cui all’art. 2645-ter c.c., conviene enucleare le modalità con le quali può atteggiarsi il profilo gestorio della destinazione, distinguendo principalmente fra atti di destinazione traslativi e non traslativi.
Tale distinzione va mantenuta ferma, nonostante la recente battuta d’arresto contenuta in una pronuncia di merito(68), in quanto è innegabile che l’art. 2645-ter c.c. - non attribuendo di per sé al beneficiario alcun diritto reale sui beni destinati - abbia il significato di consentire sul piano effettuale l’esercizio di un potere negoziale di conformazione del diritto di proprietà del destinante, modellandolo per il perseguimento degli scopi destinatori indipendentemente da un coevo effetto traslativo in favore dell’attuatore della destinazione.
Pertanto, il destinante potrà, a seconda dei casi:
- imprimere su parte dei propri beni un vincolo di destinazione, mantenendo il potere gestorio degli stessi e assumendo su di sé anche il ruolo di attuatore della destinazione;
- imprimere su parte dei propri beni un vincolo di destinazione e nominare attuatore un terzo, senza effetti traslativi della proprietà dei beni destinati, eventualmente accompagnando la nomina dell’attuatore da un collegato contratto di mandato con rappresentanza;
- trasferire la proprietà dei beni destinati all’attuatore e contestualmente imprimere sui beni trasferiti per gli scopi della destinazione il vincolo di destinazione.
Le ipotesi a) e b) non divergono fra loro, se non per la circostanza che l’attuatore nell’ipotesi b) è diverso dal destinante, ma i rapporti interpatrimoniali possono prefigurarsi in entrambi i casi soltanto tra il patrimonio generale del destinante e i beni destinati. Qualsiasi rapporto fra i beni destinati, ancora nella titolarità formale del destinante, e il patrimonio dell’attuatore sarebbe un vero e proprio rapporto intersoggettivo e non interpatrimoniale, salvo poi verificare come in concreto possano risolversi eventuali situazioni di conflitto d’interessi(69).
Nell’ipotesi c), invece, l’attuatore diventa formalmente proprietario dei beni destinati, sia pure affettati ab origine dal vincolo di destinazione e, pertanto, non può escludersi che vi siano possibili comunicazioni giuridiche fra il suo patrimonio generale e i beni destinati. Capovolgendo la situazione rispetto alle ipotesi testé considerate, non può neanche escludersi un rapporto (allo stesso modo intersoggettivo e non interpatrimoniale né intergestorio) fra i beni destinati, ormai nella titolarità formale dell’attuatore, e il patrimonio generale del destinante.
È vero che, in quest’ultimo caso, la titolarità dei beni destinati in capo all’attuatore è soltanto formale, in quanto strumentalmente orientata verso il perseguimento degli interessi dei beneficiari, ma tanto è sufficiente per postulare un vero e proprio rapporto intersoggettivo fra i beni destinati (di proprietà dell’attuatore) e il destinante.
Nella prospettiva di un’amministrazione dinamica, che potrebbe contemplare nell’atto c.d. programmatico di destinazione anche poteri dispositivi dei beni destinati accompagnati da una clausola di surrogazione reale(70), il trasferimento dei beni destinati all’attuatore costituisce anzi lo schema negoziale più efficace rispetto all’ipotesi, pur possibile, di conferimento all’attuatore di poteri gestori mediante un contratto di mandato con rappresentanza volto a produrre i propri effetti sui beni destinati, ancora nella titolarità formale del destinante.
L’attuatore, in caso di destinazione traslativa, diviene formalmente titolare dei beni destinati, ossia titolare di un diritto limitato nel tempo, compresso dalla concorrente situazione di aspettativa spettante al destinante e dalla correlativa situazione giuridica soggettiva attiva facente capo al beneficiario nonché funzionalizzato al perseguimento di uno scopo: un effetto, dunque, definito “conformativo” che deriva dell’apposizione del vincolo, concorrente con il coevo effetto traslativo(71).
Anche la diversa configurazione dottrinale, che ravvisa nella destinazione traslativa un pactum fiduciae, da alcuni ritenuto dissimile dalla fiducia romanistica in quanto opponibile ai terzi per effetto della trascrizione(72), non può negare che la titolarità formale dei beni destinati sia in capo all’attuatore, anche se relegata in un patrimonio separato dal proprio; separazione, si è detto, imperfetta, il cui nucleo essenziale di disciplina è costituito dalla limitazione di responsabilità (unilaterale) dei beni destinati per i soli debiti contratti per la realizzazione dello scopo destinatorio, ma che non può escludersi conduca a limitati rapporti interpatrimoniali con il residuo patrimonio del soggetto che ne è formalmente titolare o con altrettanti patrimoni di destinazione di cui egli sia nel contempo attuatore.
Proprio in ragione dell’imputazione formale dei beni destinati all’attuatore, gli eventuali rapporti giuridici intercorrenti fra il patrimonio generale del destinante e i beni destinati nella titolarità formale dell’attuatore, in presenza della dimostrata alterità soggettiva fra l’uno e l’altro, sono veri e propri rapporti intersogettivi, e non semplicemente interpatrimoniali.
Così, può pacificamente ammettersi la costituzione di diritti reali di godimento fra beni appartenenti al patrimonio generale del destinante e i beni destinati, come la costituzione di una servitù (non ostandovi il principio nemini res sua servit) o la cessione di diritti edificatori ex art. 2643 n. 2-bis c.c.) c.c., o di garanzia, quale un’ipoteca a carico del destinante a garanzia di obbligazioni contratte per il conseguimento degli scopi destinatori.
Con maggior attenzione vanno valutate, invece, le relazioni giuridiche suscettibili di instaurarsi fra il patrimonio generale del destinante e i beni destinati o fra beni sottoposti a diversi vincoli di destinazione con diversi beneficiari, nell’ipotesi di destinazione non traslativa, in cui cioè il destinante sia anche l’attuatore, oppure, nell’ipotesi di destinazione traslativa, fra il patrimonio generale dell’attuatore e i beni destinati o fra beni sottoposti a diversi vincoli di destinazione con beneficiari diversi, dei quali sia attuatore un unico soggetto.
In linea generale, il carattere strutturalmente imperfetto della separazione patrimoniale che consegue agli atti di destinazione ex art. 2645-ter c.c. non consente, ad avviso di chi scrive, di postulare un effetto traslativo o costitutivo di diritti reali di godimento dall’uno all’altro dei patrimoni (dal generale al separato o fra i più patrimoni separati), e ciò non già per il difetto del carattere dell’alterità soggettiva, al quale può dirsi ormai progressivamente sostituito quello dell’alterità dei patrimoni ai fini della riferibilità di situazioni giuridiche attive, quanto per il non compiuto distacco delle sfere patrimoniali.
Se si spingesse alle estreme conseguenze l’assunto secondo il quale la separazione dei patrimoni è in funzione degli interessi ad essa sottesi, l’alterità degli interessi dei beneficiari alla cui realizzazione è preordinata la destinazione dei beni rispetto a quelli del destinante e dell’attuatore dovrebbe condurre a ritenere perfettamente ammissibile qualsiasi relazione fra patrimoni riferibili al medesimo soggetto attuatore.
Ma quest’affermazione va circondata da particolare cautela, sia per la compresenza di altri interessi, in particolare quello del “conferente”(73), il quale può anche agire giudizialmente per scopi della destinazione, sia per le già accennate caratteristiche strutturali dei patrimoni di destinazione ex art. 2645-ter c.c.(74)che non consentono di postularne una separazione compiuta dal resto del patrimonio di chi, sia pure formalmente, ne è titolare.
Può dirsi, pertanto, che i rapporti interpatrimoniali nei patrimoni di destinazione ex art. 2645-ter c.c. devono dirsi limitati a quei rapporti, che siano strumentali al conseguimento degli scopi della destinazione e siano compatibili con il carattere imperfetto della separazione patrimoniale.
Si pensi, ad esempio, ad ipotesi di coincidenza o di successiva riunione nella stessa persona del titolare del diritto di usufrutto oggetto del vincolo di destinazione e del titolare del diritto di nuda proprietà rimasto in capo al destinante.
Il che può accadere allorché:
- il destinante abbia impresso un vincolo di destinazione solo sul diritto di usufrutto senza effetti traslativi (eventualmente con nomina di un attuatore terzo, cui sono stati attribuiti poteri di mandato con rappresentanza);
- l’attuatore sia erede (o successore a titolo particolare) del destinante, il quale abbia impresso il vincolo di destinazione sul diritto di usufrutto (con effetti traslativi nei confronti dell’attuatore), riservandosi la nuda proprietà sul bene destinato.
In particolare, nell’ipotesi enucleata a mero titolo esemplificativo alla lettera b), si verifica lo stesso fenomeno di separazione patrimoniale cui può dar luogo l’accettazione d’eredità beneficiata nei casi in cui l’erede vanti un diritto reale parziario sui beni del defunto o, viceversa, il defunto fosse titolare di un diritto reale parziario sui beni dell’erede(75).
Si realizza, cioè, un fenomeno di titolarità del diritto di usufrutto e nuda proprietà in capo alla stessa persona che, eccezionalmente, non comporta estinzione del diritto reale parziario per confusione a causa della riferibilità dei diritti a distinti patrimoni; compresenza, dunque, suscettibile di generare rapporti interpatrimoniali di carattere obbligatorio fra patrimoni, quali i rimborsi ordinariamente dovuti fra nudo proprietario e usufruttuario di cui agli artt. 997, 1005 comma 3, 1006, 1009 comma 2, 1010 c.c.
Inoltre, la mancata estinzione del diritto parziario per confusione comporta l’inapplicabilità degli artt. 999 e 2814 c.c., nel senso che locazioni concluse dall’attuatore-usufruttario o l’ipoteca iscritta sul diritto di usufrutto (rectius sul bene che ne costituisce oggetto) per gli scopi della destinazione permangono per tutta la loro durata nonostante durante lo svolgimento del rapporto il soggetto titolare del diritto di usufrutto sottoposto a vincolo di destinazione divenga anche titolare della nuda proprietà, quale diritto facente parte del proprio patrimonio generale.
Sul piano dei diritti di garanzia, potrà ipotizzarsi la costituzione di un’ipoteca volontaria su beni del patrimonio generale ovvero la prestazione di una fideiussione a garanzia di obbligazioni assunte per gli scopi della destinazione; garanzie che vanno ad aggiungersi alla garanzia generica dei beni destinati(76).
È anche possibile che il destinante, nell’imprimere su alcuni dei propri beni diversi vincoli di destinazione a vantaggio di diversi beneficiari(77)o nel trasferire all’attuatore una pluralità di beni sui quali vengono contestualmente impressi diversi vincoli di destinazione, voglia prevedere la possibilità che il vincolo venga “trasferito” dall’uno all’altro dei beni destinati in funzione delle contingenti esigenze del programma destinatorio.
È evidente che quest’effetto potrà raggiungersi, sul piano pubblicitario, soltanto con la cancellazione del vincolo su uno dei beni destinati e la contestuale apposizione sull’altro, entrambi nella titolarità formale dell’attuatore (coincida o meno con il destinante).
Di trasferimento del vincolo di destinazione può parlarsi, quindi, solo impropriamente, così come in modo parimenti atecnico si suole ipotizzare il c.d. trasferimento dell’ipoteca per designare empiricamente quel procedimento negoziale complesso che si snoda nel compimento di due atti collegati, di cancellazione e nuova iscrizione, senza conservazione del grado ipotecario della precedente ipoteca(78).
Tale “trasferimento” del vincolo può discendere direttamente da una previsione negoziale in tal senso nell’atto istitutivo, purché essa non si risolva nell’esercizio di diritto potestativo del destinante(79).
Pertanto, nell’ipotesi di destinazione non traslativa, nel quale le qualità di conferente e attuatore coincidono, sarà opportuno prevedere cause oggettive di “trasferimento” del vincolo, mentre nell’ipotesi di destinazione traslativa nulla osta ad attribuire all’attuatore tale potere gestorio conformemente al programma destinatorio, che peraltro non si riducano all’esercizio di un potere “mero” dell’attuatore.
Il “trasferimento” del vincolo troverà pertanto la propria legittimazione nel programma destinatorio formulato del conferente e verrà attuato mediante un atto unilaterale dell’attuatore, da annotarsi(80)a margine della trascrizione dell’atto di destinazione sul bene su cui il vincolo viene reso inefficace e trascritto sull’altro su cui, invece, il vincolo viene costituito.
La pubblicità delle forme di cancellazione dell’efficacia del vincolo di destinazione richiede una puntualizzazione.
Nelle ipotesi di vicende fisiologiche di cessazione del vincolo, che si sostanzino nella scadenza di un termine, come ad esempio il raggiungimento della maggiore età di uno dei beneficiari, l’annotazione di inefficacia non è certamente necessaria al fine di far cessare l’opponibilità del vincolo, in quanto il termine è già menzionato nella nota di trascrizione ex art. 2659, n.4 c.c.(81); pertanto, i creditori generali potrebbero aggredire i beni destinati indipendentemente dall’annotazione, ma per il solo fatto obiettivo del verificarsi della detta causa di cessazione.
La pubblicità delle altre cause di cessazione del vincolo, sia fisiologiche che patologiche, non può che avvenire attraverso il meccanismo della condizione risolutiva, cioè attraverso un atto che accerti il verificarsi di tali cause di cessazione, da annotarsi a margine della trascrizione del vincolo ai sensi dell’art. 2655 c.c. ovvero attraverso una sentenza che accerti giudizialmente il verificarsi della causa di cessazione del vincolo; e ciò in quanto anche le cause fisiologiche di cessazione del vincolo (ad eccezione del termine) non sono state a monte oggetto di pubblicità(82).
Il problema che si pone è, piuttosto, quello di verificare se l’annotazione di inefficacia del vincolo spieghi l’effetto tipico previsto dall’art. 2655, comma 3 c.c., cioè di continuità delle trascrizioni ex art. 2650 c.c., intesa quale forma di pubblicità atta a ripristinare il criterio di priorità delle trascrizioni quale criterio risolutore di conflitti fra più aventi causa di un comune dante causa, il quale si sia avvantaggiato della caducazione degli effetti del titolo “risolto”, oppure se tale annotazione abbia una funzione di mera pubblicità notizia e, pertanto, se il verificarsi della causa di estinzione del vincolo valga di per sé a rendere nuovamente il bene libero da vincoli e a far sì che i successivi conflitti fra aventi causa del titolare del bene possano risolversi (indipendentemente dall’annotazione) sulla base della priorità delle trascrizioni o iscrizioni successive.
Da un coordinamento tra il tenore letterale dell’art. 2650 e quello dell’art. 2655, comma 3 c.c. sembrerebbe emergere una differenza sostanziale: mentre il principio di continuità ex art. 2650 c.c. postula un atto di acquisto quale titolo a monte (non trascritto) condizionante l’inefficacia delle successive iscrizioni o trascrizioni, l’art. 2655 c.c. si riferisce, invece, a qualunque atto trascritto o iscritto e, pertanto, sarebbe in ipotesi riferibile anche ad atti non traslativi, ma impositivi di meri vincoli di destinazione trascritti ex art. 2645-ter c.c.
Ove tale differenza testuale conducesse ad affermare che l’art. 2655 comma 3 si applichi ad atti non traslativi, ma meramente impositivi di vincoli, ne conseguirebbe che il mancato annotamento ex art. 2655, comma 3 c.c. dell’atto o della sentenza che accerti la sopravvenuta inefficacia del vincolo di destinazione renderebbe, medio tempore, inefficaci le trascrizioni o le iscrizioni contro colui che si avvantaggia di tale risoluzione e che, comunque, sola una volta avvenuta l’annotazione, i conflitti fra aventi causa dal “conferente” si risolvano sulla base della priorità delle rispettive trascrizioni.
In realtà questa opzione ermeneutica non appare convincente, in quanto pur volendo estendere il principio di continuità delle trascrizioni anche ai vincoli di indisponibilità suscettibili di condurre, alla stregua delle fisiologiche evoluzioni del vincolo, ad un trasferimento coattivo (ad esempio pignoramento e/o sequestro)(83), tale interpretazione estensiva non potrebbe comunque consentire di ricomprendervi anche i vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. in quanto di per sé non importanti alcun vincolo di indisponibilità del bene nel senso chiarito.
Ne consegue, quale corollario applicativo, che il richiamo all’art. 2655 c.c. per pubblicizzare la cessazione del vincolo vale solo per individuare la modalità attraverso la quale la pubblicità viene attuata (annotazione a margine dell’originaria trascrizione) e non anche per ammettere l’applicabilità del principio di continuità di cui al terzo comma del predetto art. 2655 c.c., dovendo coerentemente postularsi come pienamente efficace qualsiasi iscrizione o trascrizione eseguita contro colui che si avvantaggia della cessazione (di regola il destinante) per il sol fatto che sia accertata, con atto volontario di accertamento o in via giudiziale, la causa di sopravvenuta inefficacia del vincolo di destinazione.
In ipotesi di “trasferimento” del vincolo da un bene all’altro entrambi nella titolarità formale di un unico attuatore, ove si ritenesse che la pubblicità debba realizzarsi con la duplice formalità, annotazione di inefficacia con carattere di pubblicità notizia ex art. 2655 c.c da un lato. e trascrizione ex art. 2645-ter c.c. dall’altro, vi sarebbe necessariamente uno scollamento temporale fra il momento in cui il vincolo precedente diviene inefficace, in coincidenza con la stipula dell’atto notarile, anche prima dell’annotazione, e un successivo momento in cui esso diventa nuovamente opponibile in virtù della nuova trascrizione.
La soluzione pubblicitaria più idonea, per evitare tale iato temporale, dovrebbe essere costituita da un’unica formalità pubblicitaria di annotazione di surrogazione analoga mutatis mutandis, a quella di cui all’art. 2843 c.c. per segnalare esclusivamente il mutamento degli scopi della destinazione da un bene all’altro (e il mutamento del beneficiario), ma ferma restando la riconducibilità degli effetti di opponibilità all’originaria trascrizione del vincolo di destinazione su ciascun bene destinato(84); ma è evidente che la regola della tipicità della pubblicità accessoria (annotazione) non consenta de iure condito un tale forma di pubblicità, nonostante le significative aperture dottrinali tese a superare, alla luce di un principio di verità «finalizzata a riallineare le risultanze registrali alla realtà giuridica sostanziale»(85), i rigorismi formali della pubblicità immobiliare (anche accessoria).
5. La risoluzione dei conflitti di interessi
Il compimento di atti incidenti su masse patrimoniale separate, ma gestite dallo stesso soggetto, costituisce sempre una potenziale fonte di conflitti di interesse, proprio per la funzionalizzazione di ogni patrimonio separato al conseguimento di interessi diversi da quelli di cui è portatore il titolare del patrimonio generale.
Quanto tali atti vengono posti in essere dall’unico soggetto, nel contempo titolare del patrimonio generale e di quello destinato, occorre individuare quali possano essere i possibili correttivi negoziali atti ad evitare che l’incompatibilità fra i contrapposti interessi possa condurre ad un vizio di invalidità analogo a quello che consegue all’applicazione degli artt. 1394 e 1395 c.c.
Il richiamo alla disciplina codicistica in materia di conflitto di interessi nella rappresentanza negoziale deve avvenire con la seguente duplice precisazione: i) che esso richiede i necessari adattamenti interpretativi, posto che il conflitto nei rapporti interpatrimoniali ex art. 2645-ter c.c. non presuppone necessariamente l’esercizio di un potere rappresentativo in senso tecnico, cioè un’attività negoziale idonea a determinare direttamente un effetto nell’altrui sfera giuridica, ma un’attività gestoria (magari attraverso un mandato senza rappresentanza) di un patrimonio nell’interesse di un soggetto diverso dal gestore (il beneficiario), non titolare di un diritto reale sul patrimonio su cui incide il compimento del negozio gestorio; ii) che l’applicazione di tale disciplina postula che dal compimento del negozio interpatrimoniale possa discendere un pregiudizio nei confronti del patrimonio generale del soggetto o del patrimonio destinato.
L’alterità degli interessi sottesi a ciascun patrimonio separato rispetto a quelli riconducibili al titolare del patrimonio generale consente di mutuare dalla disciplina codicistica, in particolare dall’art. 1395 c.c., il principio generale della superabilità del conflitto mediante un’autorizzazione al compimento del negozio gestorio da parte dei titolari degli interessi in conflitto, cioè del beneficiario e del titolare dei patrimonio generale del destinante se diverso dall’attuatore(86), purché non generica, ovvero attraverso una predeterminazione del contenuto del negozio gestorio (rectius intergestorio).
Anzi, ove si aderisse all’orientamento dottrinale e giurisprudenziale più rigoroso(87), i due presupposti, cioè autorizzazione e predeterminazione del contenuto del negozio intergestorio dovrebbero, ad onta della proposizione disgiuntiva contenuta nell’art. 1395 c.c., coesistere, non essendo sufficiente il rilascio di una generica autorizzazione a rimuovere il possibile conflitto di interessi.
È stato, per converso, osservato come non sia neanche ammissibile ritenere che la fissazione degli elementi del negozio valga di per sé a surrogare il difetto di una specifica autorizzazione, giungendosi così all’assorbimento di quest’ultima condizione nella prima, in quanto si finirebbe per obliterale la distinzione posta dalla legge fra i due requisiti, aventi valore e funzione diversi(88).
In particolare, l’autorizzazione dei titolari degli interessi contrapposti costituirebbe un’integrazione della legittimazione di quest’ultimo al compimento del negozio(89)ovvero, come altri si esprime, una «vicenda puramente negativa volta ad escludere l’effetto giuridico di un fatto ostacolante il regolare svolgersi dell’attività privata»(90), mentre la predeterminazione del contenuto dovrebbe servire ad evitare che, almeno in astratto, si produca uno sviamento di potere gestorio.
Peraltro, la predeterminazione del contenuto del negozio non potrebbe essere richiesta necessariamente a monte nell’atto di destinazione, in quanto non potrebbe predicarsi la indefettibile esaustività delle previsioni in esso contenute quanto ai possibili rapporti interpatrimoniali, ma potrebbe anche avvenire con successivo atto posto in essere dai titolari degli interessi contrapposti che predetermini il contenuto del negozio, comunque prima del suo compimento, e nel contempo autorizzi l’attuatore a porlo in essere.
In caso di beneficiari minori è naturalmente necessario che l’autorizzazione e la predeterminazione del contenuto del negozio intergestorio vengano compiuti dai genitori esercenti la potestà genitoriale, debitamente muniti ex art. 320 c.c. dell’autorizzazione del giudice tutelare, mentre se attuatore è genitore del beneficiario, l’autorizzazione potrà essere rilasciata dall’altro genitore, fatta salva l’ipotesi in cui l’attuatore sia l’unico genitore esercente la potestà ovvero attuatori siano entrambi i genitori, nel qual caso occorrerà anche la previa nomina di un curatore speciale ex art. 320 ultimo comma c.c.
Non può, infine, escludersi che i beneficiari siano solo determinabili(91), come ad esempio il nascituro concepito ovvero i figli di una determinata persona vivente al momento della costituzione del vincolo di destinazione, in applicazione analogica dell’art. 784 c.c., oppure da determinarsi ex post in virtù di altri criteri obiettivi da parte dell’attuatore e senza che costui possa avere alcun margine di discrezionalità al riguardo, pena la nullità dell’atto di destinazione ex art. 778 c.c.
Nel primo caso, l’autorizzazione dovrà essere rilasciata dai genitori ex art. 643 e 644 c.c., mentre nelle altre ipotesi potrà farsi luogo all’applicazione dell’art. 78 c.p.c., norma quest’ultima considerata di applicazione generale a tutte le ipotesi di conflitto di interessi - anche solo potenziale - fra un centro autonomo di interessi (sia esso dotato o meno di personalità giuridica) e il gestore(92).
Del resto proprio nell’area dei patrimoni separati tale norma trova un’importante applicazione nell’art. 780 c.p.c., il quale disciplina gli effetti processuali della conservazione delle ragioni dell’erede verso l’eredità beneficiata stabilendo che «le domande dell’erede con beneficio d’inventario contro l’eredità sono proposte contro gli altri eredi. Se non vi sono eredi o se tutti propongono la stessa domanda, il giudice nomina un curatore in rappresentanza dell’eredità».
Alla luce di tale ricostruzione, è evidente che nessuna autorizzazione sarà da richiedersi al beneficiario (o ai suoi legali rappresentanti) quando dal compimento del negozio interpatrimoniale non discenda un pregiudizio per il patrimonio separato, ma esclusivamente un vantaggio, come nel caso di costituzione di una garanzia reale o personale sul patrimonio generale a ulteriore garanzia del raggiungimento degli scopi della destinazione.
Non è neanche da escludersi che nell’atto di destinazione sia nominato un “guardiano” della desti-nazione cui il destinante potrebbe affidare il compito di rilasciare l’autorizzazione al compimento del negozio intergestorio e di predeterminare il contenuto del medesimo negozio; e ciò sia nell’ipotesi di beneficiari solo determinabili, ma anche in caso di beneficiari determinati, in quanto i poteri e le facoltà del beneficiario della destinazione ben possono essere modellate ex ante nell’atto destinazione, anche in negativo attraverso l’esclusione dal compimento di determinati atti.
6. Le clausole
Costituzione di garanzie personali o reali sul patrimonio generale del destinante da parte dell’attuatore (mandatario con rappresentanza del destinante) per i fini della destinazione.
È consentito all’attuatore, al quale viene conferito apposito mandato con rappresentanza, costituire, con uno o più atti, garanzie personali o reali sul patrimonio generale del destinante, esclusivamente per il raggiungimento dei fini della destinazione, con specifica autorizzazione ex art. 1395 c.c. e per un importo della garanzia prestata non superiore a __________ per ciascuna garanzia e, comunque complessivamente, avuto riguardo cumulativamente a tutte le garanzie prestate per gli scopi della destinazione, non superiore a __________
“Trasferimento” del vincolo di destinazione da un bene all’altro oggetto di atti di destinazione dei quali sia attuatore un unico soggetto.
L’attuatore potrà, durante l’esecuzione del programma destinatorio, con il consenso del guardiano Sempronio (oppure al ricorrere delle seguenti cause oggettive…): i) prestare con atto in forma pubblica il consenso all’annotazione di inefficacia del vincolo sul bene destinato con il presente atto nell’interesse del beneficiario Tizio e costituire analogo vincolo di destinazione sul bene destinato con atto a mio rogito in data odierna rep. n. __________ nell’interesse del beneficiario Caio; e contestualmente ii) prestare con atto in forma pubblica il consenso all’annotazione di inefficacia del vincolo sul bene destinato con atto a mio rogito in data odierna rep. n. __________ nell’interesse del beneficiario Caio e costituire analogo vincolo di destinazione sul bene destinato con il presente atto nell’interesse del beneficiario Tizio.
Nomina del guardiano per la risoluzione dei conflitti di interessi.
È nominato quale guardiano della destinazione il sig. __________ il quale, appositamente intervenuto, accetta l’incarico.
Al guardiano sono conferiti i seguenti poteri:
(indicazione dei poteri)
- rilasciare, nell’interesse dei beneficiari, l’autorizzazione al compimento di qualsiasi negozio intergestorio, nei limiti consentiti dalla legge, fra il patrimonio di destinazione e quello generale del destinante o dell’attuatore con atto in forma scritta e con contestuale predeterminazione del contenuto del negozio da compiersi.
(1) Per una compiuta ricostruzione storica della teoria dei patrimoni separati nella dottrina tedesca cfr. M. BIANCA, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova, 1996, p. 97 e ss., la quale mette in evidenza come, mentre in una prima fase delle formulazioni della teoria della Zweckvermögen, la mancanza di precisi riferimenti soggettivi porta la dottrina ad una elaborazione che trova nello scopo il punto di aggregazione dei beni, nelle elaborazioni teoriche successive una più matura consapevolezza, supportata dal progressivo emergere di una disciplina positiva della persona giuridica e dall’impostazione soggettivistica, che prevale come dato ordinante del sistema, determina una più precisa evoluzione verso tecniche personificatrici del patrimonio; nonché A. ZOPPINI, «Autonomia e separazione del patrimonio nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni», in Riv. dir. civ., 2002, p. 545 e ss., secondo il quale la dottrina tedesca della Zweckvermögen costituisce una reazione all’impostazione classica, maturata in ambiente francese, dell’unità e indivisibilità del patrimonio, ascrivibile alle note teorie di Aubry e Rau, che identificano il patrimonio nella persona, nel senso che per il diritto privato essa coincide con la vicenda patrimoniale che le compete con i seguenti corollari: i) ogni persona ha un patrimonio e non può separarsene, se non perdendo personalità; ii) ogni persona non ha che un solo patrimonio; iii) ogni patrimonio deve necessariamente essere imputato ad un persona. Sulla genesi della concezione soggettivistica cfr. R. ORESTANO, Introduzione allo studio storico del diritto romano, seconda edizione, Torino, 1961, p. 79 e ss.; ID., «Diritti soggettivi e diritti senza soggetto», in Jus, 1960, p. 149 e ss.; ID., Azione, Diritti soggettivi, Persone giuridiche, Bologna, 1978, p. 117 e ss.
(2) Così F. BIONDI, I beni, in Trattato di diritto civile italiano diretto da F. Vassalli, IV, t. 1, Torino, 1956, p. 117; F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1962, p. 85 e ss.; A. PINO, Il patrimonio separato, Padova, 1950, p. 2 e ss.
(3) L. BIGLIAZZI-GERI, voce Patrimonio autonomo e separato, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, p. 280 e ss.
(4) Sulla meritevolezza dell’interesse destinatorio nell’art. 2645-ter c.c. come concetto “relazionale” cfr. per tutti M. NUZZO, Atto di destinazione e interessi meritevoli di tutela, in La Trascrizione dell’atto notarile di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile a cura di Mirzia Bianca, Milano, 2007, p. 59 e ss.; A. MORACE PINELLI, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, Milano, 2007, p. 160 e ss. Aderire, invece, all’idea autorevolmente sostenuta secondo la quale il requisito della meritevolezza, alla luce del tenore letterale dell’art. 2645-ter c.c. e del pedissequo richiamo all’analogo requisito richiesto dall’art. 1322 c.c. per il riconoscimento giuridico di nuovi tipi contrattuali non espressamente previsti dalla legge non costituisca un quid pluris - in termini assiologici - rispetto alla liceità equivarrebbe a significare che il controllo sulla non contrarietà dell’atto a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume “esaurisca” la valutazione di meritevolezza. L’expressio causae, quale necessaria specificazione dello scopo destinatorio, purchè ovviamente lecito, sarebbe condizione necessaria, e nel contempo sufficiente, per la ricevibilità dell’atto di destinazione. Ergo, l’atto di destinazione, salvi i casi limite di illiceità, sarebbe sempre destinato a produrre sia l’effetto di destinazione che quello di separazione; cfr. in tal senso A. FALZEA, Riflessioni preliminari, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, cit., p. 7; nello stesso senso G. VETTORI, Atto di destinazione e trascrizione. L’art. 2645-ter, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, l’art. 2645-ter del codice civile, cit., p. 177, secondo il quale, mutuando la proposta della Commissione giustizia, il termine meritevolezza equivale a non illiceità: risulterebbe conseguentemente escluso che il notaio possa e debba compiere un giudizio comparativo di interessi fra quelli del beneficiario e quelli dei creditori del destinante. In questa prospettiva, un filtro di meritevolezza, affidato al notaio al giudice, non sarebbe coerente con l’equilibrio istituzionale fra iurisdictio e legislatio in uno Stato di diritto basato sul principio di legalità, in quanto il giudizio di conformazione delle res e del patrimonio spetta solo e soltanto alla legge per esigenze di certezza e di ordine.
(5) In questa prospettiva è particolarmente significativo come di recente si sia sostenuto che fra tutti i tentativi di distinzione fra il concetto di patrimonio separato e patrimonio autonomo il più appagante sia quello quantitativo, che cioè vede nel patrimonio autonomo non una distinta figura, ma una variante quantitativa del patrimonio separato, ovvero un patrimonio la cui separazione opera, non nei confronti di un unico soggetto, ma di più soggetti, con la realizzazione di una separazione plurilaterale; in tal senso cfr. M. BIANCA, «Il modello normativo del contratto di rete. Nuovi spunti di riflessione sul rapporto fra soggettività giuridica e autonomia patrimoniale», in Il contratto di rete per la crescita delle imprese a cura G.D. Mosco e F. Cafaggi, in Quaderni di Giur. comm., Milano, 2012.
(6) Si tratta della sentenza della Cassazione civile 15 luglio 2010, n. 16605 (Rel. Rodorf ), la cui massima è del seguente tenore letterale: «I fondi comuni di investimento (nella specie un fondo immobiliare chiuso) costituiscono patrimoni separati della società di gestione del risparmio che li ha istituiti, con la conseguenza che, in caso di acquisto immobiliare operato nell’interesse di un fondo, l’immobile acquistato deve essere intestato alla suindicata società di gestione». Tal sentenza si pone, sul piano delle conclusioni che ne derivano sul piano della pubblicità immobiliare, in netta antitesi con le conclusioni raggiunte nella circolare del Ministero delle finanze 11 novembre 1999, n. 218/T e nella pronuncia del Consiglio di Stato 11 maggio 1999, in Foro amm., 2000, p. 2225 e ss.
(7) È evidente che in, quest’accezione, il termine “patrimonio autonomo” viene utilizzato in maniera completamente diversa rispetto alle tradizionali elaborazioni dottrinali - di qui la persistente confusione terminologica - riportate nel testo.
(8) Sulla pseudo-esigenza di rinvenire comunque un “soggetto di diritti” cui imputare il patrimonio cfr. P. FERRO-LUZZI, «Un problema di metodo: la natura giuridica dei fondi comuni di investimento (a proposito di Cass. 15 luglio 2010, n. 16605)», in Riv. soc., 2012, p. 755. L’Autore offre un interessante spunto di riflessione, che sarà ripreso più avanti nel testo a proposito delle relazioni giuridiche fra masse distinte, sul dogma del soggetto quale centro di imputazione dei rapporti, che deriva dalla acritica necessità di postulare comunque un soggetto cui riferire un patrimonio attraverso un processo di c.d. entificazione dei diritti soggettivi, senza tener conto che i diritti soggettivi sono «sintesi di schema e principi di disciplina che si applicano o non si applicano, ma che non hanno esistenza, vita propria, e dunque non nascono, trasferiscono od estinguono come s’usa dire per comodità espressiva».
(9) Così A. PAOLINI, «Fondi comuni immobiliari, Sgr e trascrizione», studio CNN n. 90/2012/I, approvato dalla Commissione Studi d’impresa il 18 ottobre 2012.
(10) Quest’impostazione, e cioè che la Sgr non sia effettivamente legata da un rapporto dominicale in senso tradizionale con il fondo, è avvalorato dalla disciplina contenuta nel regolamento della Banca d’Italia 8 maggio 2012 (tit. V, cap. I, sez. II, 4.1.2), da cui si evince come sia possibile indifferentemente provvedere alla sostituzione della Sgr senza che ciò comporti un trasferimento in senso tecnico.
(11) A. PAOLINI, op. cit.
(12) Il regolamento della Banca d’Italia 8 maggio 2002 (tit. V, cap. I., sez. II, pt. C, 4.5) prevede, infatti, il deposito delle somme non riscosse da parte dei titolari delle quote «in un conto intestato alla Sgr con l’indicazione che trattasi di averi della liquidazione del fondo, con sottorubriche nominative degli aventi diritto».
(13) Tale espressione è stata autorevolmente utilizzata da P. SPADA, «Persona giuridica e articolazioni del patrimonio: spunti legislativi recenti per un antico dibattito», in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 842. In una prospettiva diversa si colloca A. ZOPPINI, op. cit., p. 570 e ss., secondo cui il modo più fruttuoso di apprezzare tale equivalenza funzionale e fungibilità degli effetti è quello di affrancarsi da una lettura che identifica nella persona giuridica “un privilegio” rispetto alla regola dell’art. 2740 c.c., in quanto un’equivalenza è rinvenibile anche nelle ipotesi in cui non via limitazione della responsabilità perché, ad esempio, la società che ha costituito il patrimonio dedicato potrebbe impegnare sussidiariamente, a garanzia dei debiti sociali, il suo restante patrimonio. Sotto tale angolazione la separazione patrimoniale diventa, al pari della garanzia reale, una forma di garanzia specifica per il soddisfacimento degli interessi di taluni creditori ponendo un determinato attivo patrimoniale al riparo dalla pretese degli altri.
(14) Cass. 3 luglio 2010, n. 16605, sopra citata alla nota 6.
(15) In tal senso esprime G. BARALIS, «Fondi immobiliari e Sgr: problemi di pubblicità immobiliare», in Riv. not., 2012, p. 1254 e ss.
(16) G. BARALIS, op. cit., p. 1254.
(17) L’espressione è sempre di G. BARALIS, op. cit., p. 1255.
(18) Sull’utilizzabilità della tecnica dell’interpretazione analogica o dell’interpretazione estensiva in materia di trascrizione, anche in particolare in ordine al procedimento di trascrizione, cfr. G. PETRELLI, «L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare - Trascrizioni, annotazioni, cancellazioni: dalla “tassatività” alla “tipicità”», in Quaderni della Rass. dir. civ. diretta da Pietro Perlingieri, Napoli, 2009, p. 292 e ss. In tempi ancora più recenti ribadisce autorevolmente con forza l’esclusione del ricorso all’analogia, seppure con espressione testualmente riferita «all’efficacia dichiarativa della trascrizione», F. GAZZONI, La trascrizione degli atti e delle sentenze, in Trattato della trascrizione a cura di E. Gabrielli e F. Gazzoni, Torino, 2012, p. 493.
(19) È noto come l’espressione sia ascrivibile a M. LUPOI, Trusts, 1997, p. 472 e ss.; ID, «Lettera a un notaio curioso di trusts», in Riv. not., 2006, I, p. 343 e ss. La differenziazione fra patrimonio segregato e patrimonio separato risulterebbe imputabile ad una «incomunicabilità bidirezionale tra patrimonio separato (rectius segregato) e il soggetto che ne è titolare … manca sia la tipica comunicazione mediata (frutto della traslazione) della responsabilità dal patrimonio generale a quello separato, sia la, egualmente tipica, potenziale comunicazione diretta degli arricchimenti dal patrimonio separato a quello generale; un distacco totale e definitivo fra le due sfere» a differenza di ciò che accadrebbe nel patrimonio separato in cui, invece, si verificherebbe una «traslazione, il cui effetto può essere anche quello di svuotare di ogni contenuto quel che è rimasto nel patrimonio generale del soggetto (e cioè la proprietà del patrimonio separato) ovvero di imporre una situazione di attesa fino al verificarsi della condizione che farà venir meno la separazione». Come rilevato da M. BIANCA, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, cit., p. 183, nota 7, ben prima dell’introduzione nell’ordinamento dell’art. 2645-ter c.c., se si tiene presente che i casi normativamente previsti di separazione patrimoniale (fondo patrimoniale, fondi pensione, fondi comuni di investimento e ora i patrimoni di destinazione ex art. 2645-ter c.c.) contemplano un effetto di inaggredibilità per scopi estranei alla destinazione non solo dei beni, anche degli arricchimenti, cioè dei frutti, la distinzione fra patrimoni separati e patrimoni segregati appare meramente terminologica. Di «lemma inelegante che traslittera il segregated fund del diritto inglese» parla invece A. ZOPPINI, op. cit., p. 549.
(20) Ci si astiene in questa sede dal prendere posizione sul ruolo da assegnare alla Convenzione dell’Aja, rectius alla sua legge di ratifica (16 ottobre 1989 n. 364), e cioè se la stessa, avendo quale finalità l’uniformazione delle norme di diritto internazionale privato nei paesi di common law e valore sostanziale in quelli che non conoscono l’istituto del trust, sia immediatamente applicabile con carattere di precettività nell’ordinamento giuridico italiano, ovvero il presupposto della sua operatività risieda nella presenza di un conflitto di leggi, con la conseguenza in quest’ultimo caso che essa non sarebbe fonte autonoma di diritto uniforme. È indubbio, infatti, che una volta riconosciuto il trust nell’ordinamento interno, l’effetto legale tipico non potrà che essere quello di ammettere una compiuta forma di separazione patrimoniale caratterizzata dalla limitazione bidirezionale di responsabilità, dalla esclusione dei beni in trust dal regime patrimoniale della famiglia e dalla successione del trustee. Altro problema è quello di individuare gli strumenti di tutela esperibili da parte dei legittimari del settlor in caso di lesione della legittima loro spettante, ma la sua analisi esula dall’oggetto della presente indagine.
(21) S. BARTOLI, «Riflessioni sul “nuovo” art. 2645-ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e trust», in Giur. it., 2007, p. 1310.
(22) La soggettività giuridica del trust è affermata da A. DE DONATO, V. DE DONATO, M. D’ERRICO, Trust convenzionale, lineamenti di teoria e pratica, Milano, 1999, p. 128 e ss. secondo i quali perché un patrimonio sia soggettivizzato occorre la previsione ordinamentale di autonomia negoziale e capacità processuale; caratteristiche entrambi rinvenienti nel trust all’art. 2, comma 2, lett. c, della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, che attribuisce al trustee la facoltà di amministrare, gestire e disporre dei beni in trust e all’art.11 comma 1 della stessa Convenzione, che afferma la capacità del trustee di stare in giudizio come attore e come convenuto per il trust.
(23) Trib. Torino, 10 febbraio 2011, in Notariato, 2011, p. 408 e ss. con nota adesiva di A. STEFANI, «Trascrizione a favore del trust: una nuova frontiera?». Fino a questo momento, a fronte di una assoluta eterogeneità comportamentale dei vari uffici dell’Agenzia delle entrate-territorio, la prassi più corretta sembrava essere quella di ipotizzare una prima nota di trascrizione contro il disponente e a favore del trustee (salvo il caso di trust autodichiarato), ai sensi degli artt. 2643 e 2645 c.c. e una seconda nota contro il trustee avente ad oggetto la pubblicità del vincolo di trust; trascrizione, quest’ultima, che - in assenza di una disciplina delle modalità operativa della pubblicità immobiliare contenuta nell’art. 12 della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985 - è stata ritenuta possibile in applicazione analogica dell’art. 2647 c.c. in materia di fondo patrimoniale. Sono note le accese critiche di un’autorevole dottrina, F. GAZZONI, La trascrizione degli atti e delle sentenze, cit., p. 91 e ss., all’utilizzo, ritenuto indiscriminato e acritico, dell’art. 12 della Convenzione dell’Aja che, secondo l’autore, non sarebbe di immediata applicazione nell’ordinamento interno nonché, sia pure in via analogica, dell’art. 2647 c.c., la cui funzione di pubblicità notizia sarebbe ormai cristallizzata nella sentenza della Cassazione, S.U., 13 ottobre 2009, n. 21658 (nonché, più recentemente in Cass. 28 settembre 2012, n. 16526) a fonte del ruolo di opponibilità del vincolo da riservarsi piuttosto all’annotazione a margine dell’atto di matrimonio. Il richiamo all’art. 2647 c.c. ha rilievo, peraltro, solo con riguardo alla legittimazione della trascrizione del vincolo e non alla funzione della trascrizione, in quanto l’effetto di separazione conseguente alla pubblicità immobiliare sarebbe connaturato e funzionale agli scopi del trust, nel senso che negare che l’effetto di separazione discenda dalla trascrizione significherebbe non riconoscere il trust come rapporto giuridico disciplinato dalla Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, sempre che la si ritenga direttamente operante nell’ordinamento interno anche ai c.d. trust interni (sulle questioni relative al c.d. trust interno deliberatamente, in questa sede, non si prenderà posizione, in quanto non rilevanti ai fini dell’indagine).
(24) È noto come sia stata la prassi notarile ad anticipare la modifica dell’art. 2659 c.c. in ordine alla possibilità di trascrivere a favore di un’associazione non riconosciuta. Sul punto cfr. V. COLAPIETRO, «La trascrizione degli acquisti immobiliari da parte di associazioni non riconosciute», in Riv. not., 1986, p. 1032 e ss.
(25) Non pare, come invece affermato da G.M. TANCREDI, «In tema di soggettività giuridica del trust», in I Contratti, 2012, p. 693 e ss., che il principio di diritto affermato dalla sentenza del Tribunale di Torino sia contraddetto dalla sentenza della Cass. civ., sez. II, 22 dicembre 2011, n. 28363, secondo cui - difettando il trust di autonoma personalità giuridica - deve ritenersi responsabile delle sanzioni amministrative relative alla circolazione stradale di un veicolo appartenente ad un “trust” il trustee che, nei rapporti con i terzi, interviene non quale legale rappresentante del “trust” ma come soggetto che dispone del diritto e, pertanto, in base all’art. 196 del codice della strada è obbligato in solido con l’autore della violazione. La Cassazione, da un parte, al pari della sentenza del citato Tribunale, nega l’affermazione di una qualche forma di soggettività o personalità in capo al trust, ma dall’altra pone il diverso tema della responsabilità del trustee con il proprio patrimonio generale per le obbligazioni derivanti da fatto illecito. Sul punto, in assenza di una disposizione analoga a quella di cui all’art. 2447-quinquies, comma 3, c.c., in materia di patrimoni destinati nelle SpA, secondo cui la società rimane illimitatamente responsabile per le obbligazioni derivanti da fatto illecito, indipendentemente dall’inerenza o meno alla destinazione del fatto generatore dell’illecito, per i casi di destinazione negoziale da fondo patrimoniale, vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e trust, si ritiene che valga la diversa regola per cui il patrimonio destinato potrà essere aggredito solo se il fatto generatore dell’illecito è connesso alle finalità della destinazione in quanto, viceversa, risponderà l’autore della violazione con il proprio patrimonio. In giurisprudenza cfr. Cass. civ., n.11230/2003, in Riv. not., 2004, p. 155 e ss. e in dottrina C.M. BIANCA, Se l’esecuzione sui beni e sui frutti del fondo patrimoniale possa aver luogo per debiti non derivanti da contratto, in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia discusse da vari giuristi e dedicate ad Alberto Trabucchi, Padova, 1989, p. 111 e ss.; S. BARTOLI, op.cit., p.1309. In senso contrario G. TRAPANI, «Obbligazioni familiari e fondo patrimoniale: i limiti all’esecuzione», in Studi e materiali, 1999.
(26) Opta per il carattere solidale della responsabilità dell’attuatore della destinazione, con il proprio patrimonio personale, per le obbligazione da destinazione F. GAZZONI, Osservazioni, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, L’art. 2645-ter del codice civile, cit., p. 234, secondo il quale la sussidiarietà richiederebbe un’espressa previsione normativa che, nel caso di specie, manca. Contra G. OPPO, Responsum, in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia, Padova, 1989, p. 121, nonché ID., Riflessioni preliminari, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, L’art. 2645- ter del codice civile, cit., p. 15 e ss., ad avviso del quale, argomentando dalla disciplina della comunione legale (art. 190 c.c.) e da quella delle garanzie reali (art. 2911 c.c.), il creditore che abbia garanzia su determinati beni non può rivolgersi contro il residuo patrimonio del soggetto se non dopo aver infruttuosamente escusso i primi; regola, valevole anche per le società personali (art. 2268 c.c.), che testimonierebbe l’esistenza di un principio generale secondo cui in tutti i casi di patrimonio specificamente destinato al raggiungimento di determinati interessi il creditore avente titolo nella destinazione deve, prima di aggredire il patrimonio residuo dell’attuatore, escutere infruttuosamente quello destinato. Conviene con il carattere sussidiario della responsabilità del patrimonio generale anche G. BARALIS, «Riflessioni generali in tema di art. 2645-ter c.c. con riguardo ai diritti dei beneficiari e alla revocabilità della destinazione», in Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia provata, in I Quaderni della Fondazione Italiana per il notariato, Milano, 2007, p. 94. Anche nel fondo patrimoniale la responsabilità del patrimonio residuo del costituente rispetto alle obbligazioni del fondo viene qualificata come sussidiaria da G. GABRIELLI, voce Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, p. 308. A tale ricostruzione sistematica viene replicato da parte di F. GAZZONI, op. loc. cit., che: i) l’art. 190 c.c., a tutto concedere, potrebbe essere applicato solo in via analogica al fondo patrimoniale, ma limitatamente ai profili di interferenza con la comunione legale dei beni; ii) in tema di garanzie reali dovrebbe valere non l’art. 2911 c.c., quanto piuttosto l’art. 2868 c.c. e, pertanto, il terzo datore di ipoteca a garanzia di un debito altrui, per evitare l’aggressione solidale del bene ipotecato, dovrebbe pattuire il beneficio di escussione con il creditore; iii) l’applicazione analogica delle norme in materia di società personali, pur nella perfetta equivalenza funzionale fra personalità/soggettività giuridica e separazione dei patrimoni sul piano della garanzia patrimoniale, è preclusa per l’indiscutibile presenza di un dato strutturale, l’alterità soggettiva, che invece manca nei patrimoni separati non personificati.
(27) G. PETRELLI, «La trascrizione degli atti di destinazione», in Riv. dir. civ., 2006, p. 167 e ss.
(28) S. BARTOLI, «Riflessioni sul “nuovo” art. 2645-ter c.c. …», cit., p. 1318.
(29) In tal senso R. QUADRI, «L’art. 2645-ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione», in Contr. e impr., 2006, p. 1717 e ss.
(30) Ci si riferisce alle conclusioni prospettate in Cass., S.U., 20-28 ottobre 2009 n. 22755 in un caso di immobile acquistato per essere destinato ad uso ufficio, con dichiarazione adesiva del coniuge non acquirente ex art. 179 comma 2 c.c. e,successivamente, destinato pacificamente ad abitazione familiare.
(31) Così S. BARTOLI, op. ult. cit., p. 1311.
(32) Per tutti cfr. S. PUGLIATTI, Il rapporto giuridico unisoggettivo, in Studi in onore di Antonio Cicu, II, Milano, 1951, p. 219; anche L. CARIOTA FERRARA, «Rapporto successorio, rapporto giuridico e rapporto giuridico unisoggettivo», in Riv. dir. civ., 1957, I, p. 737 e ss.
(33) G. PRESTIPINO, Delle successioni in generale, artt. 456- 535, in Commentario al codice civile a cura di A. De Martino, p. 278 e ss.
(34) Così L. CARIOTA FERRARA, op. cit., p. 738.
(35) P. BONFANTE, Il prelegato e la successione, in Scritti giuridici vari, I, Torino, 1916, p. 446; M. ALLARA, «La teoria del prelegato nel diritto civile italiano», in Ann. sem. Palermo, 1929, p. 15 e ss.
(36) S. PUGLIATTI, op. cit., p. 617 e ss.
(37) L. CARIOTA FERRARA, op. cit., p. 740.
(38) G. OPPO, «Sulla autonomia delle sezioni di credito speciale», in Banca borsa, 1979, I, p. 26 e ss.
(39) G. OPPO, op. cit., p. 20.
(40) G.E. COLOMBO, «La disciplina contabile dei patrimoni destinati: prime considerazioni», in Banca borsa, 2004, I, p. 56.
(41) L’espressione è di R. RAMETTA, Il principio di indivisibilità fra patrimonio e dogma, in Studi in onore di Giuseppe Benedetti, III, 2008, p. 1553.
(42) U. NATOLI, L’amministrazione dei beni ereditari, II, Milano, 1949, p. 98.
(43) P. PERLINGIERI, Il fenomeno dell’estinzione nelle obbligazioni, Camerino, 1972, p. 108 e ss.; ID., Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento (artt. 1230-1259), in Commentario del codice civile ScialojaBranca, art. 1241, Bologna-Roma, 1975, p. 259. In giurisprudenza, l’unica sentenza che si è occupata del problema è Cass. 30 maggio 1994, n. 5273, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 121 e ss.
(44) G. RAGUSA MAGGIORE, voce Compensazione (dir. civ.), in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 23.
(45) C.M. BIANCA, Diritto civile, 4, 1993, p. 483; M. BIANCA, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, cit., p. 223.
(46) Per l’ammissibilità dell’azione revocatoria nei confronti della compensazione cfr. Cass. civ, sez. I, 6 ottobre 1994, n. 8188.
(47) Nei patrimoni destinati delle società per azioni la neutralità della compensazione ai fini della determinazione della consistenza del patrimonio separato può essere affermata solo quando il credito e il debito siano iscritti in bilancio al valore nominale, in quanto se il controcredito della società è artificiosamente creato per pregiudicare i creditori di uno dei patrimoni dedicati il problema non attiene più alla fisiologia dell’operatività della compensazione nei rapporti interpatrimoniali, ma all’abuso della separazione patrimoniale. Sul punto cfr. R. SANTAGATA, Patrimoni destinati e rapporti intergestori.I conflitti in società multidivisionali, Torino, 2008, p. 91.
(48) Per la qualificazione di tale responsabilità del patrimonio generale del soggetto come solidale o sussidiaria v. supra, §2, nt. 26. È appena il caso ribadire che nei casi di limitazione bilaterale di responsabilità, che consegue al una separazione patrimoniale che è stata definita perfetta, come nei fondi comuni di investimento e nei trusts, questo di tipo di rapporti interpatrimoniale non è ipotizzabile.
(49) In tal senso si esprime R. RAMETTA, op. cit., p. 1566.
(50) Tale soggetto viene denominato “supervisore” del programma destinatorio da A. MORACE PINELLI, op. cit., p. 254. Si tratta di una figura analoga a quella del protector nel trust.
(51) È particolarmente significativo che, come ricordato da R. RAMETTA, op. cit., p. 1567, già la dottrina tradizionale (per tutti R. NICOLÒ, Azione surrogatoria, in Commentario del codice civile ScialojaBranca, Bologna, 1953, p. 1 e ss.) ammetteva, pur negando l’esistenza di rapporti giuridici fra l’eredità beneficiata e il patrimonio residuo dell’erede beneficiato, che i creditori ereditari o quelli dell’erede beneficiato potessero far valere in via surrogatoria uno scambio di valori tramite compensazione. La stessa autrice richiama, inoltre, la più recente dottrina in materia di operazioni di cartolarizzazioni di massa (D. MESSINETTI, «Il concetto di patrimonio separato e la c.d. cartolarizzazione dei crediti», in Riv. dir. civ., 2002, II, p. 106 e ss.) per dimostrare come, nelle ipotesi in cui la garanzia patrimoniale si appalesa come una garanzia di massa, è possibile individuare una deroga ai presupposti soggettivi fissate dalla disciplina dell’azione surrogatoria o revocatoria, ritenendosi «sufficiente, per legittimare ogni iniziativa di difesa dell’integrità del patrimonio separato, il compimento in se stesso dell’atto dispositivo, che è ritenuto in se stesso pregiudizievole».
(52) V. supra, nt. 26.
(53) M. LUPOI, Trusts, cit., p. 611. 54 L. SALAMONE, Gestione e separazione patrimoniale, Padova, 2001, p. 405.
(55) In tema di fondo patrimoniale optano per la soluzione dell’invalidità atto di alienazione (o di costituzione di garanzie) in violazione dell’art. 169 c.c. V. DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, III, Milano, 1996, p. 117; G. GABRIELLI - G. CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, p. 276; G. GABRIELLI, op. cit., p. 305; in giurisprudenza Tribunale di Napoli, 25 settembre 1998, in Notariato, 1999, p. 451.
(56) In tal senso S. MEUCCI, La destinazione tra atto e rimedi, in Atti di destinazione e trust (art. 2645-ter del codice civile) a cura di G. Vettori, 2006, p. 258.
(57) M. BIANCA, Novità e continuità dell’atto negoziale di destinazione, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, L’art. 2645-ter del codice civile, cit., p. 37.
(58) Sul punto non può sottacersi la tesi, autorevolmente espressa da F. GAZZONI, Osservazioni, cit., p. 230-231 circa l’inidoneità della trascrizione del vincolo di destinazione a costituire strumento di opponibilità anche agli aventi causa del conferente (oltre che ai creditori), fondata su una rigorosa applicazione dei principi in materia di trascrizione, che avrebbe dovuto condurre il legislatore - al fine di rendere applicabile l’art. 2644, comma 2 c.c. alla risoluzione del conflitto fra avente causa del conferente e il beneficiario (o il creditore particolare da destinazione) - alla collocazione della disposizione sulla trascrizione del vincolo di destinazione nell’art. 2643 c.c. o in nuovo art. 2643-bis c.c.; con la conseguenza che l’avente causa che acquistasse prima che sia concluso l’atto di destinazione, ma non trascriva o trascriva dopo, egualmente prevarrebbe ove il proprio atto fosse di data certa. Sembra prevalere in dottrina la tesi secondo cui la regola della priorità della trascrizione ex art. 2644 comma 2 c.c. valga anche a risolvere tali conflitti, essendo l’art. 2645-ter c.c. norma integrativa di quella di cui all’art. 2644 c.c., in quanto, sotto il profilo dell’accertamento dell’esistenza di un conflitto, la destinazione andrebbe equiparata all’acquisto di un diritto. In tal senso L. SALAMONE, Destinazione e pubblicità immobiliare. Prime note sull’art. 2645-ter c.c., in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, cit., p. 156, M. D’ERRICO, «Le modalità della trascrizione ed i possibili conflitti che possono porsi tra beneficiario, creditori ed aventi causa del “conferente”», in Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, in I Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, cit., p. 100 e ss.
(59) Appare insoddisfacente, per dare concreta tutela ai creditori particolari da destinazione di fronte alla costituzione di una garanzia reale prestata dall’attuatore in favore dei propri creditori generali, il rimedio della cessazione della separazione patrimoniale prospettato come diretta conseguenza dell’abuso dei poteri gestori in M. BIANCA - M. D’ERRICO - A. DE DONATO - C. PRIORE, L’atto notarile di destinazione, l’art. 2645-ter del codice civile, Milano, 2006, p. 42.
(60) Secondo S. PUGLIATTI, op. cit., p. 517, nt. 1, lo studio del rapporto giuridico unisoggettivo acquista un senso concreto con riferimento ai rapporti che danno luogo a diritti relativi, ma non si esclude se ne possano trarre spunti per un’indagine a più largo raggio, concernenti le situazioni aventi per oggetto diritti assoluti.
(61) E. BETTI, La teoria generale del negozio giuridico, Camerino, rist. 1994, p. 170 e ss..; ID., voce Causa del negozio giuridico, in Nuoviss. Dig. it., III, Torino, p. 32 e ss.
(62) Ma la soluzione non sarebbe dissimile in caso di trasferimento a titolo gratuito, in quanto l’assenza di causa deriverebbe in questo caso dalla considerazione non si può donare a stessi.
(63) C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il Contratto, Milano, 2000, p. 364; A. CATAUDELLA, I contratti, parte generale, Torino, 2000, p. 187; R. SCOGNAMIGLIO, Contratto in generale, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, artt. 1321-1352, Bologna, 1970, p. 312 e ss.
(64) R. ORESTANO, «Diritti soggettivi e diritti senza soggetto. Linee di una vicenda concettuale», in Jus, 1960, p. 192. Nello stesso senso si esprime recentemente P. FERRO-LUZZI, op. cit., p. 755.
(65) S. SATTA, Diritto processuale civile, V edizione, Padova, 1957, p. 99 e ss.
(66) È questa la tesi prospettata, in ottica probabilistica, da G. BARALIS, op. cit., p. 1253 il quale, a proposito del passaggio di immobili fra più fondi gestiti dalla medesima Sgr, rileva come tale soluzione potrebbe rendere efficiente la soluzione prospettata da Cass. 15 luglio 2010, n. 16605 a proposito della necessità della trascrizione a favore della Sgr e non dei fondi. L’autore, nel prosieguo del suo ragionamento, accoglie però la tesi della trascrizione a favore dei fondi e pertanto, anche della trascrizione fra fondi.
(67) F. GAZZONI, Osservazioni, cit., p. 235.
(68) Trib. Reggio Emilia 22 giugno 2012, in Giur. it., novembre 2012, p. 2274 e ss., con nota critica di R. CALVO, secondo la quale l’art. 2645-ter c.c. non ammetterebbe il vincolo di destinazione c.d. autoimposto, cioè senza effetti traslativi.
(69) Potrebbe, ad esempio, verificarsi il caso in cui, in conformità con l’atto di destinazione che preveda la c.d. surrogazione reale, l’attuatore (non proprietario dei beni destinati) voglia acquistare in proprio i beni destinati per reimpiegare il ricavato nell’acquisto di altro bene (da imputare al destinante) da sottoporre al medesimo vincolo di destinazione. O, ancora, che vi sia l’esigenza di costituire una servitù sui beni destinati a favore o contro beni di proprietà dell’attuatore, non ostando, in questo caso, in via assoluta il principio nemini res sua servit, proprio per la presenza di alterità soggettiva.
(70) Per una compiuta ricostruzione storica della surrogazione reale nei patrimoni separati quale rapporto derivato da quello preesistente cfr. M. BIANCA, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, cit., p. 228 e ss.; per la surrogazione dei beni negli atti di destinazione ex art. 2645-ter c.c. cfr. amplius S. BARTOLI - D. MURITANO, Le clausole di surrogabilità dei beni, in questo volume.
(71) Postula un’efficacia conformativa dell’atto di destinazione traslativo, che si accompagna all’effetto traslativo, U. LA PORTA, L’atto di destinazione di beni, in Atti di destinazione e trust (art. 2645-ter del codice civile) a cura di Giuseppe Vettori, cit., p. 114 e ss.
(72) G. PETRELLI, «La trascrizione degli atti di destinazione», cit., p. 162 e ss. Non condivide, invece, la configurazione del rapporto fiduciario che s’instaura fra destinante e attuatore come un rapporto a “rilevanza reale” per il solo fatto dell’opponibilità del vincolo B. MASTROPIETRO, «L’atto di destinazione fra codice civile italiano e modelli europei di articolazione del patrimonio», in Riv. not., 2012, 2, p. 338, nt. 52, secondo la quale all’art. 2645-ter c.c., come norma sull’opponibilità, non può essere assegnato il ruolo ulteriore di introdurre nell’ordinamento una proprietà funzionalizzata ad un scopo, con limiti interni che incidono sui poteri dominicali; e ciò in quanto la proprietà funzionalizzata «da sempre incompatibile con il principio di unità del dominio nel nostro ordinamento» non può essere stata introdotta attraverso una norma di disciplina dell’opponibilità dei vincoli negoziali di destinazione.
(73) L’utilizzo del termine “conferente” in luogo di “destinante” nell’art. 2645-ter c.c. è frutto di un lapsus da soggettivizzazione dei patrimoni separati secondo U. LA PORTA, op. cit., p. 112.
(74) In particolare, come già illustrato sopra nel testo nel secondo paragrafo, tali caratteristiche strutturali si sostanziano nel carattere unilaterale delle limitazioni di responsabilità, nell’inclusione dei beni destinati nella successione del soggetto che ne è (sia pure formalmente) titolare, nonché nell’esclusione dei beni destinati dalla comunione legale soltanto attraverso il meccanismo dell’art. 177 comma 1 lett. d, e comma 2 c.c. e non, invece, automaticamente, come avviene nel trust.
(75) In tal senso si esprime la dottrina pressoché unanime. Per tutti cfr. G. PRESTIPINO, Delle successioni in generale, in Commentario al codice civile a cura di A. De Martino, artt. 456-535, p. 278 e ss., il quale rileva che l’art. 490, n. 1 c.c., nel far riferimento alla conservazione da parte dell’erede di tutti i diritti e tutti gli obblighi che aveva verso il defunto, non opera alcuna distinzione fra diritti reali e diritti di credito, a differenza dell’art. 968 del codice civile del 1865 in cui si disciplinava esclusivamente il diritto dell’erede di ottenere il pagamento dei suoi crediti verso il defunto, con ciò intendendo evidentemente riferirsi ai soli diritti di credito. Si noti, peraltro, che la mancata estinzione del diritto reale parziario per confusione nello stesso soggetto si realizza, nei patrimoni di destinazione ex art. 2645-ter c.c., indipendentemente dall’accettazione di eredità con beneficio di inventario.
(76) Per l’analisi dei problemi relativi alla costituzione di garanzie reali o personali sul patrimonio generale del soggetto a garanzia di obbligazioni proprie della destinazione ex art. 2645-ter c.c. sia consentito il rinvio a quanto esposto nel testo al terzo paragrafo.
(77) Si pensi al nonno che trasferisca ad un attuatore un pluralità di beni per il mantenimento agli studi o l’avviamento ad una professione di altrettanti nipoti beneficiari.
(78) Tale fenomeno di trasferimento dell’ipoteca viene definito “surrogazione reale propria” dell’ipoteca e si contrappone alla c.d. “surrogazione reale impropria”, che si verifica nelle ipotesi in cui l’ipoteca si trasferisce o si risolve sul valore pecuniario del bene originariamente investito della garanzia in conseguenza del perimento dell’oggetto sul quale la garanzia deve esercitarsi. La dottrina si esprime prevalentemente per l’inammissibilità della surrogazione reale propria; cfr. D. RUBINO, L’ipoteca, in Trattato CicuMessineo, Milano, 1956, p. 75; M. FRAGALI, voce Ipoteca (dir. priv.), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, p. 816; in senso favorevole M. ALBERGO, «È ammissibile la surrogazione reale dell’ipoteca?», in Vita not., 1987, CXLICXLIII; F. LOFFREDO, Atti fra vivi. Legge Notarile, Milano, 2005, p. 184, la quale suggerisce l’annotazione a margine dell’originaria iscrizione ai fini del mantenimento del grado ipotecario.
(79) In tal senso A. MORACE PINELLI, op. cit., p.260; M. BIANCA, L’atto di destinazione: profili applicativi, in AA.VV., Atti notarili di destinazione di beni: art. 2645-ter c.c., Atti del Convegno di Milano del 19 giugno 2006, p. 1184. Nello stesso senso M. KROGH e A.VALERIANI, «Le vicende estintive e modificative dei vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c.», in «Atti di destinazione - Guida alla redazione», studio del CNN n. 357/2012, p. 85.
(80) Secondo la circolare dell’Agenzia del territorio n. 5/2006 del 7 agosto 2006 l’annotazione in parola dovrebbe essere un’annotazione di “inefficacia” e non un’annotazione di cancellazione che comporterebbe, invece, l’estinzione giuridica della formalità principale. Da ciò consegue che nei certificati ipotecari dovrà essere compresa non soltanto l’annotazione di inefficacia, ma anche la formalità principale (trascrizione del vincolo di destinazione); e tale circostanza, «considerata la peculiarità dei vincoli in questione, assume senza dubbio un positivo rilievo, consentendo sul piano pratico, la possibilità di garantire la conoscibilità permanente della fasi evolutive del periodo vincolativo».
(81) Nell’ipotesi di destinazione di beni con durata correlata alla vita del beneficiario, è stato ritenuto che la cessazione del vincolo sarà soggetta alle stesse forme di pubblicizzazione dell’usufrutto a vita. Così F. GAZZONI, Osservazioni, cit., p. 241; ID., La trascrizione degli atti e delle sentenze, cit., p. 220; A. MORACE PINELLI, op. cit., p. 262. Definisce la pubblicità dell’estinzione del diritto di usufrutto per morte dell’usufruttuario come un esempio di pubblicità accessoria con effetto meramente notiziale, da ritenersi consentita in via facoltativa pur non essendo prevista dalla legge G. PETRELLI, «L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare …», cit., p. 189. Quest’impostazione non sembra condivisibile, in quanto la cessazione dell’usufrutto, comportando automaticamente l’estinzione del diritto e la riespansione del diritto di proprietà, non è soggetta ad alcuna forma di pubblicità immobiliare (se non la voltura catastale); del pari, anche la morte del beneficiario, quale termine certus an sed incertus quando, non è soggetta a pubblicità in quanto il termine sarà già stato segnalato a monte nella nota di trascrizione. Per l’esclusione della trascrivibilità ex art. 2651 c.c. dell’estinzione del diritto di usufrutto per morte dell’usufruttuario cfr. L. FERRI e P. ZANELLI, Della trascrizione, in Commentario del codice civile ScialojaBranca, artt. 2643-2682, Bologna-Roma, 1997, p. 294.
(82) Sotto questo profilo non convince l’opinione espressa da M. KROGH e A.VALERIANI, op. cit., p. 85, secondo i quali le cause fisiologiche di cessazione non dovrebbero costituire oggetto di alcun adempimento pubblicitario, in quanto anche tali cause di cessazione non hanno ricevuto a monte alcun forma di pubblicità.
(83) In tal senso F. GAZZONI, La trascrizione degli atti e delle sentenze, cit., p. 431; contra L. FERRI e P. ZANELLI, op. ult. cit., p. 287; ancora L. FERRI in «Sequestro conservativo e continuità delle trascrizioni», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1952, p. 791, secondo il quale il carattere costitutivo della trascrizione dei vincoli di indisponibilità costituirebbe un ostacolo all’applicazione del principio di continuità delle trascrizioni, in quanto sarebbe difficile immaginare un vincolo che sorge retroattivamente al momento della regolarizzazione dei trasferimenti pregressi.
(84) Non tragga in inganno, ove si volesse operare un accostamento con l’art. 2843 c.c., il carattere costitutivo dell’annotazione di surrogazione, giacché la costitutività della formalità pubblicitaria è in tal caso richiesta a fini identificativi del nuovo titolare del diritto ipotecario, ma senza alcuna valenza della costitutiva della garanzia in sé, che è già operante ed iscritta. Cfr. Cass., sez. I, 10 agosto 2007, n. 17644.
(85) G. PETRELLI, op. ult. cit., p. 437.
(86) È chiaro che se il destinante coincide con l’attuatore l’unica autorizzazione necessaria sarà quella del beneficiario.
(87) In dottrina C. DONISI, Il contratto con se stesso, Camerino, 1982, p. 272 e ss.; in giurisprudenza Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2011 n. 6398; Cass. civ., sez. II., 24 marzo 2004, n. 05906.
(88) Così C. DONISI, op. cit., p. 273.
(89) Così E. BETTI, op. cit. p. 605.
(90) C. DONISI, op. cit., p. 275.
(91) In tal senso M. BIANCA - M. D’ERRICO - A. DE DONATO - C. PRIORE, L’atto notarile di destinazione…, cit., p. 31; G. PETRELLI, «La trascrizione degli atti di destinazione», cit., p. 178 e ss.
(92) In dottrina R. RAMETTA, op. cit., p. 1568; G. AZZARITI, Esigenza di un curatore speciale in sostituzione dell’erede nella tutela dei rapporti ereditari, in Giust. civ., 1983, I, p. 2098 e ss.; in giurisprudenza Cass. 10 marzo 1995, n. 2800, in Società, 1995, p. 1292. Nel medesimo senso Cass. 20 novembre 1992, n. 12398, in Fallimento, 1993, p. 701; Cass. 13 dicembre 1988, n. 6780, in Giust. civ., 1989, I, p. 1149.
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