Le clausole di attuazione del vincolo
- capitolo XVII -
Le clausole di attuazione del vincolo
di Saverio Bartoli
Avvocato in Firenze
e di Daniele Muritano
Notaio in Empoli
1. Le clausole inerenti all’attività gestoria, con particolare riferimento ai limiti all’attività dispositiva
L’attività gestoria relativa ai beni destinati dev’essere, all’evidenza, conforme alla destinazione voluta e programmata dal disponente nell’atto istitutivo: ne discende, dunque, che tale attività gestoria non può mai ritenersi libera, essendo essa vincolata nel fine.
Vengono in particolare in questione, a tale riguardo, i limiti all’attività dispositiva del gestore che, implicitamente o espressamente, emergono dal tenore dell’atto istitutivo.
Quanto ai limiti impliciti, si pensi all’ipotesi in cui l’atto di destinazione preveda che un certo immobile debba essere goduto da un certo beneficiario per tutta la durata della destinazione per poi essere trasferito al medesimo alla scadenza della medesima: da una siffatta clausola si desume, infatti, che è vietato al gestore alienare l’immobile in questione.
Quanto ai limiti espressi, si pensi all’ipotesi in cui l’atto di destinazione vieti di alienare il bene destinato ovvero preveda che certi atti di straordinaria amministrazione possano essere compiuti solo con il preventivo consenso di un certo soggetto indicato dal disponente(1).
Si pone al riguardo il problema, stante il silenzio sul punto dell’art. 2645-ter c.c., di quale sia la condizione giuridica del negozio con cui il gestore del bene vincolato disponga dello stesso in violazione della destinazione.
Secondo un diffuso orientamento(2), il silenzio normativo dovrebbe interpretarsi nel senso che il legislatore non ha inteso configurare il negozio ex art. 2645-ter c.c. quale destinazione prevedente un’amministrazione di tipo ‘‘statico’’, cioè ontologicamente postulante un’indisponibilità (o una disponibilità soggetta a limitazioni) del bene vincolato.
In tale ottica, eventuali divieti o limitazioni alla facoltà di alienare il bene che fossero inseriti nel negozio dal disponente per meglio realizzarne le finalità, essendo il mero frutto di una scelta dell’autonomia privata, ricadrebbero nella previsione dell’art. 1379 c.c., cioè avrebbero rilievo meramente obbligatorio.
Da tale impostazione si fa discendere pertanto che, ove il gestore alieni abusivamente il bene vincolato, il beneficiario sarà tutelato dal fatto che il bene circola (e, dunque, viene acquistato dall’avente causa dal gestore e dai successivi subacquirenti) gravato dal vincolo, senza che tale acquisto possa ritenersi nè invalido, né inefficace.
Com’è stato osservato(3), appare evidente come la tesi in esame concepisca il vincolo ex art. 2645-ter c.c. come una sorta di ‘‘peso’’ affettante il bene e che, come tale, è destinato a seguirlo nelle sua vicende circolatorie(4).
La tesi sopra esposta non appare, però, del tutto persuasiva, per le ragioni che seguono(5).
In primo luogo, a ben guardare l’art. 2645-ter c.c. afferma che «i beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione»: non può pertanto escludersi che, mediante tale espressione, il legislatore abbia inteso distinguere fra attività dispositiva del gestore che è conforme al fine di destinazione (e che, come tale, consente all’avente causa dal gestore di acquistare il bene libero dal vincolo) ed attività dispositiva del gestore costituente, invece, violazione di detto fine (e che, come tale, dà vita ad un negozio inidoneo a produrre effetti in danno dei beneficiari del vincolo, salvo poi chiedersi quale sia il più appropriato tipo di sanzione cui assoggettare tale negozio).
In tale ottica, pertanto, ove ad esempio il negozio di destinazione fosse strutturato in modo tale da contenere un divieto di alienare il bene, parrebbe difficile ricondurre detto divieto alla dimensione meramente obbligatoria dell’art. 1379 c.c. (che è dettato per una proprietà ‘‘piena’’), essendo esso ontologicamente parte del contenuto del vincolo impresso al bene (oggetto quest’ultimo di una proprietà non ‘‘piena’’, ma appunto ‘‘vincolata nel fine’’) e, come tale, idoneo a condizionare l’efficacia della sua alienazione ‘‘abusiva’’ nei confronti dei beneficiari del vincolo stesso.
Non a caso, del resto, non manca in dottrina chi afferma(6)che l’art. 1379 c.c. è inapplicabile al negozio ex art. 2645-ter c.c.
Trattasi di tesi che, fra l’altro, ha trovato accoglimento anche in alcune decisioni giudiziarie(7).
Né il fatto che il bene abusivamente alienato venga acquistato dal terzo gravato dal vincolo appare costituire - come invece afferma la tesi qui criticata - un’idonea tutela per il beneficiario, sì che - nell’ottica di detta tesi - non è necessario giungere a ritenere viziata un’alienazione siffatta.
Una tale conclusione, infatti, postulando che l’acquirente diventi senz’altro gestore del bene vincolato nell’interesse del beneficiario (in luogo del gestore che detto bene ha abusivamente alienato), appare non tener alcun conto del fatto che l’identità del soggetto gestore e le sue qualità personali potrebbero non essere affatto indifferenti agli occhi dell’autore del negozio di destinazione e dei beneficiari, poiché assai spesso l’incarico gestorio sarà stato conferito dal disponente intuitu personae(8).
Appare pertanto più plausibile la tesi(9)secondo la quale l’alienazione in violazione della destinazione ex art. 2645-ter c.c. deve, invece, considerarsi viziata.
All’interno di tale filone ermeneutico, un primo orientamento(10)afferma che detta alienazione è inefficace in senso assoluto.
Secondo altra impostazione(11), invece, l’alienazione in esame è inopponibile ai beneficiari, cioè affetta da un’inefficacia relativa.
Vi è poi chi(12)opta per la sanzione della nullità, facendo leva, in particolare, sul carattere di norma imperativa dell’art. 2645-ter c.c.
Un autore(13)si sofferma diffusamente sulla questione ritenendo che ad essa dovrebbero, in estrema sintesi, applicarsi i principi che seguono.
a. L’atto sarebbe valido ed efficace inter partes (cioè nei rapporti fra gestore e suo avente causa), ma inopponibile al patrimonio destinato (cioè ai beneficiari), purché sia data prova della mala fede dell’avente causa dal gestore(14).
b. Nell’ipotesi in cui il destinante abbia - nel negozio di destinazione - conferito all’eventuale atto dispositivo compiuto dal gestore in violazione della destinazione il ruolo di condizione risolutiva della stessa attribuzione al gestore, l’atto compiuto da quest’ultimo sarebbe invece (stante l’avveramento di detta condizione) inefficace. Più precisamente, l’autore sopra citato, premesso che la validità di una condizione siffatta in passato era dubbia, potendo essa consentire, tramite il congegno dell’art. 1357 c.c., di rendere opponibile a terzi il divieto di cui all’art. 1379 c.c.(15), conclude affermando che l’art. 2645-ter c.c. consente, invece, di effettuare un trasferimento a fini di destinazione e prevedere che l’eventuale successiva alienazione del bene stesso, da parte del gestore, in contrasto con lo scopo di destinazione, costituisca condizione risolutiva del trasferimento.
Com’è stato evidenziato(16), però, la proposizione sub b) appare di limitata utilità.
Se infatti, come si è detto in precedenza, alla proprietà funzionale creata dal negozio ex art. 2645-ter c.c. risulta inapplicabile l’art. 1379 c.c. (in quanto i limiti alla disponibilità del bene sono dotati di rilievo reale e non meramente obbligatorio) e se, pertanto, l’atto dispositivo del gestore il quale viola la destinazione è già di per sé affetto da un vizio ‘‘strutturale’’ che comporta la possibilità, per i beneficiari, di accedere ad una tutela lato sensu ‘‘reale’’ impugnando l’atto stesso, il ricorso al meccanismo della condizione risolutiva (utile, ove la si ammetta, in un contesto proprietario in cui vige l’art. 1379 c.c.) appare francamente superfluo.
Per tacere del fatto che la sanzione discendente dall’avveramento di tale condizione - l’inefficacia tout court - non consentirebbe la (come subito si ve, opportuna) tutela degli aventi causa in buona fede dal gestore. Quanto poi alla la soluzione prospettata dalla proposizione sub a), la stessa, come si è osservato in altra sede(17), appare in linea con quell’orientamento dottrinale(18)- tutt’altro che pacifico(19)- che la applica (a guisa di regola generale non scritta) a numerose ipotesi di patrimonio destinato la cui legge istitutiva taccia sul punto e che giustifica tale conclusione alla luce del fatto che sarebbe immanente, nel nostro ordinamento, un principio di tutela dell’affidamento incolpevole.
La soluzione in esame, pur se animata dal commendevole intento di contemperare le contrapposte esigenze di tutela della destinazione e di tutela dei terzi in buona fede, non trova completo riscontro nella norma.
Più precisamente(20), se l’inopponibilità dell’atto potrebbe - al limite - desumersi implicitamente dal complessivo dettato della norma (la quale collega alla pubblicità del vincolo di destinazione la sua opponibilità e vieta di usare i beni destinati per fini non inerenti alla destinazione), nessun riscontro trova invece in essa (che non contempla mai gli stati soggettivi di coloro che entrano in contatto con il patrimonio destinato) la salvezza o meno della posizione dell’avente causa dal gestore a seconda che costui sia, rispettivamente in buona o in mala fede(21).
Alla luce dei dubbi sulla correttezza della soluzione sopra esposta, appare quindi indispensabile che, nella materia in esame, l’interprete cerchi di individuare anche per altra via (e fondandosi - evidentemente - su norme diverse dall’art. 2645-ter c.c.) un meccanismo sanzionatorio implicante la tutela dei terzi aventi causa in buona fede: se infatti, in alcune fattispecie concrete, sarà impossibile per detti terzi - pur se il gestore abbia, in ipotesi, espressamente dichiarato l’inerenza dell’atto ai fini della destinazione - invocare la propria buona fede(22), in altre (anzi: probabilmente nella maggioranza dei casi) l’inerenza o meno dell’atto dispositivo alla destinazione potrebbe non essere affatto pacifica(23).
Il problema della sanzione da applicare all’atto dispositivo compiuto dal gestore di un patrimonio destinato in violazione del vincolo si è ripetutamente posto per gli interpreti già in epoca anteriore all’entrata in vigore dell’art. 2645-ter c.c., in quanto le norme istitutive delle varie ipotesi di patrimonio destinato per lo più tacciono sul punto: è il caso della cartolarizzazione ex legge 130/1999, dei fondi speciali ex art. 2117 c.c., dei patrimoni destinati delle SpA ex artt. 2447-bis e ss. c.c., del fondo patrimoniale ex artt. 167 e ss. cc., nonché del trust.
Occorre pertanto verificare(24)se le conclusioni cui si è pervenuti in tale contesto possano o meno essere di una qualche utilità per il nuovo istituto ex art. 2645-ter c.c.
Con riguardo ai primi tre istituti appena citati, già si è avuto modo di accennare(25)al fatto che la dottrina ha proposto, quali soluzioni alternative alla non pacifica tesi dell’inopponibilità dell’atto al patrimonio destinato se l’avente causa dal gestore sia in mala fede, quelle della nullità e/o dell’inefficacia dell’atto.
Nel caso, poi, del fondo patrimoniale, per la violazione dell’art. 169 c.c. la dottrina ha individuato le sanzioni ora della nullità(26), ora dell’annullabilità(27), ora infine dell’inefficacia(28).
Tanto premesso, nessuna delle varie sanzioni alternative ipotizzate con riguardo agli istituti in questione (nullità, annullabilità, inefficacia) appare utilizzabile in tema di art. 2645-ter c.c.: trattasi, infatti, di sanzioni che operano senza tener alcun conto dello stato soggettivo dell’avente causa dal gestore(29).
Spunti di maggior rilievo per la soluzione del problema appaiono, invece, ricavabili dalle conclusioni cui è pervenuta la dottrina italiana in tema di atti dispositivi compiuti dal trustee in violazione dell’atto istitutivo di trust.
Com’è noto, infatti, il problema della tutela in questi casi dell’avente causa in buona fede dal trustee(30)è immanente al diritto dei trusts e la stessa Convenzione de L’Aja 1 luglio 1985 sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento(31), all’art. 15 § primo lettera f, sottolinea l’esigenza di coordinare il diritto dei trusts con eventuali norme interne poste a tutela dei terzi che agiscono in buona fede.
La dottrina italiana, pertanto, posta di fronte all’esegesi dell’art. 11 § secondo lettera d, della Convenzione, stante la non importabilità in Italia della peculiare tecnica del tracing(32), si è vista costretta ad interrogarsi su quali possano essere i rimedi di diritto interno idonei ad assicurare un risultato il più possibile affine.
Senza voler qui ripercorrere nel dettaglio i contenuti di detta analisi, basterà ricordare che, secondo un diffuso orientamento(33), detti rimedi potrebbero essere costituiti, alternativamente:
- dall’annullamento del negozio dispositivo compiuto dal trustee per conflitto di interessi ex art. 1394 c.c.(34);
- dall’esperimento di un’azione aquiliana di risarcimento in forma specifica ex art. forma specifica ex art. 2058 c.c. nei confronti di colui che, con dolo o anche solo con colpa, abbia acquistato dal trustee;
- dall’impugnazione del negozio dispositivo mediante azione revocatoria, poiché l’indebito negozio dispositivo del trustee costituisce inadempimento di un’obbligazione e, come tale, è lesivo del diritto di credito vantato nei suoi confronti dal beneficiario(35).
La suddetta impostazione ha - appunto - il pregio di individuare rimedi che, pur essendo di natura affatto eterogenea, tengono tutti conto dello stato soggettivo dell’avente causa dal gestore-trustee: l’annullamento ex art. 1394 c.c., infatti, è conseguibile solo se il conflitto d’interessi era conosciuto o riconoscibile dal terzo; nel caso poi dell’art. 2058 c.c., l’obbligazione risarcitoria presuppone, all’evidenza, almeno la colpa del terzo; nel caso, infine, dell’azione revocatoria, se l’atto compiuto dal trustee è a titolo oneroso è necessario che il terzo sia a conoscenza del suo carattere fraudolento, mentre un disinteresse della norma per lo stato soggettivo dell’avente causa vi è - peraltro comprensibilmente - solo se l’atto è a titolo gratuito.
Ciascuna delle tre soluzioni alternative prospettate non ha, per la verità, mancato di andare incontro a valutazioni critiche.
In senso contrario all’esperibilità dell’azione ex art. 1394 c.c. si è così argomentato(36), da un lato, che i vincoli di inalienabilità di matrice negoziale, come si evince dall’art. 1379 c.c., hanno rilevanza meramente obbligatoria se non vi è una previsione di legge in senso contrario; dall’altro lato, che l’istituto del conflitto d’interessi è applicabile solo ove esista una rappresentanza diretta, la quale non è configurabile in tema di trust.
Tanto premesso, si è assimilato il trust al mandato senza rappresentanza onde concludere nel senso che in tale contesto, a tutto concedere, l’avvenuta stipula da parte del mandatario di un contratto in conflitto d’interessi con il mandante potrebbe condurre alla risoluzione per inadempimento del mandato ex art. 1458 c.c., rimedio però inopponibile al terzo.
Trattasi, però, di argomentazioni non del tutto persuasive, per le seguenti ragioni(37).
Quanto all’argomento fondato sull’art. 1379 c.c., si è visto(38)come sia assai dubbia la sua applicabilità a forme di proprietà non già ‘‘piena’’, bensì ontologicamente ‘‘nell’interesse altrui’’, quali sono quella del gestore dei beni vincolati ex art. 2645-ter c.c. e quella - appunto - del trustee.
Non persuade neppure l’affermazione secondo la quale l’art. 1394 c.c. sarebbe inapplicabile, in quanto il trustee non agisce in rappresentanza dei beneficiari: è infatti innegabile che, ad ogni modo, il trustee sia portatore di un centro di interessi (quello - appunto - facente capo ai beneficiari) che è ben distinto dal centro di interessi suo personale, circostanza questa che ben potrebbe giustificare l’applicazione dell’istituto del conflitto d’interessi e, dunque, dell’art. 1394 c.c. per analogia(39).
Appaiono invece cogliere nel segno le critiche rivolte da un autore(40)nei confronti del rimedio costituito dall’azione revocatoria, poiché in effetti esso, comportando l’inefficacia relativa del negozio dispositivo, ma ai soli fini della assoggettabilità ad esecuzione forzata del bene che ne è oggetto, appare inidoneo ad apprestare una tutela adeguata al beneficiario: ne discenderebbe infatti unicamente che il bene oggetto del negozio dispositivo compiuto del trustee in frode alle ragioni del creditore-beneficiario sarebbe suscettibile di azioni esecutive (o cautelari) presso l’avente causa dal trustee, mentre nel nostro caso un rimedio appropriato dovrebbe comportare il rientro del bene nel patrimonio destinato, onde sia possibile al trustee continuare a gestirlo.
Degne di segnalazione risultano, altresì, le proposte provenienti da altra parte della dottrina(41), la quale, ricostruendo l’acquisto dal trustee in violazione della destinazione come acquisto a non domino, conclude nel senso che il terzo in buona fede potrà salvare il suo acquisto mobiliare in base all’art. 1153 c.c. ovvero, se trattasi di immobili o mobili registrati, in base alle norme sull’usucapione di cui agli artt. 1159 e 1162 c.c.
Trattasi comunque di proposte ermeneutiche che destano (in specie per quanto concerne gli immobili ed i mobili registrati) qualche perplessità, poiché confliggono con un dato (l’appartenenza dei beni al trustee) che appare assodato presso dottrina e giurisprudenza pressoché unanimi.
Vi è stato anche chi(42)ha portato all’attenzione degli studiosi i rimedi dell’arricchimento senza causa ex artt. 2041-2042 c.c. e della ripetizione d’indebito ex artt. 2037-2038 c.c., sia pure evidenziando le numerose difficoltà tecniche per il loro concreto utilizzo nella fattispecie in esame.
2. Le clausole regolanti il subentro di un gestore ad un altro
Non può escludersi, anche in ragione della possibile durata non breve del negozio, che durante la vigenza del vincolo il soggetto individuato come gestore (coincida o meno costui con il disponente(43)) muoia o non voglia più eseguire l’incarico oppure che si renda opportuno o necessario revocarglielo: appare così estremamente opportuno che l’atto istitutivo della destinazione regoli queste eventualità, altresì individuando (o dettando le regole per individuare) chi sostituirà il gestore che sia deceduto(44), si sia dimesso o venga revocato.
L’individuazione del gestore subentrante da parte dell’autonomia privata è opportuna, inoltre, perché dal tenore dell’art. 2645-ter c.c. - che è muto al riguardo - non è possibile desumere con certezza l’esistenza di un potere del giudice di nominare o revocare il gestore(45)e l’interprete che ipotizzi, comunque, l’esistenza di un siffatto potere dovrebbe fare i conti con il noto principio di tassatività dei provvedimenti di volontaria giurisdizione(46).
Occorre, a questo punto, chiedersi se sia o meno conforme a legge una clausola dell’atto istitutivo prevedente che i beni destinati passino nella titolarità del gestore subentrante(47)ipso jure(48), cioè anche in difetto di una dichiarazione negoziale traslativa da parte del gestore dimissionario o revocato ovvero, se il gestore è deceduto, da parte degli eredi di costui(49).
Rispondere affermativamente a tale quesito, infatti, consentirebbe di evitare i notevoli inconvenienti derivanti dall’eventualità in cui il gestore uscente o i suoi eredi non possano o non vogliano effettuare un trasferimento siffatto: ponendosi nell’ottica della soluzione negativa, infatti, in casi del genere non resterebbe che ipotizzare l’inadempimento di un obbligo di trasferire e, dunque, la possibilità di avviare, nei confronti del gestore uscente, un’azione di cognizione ordinaria volta, ex art. 2932 c.c., ad ottenere il trasferimento coattivo dei beni destinati(50).
Una siffatta soluzione, fra l’altro, desta serie perplessità(51), prima di tutto perché mira a risolvere quella che appare una questione di volontaria giurisdizione, cioè il subentro di un soggetto ad un altro nella titolarità di un ufficio di diritto privato(52), facendo ricorso ad un procedimento di giurisdizione contenziosa.
Il ricorso ad un siffatto procedimento, fra l’altro, stante la notoria lentezza del processo civile dilaterebbe a dismisura i tempi della tutela dei beneficiari(53)che difficilmente potrebbe, inoltre, godere di una qualche anticipazione in via cautelare(54).
Pur con tutte le cautele del caso, appare non peregrino ritenere che, così come si tende ad affermare in tema di trust interno(55), anche nell’atto di destinazione il passaggio dei beni destinati dal gestore uscente a quello subentrante sia automatico: se è vero, infatti, che l’art. 2645-ter c.c. nulla dice al riguardo(56), resta il fatto che la natura della situazione giuridica soggettiva del gestore (titolare di un ufficio di diritto privato ontologicamente connesso alla titolarità della proprietà dei beni destinati(57)) rende plausibile ipotizzare che, non potendosi per definizione ricoprire l’ufficio di gestore senza esser titolare dei beni destinati, sia corretto collegare alla perdita della qualità di gestore la perdita della titolarità di tali beni ed alla nomina del nuovo gestore un effetto attributivo a costui dei beni stessi.
Se la suddetta impostazione fosse corretta, pertanto, il rifiuto di “collaborare” del gestore uscente (o dei suoi eredi) sarebbe idoneo soltanto ad impedire la materiale consegna dei beni destinati al (già proprietario) gestore subentrante che ha accettato l’incarico(58): inconveniente questo, però, cui quest’ultimo potrebbe ovviare in sede possessoria(59), oppure in sede cautelare(60).
Considerata, ad ogni modo, la situazione di assoluta incertezza nella quale versa ad oggi la questione in esame, appare utile descrivere taluni accorgimenti(61)che la prassi ha ritenuto di porre in essere onde ovviare all’analoga eventualità che il trustee uscente di un trust interno non provveda spontaneamente al trasferimento dei beni in trust a quello subentrante, onde valutarne l’eventuale estensione anche all’ipotesi di atto di destinazione.
In primo luogo, e con limitato riferimento a beni mobili e disponibilità finanziarie, si è evidenziata(62)l’opportunità che detti beni vengano intestati dal trustee, sin dall’inizio del trust, a mandatari società fiduciarie o società di gestione del risparmio(63).
In tali ipotesi - si osserva - non vi sarà alcun trasferimento di beni in trust dal trustee uscente a quello subentrante, in quanto il terzo in questione si limiterà a registrare il cambiamento del soggetto che riveste l’ufficio di trustee.
A ciò pare comunque possibile replicare che, ove si ritenga di non aderire alla tesi del passaggio dei beni dal trustee uscente a quello subentrante a prescindere da un atto di volontà del primo(64), l’eventuale intestazione dei beni a terzi nominees lascia, in realtà, impregiudicato il problema: in tale ottica infatti costoro, per poter legittimamente procedere a detta registrazione, parrebbero dover previamente richiedere al trustee subentrante l’esibizione di un atto del trustee uscente recante il trasferimento a costui dei beni in trust.
In secondo luogo, si registra talvolta il ricorso allo strumento della condizione(65): l’atto istitutivo, cioè, qualifica l’eventuale cessazione dall’ufficio del trustee in carica durante il trust, al tempo stesso, quale condizione risolutiva dell’atto attributivo della proprietà a costui e quale condizione sospensiva dell’attribuzione della proprietà al trustee subentrante.
Tale soluzione intende assicurare, mediante l’utilizzo di un tipico istituto civilistico, un risultato affine a quello dell’automatico passaggio dei beni dal trustee uscente al trustee subentrante: in questo caso, però, l’attribuzione dei beni in trust ai trustees via via in carica non proviene dai trustees via via uscenti, ma dal disponente.
Ad una soluzione siffatta si potrebbe a prima vista obiettare che la cessazione del trustee, fungendo in tale ottica da condizione risolutiva, dovrebbe operare retroattivamente: da ciò discenderebbe, insomma, che gli eventuali atti gestori o dispositivi compiuti dal trustee in conformità all’atto istitutivo, avendo ad oggetto una proprietà “risolubile” del trustee, dovrebbero parimenti risolversi retroattivamente, con quali rovinosi effetti per i terzi è facile immaginare.
A ciò si potrebbe comunque replicare che, in base all’art. 1360 c.c., l’avveramento della condizione non produce effetti ex tunc nei seguenti casi:
a. nei rapporti ad esecuzione istantanea quando, per volontà delle parti o per la natura del rapporto, tali effetti debbano essere riportati a un momento diverso (art. 1360, primo comma, c.c.);
b. nei rapporti di durata (art. 1360, secondo comma, c.c.).
Se quindi l’atto istitutivo lo prevedesse espressamente, un’eventuale atto di alienazione dei beni in trust compiuto legittimamente dal trustee in carica non potrebbe essere caducato una volta che costui sia cessato dall’incarico.
Quanto poi alle eventuali prestazioni periodiche che legittimamente il trustee in carica avesse compiuto, l’effetto ex tunc dell’avveramento della condizione in esame dovrebbe escludersi sulla scorta dell’art. 1360, secondo comma, c.c.
Appare inoltre utile evidenziare che la soluzione fondata sulla condizione postula, in materia di immobili, l’effettuazione delle ulteriori formalità pubblicitarie previste, quanto alla condizione risolutiva, dagli artt. 2659, ultimo comma, c.c. (menzione nella nota dell’esistenza della peculiare condizione risolutiva affettante l’acquisto della proprietà da parte del trustee) e 2655 c.c. (annotazione a margine dell’avveramento della condizione risolutiva, cioè del verificarsi di una causa di cessazione dall’ufficio) nonché, quanto alla condizione sospensiva, ancora dall’art. 2659, ultimo comma, c.c. e dall’art. 2668, terzo comma, c.c. (cancellazione dell’indicazione dell’esistenza della condizione sospensiva, essendosi questa avverata a seguito dell’assunzione dell’ufficio di trustee da parte del soggetto subentrante).
La scarsa appettibilità sul piano pratico della soluzione fondata sulla condizione discende, com’è stato osservato(66), non solo dal surriferito appesantimento delle formalità pubblicitarie, ma anche dagli inconvenienti che essa rischia di far sorgere, nei non infrequenti casi di gestione non meramente conservativa dei beni destinati, allorché il gestore provveda all’alienazione dell’immobile oggetto del vincolo per finalità inerenti alla destinazione (vi è il rischio, infatti, che la presenza di una pubblicità segnalante che la proprietà del gestore è sottoposta a condizione costituisca, per il terzo, un deterrente ad acquistare(67)).
In terzo luogo, si è ipotizzato(68)il rilascio da parte del trustee, all’atto dell’accettazione dell’incarico (e quindi all’atto dell’acquisizione della titolarità dei beni in trust), di un mandato con procura irrevocabile (ai sensi dell’art. 1723, secondo comma, c.c.) in favore di un terzo soggetto (di solito il guardiano(69)), in base al quale quest’ultimo potrà, una volta che il trustee mandante sia cessato dall’ufficio, trasferire in luogo di costui i beni in trust al trustee subentrante.
Quest’ultima soluzione si lascia apprezzare per la particolare linearità, che forse la rende preferibile rispetto a quelle esaminate in precedenza.
3. Le clausole regolanti l’attribuzione dei beni destinati ai beneficiari
3.1. Premessa
Pur se la questione è discussa(70), la tesi che pare preferibile ritiene che il diritto dei beneficiari abbia natura obbligatoria e, più precisamente, che essi siano - similmente quanto accade in tema di trust(71)- i soggetti attivi di un rapporto obbligatorio opponibile ai terzi ed in cui il soggetto passivo è il gestore.
La redazione dell’atto di destinazione dovrà dunque tener conto di tale premessa dogmatica, costruendo le prestazioni del gestore nei confronti dei beneficiari, siano essi beneficiari di reddito o beneficiari finali(72), come altrettante obbligazioni(73).
Nei successivi paragrafi si esamineranno tre peculiari questioni: quella dell’ammissibilità di un atto di destinazione “di scopo”, cioè privo di beneficiari(74), quella dei limiti di ammissibilità di un atto di destinazione “discrezionale”, cioè caratterizzato dalla presenza di poteri discrezionali del gestore in sede di individuazione dei soggetti beneficiari e/o dell’oggetto delle prestazioni da eseguire in loro favore(75), e quella dei rimedi contro l’eventuale rifiuto del gestore di attribuire i beni ai beneficiari finali(76).
3.2. Questione se sia o meno ammissibile un atto di destinazione ‘‘di scopo’’
Si discute se sia ammissibile un atto di destinazione ‘‘di scopo’’, nel quale, cioè, non esistono beneficiari in senso tecnico (siano essi determinati o determinabili), poiché il disponente ha impresso sul bene un vincolo destinato a realizzare una certa finalità, se del caso individuata mercé il riferimento ad una collettività o categoria di soggetti(77).
Secondo l’opinione che pare prevalente(78)la risposta dovrebbe essere negativa.
I fautori della suddetta tesi fanno essenzialmente leva sul fatto che l’art. 2645-ter c.c. richiede la presenza di un soggetto beneficiario e la riferibilità dell’interesse perseguito a persone (siano esse fisiche o giuridiche).
Si precisa, comunque, che il disponente potrà ovviare alla suddetta limitazione imposta dalla norma individuando, quale beneficiario, un soggetto che possa essere portatore dell’interesse alla cui realizzazione mira il vincolo.
Com’è stato osservato(79), pare evidente come l’eventuale adesione alla tesi in esame comporti una significativa divergenza di disciplina rispetto al trust.
È noto, infatti, che la legge inglese ammette i trusts di scopo, sia pure limitatamente all’ipotesi del cosiddetto ‘‘charitable trust”(80), mentre altre leggi straniere(81)ammettono qualunque ipotesi di trust di scopo.
Secondo altro orientamento(82), che pare preferibile, il negozio di destinazione di scopo sarebbe invece ammissibile, sia perché la norma utilizza l’ampia e generica espressione «realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche», sia (e soprattutto) perché essa attribuisce la legittimazione ad agire per la realizzazione del fine di destinazione non solo al conferente (cioè al disponente), ma anche a «qualsiasi interessato», cioè ad una categoria di soggetti che appare più ampia di quella dei ‘‘beneficiari’’ e che ben si presta a ricomprendere coloro che potrebbero ricevere vantaggio da siffatto peculiare tipo di negozio di destinazione.
Anche laddove si aderisse a quest’ultima tesi, continuerebbero ad esistere(83)taluni profili di divergenza rispetto alla figura del trust.
In primo luogo, la durata di un negozio di destinazione di scopo non potrebbe essere illimitata, perché l’art. 2645-ter c.c. ne prevede in ogni caso una durata massima, mentre vi sono leggi regolatrici straniere che ammettono un trust di scopo perpetuo(84).
In secondo luogo, il generico riferimento dell’art. 2645-ter c.c. alla realizzazione di ‘‘interessi meritevoli di tutela’’, parrebbe rendere ammissibile un negozio di destinazione anche per fini diversi da quelli che il diritto inglese qualifica come charitable(85).
Appare, comunque, evidente che la suddetta affermazione subirebbe un drastico ridimensionamento ove si accedesse alla tesi secondo la quale il negozio ex art. 2645-ter c.c. deve perseguire un fine non meramente lecito, ma solidaristico ovvero di pubblica utilità(86).
In terzo luogo, l’art. 2645-ter c.c. non prevede un soggetto deputato al controllo dell’attività del gestore(87), mentre tale figura (che, com’è noto, la prassi dei trusts interni tende a qualificare come ‘‘guardiano’’) non solo è prevista dalle leggi straniere regolatrici del trust di scopo, ma è addirittura obbligatoria, poiché la sua assenza comporterebbe l’impossibilità di agire contro il trustee onde pretendere da costui l’adempimento delle obbligazioni discendenti dal trust e, quindi, la realizzazione dello scopo del negozio(88).
3.3. Questione se sia o meno ammissibile un atto di destinazione ‘‘discrezionale’’
Nel cosiddetto trust ‘‘discrezionale’’(89), il disponente indica una certa rosa o categoria di beneficiari e conferisce al trustee:
a. il potere di decidere a chi di essi e/o in quale misura fra essi distribuire le utilità economiche rivenienti dai beni oggetto del trust durante la sua vigenza ovvero i beni oggetto del trust alla fine di esso;
oppure
b. il potere di decidere se distribuire o meno a costoro le utilità economiche rivenienti dai beni oggetto del trust durante la sua vigenza e, in caso affermativo, a chi di essi e/o in quale misura fra essi distribuirle.
Ci si è pertanto chiesti(90)se sia ammissibile un atto di destinazione ‘‘discrezionale’’, cioè prevedente clausole di tal genere, le quali si caratterizzano per il fatto che la volontà di un soggetto diverso dal disponente (il gestore) è destinata ad incidere sull’individuazione del destinatario e/o sull’oggetto dell’attribuzione(91)oppure per il fatto che tale volontà è idonea, altresì, a condizionare, a monte, lo stesso an dell’attribuzione(92).
Occorre premettere che(93)una soluzione della questione in linea di principio positiva appare suffragata dall’ampio tenore dell’art. 2645-ter c.c., il quale attribuisce la legittimazione ad agire per la realizzazione della destinazione non solo al conferente, ma anche a ‘‘qualsiasi interessato’’, cioè ad una categoria di soggetti che ben potrebbe ricomprendere i beneficiari di un siffatto peculiare tipo di negozio, i quali non sono titolari di un diritto certo nell’an e/o nel quantum.
Appare, però, opportuno approfondire la questione con riguardo all’ipotesi di negozio ex art. 2645- ter c.c. testamentario(94)ovvero liberale inter vivos, evidenziando come utili spunti appaiano forse ricavabili da quanto in altra sede osservato(95)in tema di trust interno discrezionale.
Ci si deve, infatti, chiedere se - in dette ipotesi - le clausole in questione siano o meno conformi al cosiddetto ‘‘principio di personalità della volizione liberale’’, che è desumibile da norme come gli artt. 631 e 632 c.c. (quanto al testamento) e l’art. 778 c.c. (quanto alla donazione) e che, com’è noto, tollera solo limitate intrusioni della volontà di un terzo nei meccanismi che conducono all’individuazione, da parte del testatore o del donante, dell’oggetto e/o del destinatario dell’attribuzione liberale(96).
Le prime due norme, infatti, si applicano senz’altro al negozio di destinazione testamentario; quanto poi alla terza norma, comprensibili ragioni di prudenza parrebbero consigliare di aderire alla tesi tradizionale e dominante(97)secondo la quale essa è applicabile in via analogica anche alle liberalità indirette onde, per tale via, concludere nel senso della sua applicabilità in via analogica anche al negozio di destinazione liberale inter vivos, in quanto esso - appunto - realizza, per il tramite del gestore, una liberalità indiretta(98).
E pur vero che, in un caso, la Suprema Corte(99)ha escluso l’applicabilità dell’art. 778 c.c. alla donazione indiretta: come si è rilevato, però, in altra sede(100), con riguardo al trust liberale inter vivos ma con considerazioni estendibili anche al negozio liberale inter vivos ex art. 2645-ter c.c., tale sentenza è stata emessa in relazione ad una ipotesi di negozio misto con donazione(101), fattispecie questa difficilmente assimilabile alla liberalità indiretta attuata mediante trust, nella quale, a fronte dell’impoverimento subito dal disponente, manca una qualunque controprestazione (sia pure inidonea - come accade nel negozio misto con donazione - a conferire un equilibrio economico al negozio) a suo favore.
Non è pertanto certo che la Suprema Corte, posta eventualmente di fronte ad un trust liberale inter vivos debordante dai limiti di cui all’art. 778 c.c., adotterebbe identica soluzione.
Tanto premesso, la clausola riportata sub a) all’inizio del presente § appare conforme al detto principio di personalità della volizione liberale per quanto attiene al profilo dell’individuazione del destinatario della liberalità, poiché al terzo viene richiesto di selezionare uno o più soggetti all’interno di una categoria indicata dal disponente(102).
Appare poi evidente che il terzo dovrà individuare, all’interno della rosa o categoria indicata dal disponente, soggetti muniti della capacità di ricevere ai sensi degli artt. 463 e 784 primo comma c.c.(103)
Per quanto, invece, attiene al profilo dell’individuazione dell’oggetto della liberalità, poiché dagli artt. 632 primo comma e 778 terzo comma c.c. si desume che la disposizione testamentaria o inter vivos è valida solo se al terzo è conferito il potere di sceglierne l’oggetto o la quantità in conformità ai criteri direttivi o entro i limiti di valore indicati dal disponente, la clausola sub a) potrà ritenersi ammissibile solo se il disponente abbia espressamente limitato in tal senso il potere discrezionale conferito al terzo.
Quanto poi alla clausola sub b), la stessa, nella parte in cui affida ad un terzo la decisione ‘‘se’’ l’erogazione debba o meno essere effettuata, parrebbe far dipendere da costui la stessa efficacia del negozio liberale posto in essere dal disponente.
In questo caso, pertanto, finiscono per intrecciarsi due problematiche intimamente connesse: quella della personalità della volizione liberale e quella della liberalità sottoposta alla cosiddetta ‘‘condizione meramente potestativa si voluerit’’.
Occorre premettere che, per quanto concerne il testamento, la condizione si voluerit è considerata dall’opinione dominante illecita e quindi nulla, non essendo ammissibile che l’efficacia della disposizione testamentaria sia fatta dipendere dalla mera volontà di un soggetto diverso dal testatore (trattasi di un ovvio corollario del principio di personalità della volizione testamentaria); la più attenta dottrina(104)precisa, altresì, che il discorso vale tanto per la condizione sospensiva quanto per quella risolutiva.
Più precisamente, la tesi dominante(105)afferma che una condizione del genere rende nulla anche la disposizione cui essa accede, in quanto vi è una violazione dell’art. 631 primo comma c.c. che esclude l’applicabilità dell’art. 634 c.c. (norma, quest’ultima, che prevede la cosiddetta ‘‘regola sabiniana’’).
Secondo un orientamento che appare minoritario(106), invece, può farsi applicazione di quest’ultima norma, sì che la nullità colpisce solo la condizione, ma non la disposizione cui essa accede.
Quanto poi alla liberalità inter vivos, se è vero che autorevole dottrina(107)ha ritenuto di escludere l’illiceità della condizione si voluerit, resta il fatto che la soluzione contraria(108)parrebbe più prudente, in quanto anche in tale contesto esiste, come si è esposto, il principio della personalità della volizione liberale.
Dall’eventuale illiceità della clausola discenderebbe, quindi, la nullità non solo della condizione, ma anche della disposizione cui essa accede: a siffatte conclusioni conducono sia l’art. 778 c.c., che delimita in modo preciso l’ambito di possibile intervento della volontà di un terzo in una donazione, sia l’art. 1354, primo comma c.c., che dichiara nullo il negozio cui è apposta una condizione illecita(109).
Alla luce di quanto fin qui osservato, la validità della clausola sub b) appare dover essere valutata tenendo preliminarmente presente la distinzione fra beneficiari destinati a godere del bene vincolato durante il periodo di durata della destinazione (sulla falsariga di quanto accade, in tema di trust, con riguardo ai cosiddetti ‘‘beneficiari di reddito’’) e beneficiari destinati a ricevere detto bene dal gestore una volta terminato il periodo suddetto (così come accade, in tema di trust, per i cosiddetti ‘‘beneficiari finali’’).
Nel caso in cui il terzo si sia visto conferire dal disponente il potere di decidere se erogare o meno (in tutto o in parte) le utilità economiche del bene vincolato ai soggetti inclusi dal disponente nella cerchia dei beneficiari di reddito, appaiono ipotizzabili varie fattispecie.
Nel caso in cui sia previsto che, laddove il gestore decida di non erogare le dette utilità ai beneficiari di reddito, le stesse diverranno ‘‘capitalizzate’’ (cioè diverranno parte dei beni capitali vincolati) ma non spetteranno ad alcuno in quanto il disponente non ha previsto dei beneficiari finali, pare difficile negare che la clausola contenga una liberalità in favore dei beneficiari di reddito sottoposta a condizione si voluerit, poiché in effetti il gestore finisce per essere arbitro dell’an dell’erogazione in favore di costoro.
Nel caso, invece, in cui il disponente abbia previsto dei beneficiari finali destinatari delle utilità non erogate ai beneficiari distinguere a seconda che vi sia o meno coincidenza fra i soggetti beneficiari di reddito e quelli beneficiari finali.
Nella prima ipotesi, la clausola in esame finisce per attribuire al terzo il potere non già di decidere l’an dell’erogazione del reddito ai beneficiari di reddito, bensì di differire detta erogazione.
Se ciò pare sufficiente per escludere la natura di condizione si voluerit della clausola (e dunque la sua nullità sotto tale profilo), è dubbio che valga a sottrarla - altresì - alla nullità per violazione del più generale principio della personalità della volizione liberale: le norme più volte citate, infatti, non prevedono che l’autore della liberalità possa attribuire ad un terzo un siffatto potere di differimento.
Nel caso, invece, in cui i beneficiari di reddito ed i beneficiari finali siano soggetti diversi, la clausola in esame parrebbe a prima vista svolgere la pratica funzione di una condizione si voluerit apposta all’erogazione del reddito in favore dei beneficiari di reddito: decidendo di non attribuire le utilità in questione ai beneficiari di reddito, infatti, il terzo esclude costoro dal beneficio.
A ben guardare, però, poiché la suddetta scelta implica, altresì, l’attribuzione di tali utilità ai beneficiari finali invece che ai beneficiari di reddito, si deve da un lato escludere che ricorra una condizione si voluerit e dall’altro evidenziare che la clausola appare conforme anche al principio di personalità della volizione liberale: vi è infatti una rosa di soggetti (beneficiari di reddito e beneficiari finali) individuata a monte dal disponente ed all’interno della quale il terzo è chiamato ad effettuare la sua scelta.
Resta da esaminare l’ipotesi in cui sia previsto che, laddove il gestore decida di non erogare le dette utilità ai beneficiari di reddito, le stesse (lungi dal divenire capitalizzate) continueranno a dover essere attribuite, sia pure in un momento successivo, a costoro.
In tal caso, la clausola attribuisce al terzo il potere non già di decidere l’an dell’erogazione delle dette utilità, bensì di differire detta erogazione: a tale riguardo vale pertanto quanto si è riferito in relazione all’analogo potere di differimento attribuito al terzo dalla clausola a).
Se poi i beneficiari di reddito esistenti nel momento in cui il terzo decide di non erogare le utilità non coincidono con quelli esistenti allorché egli decide finalmente di erogarlo, la clausola b) non pare porre problemi perché - al solito - essa implica l’esistenza di un potere del terzo di selezionare i beneficiari di reddito all’interno della classe a suo tempo indicata dal disponente.
La clausola b), infine, consente al terzo di decidere di erogare ai beneficiari di reddito, in tutto o in parte, le utilità del bene vincolato: ove il terzo decida in tal senso, pertanto, la clausola gli consente anche di decidere a chi ed in quale misura erogarle e, come tale, essa appare porre le stesse problematiche viste per la clausola sub a) e concernenti il rispetto del principio di personalità della volizione liberale.
La clausola secondo la quale, alla cessazione della destinazione, i beni destinati diverranno di titolarità dei beneficiari finali pur se manchi una dichiarazione negoziale traslativa da parte del gestore(110)
Premessa
Occorre verificare l’ammissibilità della clausola in esame, la quale ha una funzione analoga a quella esaminata nel § 2 e pone problematiche affini: essa infatti mira ad ovviare all’eventualità che il gestore in carica, una volta giunta la fine della destinazione, non compia spontaneamente un atto di volontà volto a trasferire i beni destinati ai beneficiari finali(111), onde portare a compimento il disegno del disponente.
Un analoga questione si è posta in tema di trust interno, poiché se è vero che, in base all’art. 8, paragrafo secondo, lettere g, ed h, della Convenzione, è la legge straniera regolatrice del trust a disciplinare sia i rapporti fra il trustee ed i beneficiari che la cessazione del trust, non è men vero che l’art. 15 della medesima Convenzione impone ai trusts, in generale, il rispetto delle nostre norme imperative.
Secondo il diritto inglese, ad esempio, al termine del trust i beneficiari vantano un diritto incondizionato a vedersi trasferiti dal trustee i beni in trust, essendo absolutely entitled (cioè titolari di un diritto ormai certo nell’an e nel quantum) rispetto ad essi: ciò in quanto ormai i beni in trust appartengono, dal punto di vista dell’equity, ai beneficiari, sì che il trustee è in tale momento un mero “bare trustee” di costoro, essendo obbligato a trasferire loro i beni a semplice richiesta(112).
L’eventuale rifiuto del trustee di effettuare tale atto traslativo comporta che i beneficiari possano ottenere dal giudice un provvedimento (vesting order) che coattivamente trasferisce la proprietà ad essi dei beni in trust(113).
Secondo autorevole dottrina(114), la clausola dell’atto istitutivo di un trust interno prevedente, alla fine del trust, il trasferimento automatico dei beni in trust dal trustee ai beneficiari finali costituirebbe la miglior traduzione civilistica possibile del suddescritto fenomeno proprio del diritto inglese(115).
In tale ottica, pertanto, alla fine del trust residuerebbe a carico del trustee un mero obbligo di consegna dei beni ai beneficiari(116), essendo costoro proprietari degli stessi dal momento stesso in cui ne richiedono l’attribuzione.
Tale tesi (che, a quanto consta, già ha ricevuto una certa accoglienza nella prassi redazionale) non appare però persuasiva, per almeno due ordini di ragioni(117).
In primo luogo, non sembra coerente dal punto di vista civilistico qualificare, a monte, il diritto dei beneficiari del trust quale diritto di natura obbligatoria e non reale(118)per poi affermare che costoro, alla fine del trust, divengono titolari dei beni a prescindere da un atto di adempimento del trustee(119).
Da un punto di vista civilistico, infatti, una siffatta costruzione evoca piuttosto l’immagine della titolarità, da parte del beneficiario finale, di un diritto reale sui beni in trust sottoposto dal disponente, a seconda del modo in cui è congegnato l’atto istitutivo, a condizione sospensiva o a termine iniziale.
In secondo luogo, come si è visto in precedenza, neppure nel diritto inglese appare esservi un trasferimento automatico dei beni dal trustee ai beneficiari finali, poiché l’obbligazione del trustee riluttante risulta coercibile solo mediante un vesting order del giudice(120).
Ciò, comunque, non parrebbe costituire un problema in tale ordinamento giuridico, stante la maggiore efficienza di esso, in casi del genere, rispetto a quello italiano: i tempi brevi entro i quali i beneficiari possono ottenere dal giudice inglese un siffatto vesting order, infatti, rendono il trasferimento coatto a costoro dei beni in trust equivalente, sul piano pratico, ad un trasferimento automatico.
Tanto premesso, nel nostro ordinamento la natura obbligatoria del diritto dei beneficiari finali parrebbe comportare che il trasferimento a costoro dei beni possa avvenire solo mediante un atto di adempimento del trustee(121)e che tale prestazione, in caso di rifiuto del trustee, possa coattivamente essere conseguita solo mediante un provvedimento giudiziale(122).
Quanto alla natura di tale provvedimento, appare difficile escludere che esso rientri nell’ambito della giurisdizione contenziosa: se è vero, infatti, che il trasferimento ai beneficiari finali appare consequenziale alla cessazione dall’ufficio del trustee, non è men vero che trattasi, comunque, di un’attribuzione patrimoniale che porta a compimento il disegno negoziale a suo tempo preordinato dal disponente(123): ne discende che tale provvedimento appare rientrare nella previsione dell’art. 2932 c.c., sì da comportare, nel contesto processuale italiano, una notevole dilatazione dei tempi della tutela giudiziaria di merito(124)e la difficoltà di conseguire un’anticipata tutela in sede cautelare, stante la natura costitutiva della sentenza(125).
Le conclusioni cui si è pervenuti in tema di trusts interni appaiono utilmente estendibili all’atto di destinazione: devesi, dunque, escludere che all’eventuale rifiuto del gestore di trasferire i beni ai beneficiari finali possa ovviarsi con una clausola prevedente il loro trasferimento automatico a costoro e che l’avvio del giudizio ex art. 2932 c.c. possa essere evitato mediante la revoca del gestore e la sua sostituzione con altro soggetto disposto ad effettuare il trasferimento(126).
Resta da esaminare la applicabilità, alla materia in esame, di taluni accorgimenti civilistici escogitati in tema di trusts interni, i quali poi sono analoghi a quelli a suo tempo esaminati(127)in tema di passaggio dei beni dal gestore uscente a quello subentrante.
Non appare possibile congegnare la proprietà del trustee o del gestore in carica alla cessazione del trust o dell’atto di destinazione come sottoposta a termine finale o a condizione risolutiva: ciò infatti postula, correlativamente, la ricostruzione del diritto dei beneficiari finali come proprietà sottoposta a termine iniziale o condizione sospensiva, in aperto conflitto con l’assunto che il diritto di costoro abbia, in realtà, natura obbligatoria: in quest’ottica, infatti, la fine del trust o dell’atto di destinazione segna non già il momento in cui i beni vincolati divengono di proprietà di costoro, bensì il momento in cui il loro diritto di credito (avente quale contenuto la prestazione del trustee o gestore consistente nel trasferimento dei beni) diviene esigibile.
Quanto poi alla soluzione dell’intestazione di beni mobili e valori mobiliari a mandatari società fiduciarie o società di gestione del risparmio, essa appare esposta alle medesime considerazioni critiche contenute nel § 2.
Resta, infine, la soluzione della procura irrevocabile rilasciata per effetto dell’accettazione dell’incarico, da parte del trustee o gestore, ad un terzo (si tratterà, di regola, del soggetto istituzionalmente deputato dal disponente al controllo dell’attività del trustee o gestore(128)) ed in virtù della quale quest’ultimo alla fine del trust o dell’atto di destinazione potrà eventualmente trasferire ai beneficiari, in luogo del trustee o gestore riluttante, i beni vincolati: essa si lascia apprezzare per le stesse ragioni esposte nel § 2.
(1) Pur se la norma nulla prevede al riguardo, la dottrina tende ad affermare (cfr. G. PETRELLI, «La trascrizione degli atti di destinazione», in Riv dir. civ., 2006, § 18; S. BARTOLI, «Riflessioni sul “nuovo” art. 2645-ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e trust», in Giur. it., 2007, p. 1304 ed ivi nota 84; A. MORACE PINELLI, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, Milano, 2007, p. 249 e 254) che il disponente possa affidare ad un soggetto l’incarico di controllare l’operato del gestore dei beni vincolati, similmente a quanto accade, in tema di trust, con riguardo al cosiddetto ‘‘guardiano’’. Una siffatta conclusione appare avvalorata dall’ampia formula utilizzata dall’art. 2645-ter c.c. allorché esso attribuisce la legittimazione ad agire per la realizzazione della destinazione, oltre che al disponente, a
‘‘qualsiasi interessato”.
La designazione di un siffatto controllore parrebbe in
particolare auspicabile in presenza di un negozio di destinazione ‘‘di scopo’’ (ove lo si ritenga ammissibile: cfr. più avanti nel testo), stante l’assenza, in tale fattispecie, di beneficiari in senso tecnico: ciò è tanto vero che, nell’omologa figura del trust di scopo, la nomina di un guardiano è per legge non già meramente facoltativa, bensì indispensabile. Parrebbe opportuno che il disponente preveda nel negozio, altresì, le regole per la nomina, la cessazione e la sostituzione del controllore, nonché i poteri spettanti a costui. Com’è stato osservato (cfr. S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione nel diritto di famiglia e delle persone, Milano,
2011, p. 253), inoltre, non potendosi affermare con certezza che la legittimazione del controllore ad agire per la realizzazione della destinazione includa anche il potere di revocare il gestore infedele e di sostituirlo con altro soggetto, l’esistenza di tali poteri è dubbia in difetto di un’espressa previsione in tal senso nel negozio di destinazione.
(2) Cfr. M. BIANCA - M. D’ERRICO - A. DE DONATO - C. PRIORE, L’atto notarile di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, Milano, 2006, p. 43-44 e 63; A. MORACE PINELLI, op. cit., 264; P. SPADA, «Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta», in AA.VV., Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, in I Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, 2007, p. 128; G. OBERTO, «Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze», in Contr. e impr. eur., 2007, p. 425; E. MATANO, «I profili di assolutezza del vincolo di destinazione: uno spunto ricostruttivo delle situazioni giuridiche soggettive», in Riv. not., 2007, p. 371-372 e 376; A. MERLO, «Brevi note in tema di vincolo testamentario di destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter», in Riv. not., 2007, p. 514; F. ROSELLI, «Atti di destinazione del patrimonio e tutela del creditore», in AA.VV., Atti
del convegno Le nuove forme di organizzazione del patrimonio. Dal trust agli atti di destinazione. Roma 28-29 settembre 2006, reperibile sul sito www.economia. uniroma2.it, § 4.1.
(3) Cfr. S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione …, cit., p. 279.
(4) Non a caso, infatti, fra i fautori di detta tesi non manca chi accosta il vincolo in questione ora all’onere reale (cfr. P. SPADA, op. cit., p. 128; E. MATANO, op. cit., p. 371-372 e 376), ora all’obligatio propter rem (cfr. A. MERLO, op. cit., p. 514), ora infine al modus, stante l’ambulatorietà di quest’ultimo sancita da norme come gli artt. 676 secondo comma, 677 secondo e terzo comma e 690 c.c. (cfr. F. ROSELLI, op. cit., § 4.1). Vedi, però, la successiva nota 8.
(5) Cfr. S. BARTOLI, op. ult. cit., p. 279 ss.
(6) Cfr. G. PETRELLI, op. cit., § 14; S. BARTOLI, «Riflessioni ...», cit., nota 37 a p. 1307. L’inapplicabilità dell’art. 1379 c.c. è stata inoltre affermata da taluni autori sia, in generale, per le varie ipotesi di vincoli di destinazione presenti nel nostro ordinamento civilistico prima dell’avvento dell’art. 2645-ter c.c. (cfr. M. BIANCA, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova, 1996, p. 201), sia con specifico riferimento alla contigua figura del trust (cfr. G. PETRELLI, op. cit., § 14; S. BARTOLI, «Riflessioni ...», cit., p. 1307 ed ivi nota 137, nonché p. 1308; S. BARTOLI - D. MURITANO, Le clausole dei trusts interni, Torino, 2008, p. 109 e ss.).
(7) Cfr. Trib. Reggio Emilia (decr.) 26 marzo 2007, in Trusts e attività fiduciarie (d’ora in avanti: Taf) 2007, p.
419 ed obiter dictum di Trib. Reggio Emilia (ord.) 14 maggio 2007, in Taf, 2007, p. 425. La prima decisione, in presenza di un negozio di destinazione posto in essere dai coniugi in occasione di una separazione consensuale e prevedente l’inalienabilità di un immobile fino al momento dell’autosufficienza economica della loro prole, ha affermato che «l’art.
2645-ter c.c. (norma successiva e speciale), nel prevedere l’opponibilità ai terzi della predetta inalie-
nabilità (ove trascritta nei RR.II.), scardina il disposto dell’art. 1379 c.c.». Analoghe sono le affermazioni reperibili nella seconda pronunzia, relativa ad una fattispecie in cui un creditore aveva invano tentato di pignorare beni oggetto di un trust autodichiarato stipulato dal disponente e preventivamente trascritto.
(8) Si pensi all’ipotesi in cui il beneficiario sia un soggetto disabile. Non persuade, inoltre, l’accostamento del vincolo ex art. 2645-ter c.c. all’onere reale, all’obligatio propter rem o al modus operato - come si è visto alla nota 4 - da taluni dei fautori della tesi criticata nel testo: sul punto si rinvia a S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione ..., cit., p. 118 e ss., p. 124 e ss. e 131 e ss.
(9) Cfr. R. QUADRI, «L’art. 2645-ter c.c. e la nuova disciplina degli atti di destinazione», in Contr. e impr., 2006, p. 1741-1744; S. MEUCCI, La destinazione di beni tra atto e rimedi, Milano, 2009, p. 507 e ss.; G. PETRELLI, op. cit., §§ 4 e 14; S. BARTOLI, «Riflessioni ...», cit., p. 1305 e ss.
(10) Cfr. G. GABRIELLI, «Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei Registri immobiliari», in Riv. dir. civ., 2007, p. 329.
(11) Cfr. S. MEUCCI, op. cit., p. 507 e ss.
(12) Cfr. G. FANTICINI, L’art. 2645-ter del codice civile, in AA.VV., La protezione dei patrimoni. Dagli strumenti tradizionali ai nuovi modelli di segregazione patrimoniale a cura di M. Montefameglio, Rimini, 2006, p. 355-357.
(13) Cfr. G. PETRELLI, op. cit., §§ 4 e 14.
(14) La soluzione - sulla quale concorda R. QUADRI, op. cit., p. 1741-1744 - appare affine a quella codificata dall’art. 2384 c.c. in tema di pubblicità dei limiti ai poteri degli amministratori di SpA, pur se in quest’ultima norma si richiede non la semplice mala fede dell’avente causa dall’amministratore, bensì che costui abbia «intenzionalmente agito a danno della società».
(15) Si discute infatti se, onde ovviare al limite della rilevanza meramente obbligatoria del divieto di cui all’art. 1379 c.c., sia possibile collegare all’eventuale alienazione del diritto un meccanismo di risoluzione dell’attribuzione, e precisamente se detta alienazione possa svolgere il ruolo di condizione risolutiva ovvero (ricostruendo il divieto di alienare come un’obbligazione modale) di clausola risolutiva ex art. 793, ultimo comma, c.c.
Una prima tesi (cfr. ad esempio A. CHIANALE, Vincoli negoziali di indisponibilità, in Scritti in onore di R. Sacco, II, Milano, 1994, p. 204) ha ritenuto di rispondere in senso affermativo, ritenendo che si tratti di un meccanismo semplicemente volto ad incentivare il soggetto a tenere la condotta desiderata (condotta la quale, se contenuta nei limiti previsti dall’art. 1379 c.c., non implica illecita coartazione di sorta).
Un diverso orientamento (cfr. ad esempio G. ROCCA,
«Il divieto testamentario di alienazione», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, p. 469 e ss.; E. MOSCATI, voce Alienazione (divieto di), in Enc. giur. Treccani, I, Roma,
1988, p. 5; A.D. CANDIAN, La funzione sanzionatoria del testamento, Milano 1988, p. 162-164), però, ha ritenuto (parrebbe non senza fondamento) di rispondere negativamente al quesito, asserendo che una siffatta clausola rischierebbe di vanificare l’efficacia meramente obbligatoria che l’art. 1379 c.c. ha voluto connettere al divieto di alienazione.
(16) Cfr. S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione ..., cit., p. 285 e ss.
(17) Cfr. S. BARTOLI, «Riflessioni ...», cit., p. 1306 ss.
(18) Cfr. R. QUADRI, La destinazione patrimoniale. Profili normativi e autonomia privata, Napoli, 2004, che in applicazione di tale supposto principio generale ritiene salvo l’acquisto dal gestore effettuato da parte del terzo in buona fede in tema di cartolarizzazione ex legge 130/1999 (cfr. ivi, p. 52 e ss.), di fondi speciali per la previdenza e assistenza ex art. 2117 c.c. e di patrimoni destinati delle SpA (cfr. ivi, rispettivamente p. 52 e ss., 89 e ss. e 110 e ss.).
(19) Con riferimento alla cartolarizzazione ex legge 130/1999, infatti, altra parte della dottrina ha optato ora per la nullità dell’atto (cfr. D. MESSINETTI, «Il concetto di patrimonio separato e la c.d. “cartolarizzazione” dei crediti», in Riv. dir. civ., II, 2002, p. 108 e ss.), ora per la sua inefficacia (cfr. U. LA PORTA, Il problema della causa del contratto, I, La causa ed il trasferimento dei
diritti, Torino 2000, p. 162); con riguardo ai fondi ex art. 2117 c.c., vi è chi ha parlato di atto nullo (cfr. in dottrina G. INFANTE, I profili civilistici dei fondi speciali per la previdenza e assistenza, Napoli, 2002, p. 36 e ss.; in giurisprudenza Cass. n. 17532/2002); quanto ai patrimoni destinati delle SpA, infine, vi è chi ha optato per l’inefficacia dell’atto (cfr. G. BOZZA, in M.BERTUZZIG. BOZZA - G. SCIUMBATA, Patrimoni destinati, partecipazioni statali, Saa, collana La riforma del diritto societario a cura di G. Lo Cascio, Milano, 2003, p.
22 e ss.).
(20) Cfr. S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione ..., cit., p. 286.
(21) Il tenore della norma la rende pertanto, sotto questo profilo, simile all’art. 169 c.c., dettato in tema di fondo patrimoniale.
(22) Si pensi al terzo il quale acquisti dal gestore un immobile che, in base al negozio di destinazione, avrebbe dovuto, durante il periodo di durata del vincolo, essere ristrutturato e locato a terzi, per poi essere alla scadenza trasferito, unitamente ai canoni medio tempore investiti in modo opportuno, al beneficiario.
(23) Si è fatto l’esempio - cfr. G. PETRELLI, op. cit., § 14 - di «beni vincolati all’esercizio di una specifica attività d’impresa o comunque di un’attività che implica un’amministrazione di tipo dinamico», evidenziando che in tal caso «il compimento di atti di disposizione può essere o meno strumentale allo scopo, sulla base delle esigenze gestionali che solo l’amministratore del patrimonio può essere in grado di conoscere».
(24) Cfr. S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione ..., cit., p. 287 e ss.
(25) Cfr. note 18 e 19.
(26) Ciò argomentando dall’avvenuta violazione di una norma imperativa (cioè - appunto - dell’art. 169 c.c., che tutela interessi - quello della famiglia e dei minori - riconosciuti anche dagli artt. 29 e 30 Cost.) e dal generale disposto dell’art. 1418 primo comma c.c.: cfr. R. QUADRI, La destinazione patrimoniale ..., cit., p. 236 e
ss.; G. GABRIELLI, voce Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, in Enc. dir., vol. XXXII, Milano, 1982, p. 305; la tesi è stata accolta anche in giurisprudenza: cfr. Trib. Napoli 25 novembre 1998, in Not., 1999, p. 451; Trib. Napoli 9 ottobre 2001, in Giur. nap., 2002, p. 61.
(27) Ciò facendo leva sul combinato disposto degli artt. 168 primo comma (recante un rinvio alle norme sull’amministrazione della comunione legale) e 184 c.c.: cfr. C.M. BIANCA, Diritto civile. Vol. 2: La famiglia. Le successioni, (I° ed.), Milano, 1985, p. 107 nota 155; T. AULETTA, Il fondo patrimoniale, in Il codice civile - Commentario diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992, p.
280.
(28) Cfr. A. FINOCCHIARO - M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, vol. I, Milano, 1984, p. 827 nota 3; F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, II, Le convenzioni matrimoniali - Famiglia e impresa, in Tratt. di dir. civ. e comm. diretto da A. Cicu - F. Messineo, vol. VI, tomo II, Milano, 1984, p. 98.
(29) Per tacere del fatto che, come si è detto, la sanzione dell’annullabilità è stata ritenuta applicabile in tema di art. 169 c.c. in virtù di una combinazione di norme - gli artt. 168 primo comma e 184 c.c. - affatto peculiare.
(30) In inglese: ‘‘bona fide purchaser without notice’’.
(31) D’ora in avanti: la Convenzione.
(32) Sul tracing nel diritto inglese cfr. A. UNDERHILL - D. HAYTON , Law relating to Trusts and Trustees, Londra – Dublino - Edimburgo, 2003, p. 880 e ss.; M. LUPOI, Trusts, Milano, 2001, p. 48 e ss.; S. BARTOLI, Il Trust, Milano, 2001, p. 238 e ss.; da segnalare, comunque, gli artt. 55 della legge di San Marino n. 42 del 2010 sui trusts e 10 secondo comma della legge di San Marino n. 43 del 2010 sul contratto di affidamento fiduciario, che appaiono indicare - in prospettiva, anche al legislatore italiano - una sorta di embrionale ‘‘via civilistica’’ al tracing.
(33) Cfr. M. LUPOI, Trusts, cit., p. 608 e ss.; A. PALAZZO, «Successione, trust e fiducia», in Vita not., 1998, p. 772-
773; A. GUARNERI, Atti di disposizione illegittimi del trustee e possibili rimedi in civil law, in AA.VV., I trusts in Italia oggi a cura di I. Beneventi, Milano, 1996, p. 118 e ss.
(34) Per incidens in tale ottica, in base all’art. 1445 c.c., potrà farsi valere l’annullamento anche nei confronti di eventuali subacquirenti, salvo il caso di acquisto a titolo oneroso ed in buona fede e salva comunque l’applicazione di norme come l’art. 1153 c.c. (per i beni mobili) e gli artt. 2652, n. 6 e 2690, n. 3 c.c. (per immobili e mobili registrati).
(35) Cfr. altresì F. DI CIOMMO, «Per una teoria negoziale del trust (ovvero perché non possiamo farne a meno)», in Corr. giur., 1999, p. 640 e 784-785; ID., «Brevi note in tema di azione revocatoria, “trust” e negozio fiduciario», Foro it., 1999, I, p. 1470-1472, il quale precisa che il beneficiario potrà agire in revocatoria pur se non vanti un credito attualmente esigibile a conseguire la prestazione del trustee, citando a conforto quella giurisprudenza (cfr. Cass. n. 591/1999, in Foro it., 1999, I, p. 1469 e ss. e Cass. n. 2971/1999) che conferisce - appunto - la legittimazione in oggetto anche al titolare di un credito allo stato inesigibile. Come nell’ipotesi di azione ex art. 1394 c.c., anche in questo caso, stante la previsione dell’art. 2901 ultimo comma c.c., l’accoglimento della domanda potrà pregiudicare anche i subacquirenti, salvo che abbiano acquistato a titolo oneroso ed in buona fede e salve, in ogni caso, norme come gli artt. 1153, 2652, n. 5 e 2690, n. 1 c.c.
(36) Cfr. A. NERI, Il trust e la tutela del beneficiario, Padova, 2005, p. 361 e ss.; L. RICCA, Oggetto del trust, doveri del trustee e strumenti coercitivi o sanzionatori nel diritto interno, in AA.VV., I trusts in Italia oggi …, cit., p. 106-107.
(37) Cfr. S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione ..., cit., p. 291.
(38) Cfr. parte iniziale del presente §.
(39) Non sono mancati neppure autori (cfr. S. TONDO, Ambientazione del trust nel nostro ordinamento e controllo notarile sul trustee, in AA.VV., I trusts in Italia oggi …, cit., p. 202-203; L. RICCA, op. cit., p. 108-109) contrari al rimedio del risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c. È stato infatti affermato (cfr. L. RICCA, op. loc. cit.) che «In definitiva, il rimedio del risarcimento in forma specifica dovrebbe valere, se ammissibile, quale surrogato di carattere generale della tutela reale ... Ma la conclusione è tutt’altro che scontata, perché appare
assai problematica la individuazione degli strumenti giuridici attraverso i quali garantire al beneficiary ed in genere al creditore danneggiato quella tutela specifica che è data dal ritrasferimento di proprietà dal terzo (in senso tecnico) (trattasi dell’avente causa dal trustee: n.d.r.) al debitore (cioè al trustee: n.d.r.) o addirittura direttamente in capo ad esso creditore (trattasi del beneficiario: n.d.r.) dei beni destinati a soddisfare le aspettative del creditore stesso. Per non parlare del caso in cui il rimedio dovrebbe riguardare beni immobili o mobili registrati, giacché in tal caso non sarebbe facilmente conciliabile con i principi che riguardano il meccanismo pubblicitario. A ciò, poi, deve aggiungersi una ulteriore difficoltà, in quanto non è certamente da escludere che il bene ritrasferito, se rientra nella disponibilità del trustee ... a titolo di risarcimento del danno extracontrattuale, perderebbe il carattere di segregazione che riguarda i beni del trust». Neppure tali valutazioni critiche appaiono convincenti, sia perché risultano scarsamente comprensibili le ragioni per le quali si ritiene che l’adesione alla tesi del risarcimento in forma specifica sarebbe fonte, in tema di beni immobili o mobili registrati, di una situazione in contrasto con i nostri principi di pubblicità immobiliare, sia perché l’affermazione per la quale il bene ritrasferito in adempimento dell’obbligo di risarcimento in forma specifica non farebbe più parte dei beni in trust appare costituire il frutto di un palese fraintendimento dell’istituto.
(40) Cfr. A. NERI, op. cit., p. 392 e ss.
(41) Cfr. C. AMATO, Commento all’art. 11, in AA.VV., Convenzione relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento a cura di A. Gambaro - A. Giardina - G. Ponzanelli, in Nlcc, 1993, p. 1272; P. PICCOLI, «Possibilità operative del trust nell’ordinamento italiano. L’operatività del trustee dopo la Convenzione dell’Aja», Riv. not., 1995, p. 58-59; R. MONTINARO, Trust e negozio di destinazione allo scopo, Milano, 2004, p. 311 e ss. I primi due autori citati pervengono a tali conclusioni prendendo le mosse dall’implicita
premessa per cui, se è vero che il terzo acquista dal proprietario (cioè dal trustee), la circostanza che l’acquisto implichi breach of trust importa una violazione dei diritti di colui (il beneficiario) per conto del quale la proprietà è gestita; il terzo autore citato, invece, parla di acquisto a non domino poiché (a mio avviso discutibilmente) ritiene che il trustee sia non già proprietario dei beni in trust (in quanto la proprietà resterebbe in capo al disponente), bensì mero legittimato a disporne.
(42) Cfr. A. NERI, op. cit., p. 452 e ss.
(43) Occorre precisare che, se il disponente ed il gestore sono soggetti diversi, assume rilievo non già l’ipotesi in cui il gestore sia una mero mandatario del disponente (ché in tal caso gli eventi inerenti la persona del mandatario indicati nel testo sono regolati dalla generale disciplina di tale contratto), bensì quella - affatto peculiare - in cui al gestore sia stata attribuita dal disponente (similmente a quanto accade in tema di trust prevedente un trustee distinto dalla persona del disponente) una “proprietà- funzione” avente ad oggetto i beni destinati e comportante la titolarità di un ufficio di diritto privato (cfr. S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione ..., cit., p. 94, 322, 339, 341, 477 e 574). Per il dibattito sull’ammissibilità di tale figura di atto di destinazione v. amplius S. BARTOLI, op. ult. cit., p. 86 e ss.
(44) Si precisa che, stante il silenzio sul punto dell’art. 2645-ter c.c., è controverso se i beni destinati cadano o meno nella successione del gestore deceduto (sul dibattito al riguardo cfr. S. BARTOLI, op. ult. cit., p. 323 e ss.): in estrema sintesi, appare plausibile ritenere che la risposta sia affermativa - e che dunque gli eredi di costui divengano i nuovi gestori dei beni destinati - ma che il disponente possa evitare ciò indicando, nell’atto istitutivo, chi assumerà il ruolo di gestore in luogo di quello originario se quest’ultimo muoia.
(45) La norma si limita, infatti, ad affermare che qualunque interessato può agire per la realizzazione della destinazione. Si potrebbe dunque ipotizzare, con un’operazione ermeneutica ad ogni modo di non sicuro fondamento, che tale espressione attribuisca al giudice un generale potere di intervento volto a consentire la realizzazione della destinazione, ivi inclusa dunque la nomina o revoca del gestore.
(46) È noto, infatti, che i provvedimenti di volontaria giurisdizione (e tale parrebbe la natura del provvedimento di nomina o revoca del gestore titolare della proprietà-funzione di cui si è detto alla nota 43, avendo esso attinenza con la titolarità di un ufficio di diritto privato: cfr., con riferimento al trustee, M. LUPOI, L’atto istitutivo di trust, con un formulario, Milano, 2005, p. 234; L. CONTALDI, Il trust nel diritto internazionale privato italiano, Milano, 2001, p. 281; L. PENASA,
«Giurisdizione volontaria o contenziosa per una domanda di rimozione dall’incarico di trustee retta dalla legge inglese?», in Int’l Lis, 2009, p. 147-148) sono soggetti al principio di tipicità (cfr. G. SANTARCANGELO, La volontaria giurisdizione nell’attività negoziale. Vol. I. Procedimento e uffici in generale, Milano,
1985, p. 28 ed ivi nt. 60, 133 e 148). Un analogo problema si è posto in tema di trust, poiché le leggi regolatrici straniere prevedono siffatti interventi giudiziali (nomina e revoca del trustee e del
guardiano; direttive gestorie al trustee), ma fanno difetto norme interne di analogo contenuto (a meno di non voler ritenere che tali norme straniere siano ormai divenute, dopo la ratifica della Convenzione, norme interne extra codices): per dubbi sull’ammissibilità cfr. S. BARTOLI - D. MURITANO, op. cit., p. 75 e ss.,
155 e ss. e 159 e ss.; S. BARTOLI, op. ult. cit., p. 326 e ss.; per la tesi favorevole a siffatti provvedimenti giudiziali cfr. invece A. DI SAPIO, «Trust e amministrazione di sostegno (Atto primo)», in Taf, 2009, p.
486; L.F. RISSO - D. PARISI, «Trust istituito da un minore nel suo esclusivo interesse», in Taf, 2009, p.
380-382; in giurisprudenza si registrano pronunzie sia contrarie (cfr. Trib. Crotone 29 settembre 2008, in Taf,
2009, p. 37) che favorevoli (cfr. Trib. Firenze 17 novembre 2009, in Taf, 2010, p. 174; Trib. Genova 29 marzo 2010, in Taf, 2010, p. 408), mentre appare priva di attinenza con il tema in esame una pronunzia milanese recante (all’esito - curiosamente - di un procedimento contenzioso) la revoca di un trustee (cfr. Trib. Milano 20 ottobre 2002, in Taf, 2003, p. 265, confermata da App. Milano 20 luglio 2004, in Taf,
2005, p. 87 e da Cass. n. 16022/2008, in Taf, 2008, p.
522), perché in quel caso non si trattava di un trust interno, bensì “estero”.
(47) S’intende: una volta che egli abbia accettato l’incarico.
(48) Identica questione si è posta in tema di trust interno (cfr. S. BARTOLI - D. MURITANO, op. cit., p. 159 e ss.): le leggi straniere regolatrici prevedono, in linea di principio, il trasferimento automatico dei beni in trust dal trustee uscente a quello subentrante (cfr. ad esempio la sect. 40 del Trustee Act 1925 inglese), ma manca ovviamente una norma interna di analogo tenore. In questo caso, però, la soluzione favorevole a tale trasferimento automatico parrebbe poter poggiare sull’art. 8, paragrafo secondo, lettera a della Convenzione, che demanda a siffatte leggi regolatrici straniere la disciplina della “trasmissione delle funzioni di trustee”. È appunto muovendosi nell’ottica suddetta che è stata gestita la vicenda narrata da F. STEIDL, «La pubblicità della successione del trustee defunto», in Taf, 2005, p. 306 e ss., in cui due anziane sorelle (Tizia e Caia) avevano istituito in Firenze, nel novembre del 2001, un trust interno regolato dalla legge inglese, trasferendo all’unico trustee Sempronio (oltre a somme di denaro e ad altri beni mobili) la nuda proprietà di taluni immobili. Con scrittura privata autenticata del dicembre 2001 Sempronio, avvalendosi dei poteri all’uopo concessigli dall’atto istitutivo, aveva nominato quale suo futuro successore nell’ufficio di trustee il figlio Mevio. A seguito della morte del trustee Sempronio, avvenuta nel gennaio del 2004, si è pertanto posto sia il problema del passaggio dei beni in trust da costui al trustee subentrante Mevio, sia quello della pubblicità del trasferimento nei registri immobiliari. Nel caso di specie, Mevio ha sottoscritto, nel giugno 2004 una scrittura privata autenticata intitolata “Atto dichiarativo di sostituzione del trustee di beni in trust”, nella quale egli: a) in primo luogo, dichiara di accettare l’incarico di trustee (in forza di tale accettazione - leggesi nell’atto - i beni in trust vengono “affidati” al nuovo trustee); b) in secondo luogo, richiede la trascrizione sia del trasferimento dei beni immobili in trust dal trustee deceduto a se medesimo, sia del vincolo di destinazione che affetta detti beni. In stretto ossequio a quanto sopra, sono state presentate alla Conservatoria dei Registri immobiliari di Firenze due note di trascrizione (reperibili in Taf, 2005, p. 309 e ss.; com’è stato evidenziato - cfr. F. STEIDL, op. cit., p. 307
- la forma autentica tanto dell’atto fra vivi con cui Sempronio aveva scelto il suo successore quanto dell’atto con cui Mevio aveva accettato l’incarico sono state indispensabili per consentire l’attuazione della pubblicità, stante la nota previsione dell’art. 2657 c.c. in tema di titoli idonei alla trascrizione). La prima nota, che nel quadro A (dedicato ai “dati relativi alla convenzione”) descrive l’atto oggetto di pubblicità come «atto di nomina del nuovo trustee», reca la trascrizione relativa al trasferimento dei beni, che è stata effettuata contro Sempronio ed a favore di Mevio. Nel quadro D di detta nota (dedicato ad “altri aspetti che si ritiene utile indicare”), si riportano i dati essenziali del trust e si riferisce che il passaggio di proprietà in questione discende, appunto, dalla nomina di Mevio quale nuovo trustee in luogo di quello deceduto e dall’accettazione dell’incarico da
parte di costui. La seconda nota, il cui quadro A descrive l’atto oggetto di pubblicità come «costituzione di vincolo a trust», reca invece la trascrizione di detto vincolo, che è stata effettuata contro Mevio (il quadro D della nota sottolinea l’effetto di separazione patrimoniale prodotto dal trust a suo tempo istituito). Nella vicenda in esame, dunque, il titolo del trasferimento dei beni in trust dal trustee defunto a quello subentrante è costituito dall’atto di designazione di quest’ultimo effettuato in vita dal primo (atto, quindi, da ritenersi implicitamente attributivo dei beni in trust a far tempo dalla perdita dell’ufficio da parte del trustee designante) e dall’accettazione dell’ufficio da parte del trustee subentrante.
(49) Alla luce di quanto si è esposto alla nota 44, un problema di trasferimento dei beni destinati dagli eredi del gestore deceduto al gestore subentrante si potrà porre solo se il disponente abbia, nell’atto istitutivo, individuato quale nuovo gestore - per l’ipotesi di decesso di quello in carica - un soggetto diverso dagli eredi di costui.
(50) Cfr., con riferimento al trust, F. STEIDL, op. cit., p. 306. Né appare costituire un’idonea via di uscita dalla problematica indicata nel testo ipotizzare (sulla falsariga di quanto taluno ha tentato di sostenere in tema di trust, allo scopo altresì di semplificare le modalità pubblicitarie: per riferimenti cfr. S. BARTOLI, «Gli effetti della ratifica», in questo stesso volume, § 1.3 note da 113 a 118) che l’atto di destinazione dia luogo ad un soggetto di diritto distinto dalla persona del gestore, sì che la sostituzione di costui implicherebbe un mero mutamento del rappresentante organico dell’ente, senza incidere sulla titolarità dei beni destinati. Appare infatti da escludere che l’atto di destinazione (così come, del resto, il trust) dia vita ad un ente: cfr. S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione ..., cit., p. 47 e ss.; F. GAZZONI, Osservazioni, in AA.VV., La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile a cura di M. Bianca, Milano, 2007, p. 211; S. D’AGOSTINO, «Il negozio di destinazione nel nuovo art. 2645-ter c.c.», in Riv. not., 2007, p. 1521; U. LA PORTA, «L’atto di destinazione di beni allo scopo trascrivibile ai sensi dell’art. 2645-ter c.c.», Riv. not., 2007, p. 1097.
(51) Cfr., con riferimento al trust, BARTOLI - D. MURITANO, op. cit., p. 166 e ss.
(52) Cfr. note 43 e 46.
(53) La relativa sentenza, avendo natura costitutiva (in quanto fonte di un trasferimento coattivo di beni), non godrebbe, fra l’altro, dell’efficacia provvisoria di cui all’art. 282 c.p.c., dovendosi attendere il suo passaggio in giudicato: cfr. Cass., S.U., n. 4059/2010, nonché Cass. n. 27090/2011 in motivazione.
(54) Potrebbe essere richiesto, ad esempio (cfr., con riferimento al trust, S. BARTOLI - D. MURITANO, op. cit., p. 167), un sequestro giudiziario dei beni destinati ex art. 670, n. 1, c.p.c. (in quanto ne sarebbe “controversa la proprietà”), anche se ben difficilmente il custode nominato ex art. 676 c.p.c. potrebbe vedersi conferiti dal giudice, medio tempore, gli ampi poteri di cui un gestore dei beni destinati è normalmente titolare. Difficile sarebbe, invece, conseguire un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. (cfr., con riferimento al trust, S. BARTOLI - D. MURITANO, op. cit., p.
167), stante la natura costitutiva del provvedimento richiesto: per l’affermativa cfr. ad esempio Pret. Foggia
23 marzo 1981, in Giur. mer., 1981, I, p. 1190; Pret. Verona 31 agosto 1990 e App. Bari 12 aprile 1990, in Foro it., 1991, I, c. 1951; Trib. Firenze 10 dicembre 1996, in Foro it., 1997, I, c. 378; ; in senso contrario, però, cfr. ad esempio Trib. Alba 14 maggio 1996, in Foro it., 1996, I, c. 3211; Pret. Matera 27 maggio 1992, in Foro it., 1992, I, c. 3423; Trib. Torino 21 luglio 2003, in Giur. mer., 2004, c. 1124; Trib. Torino 2 aprile 2004, in Giur. mer., 2004, p.
1952.
(55) Cfr. nota 48. Tale progressiva “presa di coscienza” ha avuto significativi riflessi sulla tecnica redazionale. Negli atti istitutivi di trusts interni di qualche anno fa, infatti, era sovente reperibile una clausola secondo la quale, una volta cessato dall’ufficio il trustee per qualunque causa (morte, revoca, dimissioni), egli o (se deceduto) i suoi eredi sarebbero stati obbligati a “trasferire” i beni in trust al trustee subentrante: per esempi di clausole siffatte cfr. G. PETRELLI, Formulario notarile commentato, vol. III, t. I, Milano, 2003, p. 1018-
1019 e 1044-1047 (per l’ipotesi di dimissioni del trustee), p. 1019-1020 (per l’ipotesi di revoca del trustee) e 1020-1022 (per l’ipotesi di morte o revoca per sopravvenuta incapacità del trustee). I più recenti atti istitutivi di trusts interni, invece, contengono di solito una clausola secondo la quale il trustee uscente
«perde ogni diritto sui beni in trust in favore di colui o coloro che gli succedono o rimangono nell’ufficio», sì che a carico del trustee uscente (o dei suoi eredi) residua soltanto, stante l’automaticità del trasferimento dei beni in trust al trustee subentrante, un obbligo di consegnare detti beni. Per tale clausola cfr. M. LUPOI, L’atto istitutivo …, cit., p. 406-408, 504 (art.
10), 524-525 (art. 6 dell’atto istitutivo di trust), 538-
539 (art. 23 dell’atto istitutivo di trust), 553-554 (art.
26 dell’atto istitutivo di trust), 569 (art. 28 dell’atto istitutivo di trust) e 605-606 (art. 29 dell’atto istitutivo di trust), che ne sostiene l’ammissibilità evidenziando che tali meccanismi traslativi altro non fanno che adeguare la situazione at law a quella già esistente in equity: verificatasi una qualunque causa di cessazione dall’ufficio, infatti, i beni in trust già “appartengono in equity“ al trustee subentrante, poiché è venuta meno la ragione che a suo tempo giustificò l’attribuzione della legal ownership sui beni in trust in capo al trustee uscente: quest’ultimo, in altri termini, è un bare trustee (o trustee “nudo”) del trustee subentrante (con riferimento all’analoga questione del passaggio dei beni, una volta finito il trust, dal trustee ai beneficiari finali, cfr. § 3.4 e nota 112). Appare in linea con tale impostazione l’art. 5 dell’atto istitutivo di trust reperibile in M. SCAFFA, La successione del trustee, in AA.VV., Trust: opinioni a confronto, - Atti dei Congressi dell’Associazione “Il trust in Italia” - Terzo Congresso Nazionale, Roma 2005 - I trust per la famiglia, Firenze 2005, a cura di E. Barla De Guglielmi, Milano, p. 519, per il quale
«L’atto di nomina di un trustee in sostituzione del precedente trustee comporterà automaticamente l’immediata cessazione di ogni potere e ogni diritto in capo al precedente trustee sostituito e il sorgere in capo al nuovo nominato di ogni potere e ogni diritto facente capo al predecessore …; i Conservatori dei pubblici registri sono comunque autorizzati a dare pubblicità a detta sostituzione in ordine ai beni in trust, con esonero da qualsiasi responsabilità». Si segnalano, comunque, casi in cui l’atto istitutivo del trust continua a parlare di “obbligo di trasferire”: si veda ad esempio la clausola 6 dell’atto istitutivo del cosiddetto Trust Concordato Santa Rita (reperibile in Taf,
2005, p. 302 e ss.; la sentenza che ha omologato il concordato preventivo connesso a detta operazione è Trib. Parma 3 marzo 2005, in Taf, 2005, p. 409). Cfr. altresì, in dottrina, G. ROTA - F. BIASINI, Il trust e gli istituti affini in Italia, Milano, 2007, p. 150, i quali propongono un atto istitutivo di trust le cui clausole
12 e 13 statuiscono che il trustee cessato dall’ufficio
«sarà obbligato a compiere ogni opportuno atto per l’intestazione dei beni in trust al nuovo trustee».
(56) Come si è visto alla nota 48, in tema di trust interno la soluzione in esame parrebbe trovare un appiglio di diritto positivo, costituito dalla ratifica della Convenzione la quale, all’art. 8 paragrafo secondo, lettera a, demanda alle leggi straniere regolatrici (che di regola prevedono un siffatto trasferimento automatico, la disciplina della “trasmissione delle funzioni di trustee”.
(57) Cfr. note 43 e 46.
(58) Sulle implicazioni di ciò sulla tecnica redazionale vale quanto esposto, in tema di trust interno, alla nota 55.
(59) Cioè mediante un’azione di reintegrazione ex art. 1168 c.c. (cfr., con riferimento al trust, S. BARTOLI - D. MURITANO, op. cit., p. 167).
(60) Cioè richiedendo, nei confronti del trustee uscente, un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. (cfr., con riferimento al trust, S. BARTOLI - D. MURITANO, op. cit., p. 167).
(61) Sui quali cfr. S. BARTOLI - D. MURITANO, op. cit., p. 168 e ss.
(62) Cfr. in tal senso M. LUPOI, L’atto istitutivo …, cit., p. 259 e 407.
(63) Tale attività di intestazione a terzi “nominees”, del resto, è espressamente consentita anche dall’art. 2, paragrafo secondo, lettera b, della Convenzione, secondo il quale «i beni in trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee».
(64) Tesi per la quale cfr. nota 48.
(65) Per una siffatta ricostruzione cfr. (con riguardo alla contigua figura del contratto di affidamento fiduciario), M. LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008, p. 226-227, 239-240, 254 e 298 e ss.; ID., Atti istitutivi di trust e contratti di affidamento fiduciario, con formulario, Milano, 2010, p. 424 (art. 5.E), 432 e ss., 485-486, 499-501 (artt. 37, 38, 39 e
40), 506 e ss. e p. 516-517.
(66) S. BARTOLI, op. ult. cit., p. 90-91.
(67) Come finisce per ammettere anche M. LUPOI, Istituzioni …, cit., p. 255: «Quando ... siano stati individuati successivi affidatari fiduciari per il caso di morte o sopravvenuta incapacità o rinuncia dei primi ... e quindi sotto condizione sospensiva, la trascrizione potrebbe essere fatta anche in loro favore, ma questa appare una formalità inutile e dannosa, a meno che non siano previsti atti dispositivi dei beni affidati prima del subentro dei successivi affidatari fiduciari. Ricordiamo che gli affidamenti fiduciari sono attivi e dinamici e quindi solitamente comportano la modificabilità dei beni affidati. L’esecuzione di una formalità condizionata in favore dei successivi affidatari aggraverebbe i trasferimenti dei beni e comunque dovrebbe essere ripetuta in occasione di ciascun nuovo acquisto e di ciascun incremento dei beni affidati, per opera dell’affidante, dell’affidatario o di terzi; infine, essa dovrebbe essere cumulata con una condizione risolutiva per il caso che il previsto successivo affidatario muoia o divenga incapace prima di assumere le proprie funzioni».
(68) Per un accorgimento siffatto cfr. G. PETRELLI, Formulario ..., cit., p. 1020-1022. La clausola, che si riferisce alla sola ipotesi di decesso o sopravvenuta incapacità del trustee, prevede che l’obbligazione di trasferire i beni al trustee subentrante gravi in tali casi non già sul trustee (o, se deceduto, sui suoi eredi), ma sul guardiano, cui essa dichiara di «conferire la relativa legittimazione»: parrebbe quindi che l’atto istitutivo (rectius: il trustee nominato in detto atto e che ha accettato l’incarico) conferisca - appunto - una procura al guardiano a trasferire i beni al trustee subentrante. Più precisa appare la formulazione dell’analoga clausola 6 dell’atto istitutivo del cosiddetto Trust Concordato Santa Rita (di cui si è detto alla precedente nota 55): in essa si afferma che il trustee «fin da ora si obbliga a trasferire» i beni in trust al trustee subentrante e che «nel caso in cui si renda necessario od opportuno … il protector può intervenire a tale atto di ritrasferimento in nome e per conto» del trustee uscente, «considerandosi con il presente atto conferito uno specifico mandato in tal senso» ex art. 1723, secondo comma, c.c.
(69) Per l’ammissibilità di una figura analoga anche in tema di atto di destinazione cfr. nota 1.
(70) Per il relativo dibattito cfr. S. BARTOLI, op. ult. cit., p. 107 e ss.
(71) Per il relativo dibattito cfr. S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 91 e ss.
(72) Per la discussa ammissibilità di beneficiari finali nell’atto di destinazione (la tesi dominante opta, però, per la soluzione positiva) cfr. in questo stesso volume S. BARTOLI, «Gli effetti della ratifica», cit., nota 153.
(73) Si vedrà al § 3.4 come ciò appaia particolarmente necessario in tema di attribuzioni ai beneficiari finali (sui quali vedi altresì nota 72): costoro, infatti, non sono proprietari a termine iniziale o sotto condizione sospensiva dei beni destinati, bensì soggetti che hanno il diritto di vederseli, a tempo debito, trasferiti dal gestore, il quale è gravato da un obbligo in tal senso.
(74) Cfr. § 3.2.
(75) Cfr. § 3.3.
(76) Cfr. § 3.4.
(77) Ad esempio: i poveri residenti in un certo Comune.
(78) Cfr. R. QUADRI, «L’art. 2645-ter c.c. ...», cit., p. 1736; S. MEUCCI, op. cit., nota 40 a p. 162 e p. 495-496; M. BIANCA - M. D’ERRICO - A. DE DONATO - C. PRIORE, op. cit., p. 31; G. PETRELLI, «La trascrizione … », cit., § 7.
(79) Cfr. S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione ..., cit., p. 224 e ss.
(80) Su questa figura cfr. M. LUPOI, Trusts, cit., p. 210 e ss.; M. GRAZIADEI, Diritti nell’interesse altrui. Undisclosed agency e trust nell’esperienza giuridica inglese, Trento, 1995, p. 297 e ss.
(81) Come, ad esempio, le sect. 11 e 12 della Trust Jersey Law 1984.
(82) Cfr. G. GABRIELLI, «Vincoli di destinazione importanti separazione …», cit., p. 334; A. MORACE PINELLI, op. cit., p. 247 e ss.; M. LUPOI, «Gli atti di destinazione nel nuovo art. 2645-ter c.c. quale frammento di trust», in Taf, 2006, p. 172; S. BARTOLI, «Riflessioni ... », cit., p. 1304-1305.
(83) Cfr. in tal senso S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione ..., cit., p. 225 e ss.
(84) Ciò accade in Inghilterra per il charitable trust ed in altre legislazioni per qualunque trust di scopo (si pensi - cfr. M. LUPOI, Trusts, cit., p. 396 e ss. - a Bermuda, Mauritius, Cipro, Isole Vergini Britanniche, Nauru, Barbados, St. Vincent e Grenadines, Montserrat e - come risulta dall’art. 9 della legge n. 42 del 2010 - San Marino). Resta comunque da chiedersi se, dopo l’entrata in vigore dell’art. 2645-ter c.c., in sede di istituzione di un trust interno di scopo non sia più prudente evitare di prevederne la perpetuità, pur se la legge regolatrice scelta la consentirebbe, e fissarne invece una durata che non confligga con quella massima (90 anni) indicata dalla nuova norma codicistica. Sul tema cfr. S. BARTOLI, «Gli effetti della ratifica», cit., § 2.2.
(85) Sulle possibili finalità di un charitable trust secondo la legge inglese cfr. M. LUPOI, op. ult. cit., p. 210 e ss. (tale circostanza costringe colui che voglia istituire un trust interno di scopo ‘‘not charitable’’ ad utilizzare una legge regolatrice diversa da quella inglese).
(86) Per il relativo dibattito cfr. S. BARTOLI, Trust e atto di destinazione ..., cit., p. 160 e ss.
(87) Sul punto cfr. nota 1.
(88) Sul punto, che è del tutto pacifico, cfr. M. LUPOI, op. ult. cit., p. 390 e ss.
(89) Per il quale cfr. M. LUPOI, op. ult. cit., p. 216 e ss.; M. GRAZIADEI, op. cit., p. 403 e ss.; A. UNDERHILL - D. HAYTON, op. cit., p. 63 e ss. In realtà, in un trust discrezionale il disponente potrebbe attribuire al trustee una discrezionalità ancora più vasta, giungendo a non indicare alcuna rosa o categoria di possibili beneficiari: si vedano al riguardo le note 98 e 102.
(90) Cfr. S. BARTOLI, op. ult. cit., p. 213 e ss.
(91) È il caso della clausola nel testo sub a).
(92) È il caso della clausola nel testo sub b).
(93) Cfr. S. BARTOLI, «Riflessioni ... », cit., p. 1304.
(94) S’intende: ove lo si ritenga ammissibile (per riferimenti sul punto cfr. in questo stesso volume S. BARTOLI, «Gli effetti della ratifica», cit., nota 129).
(95) Cfr. S. BARTOLI - D. MURITANO, op. cit., p. 45 e ss.
(96) Sul tema cfr. G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 2009, p. 711 e ss. e p. 1555 e ss.; A. TORRENTE, La donazione a cura di U. Carnevali e A. Mora, in Tratt. di dir. civ. e comm. diretto da A. Cicu - F. Messineo, Milano, 2006, p. 439 e ss. p. 505 e ss.; B. BIONDI, Le donazioni, in Trattato di diritto civile italiano diretto da F. Vassalli, vol. XII, tomo 4, Torino, 1961, p. 135 e ss.; U. CARNEVALI, Le donazioni, in Trattato di diritto privato a cura di P. Rescigno, vol. 6, Torino, 1984, p. 455-458 e p. 463-464.
(97) Cfr. A. TORRENTE, op. cit., p. 80 e 84-85; B. BIONDI, op. cit., p. 929-930; U.CARNEVALI, op. cit., p. 534.
(98) Per l’applicazione, a vari fini, del principio di personalità della volizione con riguardo al trust interno, cfr. S. BARTOLI - D. MURITANO, op. cit., p. 24 e ss., 45 e ss., 53 e ss., 63 e ss., 80 e ss., 219 e ss.; in senso contrario cfr. però M. LUPOI, Atti istitutivi di trust …, cit., p. 183 e ss., il quale afferma sia - in verità sorprendentemente - che detto principio non esiste nel nostro ordinamento giuridico, sia che, ad ogni modo, esso è inapplicabile alle donazioni indirette e, dunque, anche ad un trust liberale, sia infine che il trust è irriducibile alla figura del mandato, cui fa riferimento l’art. 778 c.c.
(99) Cfr. Cass. n. 12181/1992, in Giur. it., 1994, I, 1, p. 114.
(100) Cfr. S. BARTOLI - D. MURITANO, op. cit., nota 99 a p. 28.
(101) Trattavasi, per la precisione, di una vendita a prezzo inferiore a quello di mercato.
(102) Dello stesso avviso risulta quella dottrina - cfr. G. PETRELLI, op. ult. cit., § 7 - secondo la quale i beneficiari del negozio di destinazione possono essere non solo determinati, ma anche determinabili e, pertanto, il disponente può affidare ad un terzo (sia egli o meno il gestore) il compito di individuare il beneficiario all’interno di una rosa o categoria di soggetti da egli predisposta, così come - appunto - consentono di fare gli artt. 631 (in tema di testamento) e 778 (in tema di donazione) c.c. Non tiene, invece, conto di questi principi chi, ritenendo - come si è detto alla nota 98 - inesistente e comunque inapplicabile alle donazioni indirette il principio di personalità della volizione liberale, ammette che l’autore del negozio possa conferire ad altro soggetto il potere di nominare beneficiari senza fornirgli alcun criterio direttivo al riguardo: cfr., sia pure relativamente al contiguo contratto di affidamento fiduciario, M. LUPOI, Atti istitutivi di trust …, cit., p. 425 (art. 9 lettera B.1.a.ii e b.ii) e p. 460-462.
(103) L’opinione nettamente dominante (cfr. G. PETRELLI, op. ult. cit., § 6; R. QUADRI, «L’art. 2645-ter c.c.
...», cit., p. 1734-1735; M. BIANCA - M. D’ERRICO - A. DE DONATO - C. PRIORE, op. cit., p. 31; S.BARTOLI,
«Riflessioni ... », cit., nota 88 a p. 1304) ritiene ammissibile la designazione di beneficiari nascituri, siano essi o meno già concepiti (con la precisazione che, in quest’ultimo caso, dovrà trattarsi di figli di persona vivente, rispettivamente, all’epoca della morte del disponente ovvero all’epoca del negozio di destinazione, a seconda che quest’ultimo sia testamentario o inter vivos): ciò stante l’applicabilità dell’art. 462 c.c. in via diretta al negozio testamentario e dell’art. 784 primo comma c.c. in via analogica al negozio inter vivos, vista la sua natura di liberalità indiretta. In senso contrario cfr. però G. OBERTO, op. cit., p. 410-411, il quale trae argomento dalla natura eccezionale sia degli artt. 462 e 784 c.c. (rispetto al principio generale di cui all’art. 1 c.c.), sia dell’art. 2645-ter c.c. (rispetto al principio generale di cui all’art. 2740 secondo comma c.c.), natura la quale precluderebbe l’applicazione
analogica delle prime due norme (dettate solo per il testamento e la donazione) ed imporrebbe una stretta interpretazione della terza (che non prevede beneficiari nascituri).
(104) Cfr. C. GANGI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, Milano, vol. II, p. 523-524.
(105) Cfr. in dottrina G. CAPOZZI, op. cit., p. 716-717; G. CARAMAZZA, Delle successioni testamentarie. Artt. 587- 712, in Commentario teorico-pratico al codice civile diretto da V. De Martino, Roma, 1982, p. 245; in giurisprudenza App. Firenze 8 agosto 1953, Foro it., 1953, I, c. 1757; Cass. n. 1928/1982.
(106) Cfr. M. ALLARA, Il testamento, Padova, 1934, p. 72.
(107) Cfr. A. TORRENTE, op. cit., p. 445.
(108) Per la quale cfr. implicitamente, B. BIONDI, op. cit., p. 135.
(109) Secondo la tesi dominante - cfr. G. CAPOZZI, op. cit., p. 1577-1578; A. TORRENTE, op. cit., p. 576-577; B. BIONDI, op. cit., p. 504-505 - alla donazione cui è apposta una condizione illecita non è, infatti, applicabile la regola sabiniana.
(110) Occorre precisare che, se il disponente ed il gestore sono soggetti diversi, assume rilievo non già l’ipotesi in cui il gestore sia un mero mandatario del disponente, bensì quella - affatto peculiare - indicata alla nota 43.
(111) Sui beneficiari finali v. nota 72.
(112) Il punto è pacifico: cfr. ad esempio J. MOWBRAY - L. TUCKER - N. LE POIDEVIN - E. SIMPSON, Lewin on Trusts, Londra, 2000, p. 639. Per una chiara esposizione del fenomeno cfr., nella dottrina italiana, M. LUPOI, L’atto istitutivo …, cit., p. 187-189.
(113) Cfr. artt. 44 (VI) e 51 (1) (ii) (d) del Trustee Act del 1925.
(114) Cfr. M. LUPOI, L’atto istitutivo …, cit., spec. p. 66-67, p. 187-189 e p. 385-386.
(115) Tale dottrina [cfr. M. LUPOI, L’atto istitutivo …, cit., p. 67, 88, 384, 453 (“art. 1”), 455 (“art. 1”), 456 (“art. 1” e
“art. 2”), 457 (“art. 3”), 458 (“art. 6”), 458-459 (“art. 7”),
459 (“art. 1”), 460-461 (“art. 1”), 461 (“art. 2”), 464-465 (“art. 4”), 465 (“art. 2”), 465-466 (“art. 4”), 467-468 (“art.
3”), 468 (“art. 5”), 517 (art. 5 dell’atto istitutivo di trust), 525 (art. 7 dell’atto istitutivo di trust), 534 (art.
10 dell’atto istitutivo di trust), 551-552 (art. 22 dell’atto istitutivo di trust), 566-567 (art. 23 dell’atto istitutivo di trust) e 587 (art. 38 dell’atto istitutivo di trust)] propone, pertanto, la clausola che segue:
«Sopraggiunto il termine finale della durata del trust, il fondo in trust è trasferito di diritto» ai beneficiari «ai quali soltanto il fondo da quel momento appartiene; il trustee 1. tiene il fondo a loro disposizione e 2. cura qualunque adempimento necessario per rendere tale appartenenza giuridicamente opponibile ai terzi» (l’autore aggiunge la seguente traduzione in inglese della clausola: «Upon the termination of the Trust Period the Trustees shall hold the trust fund upon trust for … absolutely and shall take every necessary step to convey legal title to them, enforceable against any third party»). Si è visto alla
nota 55 che la dottrina in esame propone la soluzione del trasferimento automatico dei beni anche per l’ipotesi di subentro di un trustee ad un altro.
(116) Eventualmente coercibile, dunque, anche in via possessoria o cautelare: cfr. note 59 e 60.
(117) Cfr. S. BARTOLI - D. MURITANO, op. cit., p. 174 e ss.; IID., «Note sulle modalità del trasferimento dei beni in trust ai beneficiari alla cessazione del trust», in Taf, 2007, p. 405 e ss.
(118) Come ormai fa la dottrina dominante (per riferimenti v. nota 71), fra l’altro sulla scia di quanto da sempre sostenuto proprio dall’illustre autore citato (cfr. M. LUPOI, Trusts, cit., p. 291 e ss.).
(119) La contraddizione appare emergere anche dalla stessa esposizione dell’illustre autore, il quale prima parla di un obbligo del trustee di trasferire i beni ai beneficiari (postulando, all’evidenza, un atto di adempimento di tale obbligo) e poi precisa, con riguardo alla prestazione del trustee, che «si tratta più propriamente di consegna; e il trasferimento avverrà appena sarà richiesto dal creditore» (cfr. M. LUPOI, L’atto istitutivo …, cit., p. 187-189; cfr. ivi anche p. 374 e ss. e p. 495 e ss., dove a più riprese compare, sia nel testo che negli esempi di clausole, l’attività traslativa del trustee in favore dei beneficiari).
(120) Secondo la legge inglese la materia, come si è detto alla nota 113, risulta infatti regolata dagli artt. 44 (VI) e 51 (1) (ii) (d) del Trustee Act del 1925, per i quali non può prescindersi da un vesting order del giudice. In tema di passaggio dei beni in trust dal trustee uscente a quello subentrante, se il primo non effettua spontaneamente il trasferimento al secondo il diritto inglese prevede, invece, un’alternativa al vesting order: si è visto infatti - vedi nota 48 - che l’art. 40 di tale legge consente, altresì, il passaggio dei beni al trustee subentrante quale effetto automatico dell’atto di nomina di costui.
(121) Appaiono frutto della medesima impostazione concettuale le clausole reperibili in G. PETRELLI, Formulario ..., cit., p. 1036-1037 ed in G. ROTA - F. BIASINI, op. cit., p. 152 (art.7 dell’atto istitutivo), nonché in G. PETRELLI, op. ult. cit., p. 1066-1068 e 1068-1070.
(122) Appare utile evidenziare che il trustee riluttante potrebbe naturalmente essere revocato e sostituito con un trustee disponibile ad effettuare il trasferimento ai beneficiari finali: in tal modo si eviterebbero i problemi posti in questo § e si dovrebbero, però, affrontare quelli (relativi alla discussa automaticità del passaggio dei beni dal trustee uscente a quello subentrante) che si sono esaminati nel § 2.
(123) Non a caso, infatti, lo si ribadisce, anche nel diritto inglese un tale trasferimento, se il trustee non lo effettui, può essere attuato solo dal giudice.
(124) Vedi nota 53.
(125) Vedi nota 54.
(126) Su quest’ultimo punto cfr. infatti nota 122.
(127) Cfr. § 2.
(128) Per l’atto di destinazione cfr. nota 69.
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