Notai e pubblica fede dal Medioevo all’attualità
Notai e pubblica fede dal Medioevo all’attualità
di Vito Piergiovanni
Emerito di Storia del diritto medioevale e moderno, Università di Genova

Potrebbe apparire ripetitiva la scelta di tornare ad affrontare il tema della publica fides garantita alla professione notarile da un lunga e gloriosa tradizione storica, ma la novità del nostro odierno Convegno consiste nell’allargamento cronologico degli oggetti proposti alla attenzione dei relatori. I temi prescelti non sono, infatti, limitati ad un determinato momento storico, come il mondo romano o il Medioevo, ma disegnano un percorso che giunga a indagare il Notariato contemporaneo: per raggiungere l’obbiettivo di una visione prospettica di lungo periodo abbiamo raddoppiato, ove necessario, il numero dei Relatori, proponendoli in coppia e con un necessario coordinamento tra chi racconta la storia e chi l’attualità.
Nella speranza che questa diversa modalità di organizzazione congressuale possa meglio consentire di prospettare problematiche comuni, ma anche differenze e contrasti, tocca proprio a me, in coppia con l’Amico Notaio Carlo Pennazzi Catalani, iniziare questo esperimento, ricostruendo le linee normative e pratiche e la tradizione storiografica di un tema classico, oggi come in passato, cioè la publica fides ed il Notariato tra Medioevo ed Età moderna. Al Collega Pennazzi Catalani è affidato, invece, il compito di discutere sui significati attuali di tali tematiche.
Consentitemi, all’inizio del mio discorso, un riferimento specifico alla Collana di Studi Storici sul Notariato che, purtroppo, sconta una contingenza economica generale alquanto critica, ma che speriamo possa presto riprendere la sua funzione, che è stata non solo quella di fornire elementi per la conoscenza storica della professione in Italia ed in Europa, ma anche di testimoniare e divulgare una storia e una cultura gloriosa.
Il mio riferimento iniziale è, infatti, ad un volume della Sezione di “Studi storici sul Notariato italiano”, pubblicato nel 2006. Nell’ottobre del 2004 si è tenuto, in questa stessa città ed in questo stesso luogo, un Convegno storico per offrire un contributo del Notariato locale e nazionale alle celebrazioni di “Genova 2004, capitale europea della cultura” e porre in evidenza una presenza professionale antica ma sempre fondamentale nelle società in cui ha operato.
Il titolo del Convegno era “Hinc publica fides - Il Notaio e l’amministrazione della giustizia” e, due anni dopo, la pubblicazione degli Atti ha messo a disposizione dei notai, dei pubblici amministratori, dei giudici e della comunità scientifica il frutto di approfondite riflessioni su una tematica, allora come adesso, di grande attualità(1).
Si discusse, allora, di valutare l’esistenza di una legittimazione storica del contributo offerto dal Notariato al miglior funzionamento della giustizia civile. Tra gli organizzatori anche allora eravamo sia io che il mio sodale Notaio Carlo Carosi e, in quella circostanza, avevamo chiesto ad Enrico Marmocchi la cortesia di proporre le sue considerazioni in chiusura del Convegno. I risultati sono stati da noi considerati positivi se, anche per questo incontro, gli abbiamo rivolto la stessa richiesta. Ricordava Marmocchi che la fides era stata perlustrata dai relatori con una grande ricchezza di profili - storico, filologico, semantico, sociologico, comparato, aree geografiche - e con significati che spaziavano dalla qualità morale alla legalità, dalla fedeltà alla consapevolezza, dal precetto di coscienza alla fede alla parola data; dal valore probatorio alla credibilità. Un relatore l’ha definita quasi una parola magica(2).
Il rapporto di questa terminologia con il notaio medievale è anche la testimonianza di una vicenda che parte da lontano e che, sempre nel sopraddetto Convegno, è stata ricostruita, per il periodo più antico dal Presidente onorario della Commissione Studi Storici del Consiglio Nazionale del Notariato, Professor Mario Amelotti. A suo parere «… la legislazione giustinianea stabilisce un ordine gerarchico nella documentazione, che va dalla scrittura meramente privata al documento testimoniale e da questo al documento tabellionico, per arrivare, al vertice, all’instrumentum publicum. Il documento tabellionico … dà ampie garanzie di affidabilità, merita fides, ma non perviene a quella fides publica che solamente compete all’instrumentum publicum»(3).
Tale processo si completa nel Medioevo e, per citare ancora Marmocchi, esso avviene attraverso il recupero della ricchezza della funzione e del prestigio del ceto notarile che si pone, ancora oggi, come un elemento di continuità con la grande tradizione del passato medievale: «Ma il notaio non è soltanto fides. In quella stessa definizione della nostra legge notarile - quasi sovrapponibile a quella di Rolandino … ‘i notai sono ufficiali pubblici istituiti per ricevere gli atti …, attribuire loro pubblica fede ...’. Il notaio è dunque anche depositario di publicum officium nel senso che egli può influire, come guida diretta, sui comportamenti umani giuridicamente rilevanti; nel far fare qualcosa a qualcuno. In forma di comandi e divieti. In questa funzione egli produce ed impone regole giuridicamente vincolanti»(4): fides e publicum officium, quindi, anche se l’espressione publica fides entrerà nell’uso solo nel XVI secolo, come vedremo.
La fides, quindi, come riferimento complesso non solo alla semantica ma anche ai contenuti concreti dell’attività notarile; non è casuale, quindi, che ad essa si affianchino stringenti norme etiche e professionali ed altri elementi operativi e comportamentali che hanno arricchito di significati e di importanza la figura del notaio.
È, pertanto, significativo che tali prerogative siano state poste in grande rilievo da un altro importante esponente di questo ceto, Martino da Fano, attivo nel XIII secolo, podestà a Genova nel 1260 e, negli ultimi anni della sua vita, frate domenicano: egli è contemporaneo di Rolandino ed è autore di uno dei più diffusi formulari di diritto notarile. Non è certo casuale che anche a lui sia stato dedicato un volume della nostra Collana di studi storici sul Notariato (che ha pubblicato gli Atti di un Convegno tenutosi ad Imperia e Taggia nel 2005, curando anche la riedizione della sua opera con la traduzione in italiano del testo)(5).
Martino da Fano ha aggiornato le caratteristiche necessarie al notaio per esercitare pienamente la professione. Mentre Rolandino, infatti, preferisce esaltare il ruolo pubblico a cui, però, collega inscindibilmente la autenticità, Martino da Fano individua le caratteristiche professionali più tecniche che qualificano l’arte e coloro che la esercitano, che sono fides, diligentia, industria(6).
La circostanza che la fides richiesta per tale ufficio debba essere praecipua - in un significato, cioè, che richiama specificità e particolarità ma anche eccezionalità e privilegio - si iscrive all’interno di una scelta culturale che cerca di utilizzare, attraverso le significative scelte di una differenziata aggettivazione - bona, mala, publica, plena, modica ed altre, come intemerata - la ricchezza evocativa del termine fides per risolvere alcuni problemi contingenti(7). Può essere significativo, al proposito, riprendere proprio le parole di Martino da Fano, secondo il quale un professionista che non si qualifichi per la propria fides, pubblica e privata, «nullus verus potest esse notarius»(8).
È il possesso della fides, quindi, la base dell’identificazione professionale del verus notarius e l’eventuale tradimento della stessa mette a repentaglio, oltre che la credibilità del singolo e della categoria, anche, al di sopra della materialità delle fattispecie prese in considerazione, l’armonia spirituale e religiosa che a quella parola è indissolubilmente collegata.
Martino prosegue nell’enumerazione dei principi di tecnica notarile e di deontologia professionale che debbono guidare ogni professionista.
La diligentia per prima, da intendersi sia come la naturale applicazione dei principi e delle regole che sono alla base dell’arte, ma anche come attenzione concreta alla scadenza di termini che potrebbero configurare forme di negligentia e creare pericolo e danno non solo per i clienti ma per lo stesso notaio. Un ulteriore elemento è qualificato da Martino come industria, che egli intende non solo come operosità ma anche come abilità professionale, e che si articola a tre livelli di operatività. Il notaio, infatti, deve essere discretus, cioè capace dei migliori risultati professionali, in intelligendo, disquirendo et componendo. L’intelligentia è la capacità di ben intendere le parole dei contraenti, dei testimoni e dei giudici. Deve essere, inoltre, capace di disquisitio, cioè di indagare la rispondenza alla verità delle dichiarazioni dei testi e dei confessi. Deve, infine, badare, per evitare le pene previste dalle leggi, nella compositio degli atti, a non documentare contratti fraudolenti e non legittimi.
Il richiamo alla correttezza ed alla attenzione professionale del notaio ed alla funzione di memoria pubblica, presente anche in Salatiele e Rolandino, è concetto abbastanza diffuso e ricorrente. Si può, al proposito, ricordare un passo della lettera dedicatoria presente nell’opera di un notaio, Leo malae linguae de spelunca, noto come Leone Speluncano, secondo cui «Cum ars notariatus dicatur, et sic frequens et necessaria propter labilem hominum memoriam, et propter excrescentem nequitiam mundorum, quorum appetitus est noxius ad alienandum quae sua non sunt …»(9).
È tornato su queste problematiche della fides anche un diplomatista come Bartoli Langeli con un contributo significativo già dal titolo “Scripsi et pubblicavi”. Il notaio come figura pubblica, l’instrumentum come documento pubblico, inserito all’interno di un altro significativo volume della nostra Collana(10). Anch’egli ritiene che «l’ordinamento italiano vigente sul Notariato, risalente al 1913, disegni una figura di notaio assai simile, mutatis mutandis, al notaio delle città comunali. La pubblica fede conferisce all’atto notarile una particolare forza probante, sicché esso fa piena prova, fino a querela di falso ...: non è di poco significato storico la circostanza che, in questo periodo il notaio si proponga anche come un libero professionista. Occorre cercare le origini nelle vicende storiche e nei fermenti del XII secolo che propongono una diversa figura sia del notaio che della sua documentazione: l’instrumentum publicum, porta la categoria all’autonomia professionale ed alla piena responsabilità personale della documentazione prodotta»(11). È ormai divenuto quasi tradizionale esemplificare tale processo con l’esordio di una correzione degli statuti del Collegio dei notai di Genova del 1470, pubblicato da Puncuh, secondo la quale la fides delle scritture notarili “omnem fidem superat” ed impegna al suo rispetto anche le più alte autorità pubbliche ed i soggetti privati(12).
La conclusione di Bartoli Langeli è che «La fides delle scripturae dei notai è qui rappresentata come una realtà limpida, monolitica, assoluta. Il nostro compito, invece, è di distinguere e scomporre. E si vedrà che la publica fides, lungi dall’essere un’idea platonica, è cosa di questo mondo, che partecipa delle situazioni storiche, le determina da par suo ma ne subisce anche i condizionamenti». È affermazione da condividere ed anch’io, come dirò più oltre, ritengo necessario scandire bene e meglio i contenuti, i tempi ed i modi con i quali il ceto notarile si è misurato; questo è opportuno per evitare un’altra conseguenza storiografica che Bartoli Langeli ha posto in evidenza, cioè che l’assolutezza del concetto di publica fides e l’idea che ad essa si arrivi al termine di una ‘evoluzione’ portano con sé la frequente valutazione di altre esperienze, non solo notarili, in termini di ‘debolezza’, di ‘insufficienza’(13).
Un esempio significativo di tali atteggiamenti storiografici, che riguarda proprio i notai, può essere colto in alcune terminologie riduttive emerse nella storiografia giuridica a proposito dell’Università medievale bolognese e della svalutazione del contributo dei professionisti della scrittura. ‘Transizione’, ‘crisi’ sono, infatti, i concetti che vengono applicati alla scienza giuridica successiva alla Scuola dei glossatori, ma uno storico del Notariato bolognese, Gianfranco Orlandelli, non è d’accordo con questa analisi. Egli scrive che «si afferma abitualmente che la scuola giuridica bolognese, dopo la produzione della glossa accursiana, accusa un certo senso di stanchezza per le forme classiche della esegesi dei testi, stanchezza che richiama l’interesse su determinati settori della pratica, prima trascurati, segnatamente la materia processuale e quella notarile. Questa interpretazione … dovrebbe essere alquanto riveduta prendendo in più attenta considerazione, anziché la stanchezza per la glossa, lo scaturire di nuovi interessi, la dinamica interna della scuola, … l’interesse per la materia notarile e per quella processuale … non rappresenta la possibile alternativa fra due diversi campi di indagine …; si tratta di un campo unico, quello della pratica …».
A suo parere non è «la scuola di diritto, che, stanca della glossa, recede sulla pratica notarile, ma è la pratica notarile che si rivolge, assetata di conoscenza, alla scuola di diritto, e ne ricava uno strumento per la conquista del sapere giuridico»(14).
Ecco emergere la forza del notaio dalla quotidianità dei rapporti giuridici che documenta. Egli si pone, quindi, come primo ed indiscusso tramite tra la vita concreta e la sua formalizzazione giuridica, che non vuole necessariamente significare la sua qualifica di principale protagonista all’interno delle società socialmente e strutturalmente complesse in cui opera.
Bartoli Langeli riporta come esempio significativo proprio il medioevo genovese: sono anch’io d’accordo con chi, relativamente al caso del Notariato genovese, ha voluto ridimensionare lo stesso Notariato di pubblica fede e la sua funzione nelle vicende della Genova consolare, ritenendo che tale binomio potrebbe essere rovesciato a favore della nuova società comunale nella quale il notaio assume una posizione importante ma non preminente(15).
Il fenomeno non è solo genovese e, anche a proposito di Rolandino e della sua azione civile e professionale a Bologna, si può sostenere che «lo spazio urbano, gli assetti istituzionali, una diversa organizzazione politica e sociale cambiano in maniera radicale la figura del notaio. La civiltà urbana e mercantile lo assume come elemento di cerniera tra la dottrina e la pratica e lo induce ad aggiornare il proprio modo di essere rapportandosi ai soggetti protagonisti del nuovo momento storico»(16). Si perfezionano le burocrazie cittadine ed esse, imperniandosi su uffici e cancellerie gestite da notai, rilanciano potentemente il ceto notarile(17). Per questo credo che sia limitativo ridurre il tutto ad una controversia di tecnicità più o meno raffinate in un contesto culturale in cui gli assetti politici e sociali sono stati gli effettivi fattori del cambiamento(18). Di fatto poteva accadere che nell’Italia comunale che quotidianamente il professionista operasse al servizio di podestà e giudici forestieri, i quali appunto nel notaio del luogo ricercavano e richiedevano quella sicura conoscenza della materia in genere, ed in particolare delle usanze locali, che ad essi poteva fare difetto. Questo processo tocca anche Genova dove, secondo Costamagna, sino al 1230 la documentazione notarile non ha regole uniformi ... ma arrivano giudici e notai forestieri soprattutto bolognesi e le regole si uniformano(19): nel 1260 uno di questi podestà forestieri è proprio Martino da Fano.
Forza e debolezza di ceto sono, quindi, da misurare in rapporto alle contingenze socio-politiche in cui i notai si trovano ad operare e occorre valutare quanto la storiografia si sia attenuta a questi criteri nel ricostruire le vicende dei secoli successivi al Medioevo. Nel passaggio all’Età moderna si propongono temi e problemi che assumono connotazioni in gran parte differenti rispetto al periodo precedente e ci si chiede se la figura del notaio e la sua fides rimangano sostanzialmente invariati. Se ne discute a livello di teoria e nelle concrete manifestazioni pratiche, come opportunamente ricorda un giurista spagnolo che ha approfondito questi temi(20).
Occorre, quindi, ‘distinguere e scomporre’ contesti operativi e elementi cronologici, come sostiene Bartoli Langeli, e mi chiedo se tale criterio sia stato seguito anche quando lo stesso Autore, citando Berengo, sostiene che «il ruolo sociale e politico dei notai scade tra XIV e XV secolo quasi ovunque … Avvertito dapprima come un ripiego o un’integrazione … del lavoro onorifico e ambito per conto dello Stato, il servizio prestato a privati tende a divenire la principale occupazione del notaio. E se questi nel Trecento ne trae lamento, due secoli dopo non mostra più un particolare interesse a perseguire le cariche: il peso degli atti privati cresce ... nelle sue imbreviature e nelle sue filze … Il monopolio notarile sugli officia si è allentato e gli officiali si stabilizzano nella loro carica, ne rivendicano la trasmissibilità, la consegnano ai figli o la alienano»(21).
Credo che sia limitativo ridurre il tutto ad una controversia di ruoli professionali, o di tecnicità più o meno raffinate in un contesto in cui i mutati assetti politici si propongono come gli effettivi fattori del cambiamento e ci consentono di leggere tali avvenimenti come una scelta, più o meno necessitata, di operatività professionale e di presenza attiva nella società.
Già nel Medioevo, come ricorda Savelli, i notai cancellieri sono chiamati le “mani” della Repubblica poiché ‘per quorum manus quicquid ad rempublicam pertinet, agitur’: «Un numeroso gruppo di funzionari trovava nella formazione notarile e nel controllo degli uffici la forza coesiva e di identità, ma le cose cambiano nel XVI secolo con la “maturazione di processi che mutano notevolmente, più che l’organizzazione della cancelleria, il rapporto tra cancellieri e ‘ceto di governo’, in quanto viene a mutare il rapporto tra mondo notarile e patriziato … Un processo che portò nel giro di qualche decennio alla progressiva emarginazione, e di fatto all’espulsione dei notai dal patriziato cittadino»(22). Le Repubbliche aristocratiche ed i ‘Regna’ sono i motori del cambiamento politico e sociale. È un fenomeno che tocca anche molte altre città italiane e, come ricorda Villata, la professione aveva vissuto nell’età medievale momenti di grande splendore (Cencetti chiamò la situazione bolognese ‘la repubblica dei notai’) nell’ancien regime «si ha declino della professione notarile nella stima comune, gli interventi dell’autorità statale si fanno più incisivi … per predisporre forme di controllo e di garanzia dell’attività notarile»(23).
Anche per tale contesto storiograficamente le parole che ricorrono sono ‘crisi’, ‘ridimensionamento’, perdita di rilievo socio-politico. Mi chiedo, però, se anche in questa circostanza non sia opportuno pervenire ad una valutazione diversa. Come si è fatto per il Medioevo è forse necessario un riferimento più preciso alle contingenze politiche che, nel mutamento indotto, generano problematiche nuove dal punto di vista dei rapporti e delle considerazioni sociali.
Partendo, quindi, dal “periodo aureo” della storia del Notariato, cioè dal XII secolo, quando la figura del notaio appare dotata di una fides publica e il suo documento è ormai, a tutti gli effetti, instrumentum publicum, provvisto di un’efficacia giuridica, a prescindere dalla natura pubblica o privata degli autori, dei destinatari e del contenuto del documento, arriviamo alla fine del XIV ed all’inizio del XV secolo, quando, è stato detto, si comincia ad avvertire, nella conversione del Notariato al funzionariato, un’eclissi del suo prestigio: il monopolio notarile s’incrina o, addirittura, si spezza, e alla fides personale si affianca un più diretto principio di autorità\autenticità con il subentrare del potere del ‘signore’(24). Come ha giustamente sostenuto Giovanna Petti Balbi «… alla fine del Quattrocento l’irrigidirsi degli assetti e delle gerarchie sociali, l’affermazione dello spirito di casta, tolgono ogni possibilità non solo d’integrazione, ma anche di assimilazione: la nobiltà è appannaggio esclusivo degli uomini di toga, di giudici e di professori universitari, i più aristocratici tra gli uomini di legge, che vivono in una sorta di orgogliosa autocoscienza non solo intellettuale, con una forte ideologia nobiliare e spirito di casta. Inizialmente sodali con i notai, talora uniti in un unico collegio e accomunati nella lotta per l’affermazione dei regimi popolari, dalla fine del Duecento giudici e notai dividono le loro strade. I giudici si staccano dai troppi notai che inflazionano l’arte e relegano i modesti detentori della penna in una situazione di sudditanza psicologica e sociale, con quella che Costamagna ha definito “una specie di congiura dei giudici”, da cui riescono a salvarsi parzialmente solo i notai cancellieri strettamente legati al potere. Anche questi, una volta conclusa la faticosa conquista del cancellierato, si chiamano fuori dal ceto notarile, manifestano nei confronti degli antichi colleghi atteggiamenti di superiorità e comportamenti che li assimilano ai giudici e al loro ceto. Alla fine di questo percorso i notai vengono penalizzati e costretti a rientrare nei ranghi, tra i popolari o tra le arti meccaniche, nonostante abbiano contribuito alla divulgazione della scienza giuridica e all’affermazione degli stessi giudici, di coloro che con il tempo sono diventati i loro maggiori antagonisti: scompare la nobiltà di penna, trionfa la nobiltà di toga»(25).
È significativo che, ancora una volta, proprio la fides e le sue implicazioni rimangano al centro di speculazioni teoriche ed applicazioni pratiche. L’utilizzazione di diverse terminologie rivela spesso complesse problematiche socio-politiche ed ambientali. Bambi ha dimostrato come l’espressione publica fides fatichi a diventare comune nel linguaggio dei giuristi medievali. Bisogna attendere, egli sostiene, le elaborazioni di Maranta che parla del notaio che dà la publica fides alle soglie del Cinquecento(26). Egli si chiede se non sia del tutto un caso che la publica fides compaia proprio a proposito del Regnum; se cioè, perché la fides notarile diventi publica, non sia necessario un legame tra il notaio e una struttura di tipo statale che non si poteva realizzare in pieno medioevo. Ci si interroga sul quesito se «la fides che si fa … publica può esser vista come il segno linguistico di un passaggio tipico dell’età moderna nella vicenda notarile: l’efficacia degli atti non è più connessa al meccanismo medievale della ‘fama’ del notaio nella collettività in cui vive - come accade per il valore probatorio delle deposizioni dei testimoni - ma diventa conseguenza del credito riscosso dal soggetto politico con il quale il notaio più strettamente si lega».
Sono, forse, state sottovalutate proprio alcune contingenze di contrasti socio-politici che hanno anche alimentato, come dirò, dibattiti teorici talora molto aspri.
I nuovi assetti socio-politici decretano certamente anche alcune esclusioni da valutare, peraltro, storicamente.
Secondo Salvi nel secondo cinquecento si delinea un sempre più marcato processo di limitazione della classe nobiliare … Il ruolo politico e sociale del notaio cominciò a scadere a partire del XV secolo, ed il servizio prestato ai privati, dapprima avvertito come un’integrazione del più prestigioso impiego svolto nell’ambito pubblico, prese il sopravvento … il progressivo affermarsi di un’ideologia nobiliare sempre più intransigente nella definizione delle arti vili e l’emarginazione dalla vita politica e … progressiva retrocessione anche dal punto di vista sociale … In antico regime l’attività privatistica finì per prendere, per molti notai, il sopravvento, con prevedibili conseguenze sul piano della onorabilità della professione: rogare per i privati significava … offrire i propri servizi a tutti, nobili e non, benestanti e popolo minuto, e ricevere un compenso in denaro, avvicinando il Notariato, nel comune sentire dell’epoca alle così dette ‘arti vili’(27).
All’interno del più complessivo ceto dei giuristi, quali gli avvocati, i procuratori, i giudici ed i notai, si discute molto, tra scienza giuridica e pratica politica, sugli spazi professionali e sociali e per il ceto notarile e prende consistenza quel filone di pensiero, sostenuto soprattutto da giudici ed avvocati, che, relegando l’attività dei notai nell’ambito delle arti “vili o meccaniche”, tende e frenare lo slancio della categoria verso la scalata sociale, cioè verso la nobilitazione. Si può ricordare, come esemplare di tale atteggiamento, la testimonianza, già nel XV secolo, del consulente genovese Bartolomeo Bosco, il quale, preoccupato certamente dalla sempre maggiore utilizzazione e credibilità dei notai e dal loro possibile inserimento organico all’interno di delicati meccanismi come quelli giurisdizionali, ridimensiona drasticamente la loro presenza e funzione ed afferma «testes in causa debent iurare coram iudice: numquam enim reperitur quod tabelliones possint recipere talia sacramenta»(28).
Si può ritenere che il riferimento alla situazione genovese secondo cui sorgono contrasti con le altre categorie di giuristi e di funzionari, avvocati e giudici soprattutto, si possa senz’altro generalizzare. È importante rilevare che la polemica sulla nobiltà del Notariato si sarebbe accesa soprattutto nel corso del Seicento con la fioritura di una serie di trattati e libelli. Di fronte alle pretese di riposizionamento sociale del ceto dei giuristi, i collegi notarili si innalzarono a difesa del proprio prestigio, inserendo all’interno dei propri statuti le disposizioni che tendevano a distinguere con nettezza il Notariato dalle arti manuali. Di peculiare interesse, come messo in luce da Bargagli, il parere del giurista fivizzanese Borgnino Cavalcani che, nella seconda metà del Cinquecento, sostenne che la professione notarile doveva essere considerata nobile, sia perché le era connaturata la fides sia perché la creazione dei notai era riservata ad autorità come Principi, comuni e collegi, che per loro natura non avrebbero mai potuto dar vita ad uffici vili(29).
Si tratta di una operazione insieme politica e dottrinale, sostenuta da avvocati e giudici, ma si può dubitare che sia stato supportata da un’opinione scientifica predominante o unitaria.
Senza pretese di esaustività vorrei solo portare un esempio che fa riflettere. Il giurista spagnolo Covarruvias, le cui opere hanno avuto una circolazione eccellente, dopo aver affermato che i tabelliones publicam habeant authoritatem, eiusque fides omnino sit … adhibenda, continua sostenendo che non c’è autorità nelle fonti che affermi che tabellionis officium esse vile. Il contrario si evince dalla constatazione che non esiste alcuna fonte che proibisca ad decurionatum tabelliones vocari. Egli ricorda, inoltre, che il giurista francese Andrea Tiraquello, autore di un diffuso trattato de nobilitate, è della stessa opinione e, nella sua opera, ha dimostrato la non razionalità delle affermazioni di coloro che affermavano il contrario: Tiraquello sostiene Quod tabelliones servos esse publicos, poiché ‘sunt enim servi reipublicae, (non autem servi, qui libertate et ingenuitate carent: sed qui proprio munere serviant rei publicae), non in stato servile ma al servizio dello Stato(30).
Si tratta a questo punto di valutare se questi testi, che provengono da celebrati maestri della dottrina giuridica di due delle maggiori monarchie europee, come Spagna e Francia, disomogenei rispetto agli esempi della dottrina italiana prima riportati, siano solo il segno di un cambiamento dottrinale o non, piuttosto, del prevalere di una diversa opzione professionale con conseguente differente collocazione sociale.
L’opinione storiografica prevalente è, quindi, nel senso di ritenere che il ruolo politico e sociale del notaio sia in fase di decadenza a partire del XV secolo, e diviene professionalmente predominante il servizio prestato ai privati, dapprima avvertito come un’integrazione del più prestigioso impiego svolto nell’ambito pubblico.
A mio parere, invece, letto in prospettiva storica, questa attività nei confronti dei privati rappresenta la vera salvaguardia del prestigio e del potere notarile. Occorre ridimensionare il rilievo che ha concesso la storiografia alle negatività ed emarginazioni sociali presenti per il Notariato in questo momento storico e che non possono essere generalizzate, come si è visto dagli esempi dottrinali spagnoli e francesi. Ancora una volta è bene distinguere tra teoria e pratica.
Il dato vincente e positivo della vicenda storica notarile tra Medioevo ed Età moderna e, credo, della sua attualità, consiste proprio nella costante presenza e funzione certificante nei confronti dei privati. Basterebbe una statistica della documentazione conservata negli archivi per comprendere quanto rilevante sia stato il Notariato: la famiglia, il patrimonio, i rapporti sociali ed i loro mutamenti passavano attraverso la professionalità notarile e le novità giuridiche sono in buona parte frutto di questa attività. Nella tradizione dell’Europa occidentale e di altri luoghi che ad essa attinsero o si ispirarono, il notaio, la documentazione munita di fides, il rilievo sociale attraverso una forte organizzazione corporativa, sono stati una presenza costante, senza pause ed intervalli socio-politici.
L’apporto più rilevante offerto alla vita del diritto ed alla storia giuridica consiste nella originalità e creatività con la quale questa categoria di professionisti si è posta come un ponte tra la vita pratica e le concettualizzazioni tradizionali della scienza del diritto: fondamentale il vasto campo dei rapporti tra privati e in tale settore la storiografia più attenta ha riconosciuto ai notai una presenza costruttiva in campo di nuova contrattualità(31).
Ecco il vero terreno di incontro e l’originale apporto di creatività, e, forse, proprio in tale prospettiva valutativa, la storia può fornire ai notai di oggi qualche serio spunto di riflessione.


(1) Hinc publica fides - Il Notaio e l’amministrazione della giustizia , Atti del Convegno Internazionale di Studi Storici (“Per una storia del Notariato nella civiltà europea”, VII), a cura di V. PIERGIOVANNI, Milano, Giuffrè, 2006.

(2) E. MARMOCCHI, «Giustizia e Notariato: publica fides ma non solo», in Hinc publica fides …, cit., p. 374.

(3) M. AMELOTTI, «Fides, fides publica in età romana», in Hinc publica fides … , cit ., p. 19.

(4) E. MARMOCCHI, «Giustizia e Notariato …», cit., p. 379.

(5) Medioevo notarile. Martino da Fano e il Formularium super contractibus et libellis , Atti del Convegno Internazionale di studi, Imperia - Taggia - 30\9 - 1\10\2005, a cura di V. PIERGIOVANNI, Milano, Giuffrè, 2007 (Fonti e strumenti per la storia del Notariato italiano, X). In Appendice , affiancato dalla traduzione in italiano, si è riprodotto Das Formularium des Martinus de Fano , Hrg. Von L. WAHRMUND, in Quellen zur Geschichte des römisch - kanonischen Prozesses im Mittelalter, I Band - VIII Heft, Innsbruck, Verlag der Wagner’schen Universitäts- Buchhandlung, 1907 (ristampa Milano, 2007).

(6) MARTINUS DE FANO, Das Formularium …, cit., Appendice, p. 1. «Inter cuncta que ad artem pertinent notariae, haec quilibet notarius habere debet: praecipuam fidem, diligentiam et industriam». Si veda V. PIERGIOVANNI, «Il Formularium di Martino da Fano e lo sviluppo del diritto notarile», in Medioevo notarile ..., cit., p. 119 e ss. (ora anche in Norme, scienza e pratica giuridica tra Genova e l’Occidente Medievale e Moderno, II, “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, n.s. LII|II, Genova 2012, p. 1455-1464.

(7) V. PIERGIOVANNI, «Fides e bona fides: spunti dalla scienza e dalla pratica giuridica medievale», in Hinc publica fides …, cit., p. 91-107, ora anche in Norme, scienza e pratica giuridica, cit., II, p. 1441-1454.

(8) MARTINUS DE FANO, Das Formularium …, cit., p. 1. «Fidem, quia principaliter tabulariis vel tabellionibus creditur et ad eorum fidem recurritur, sine qua nullus verus potest esse notarius. Est enim grave, fidem fallere, per quam dei et hominum dilectio conservatur». Si veda F. BAMBI, «Fides, la parola, i contesti. Ovvero, alla ricerca della publica fides», in Hinc publica fides …, cit., p. 37.

(9) LEONE SPELUNCANO, Artis Notariae … speculum, Venetiis, apud Michaelem Bonellum, 1575, premessa al lettore. Sull’opera si veda L. SINISI, Formulari e cultura giuridica notarile nell’età moderna. L’esperienza genovese (Fonti e strumenti per la storia del Notariato italiano, VIII), Milano, Giuffrè, 1997, p. 33-34. Per i riferimenti si veda V. PIERGIOVANNI, «Il Formularium di Martino da Fano …», cit., p. 121e ss.

(10) A. BARTOLI LANGELI, «“Scripsi et pubblicavi”. Il notaio come figura pubblica, l’instrumentum come documento pubblico», in Notai, miracoli e culto dei santi, Pubblicità e autenticazione del sacro tra XII e XV secolo, “Atti del Seminario Internazionale, Roma 5-7 dicembre 2002”, a cura di R. MICHETTI, Studi storici sul Notariato italiano, XII, Milano, Giuffrè, 2004, p. 55-72.

(11) Ibidem , p. 57-58.

(12) Gli statuti del collegio dei notai genovesi nel secolo XV , a cura di D. PUNCUH, in Miscellanea di storia ligure in memoria di Giorgio Falco , Genova, Istituto di Paleografia e storia medievale, 1966, p. 303: « Ars notariorum, que in scripturarum fide omnem fidem superat, et est humanorum negotiorum et in vita et in morte ac post mortem certum testimonium, cui imperatores, reges, principes, comunitates ac dominatus cunctosque mortales obnoxios esse oportet, ita ut nulla ars sit que vel ingenio vel manu hominis hanc notariatus artem possit excellere ».

(13) Ibidem , p. 60.

(14) G. ORLANDELLI, «Genesi dell’ ”ars notariae” nel secolo XIII», in Studi medievali, 1965, VI/II, p. 356. Si veda V. PIERGIOVANNI, «Il Formularium di Martino da Fano …», cit., p. 115.

(15) A. BARTOLI LANGELI, «”Scripsi et pubblicavi” …», cit., p. 62-64, A. ROVERE, «Notariato e Comune. Procedure autenticatorie delle copie a Genova nel XII secolo», in “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, XXXVII (1997), p. 93-113.

(16) V. PIERGIOVANNI, «Il Formularium di Martino da Fano …», cit., p. 116, in Medioevo notarile. Martino da Fano e il Formularium super contractibus et libellis, cit., p. 116, e V. PIERGIOVANNI, «Notariato e rivoluzione commerciale», in Rolandino e l’Ars notaria da Bologna all’Europa, Atti del Convegno Internazionale di studi storici sulla figura e l’opera di Rolandino, Bologna, 9-10 0ttobre 2000, a cura di G. TAMBA (Per una storia del Notariato nella civiltà europea, V ), p. 244 (ora anche in Studi in memoria di Giorgio Costamagna, a cura di D. Puncuh, Atti della Società Ligure di Storia Patria, n.s., XLIII\I, 2003) p. 797.

(17) V. PIERGIOVANNI, «Notariato e rivoluzione commerciale», in Rolandino e l’Ars notaria da Bologna all’Europa, cit., p. 244.

(18) A Bologna nel 1219 nasce la societas notariorum che sviluppa scuole specializzate. Si veda E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, II, Il basso Medioevo, Roma, Il Cigno Galileo Galilei, 1995, p. 267.

(19) G. COSTAMAGNA, Il notaio a Genova tra prestigio e potere, Studi storici sul Notariato italiano , I, Milano, 1995, p. 104.

(20) D. COVARRUVIAS, Practicarum quaestionum, Venetiis, Haeredes Melchioris Sessa, 1568, caput xix, p. 287: «De instrumentorum fide traduntur multa, quae cum practicis, tum theoricis erunt fortasse conducibilia».

(21) A. BARTOLI LANGELI, «Il notaio», in Ceti, modelli, comportamenti nella società medievale (secoli XIII – metà XIV), Diciassettesimo Convegno Internazionale di studi, Pistoia, 14-17 maggio 1999, Pistoia, Centro Italiano di studi di storia e d’arte, 2001, p. 28.

(22) R. SAVELLI, Le mani della Repubblica: la cancelleria genovese dalla fine del Trecento agli inizi del Seicento , in Studi in memoria di Giovanni Tarello , I , Saggi storici , Milano, Giuffrè, 1990, p. 569.

(23) M.G. DI RENZO VILLATA, Per una storia del Notariato nell’Italia centro-settentrionale , in Handbuch zur Geschichte des Notariats der europäischen Traditionen , a cura di M. Schmoechel - W. Schubert, Baden Baden, Nomos, 2009, p. 16-17, 45-46. Per il Regnum meridionale nello stesso volume O. CONDORELLI, Profili del Notariato in Italia meridionale, Sicilia e Sardegna, p. 65-124.

(24) R. MICHETTI, «Presentazione», in Notai, miracoli e culto dei santi, Pubblicità e autenticazione del sacro tra XII e XV secolo, Atti del Seminario Internazionale, Roma 5-7 dicembre 2002, a cura di R. Michetti, (Studi storici sul Notariato italiano XII), Milano, Giuffrè, 2004, p. 6.

(25) G. PETTI BALBI, «Nobiltà di toga e nobiltà di penna: il ceto dei giudici e dei notai», in Hinc publica fides …, cit., p. 351-352.

(26) F. BAMBI, «Fides, la parola, i contesti», cit., in Hinc publica fides …, cit ., p. 46-47. Su queste tematiche sempre importante il contributo di M. MONTORSI, Fides in rem publicam, ambiguità e tecniche del diritto comune, Napoli, Jovene, 1984, p. 111 e ss.

(27) S. SALVI, T ra privato e pubblico. Notai e professione notarile a Milano (secolo XVIII) , Milano, Giuffrè, 2012, p. 2.

(28) BARTHOLOMEI DE BOSCO, Consilia, Lodani, Apud Franciscum Castrellum, 1620, p. 803. Si veda V. PIERGIOVANNI, «Fides e bona fides: spunti dalla scienza e dalla pratica giuridica medievale», in Hinc publica fides …, cit., p. 96 e ss.

(29) A. BARGAGLI, Il Notariato in Toscana alle origini dello Stato moderno , Milano, Giuffrè, 2013, p. 102-103.

(30) D. COVARRUVIAS, Practicarum quaestionum, cit., caput xix, p. 287.

(31) P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Bari, Laterza, 1995, p. 190 ss. e J. HILAIRE, Introduction historique au droit commercial , Paris, Puf, 1986, p. 47 e ss.

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