Notai e pubblica fede dall’età napoleonica all’attualità
Notai e pubblica fede dall’età napoleonica all’attualità
di Carlo Pennazzi Catalani
Notaio in Velletri
Per iniziare il mio intervento, vorrei citare le parole del Massè tra i primi a scrivere in merito alla legge del 25 Ventoso Anno XI.
Nella legge citata, risalente al 16 marzo 1803, il Massè scrive: «I notai sono adunque giudici scelti dalle parti … perché in realtà le parti si presentano ad essi come in giustizia all’effetto di sottomettersi all’esecuzione del contenuto dell’atto che fanno». Orbene, la legge del Ventoso è da ritenere la legge madre del Notariato moderno, figlia di un’epoca alla ricerca di nuove connotazioni nella società e nel diritto, che è volto a sostenerla(1).
Altro autore dell’epoca, il Reàl, relatore della legge, esplicando la motivazione dell’art. 19 della legge in merito all’esecutività degli atti notarili, riporta queste letterali parole: «mediante siffatta disposizione, la legge veramente crea il Notariato, nel dare agli atti che il notaio riceve il carattere e la forza che la legge dà ai suoi giudicati, quando hanno acquistato il carattere di cosa giudicata»(2).
Sono del Favard, relatore al Tribunato della legge, queste parole: «La fede e l’esecuzione sono dovute all’atto notarile, questo è, appunto, il primo scopo della legge».
Un salto di centoquarantacinque anni e siamo nel 1948 a Buenos Aires, un Notariato costituito ed organizzato come modello latino, sancisce nel corso dello sviluppo di quel Congresso con la sua quarta risoluzione, che «il notaio è un tecnico del diritto incaricato d’una funzione pubblica consistente nel ricevere ed interpretare la volontà delle parti, darvi una forma legale, redigere la scrittura idonea a tal
fine e conferire autorità alla stessa»(3).
La definizione delimitativa della “pubblica fede” è la stessa nell’arco di un secolo e mezzo, non è mutato il principio cardine e giustificativo del Notariato: la “pubblica fede”. La prima parte di questo mio intervento che, in qualità di notaio, ho avuto da Voi l’onore di poter trattare, va dunque alla Pubblica Fede, alla sua definizione ed alla sua evoluzione nel corso dei secoli, nel rispetto e nell’ammirazione per quella che, da ormai duecento anni, sostiene il nostro lavoro.
Tornando alla legge del Ventoso, occorre precisare che essa, come tutte le leggi, da sola, è figlia d’una precedente dinamica sociale riassunta e formulata in leggi applicative. È di piena epoca rivoluzionaria l’istituzione dei notai quali pubblici ufficiali, esempio tipico di questa epoca tumultuosa che cerca con forza il pubblico da asservire al sociale. Nel decreto d’epoca rivoluzionaria del 29 settembre - 6 ottobre
1791, i notai sono definiti: «funzionari pubblici incaricati di ricevere tutti gli atti che sono attualmente propri dei notai reali e degli altri e di conferire carattere d’autenticità agli atti pubblici».
Ed ecco, infine, la legge del Ventoso che all’art. I titolo I sezione prima riporta: «I notai sono Funzionari Pubblici stabiliti per rogare tutti gli atti e tutti i contratti ai quali le parti debbano o vogliano imprimere il carattere d’autenticità ovvero agli atti emanati dalla Pubblica Autorità e per assicurare la data, conservare il deposito, spedire copie di essi.
Essi sono istituiti a vita».
Quindi, ancora una volta, l’esecutività e l’autenticità degli atti stessi: “la pubblica fede”.
I notai pubblici sono tali a vita, con una serie di obblighi, che sembrano propri della nostra legge del
1913: l’obbligo di prestare la propria opera e le incompatibilità e quant’altro a noi già noto.
La legge del Ventoso s’innestò sulle tradizioni locali italiane a partire dal primo decennio dell’Ottocento, portando con sé quello stesso concetto di “pubblica fede” che andò a confluire con le concezioni dei singoli Stati pre-unitari in materia.
Singolarmente, ogni Stato ebbe una propria legislazione ma, per tutti, comunque, alla base della figura del notaio v’era la rilevanza della pubblica fede. A partire dalla legislazione ligure, come vedremo con la sua legge del 12 ottobre 1804, che, contrariamente a quella del Ventoso non definisce il notaio come Pubblico Ufficiale, ritenendo come scontato tale aspetto, mentre disciplina minutamente il numero dei notai ammessi all’esercizio ed altri aspetti dell’ordinamento professionale, ma differenziandosi marcatamente dalla legge del Ventoso(4).
Caso unico nell’Italia Napoleonica. Ma, nel complesso, la figura del notaio è, anche qui, quella del Pubblico Ufficiale, investito di pubblica autorità per conferire autenticità (Pubblica Fede) agli atti, sia pur così peculiare rispetto al modello francese e, nonostante la mancanza d’una esplicita definizione, emerge chiaramente la rappresentazione del notaio come pubblico ufficiale incaricato di conferire autenticità agli atti(5).
Concetto, questo, già proprio, inoltre, della dottrina giuridica genovese seicentesca, ove si riferisce del notaio come “pubblico incaricato”.
Passando poi al Regno d’Italia, corpo centrale della dominazione Napoleonica in Italia, il Regolamento sul Notariato del 17 giugno 1806 recepisce, non acriticamente, la legge del Ventoso ma conservando, tuttavia, una connotazione propria delle legislazioni antecedenti.
Infatti, l’art. 1 del Regolamento definisce i notai: «Funzionari pubblici istituiti per ricevere atti e contratti cui le parti debbono o vogliono far imprimere il carattere di autenticità agli atti della Pubblica Autorità, onde assicurarne la data, conservarne il deposito, rilasciarne gli estratti e le copie».
Per il Regno di Napoli la razionalizzazione legislativa in materia notarile fu voluta dal Murat nel 1809 e, riprendendo le parole di Niccola Maria Conzo, Presidente della Camera Notarile di Napoli di quegli anni, il notaio non è più: «il commesso del giudice in quanto come Magistrato voluto dalle parti conferisce autenticità agli atti, e loro conferisce forza esecutiva»(6).
Tale connotazione, quindi, spiccatamente pubblicistica e razionalizzante, istitutiva d’una concezione del Notariato innovativa, voluta dalla legge del Ventoso a riprova, sia pure nel rispetto delle peculiarità tipiche dei singoli Stati preunitari, definisce un Notariato strettamente ed indissolubilmente collegato alla “pubblica fede”, parte, quindi, di una sistematica istituzionale in cui il notariato è componente necessario e garante del funzionamento dei traffici giuridici. Con la fine del periodo napoleonico nei decenni della Restaurazione in Italia e la rivisitazione del Notariato da parte d’un legislatore ispirato più a Vienna che a Parigi, non cambia tuttavia né il concetto di “pubblica fede” né la stretta ed indispensabile correlazione tra la stessa e la figura notarile. Non è facile per i governi restaurati ignorare il mutato clima sociale, né è nella volontà degli stessi governi, forse anche per l’influenza dell’Illuminismo asburgico, non considerare quanto di positivo le nuove legislazioni portarono negli Stati italiani. È il caso del Granducato di Toscana, la cui legge in materia notarile, promulgata l’11 febbraio 1815, definisce i notai: «Ministri pubblici istituiti per ricevere e custodire nei modi e colla solennità prescritta dalla legge, gli atti tanto tra vivi che di ultima volontà»; o dello Stato Pontificio, con il Motu proprio del 1822, di cui vale la pena ricordare l’art. 55, ove viene riportata la formula del giuramento da rendersi dai notai in sede di nomina.
Massimo dovere del nominando era la fedeltà al Pontefice e, in dettaglio, il fedele rispetto della volontà delle parti, l’applicazione della giusta tariffa, il ben noto justo et consueto salario, ed in particolare l’impegno di non stipulare atti contrari a norme imperative. Si tratta, in breve, di tutta una previsione normativa volta alla tutela di quella che, dal legislatore Pontificio, era stato considerato il bene oggetto di massima tutela: la Pubblica Fede(7).
Così anche la legge sul Notariato del Regno delle Due Sicilie, promulgata il 23 novembre 1819, sostanzialmente conferma l’impianto murattiano del decennio precedente e, con essa, l’ispirazione alla pubblica fede propria del Notariato della legge madre del Ventoso, con la figura del notaio visto quale garante e custode della fede pubblica(8).
Vale la pena di soffermarsi su uno, in particolare, dei Notariati dell’Italia pre-unitaria, quello del Lombardo-Veneto. Questo territorio, fu istituito nell’aprile del 1815 e, stante il rifiuto di Vienna di riconoscere una propria nazionalità a questi territori, fu qui integralmente applicato il codice civile austriaco. Ne da testimonianza un notaio d’allora, il Lissoni, il quale, dato che il codice civile austriaco d’allora non disciplinava normativamente la figura del notaio, considera che: «pareva che l’istituzione notarile dovesse cadere e che i cittadini, ai quali in ogni genere di transazioni civili era accordata la facoltà di valersi di scritture private che avevano lo stesso valore degli atti pubblici, avessero ad usare di tale libertà, a risparmio, se non altro, di maggiori spese che l’ufficio del notaio comportava di conseguenza»(9).
Ma ciò non avvenne e, continua, infatti, il Lissoni: «I notai continuarono ad avere richieste, massime negli affari di maggiore importanza, non da altro sostenuti che dalla pubblica fiducia, tanta era e sì salda la riputazione del Notariato tra noi e tale e tanta la fiducia, che si prestava ad un ministero che aveva fino a quel tempo tutelati con sapiente probità gli interessi dei privati, che la dimenticanza della nuova legge non valse a menomarne il credito»(10).
Preso atto di ciò, con Notificazione del 19/10/1817 dell’Imperial Regio Governo di Milano, venne
resa pubblica questa dichiarazione della Commissione Aulica di legislazione giudiziaria: «Si stabilisce
che gli atti notarili estesi nelle forme prescritte dai regolamenti, appartengono alla classe dei documenti pubblici in quelle Provincie nelle quali il sistema del Notariato esiste attualmente o ebbe altre volte vigore»(11).
Ancora nel 1835 è lo stesso Imperatore d’Austria, con Risoluzione imperiale, che proclama: «Io voglio che nel mio Regno Lombardo-Veneto debba sussistere ulteriormente il Notariato, con quegli attributi che corrispondono ai bisogni degli abitanti»(12).
Anche se poi, con la dominazione Austriaca nel Lombardo Veneto, una legge Notarile, sostitutiva della legge d’ispirazione francese precedente, non venne mai promulgata.
Quindi, rileviamo qui come atti notarili ormai privi di forza esecutiva, che agli stessi la legislazione austriaca non riconosceva fossero continuati a richiedersi dalla popolazione. Segno tangibile della necessità fisiologica della prestazione notarile da parte della società.
L’Unità
La legge di Riforma del Notariato fu varata nel 1875 il 25 luglio, la n. 2786.
Come proprio della nostra tradizione giuridica e, come logico fosse, non fu una radicale riforma degli ordinamenti preesistenti, quanto piuttosto il tentativo di una sintesi organica ed unitaria delle legislazioni preunitarie, non privo d’una comparazione con le normative europee, con particolare riguardo a quella francese. La pubblica funzione notarile fu quindi quella propria dell’insieme degli Stati Italiani sia pur riscritta in forma evolutiva nel solco d’uno stato unitario e d’impostazione centralista nell’ambito delle professioni liberali, sul modello della cultura giuridica sociale francese.
Il concetto di Pubblica Fede è sostanzialmente quello attuale e lo rileva esattamente il Conti nel suo Commentario teorico pratico della nuova legge sul Notariato, significando che: «È qui da osservarsi, anzitutto, come la legge ponga prima d’ogni altro pubblico ufficiale il notaio quasi a voler significare che egli per regola generale è il funzionario destinato ad attribuire agli atti la pubblica fede, cosicchè gli altri pubblici ufficiali non intervengono che in alcuni casi speciali, od in alcuni atti tassativamente determinati dalla legge, così a mo’ di esempio l’ufficiale dello Stato Civile non attribuisce la pubblica fede, senonchè a quegli atti che la legge ha dato facoltà a lui solo di compiere».
Il perché, si può bene concludere, in quanto il notaio è l’ufficiale designato ad attribuire agli atti la “pubblica fede”, meno che nei casi speciali che la legge ha avuto cura di designare, per i quali ultimi è da ritenersi affatto privo di giurisdizione, il notaio medesimo, e, anche se tali atti indebitamente si compissero, essi sarebbero nulli(13).
Può essere, inoltre, utile, data la stretta correlazione tra la figura del notaio e la sua correlazione alla “pubblica fede”, vedere la definizione che ne da il Poggi, Senatore Presidente della Commissione per l’esame della legge sul Notariato: «Raccoglie gli atti di ultima volontà e ne è il depositario designato dal potere sociale, ciò che egli scrive nell’esercizio delle sue funzioni, poste determinate condizioni,costituisce un titolo esecutivo. Egli, dunque, non può che essere un ufficiale pubblico, come quegli che adempie un ufficio, il quale ha in sé, come si esprime la relazione della Commissione al Senato, una delegazione del gran potere certificante, che è insito nell’autorità suprema dello Stato».
Quindi, ciò che è la funzione pubblica, in questa epoca, è la sintesi di due concetti fondamentali il publicum officium e la publica fides, un’autorità di cui è investito il notaio a base del Publicum Officium e la Publica Fides come effetto di tale autorità e credibilità.
L’autorità che il notaio riveste, attribuisce al documento la pubblica fede a seguito d’una attività di procedimentalizzazione seguendo quindi una disciplina normativa propria della forma dell’atto pubblico. E tale concetto di funzione pubblica, propria della seconda metà del secolo XIX, è sostanzialmente rimasta immutata fino ad oggi.
Siamo ormai in anni ricchi di una crescente caratterizzazione documentale e, conseguentemente, per le fonti necessarie, può essere illuminante attingere agli Archivi del Senato del nuovo Stato.
Ecco alcuni brani citati dal Senatore Poggi nella tornata al Senato del 7/12/1868: «Questa è una delle poche professioni ufficiali, la quale consiste nell’accordare ad una determinata persona una credibilità che gli uomini comuni non hanno, la qual persona viene dalla Pubblica Autorità rivestita d’un carattere corrispondente al suo delicato ufficio»(14).
L’istituzione del Notariato si pone dunque come essenzialmente legislativa, essa è una delegazione del potere certificante che è unito al potere esecutivo. Ecco la delega statale d’uno Stato fortemente voluto dalla cultura ottocentesca, sintesi centralizzante dell’ideale romantico del popolo, la delega della pubblica fede ad un pubblico ufficiale, membro d’una struttura organizzata. Continuiamo adesso il nostro viaggio nel tempo notarile. La legge del 1875 segue a distanza di circa un quindicennio dall’Unità e, tale periodo, rivela che il suddetto concetto di funzione pubblica, propria della seconda metà del secolo XIX, è sostanzialmente rimasto immutato fino ad oggi.
La legge, ebbe un iter formativo complesso; i primi progetti a prendere corpo, sono rispettivamente del 1860, ’64 e ’66.
Sulla situazione del Notariato in quegli anni può essere utile rifarsi agli scritti del notaio forlivese Panciatichi, il quale ci riferisce di una situazione difficile per i notai dell’epoca dovuta, a suo dire, principalmente alla mancanza di: «buone e ben eseguite leggi»(15), tanto che, nel 1860, il Guardasigilli Cassinis redige un progetto di legge sul Notariato che non ha tuttavia seguito(16). Proprio in quegli anni, iniziano a formarsi associazioni Notarili con lo scopo di elevare la situazione della categoria come l’Accademia Notarile Italiana, voluta dai notai torinesi avente per scopo principale: «di promuovere lo studio e l’ uniforme pratica applicazione della scienza e delle discipline notarili e di provvedere al miglioramento ed al decoro del Notariato»(17).
Allo stesso periodo risalgono alcune delle prime riviste Notarili, come la Gazzetta dei notai di Napoli o il Giornale dei notai di Roma(18).
Tante manifestazioni di associazionismo e l’affermata necessità di una stampa di categoria, testimoniano il crescente fermento del Notariato, probabilmente motivato anche dall’unità del Paese e dalla richiesta da parte della stessa società d’un nuovo ordinamento organico della categoria. Inoltre, sulla scia di questa crescente elevazione di categoria, si incontrano anche i primi congressi notarili. Ricordiamo il Congresso Notarile di Napoli del 1871 e quello di Roma del 1877(19).
Il Notariato che il legislatore di quegli anni intende disciplinare, certo sulla spinta di singoli notai ma anche e, soprattutto, della stampa di categoria e degli echi congressuali, è ritenuto di fondamentale importanza per la società, necessario, nella formazione di uno stato liberale, alla diffusione capillare
sul territorio di una legislazione uniforme ed anche d’una lingua comune, fatte proprie nella
contrattualistica notarile.
Dalla categoria è sentito il problema della mancanza della laurea, quale necessario requisito per l’accesso alla professione, che comportava, soprattutto nei distretti rurali, un ruolo subalterno rispetto all’Avvocatura, deputando a quest’ultima la documentalizzazione di attività negoziali svolte dal Notariato.
Ma la necessità della promozione della categoria sentita dal legislatore di allora, porta alla redazione di un nuovo progetto legislativo elaborato da una commissione ministeriale tra il 1863 ed il ’64(20). Progetto che, tuttavia, non ebbe fortuna, in quanto si ritenne che la commissione si ponesse al di fuori del parlamento.
Altro tentativo è del 1866 con il disegno di legge del Ministro De Falco. Anche questo non fu mai portato all’ordine del giorno parlamentare(21).
Finalmente, nel 1868, fu presentato per la discussione in Senato, un nuovo progetto di legge sul Notariato da parte del Ministro della Giustizia De Filippo(22).
Il progetto riguardava, soprattutto, l’organizzazione del Notariato, più che la formazione, il controllo e la conservazione degli atti.
Non mancarono critiche a questi progetti di legge da parte dei notai che, ribadivano alcuni, soprattutto, la necessità della laurea per l’accesso, ritenendo, invece, altri, preminente la pratica(23).
Ancora, si disciplinava la residenza, il numero, la competenza territoriale dei notai e qui si aprivano i contrasti tra i Notariati regionali italiani, figli di storie diverse.
Come tra alcuni notai modenesi, contrari alla determinazione del numero, ed il notaio di Roma Mazzoni che ne asseriva la necessità, portando a sostegno della sua tesi, la risalente e felice previsione in tal senso della legge del Ventoso(24).
Il progetto di legge, frutto anche di un acceso dibattito all’interno della categoria, fu presentato in
Senato il 10 giugno 1868 accompagnato da una Relazione del Senatore Poggi(25).
L’argomento principale fu quello dell’introduzione del requisito della laurea, fortemente voluto dal Notariato del settentrione, ma non così dal Notariato meridionale. Per capire tale contrasto va tenuto conto della diversa situazione economica fra i due Notariati.
Si giunse così alla sua approvazione in Senato e, con estrema lentezza, si arrivò alla Camera il 13 marzo 1869. Tutta la discussione che accompagnò i lavori al Senato, testimonia la grande vivacità culturale e professionale del Notariato d’allora, il suo profondo anelito ad un riconoscimento normativo, attraverso, sia l’attribuzione di un requisito di valore culturale, quale la laurea, che di una regolamentazione finalmente unitaria di aspetti della vita professionale quali la residenza, la concorrenza tra colleghi, gli Archivi.
Ma la presentazione alla Camera non trovò subito conclusione legislativa, la quale, con il finire della legislatura, senza che la Commissione relatrice avesse finito i suoi lavori, terminò, invece, il 22 aprile 1875.
Quindi, il 3 giugno 1875, finalmente il progetto fu approvato alla Camera e dopo l’approvazione del Senato, la legge fu promulgata il 25 luglio 1875 con il n. 2786.
Ma nel suo aspetto più importante, la necessità del requisito della laurea per l’esercizio della professione, la legge non soddisfò quanto richiesto dai settori più illuminati e progrediti della professione.
Forse fu a causa della posizione portata avanti dal Ministro di Grazia e Giustizia di allora Vigliani, il quale affermava: «Non si vanno a chiedere al notaio quei consulti che debbono essere chiesti all’uomo di legge»(26). Contrario a tale impostazione che vedeva, in fondo, il notaio in un ruolo subalterno a quello dell’Avvocato, era invece il relatore alla legge Villa-Pernice(27).
La legge, quindi, così come fu approvata, non soddisfò senz’altro le richieste del Notariato. Tant’è che fu convocato per il 1877 il Congresso Nazionale di Roma(28). I lavori congressuali si aprirono il 23 febbraio 1877 ed in esso i settori più impegnati della professione fecero numerosi voti per modificare l’impianto normativo emerso con la legge del 1875, ma il risultato concreto, fu soltanto quello di ottenere la presentazione al Senato di una serie di modifiche normative che scaturirono nella legge di modifica del 6 aprile 1879 n. 4817. Ma nemmeno questa volta si riuscì ad ottenere, per l’ammissione, il requisito della laurea.
La legge del 1875, così come poi modificata nel 1879, non fu semplicemente il recepimento della legge francese del Ventoso, ma anche la sintesi degli ordinamenti pre-unitari espressi durante la Restaurazione, ed è soprattutto questo l’aspetto migliore ed innovativo della legge.
Ciò che invece mancò a tale legge è quello che era più necessario al Notariato, ossia il requisito della laurea, necessario come tale a consentire il risalto della professione rispetto alle altre professioni giuridiche, il quale non fu voluto e perché il Notariato si presentò su questo diviso, e perché il Parlamento, composto principalmente da Avvocati, non vedeva certo di buon occhio l’affrancazione di una categoria concorrente.
Forse vale la pena di sottolineare come tra la legge del 1875 e quella del Ventoso vi fosse una differenza lessicale, laddove nella prima si parla di notai come «Ufficiali pubblici, istituiti per ricevere atti ed attribuirgli la Pubblica Fede», mentre nell’altra di “autenticità”. Ma il concetto di Pubblica Fede veniva ormai inteso, per la dottrina di allora, come unitario rispetto alle sue componenti di officium e di fides. La legge del 1875, seguiva, comunque, un percorso logico per il quale si passava dapprima alle “Disposizioni generali” titolo I, poi al titolo II ai requisiti ed ai criteri di nomina degli aspiranti ed all’esercizio delle funzioni dei notai, per poi disciplinare la forma e la custodia degli atti, la tenuta dei repertori, le copie, gli onorari, le spese.
L’organizzazione interna della categoria, il sistema di conservazione degli atti, la vigilanza e gli archivi. Va pertanto detto che, sia pur non riflettendo la legge quelle che erano le giuste aspirazioni della categoria, la stessa rappresenta un valido esempio d’impianto normativo per la disciplina del Notariato. Seguì alla legge la modifica del 1879.
Occorre soffermarci sull’ammissione al Notariato, per cui, nel nuovo impianto normativo, si richiedeva un «esame di idoneità dopo aver compiuto la pratica notarile» a cui era propedeutico «aver compiuto, nei modi stabiliti dalle leggi e dai regolamenti sulla Pubblica Istruzione, i corsi di Istituzione del diritto romano col diritto patrio, dei codici civili e di procedura civile e di averne superato gli esami»(29).
Ecco qui che, a differenza della legge del Ventoso, si dava minor importanza alla pratica e, invece,
viene esplicitamente richiesto un esame d’idoneità che veniva svolto da una Commissione composta,
principalmente, di magistrati, ed in minor misura, di notai.
Si prevedeva, inoltre, come anche nelle leggi pre-unitarie, la cauzione, che veniva, vale la pena rammentarlo, vincolata dapprima al risarcimento dei danni causato nell’esercizio delle funzioni notarili, quindi al pagamento delle tasse dello Stato ed infine al pagamento delle pene pecuniarie(30). Ancora altro aspetto da rilevare è la territorialità: infatti, la possibilità di esercizio della funzione era limitata al solo distretto d’appartenenza e, inoltre, il legame con la sede con possibilità d’allontanarsi dalla stessa, era previsto entro limiti molto rigorosi. Soprattutto contro tale regime restrittivo della residenza, insorgeva particolarmente, il Consiglio notarile di Milano che riteneva già abbondantemente limitativo il regime previsto dalla legge del 1875(31).
Tuttavia, tale regime restrittivo, continuò fino alla legge del 1913, supportato anche da una severa giurisprudenza in tal senso.
Come già detto, la legge, nonostante la validità dell’impianto, non fu in grado di soddisfare le aspettative del Notariato, tanto da indurre nelle riflessioni d’un notaio di quel tempo, il Galvagni, nel 1890, a sottolineare come la legge: «gretta sfiduciata, ed esigente, vi ha trattati come un figlio diseredato senza un tetto e senza amore»(32).
Nell’età Giolittiana sul finire del XIX secolo e gli inizi del XX, si consolida la formazione dello Stato unitario, passando da una dimensione oligarchica della società a quella liberal-democratica.
In questa epoca, le rivendicazioni delle classi sociali si fanno via via sempre più marcate, tutte pulsioni sociali che vennero indubbiamente ad interessare anche le categorie professionali. Ma è soprattutto l’evoluzione dello Stato che tende a disciplinare normativamente tutte le sue articolazioni, a consentire l’approdo ad una nuova riforma legislativa in materia notarile.
Dopo la riforma del 1879, il numero degli atti subisce una contrazione; la diffusione dell’alfabetizzazione comporta un maggior ricorso sia alle scritture private che all’olografia nella redazione dei testamenti. D’altro canto, con lo sviluppo dell’industrializzazione alcuni settori della Penisola ebbero un notevole sviluppo delle proprie economie.
Vogliamo ricordare due notai che, in questa fase dell’economia nazionale, dedicarono le loro energie ad incrementarne lo sviluppo come l’umbro Arcangeli, anche Sindaco di Spoleto, relativamente alle attività idroelettriche d’inizio secolo in questa Regione, e il milanese notaio Guasti che divenne punto di riferimento del mondo finanziario dell’epoca(33).
Quindi, a fronte d’una riduzione del volume degli atti in quel settore, che potremmo dire riferito alla famiglia (testamenti, scritture private) va considerato, tuttavia, un incremento degli atti in materia di impresa, passando tra la fine dell’ottocento al 1910 da 2300, a livello nazionale, a 5928.
Ma tale settore fu di beneficio solo ad una ristretta parte del mondo professionale. Ciò andava creando tra i notai, soprattutto nelle zone rurali e meridionali, una diffusa insofferenza anche ragguagliando la propria posizione sociale rispetto a quella di altre categorie professionali, che, al contrario, beneficiarono ampiamente del progredito clima economico.
Tale situazione che affondava le sue radici già al tempo della legge del 1875 e della modifica del 1879, si rispecchiò ampiamente nei temi congressuali del Congresso nazionale di Milano del 1882, quindi in quello di Torino del 1894 e di Napoli del 1904.
È inoltre di questi anni, del 1902, l’iniziativa del Ministro delle Finanze Chimirri per la riduzione degli onorari notarili sui contratti di valore inferiore a cinquecento Lire, che come è immaginabile frustrava ancor di più le aspettative del Notariato d’allora e ne aumentava il desiderio di riscatto(34).
Il Congresso di Napoli, soprattutto, coagulò la protesta notarile che da individuale iniziò a divenire generalizzata, tendendo ad assumere forme organizzate.
È sempre di quegli anni l’avvio alle stampe del periodico La Riforma del Notariato fondato dal notaio Michele Fava, tenace propugnatore della necessità di una radicale riforma legislativa(35). Ma soprattutto al congresso di Napoli del 1904 si ebbe un’importante iniziativa, la costituzione della Federazione Notarile Italiana cui va riconosciuto il merito dell’ottenimento presso il Ministero di Grazia e Giustizia, di una commissione per la riforma del Notariato di cui fu nominato membro lo stesso presidente della Federazione Michele Fava.
Altre iniziative seguirono per una riforma organica ad opera dei Consigli notarili, particolarmente di quelli di Roma, Milano e Firenze.
Tali iniziative erano proprie dei notai di questi grandi centri, al contrario di quelli che componevano la Federazione provenienti soprattutto da centri minori.
Da non sottovalutare, poi, l’azione dei singoli a livello parlamentare; è il caso del deputato Giuseppe Micheli (cattolico), del senatore Giuseppe Lagasi (radicale) di Cino Michelozzi, vicino a Zanardelli, o di Nicola Mannella, proveniente dalla sinistra. Ma è soprattutto grazie all’intervento di Giuseppe Micheli, che nel 1909 entra nella giunta del Comitato Notarile Permanente, altro organismo notarile importantissimo per la promozione della riforma. Lo stesso, come direttore della rivista di categoria Il Notaro, attraverso una capillare rete di sensibilizzazione rivolta sia al Notariato italiano sia al parlamento, aiutò e, soprattutto, focalizzò, l’interesse del mondo politico dei primi del novecento alla questione notarile(36).
I temi che il Notariato voleva prioritari erano la laurea, l’esclusività delle competenze e la riduzione delle sedi. Questa volta si trattava di proporre una riforma organica, non come nel 1902, quando, con il progetto Cimorelli, si ebbe la modifica di due soli articoli relativi all’obbligo di residenza e dell’anzianità d’esame per la nomina.
Infatti, successivamente a tale progetto di riforma nel 1906, prende corpo un progetto organico di Riforma Notarile presentato dal ministro di Grazia e Giustizia Gallo. Il progetto non sarà mai discusso in sede parlamentare, ma se istituzionalmente fu poco fortunato, costituì allo stesso tempo un importante corpus cui furono poi ispirati i successivi sviluppi parlamentari della legge(37).
Ma neanche questo progetto incontrò la condivisione del Notariato. Come sempre, si evidenziarono due anime concorrenti nella categoria, l’una volta ad affermare l’aspetto di libero professionista, sia pur con la sua inscindibile connotazione pubblicistica, e l’altra che vedeva, al contrario, come prevalente la funzione pubblicistica con la prevalenza di ogni aspetto normativo che fosse volto a tutela della funzione. Come era anche per l’aspetto della territorialità, con le solite contrapposte fazioni: alcuni vedevano nella limitazione di competenza territoriale una tutela della funzione, altri, al contrario, ravvisavano in tale limitazione un contrasto evidente all’aspetto di libera professione.
A questo progetto di legge seguì, nel 1908, l’altro dell’avvocato e ministro V. Emanuele Orlando che riconduceva il tutto all’inizio, annullando il requisito della laurea e riducendo anche le competenze attribuite.
Finalmente, nel 1910, il nuovo ministro Fani, redige il progetto definitivo, quello che ha in sé tutte le caratteristiche della legge attuale: il profilo di libera professione, ma con l’attribuzione di funzioni pubbliche e soprattutto la necessità del requisito della laurea, l’aumento delle attribuzioni e delle tariffe, ed infine la riduzione delle sedi notarili(38).
Il testo del progetto fu approvato dal Senato nel 1912, poi, con il nuovo ministro Finocchiaro Aprile, l’8 febbraio 1913, fatto legge(39).
La legge, tuttavia, pur indubbiamente innovativa, con l’introduzione del requisito della laurea, che rimase congelato, però, per i dieci anni successivi, e risolutrice del vetusto problema dell’innalzamento culturale della categoria, non risolveva compiutamente il problema delle competenze, della residenza e del reclutamento professionale, né soprattutto riuscì a risolvere quello della distinzione tra Notariato urbano e Notariato rurale, che aveva significativamente condizionato la visione stessa del Notariato in tutto quel vasto arco temporale.
È di quegli anni tutta la discussione che si apre intorno alla necessità d’uno associazionismo obbligatorio di categoria, embrione della futura Cassa, ed anche soprattutto del tentativo, sempre validamente osteggiato da una parte consistente e motivata del Notariato, di soluzione del problema economico connesso all’esercizio professionale in sedi disagiate o mal distribuite sul territorio(40).
Quanto alle competenze, vale la pena ricordare il complesso iter per l’attribuzione della facoltà di presentazione dei ricorsi di volontaria giurisdizione, sempre avversato dall’avvocatura. Il notaio di allora, logico riferimento per la predisposizione dei ricorsi di volontaria giurisdizione, doveva poi chiedere la paternità degli stessi all’avvocatura, riducendo così sensibilmente il proprio prestigio, vedendosi così costretto ad una suddivisione dei propri onorari con altre figure professionali.
Il problema fu risolto in via positiva con l’attribuzione al Notariato di tale facoltà ma lo scontento dell’avvocatura che seguì fu manifesto, e molti consigli forensi rassegnarono le dimissioni. Tuttavia, questa norma, seppur non determinante nella complessità professionale, significò un’importante conferma della riconosciuta dignità professionale del Notariato in ambito parlamentare, rispetto ad altre professioni tradizionalmente considerate degne di maggior considerazione in tale ambito.
È, comunque, in questo nuovo contesto, in cui nuovi settori professionali si andavano aggregando in prospettiva d’una evoluzione dinamica della già intervenuta riforma, che la categoria inizia a sentire nel proprio ambito, ciò che la novella in fondo non le aveva dato, la necessità di un’organizzazione istituzionale rappresentativa su base nazionale.
È, infatti, di quegli anni la nascita, ad opera di un gruppo di notai tra cui, per citarne alcuni, Albertazzi di Roma o Micheli di Parma, della Federazione notarile italiana, la cui ufficializzazione è del 1918(41). La neonata Federazione aveva quale precedente l’associazionismo notarile del secolo precedente, portato avanti da Michele Fava di cui si è già detto, ma da questo si distingueva profondamente per essere movimento, non di rivendicazione economica, ma soprattutto di promozione normativa.
Già al convegno nazionale di Milano su circa cinquemila notai italiani, gli aderenti alla Federazione erano almeno un terzo degli stessi(42). Nonostante siano quelli gli anni del fascismo, con una forte connotazione anche politica del mondo professionale, la Federazione notarile italiana fu fondamentalmente apolitica, già quindi fin d’allora il Notariato si attribuisce il ruolo di componente giuridica e non politica dello Stato.
Sempre di quegli anni, immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, con l’Italia messa alle corde dell’immenso sforzo bellico, si inizia a sentire molto forte nella categoria la necessità di una organizzazione mutualistica professionale, d’altronde sentita, non solo dal Notariato, ma anche da altre categorie socioeconomiche, in quegli anni di forte diffusione del fenomeno cooperativo. È di questo periodo, infatti, la fondazione della Cassa Nazionale (1919). Sorta su iniziativa della commissione ministeriale per la riforma, presieduta dal notaio Serina, andava a sostituire il preesistente Fondo Comune istituito nel 1917, per far fronte alla caduta degli onorari di repertorio verificatesi negli anni della guerra(43), la Cassa sarebbe stata alimentata da un contributo percepito sugli onorari pari al trenta
per cento degli stessi. L’idea mutualistica era già presente nella categoria da molto tempo: è, infatti, del 1880 il progetto presentato a Palermo, in cui si tentò l’istituzione di una associazione a scopo previdenziale su scala nazionale(44).
Ancora, è del 1897 una simile proposta di legge alla Camera. L’istituzione della Cassa fu validamente appoggiata dal deputato e notaio Micheli(45)e corrispondeva oltre che ad una necessità previdenziale, anche a moderare il problema economico sempre presente nella categoria, divisa in rapporto allo stesso, tra un Notariato urbano, dei grandi e medi centri potenzialmente appagato, e la differente figura di un Notariato rurale, molto presente soprattutto nel Mezzogiorno, alla continua ricerca di una soluzione a tale problema. Infatti, tra gli scopi della neo istituita Cassa, vi era quello dell’integrazione al reddito dei notai fino a quattromila lire annue qualora il reddito del singolo non raggiungesse tale cifra. Tale obbligo per la Cassa andava così a soddisfare quella parte di categoria che aveva sempre richiesto una statalizzazione del Notariato, con stipendi per i notai a carico dello Stato, ma che non aveva avuto mai risposta affermativa né dalla categoria, né dal parlamento, soprattutto in considerazione, in sede ministeriale, dell’aggravio economico per le casse dello Stato, oltre alla mancata tutela della scelta del professionista da parte dell’utente.
Nel dopoguerra, tuttavia, come per tutte le altre categorie economiche, anche per il Notariato la situazione era decisamente avversa, dato che le problematiche sociali connesse allo sforzo economico che il nuovo Stato aveva dovuto sopportare per compiere e salvare il proprio Risorgimento, condizionarono il quotidiano di ogni attività(46). È di questo periodo l’aumento tariffario del 1921 e soprattutto, è del 1926 l’istituzione della procedura selettiva del Concorso per il reclutamento professionale, istituito con la legge 1365 del medesimo anno.
Esso corrispondeva oltre che ad un concreto desiderio della categoria di un reclutamento che, assieme al requisito della laurea previsto nel 1913, potesse far sì di determinare l’innalzamento culturale della professione basandolo sul merito, aspirazione consona ai principi della coeva riforma dell’istruzione promossa dal ministro e filosofo Giovanni Gentile nel 1923.
Il primo concorso, svoltosi nel 1927, portò all’assegnazione delle sedi nel 1929. Queste, sostanzialmente le maggiori iniziative per la categoria avvenute durante il periodo fascista, nel corso del quale la categoria, attraverso la Federazione ed il sindacalismo notarile, si mantenne, tuttavia, fondamentalmente apolitica.
Di questi anni è il riconoscimento del Sindacato Notarile, istituzione importantissima in quanto consentiva la partecipazione alla fase propositiva delle leggi riguardanti il Notariato, come per le altre professioni nell’ambito della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali.
Tale riconoscimento non fu, tuttavia, un risultato facile, in quanto osteggiato dal Consiglio di Stato sulla base dell’aspetto pubblicistico della professione cui non si addiceva certo un’ attività sindacale(47). Tuttavia, nella categoria vi era preoccupazione che questo sindacato, di cui non era possibile mettere in dubbio l’utilità, potesse sovrapporsi alla FNI (Federazione Notarile Italiana).
Ma tale preoccupazione fu, tuttavia, superata, considerandone l’indubbia necessità per la categoria e sottolineandone, comunque, la sua apoliticità.
Nonostante ciò, l’effettiva costituzione del Sindacato Notarile non fu così facile, in quanto, come già detto, per l’aspetto pubblico della funzione connessa al Notariato, un parere del Consiglio di Stato del
1927 prevedeva l’inammissibilità del Sindacato Notarile.
La categoria si impegnò tuttavia in una costante campagna di sensibilizzazione e di pressione sul Governo, volta al fine di poter includere il Sindacato nel novero delle Corporazioni e di richiederne il riconoscimento giuridico(48).
Tale volontà era sottesa, innanzi tutto, a rimarcare l’aspetto di libera professione della categoria, che invece il mancato riconoscimento di una propria componente sindacale, avrebbe senz’altro escluso, privilegiandone, senza alcuna possibilità di coesistenza, l’aspetto pubblicistico.
Il Sindacato Notarile ebbe un grado di adesione maggiore di tutti gli altri sindacati aderenti alla
corporazione nazionale(49).
Nel decennio cominciato nel 1930, tuttavia, nonostante l’introduzione di tutte le predette modifiche normative, complice senz’altro la crisi del 1929, il problema economico per il Notariato era ancora d’attualità, indubbiamente, come detto, per la crisi che coinvolgeva l’intero mondo industrializzato, ma anche, non in minor misura, per la continua erosione di competenze alla categoria da parte di altri soggetti, quali avvocati (autentica di firma sui mandati alle liti per le cause), segretari comunali, funzionari di enti pubblici previsti in varie legislazioni speciali e, inoltre, per la riduzione degli onorari, o la previsione di gratuità degli stessi, fattori tutti che, nonostante le intervenute positive modifiche normative, lasciarono sostanzialmente immutata la questione economica notarile(50).
La risposta governativa, si ritrovò, come sempre, nell’istituzione di una commissione ministeriale, composta anche da notai che per por rimedio alla situazione di disagio della categoria, attribuì, tra l’altro, al Notariato, la potestà di vidimazione dei libri commerciali, per cui si specificò nella relazione alla norma, che appariva «logico attribuire tali e nuove funzioni in quanto il complesso sistema di controlli connesso alla severità delle sanzioni, garantisce l’utenza del corretto e funzionale assolvimento dei compiti rispetto ad altre categorie di operatori giuridici, non soggetti a tale normativa sanzionatoria e di controllo».
Complessivamente, il Ventennio, a parte il riconoscimento di indiscutibili valori culturali e giuridici, non risolse, comunque, la problematica economica della categoria e la conseguente divisione della stessa, tra coloro che potevano conseguire redditi consoni al valore sociale e giuridico della funzione maggiormente concentrati nei grandi centri e coloro, cui tale aspettativa era preclusa soprattutto a cagione della realtà economica del territorio di competenza. Situazione, questa, che avrebbe continuato a dividere la categoria tra i sostenitori della rilevanza dell’aspetto di libero professionista rispetto ad altri convinti assertori della rilevanza dell’aspetto di pubblico ufficiale.
Il secondo dopoguerra
L’impatto della vicenda bellica fu essenziale a modificare la fisionomia della professione notarile come per tutte le altre categorie sociali. Il numero degli atti che dal 1939 avevano ricominciato a salire successivamente al lungo intervallo degli anni venti e trenta, dopo la pausa bellica, riprende il suo ciclo ascendente ed i mutamenti economici e sociali del paese nel dopoguerra, innestandosi sulle riforme normative degli anni pre-bellici, portarono ad una generale trasformazione professionale. La fine del sindacalismo fascista fece sentire fin dal 1945, di seguito allo scioglimento del Sindacato Nazionale Notarile ed alla riattribuzione dei suoi compiti ai singoli Consigli Notarili, l’esigenza di un organo unitario di rappresentanza a livello nazionale della categoria.
Fu, infatti, nel 1945 che il Consiglio Notarile di Torino fece voti unanimi per l’istituzione di un ente a livello nazionale di rappresentanza e consultivo della categoria(51). E questo non fu che la prima di una serie di iniziative, sia di singoli, come il notaio Carusi(52), sia dei più, come il convegno organizzato a
Roma, tra i rappresentanti di oltre cinquanta Consigli Notarili italiani, volte a colmare quella necessità
di un’organizzazione verticistica a livello nazionale, che venuta meno con la fine del Sindacato nazionale d’epoca fascista era stata sentita dalla categoria sin dagli anni cinquanta dell’ottocento, come già detto nel corso di questo intervento.
È del 1949 la nascita del Consiglio Nazionale del Notariato; nel 1947, infatti, per iniziativa del neo costituito Comitato Nazionale Notarile, composto da notai di provenienza della Cassa Nazionale e da pochi altri, fu elaborato un progetto normativo che vide poi la sua presentazione alla Camera il 10 dicembre 1948, per essere poi definitivamente approvato nel luglio dell’anno successivo e promulgato con la L. 577/1949.
La vita del Notariato di quegli anni seguì, come sempre avviene, le tracce che la storia aveva scritto negli anni precedenti. Il dualismo notarile tra aspetto pubblicistico e quello di libera professione rimane nei dibattiti e nella coscienza della categoria. Nonostante quanto stabilito da un’ormai definitiva previsione normativa è costante nella categoria l’interpretazione del lavoro in quest’ottica. È il caso della diffusione in quegli anni di un’attività notarile che potremmo definire massiva, come i protesti cambiari e le vendite di autoveicoli e l’interpretazione di chi ricollegava tali attività comunque connesse alla funzione nel solco della preminenza pubblicistica, ed altri che li ritenevano come residuali e, se fatti oggetto di attività prevalente da parte del singolo, come riduttivi rispetto alla qualificazione culturale e giuridica del notaio stesso. Ormai, in questi anni, grazie soprattutto alle riforme degli anni precedenti e, riferendosi particolarmente all’introduzione del requisito della laurea (1913) e del concorso (1926), il Notariato esce definitivamente da quella condizione subalterna rispetto alle altre professioni giuridiche e tale definitiva affrancazione apre comunque nuovi scenari che la mutata percezione della professione nella società comporta.
Giova ripetere le parole del notaio Gaetano Amato che nel 1960 scriveva: «l’esaltare la libertà del professionista deprime totalmente la pubblica funzione (omissis), ciò comporterà la progressiva sottrazione al Notariato di funzioni e prerogative che per tradizione plurisecolare sono state esclusivamente sue»(53).
Contrarie a queste, furono le parole di altre frange della professione che, in quegli anni, vedevano, invece, come il pensionamento o il contributo per l’apertura del nuovo studio, finiscano per costituire qualcosa di antitetico alla professione e molto più simile al funzionariato. Quindi un nuovo e mutato contesto sociale e professionale che soprattutto il nuovo corso socioeconomico di quegli anni ha comportato, ma in cui il fattore costitutivo della professione rimane sempre costante e sorretto dalla forza propria della stessa, che nel corso del periodo storico interessato da questo intervento, ma anche in tutto l’arco plurisecolare precedente, ne costituisce l’essenza: “la pubblica fede”.
Conclusioni
Il resto è nel dinamismo delle attuali vicende che tutti abbiamo appena vissuto e stiamo vivendo.
La figura notarile nel corso dei duecento anni che abbiamo insieme rapidissimamente ripercorso, è mutevole ma sempre sorretta dalla “pubblica fede”. Una progressione lenta ma costante di cui si trae bene visione dagli scritti di autori dei vari decenni che abbiamo ripercorso.
Ancora nel 1950 Carnelutti scrive del Notariato queste parole: «Vorrei dirvi, innanzitutto, che la figura del notaio è o dovrebbe essere in linea pratica, una figura di primo piano. Egli è uno dei principali operai o, se volete, tecnici del diritto … Tuttavia, nel campo scientifico, vale a dire per quanto riguarda l’asseverazione scientifica, che di questa figura sia stata fatta in Italia, è trascurato.
Finora avevo detto il Notaro è un documentatore.
È vero ma non è tutto. Anzi potrà esser nullo domani …
Dal Notaro non si va soltanto per costruire un documento, il quale sia dotato di una certa efficacia probatoria, o, come diciamo noi, della pubblica fede… «Infatti - prosegue il Carnelutti - ora tra difensore e Notaro, o tra Avvocato e Notaro o tra Giudice e Notaro, la differenza è quella che separa la terapia dall’igiene … quanto più consiglio dal Notaro, quanta più consapevolezza del Notaro, quanta più cultura del Notaro tanto meno possibilità di lite»(54).
È il 1950 l’anno seguente all’istituzione del Consiglio Nazionale del Notariato, eppure sembra da quelle ammirate parole del più insigne giurista dell’epoca che il Notariato, sia stato scoperto allora, quasi un qualcosa di misterioso di cui solo ora, dopo centocinquanta anni di vicende storiche complesse, se ne percepiscono gli utili frutti.
Ancora altre parole di un altro insigne giurista, Salvatore Satta: «La sera il padre leggeva ad alta voce sotto la grande lampada a petrolio l’originale e la famiglia seguiva la lettura sulle copie; si
‘collazionavano’ gli atti, verbo difficile, ma a noi già consueto.
Quelle formule antiche, davano alla domestica scena il sapore di un rito; capivamo allora che in esse si conservava il mistero della parola e che il padre era di queste parole il Ministro. Non credo davvero ma certo lo spettacolo della parola che nasceva dall’incerto, renitente, spesso litigioso volere, era per noi quotidiano, se pur non era una parola morente che il padre raccoglieva e rendeva quasi immortale»(55).
La scena cui si rifà Satta è quella tipica di un Notariato degli anni settanta dell’ottocento che evoca attorno a sé qualcosa di misterioso, ma con un proprio intrinseco grande valore giuridico, la formazione del documento, con valenza di pubblica fede.
Una funzione estremamente attuale, ma di cui nella società d’allora non si riusciva a percepire l’importanza, dandola comunque per scontata nella sua insostituibile necessità per i traffici giuridici, fin da epoca immemorabile.
Ma è già nel 1864 che il notaio lucchese Cesare Gherardi sente la necessità di dare alla stampa il suo: Del Notaro considerato nei suoi rapporti colla Società, queste le sue parole critiche verso coloro che: «A dire di costoro questa professione se tale allora potesse chiamarsi, si ridurrebbe al solo materialismo della scrittura. La quale corredata di quelle formule che un lungo e meccanico tirocinio ha fatto loro imparare nel copiare e ricopiare gli atti de’ loro antecessori, costituirebbe l’essenza della funzione notarile. Se così fosse, forse non dipenderebbe la capacità per questa professione che dall’abitudine e dall’esercizio, ogni facoltà e meditazione intellettuale dovrebbe essere estranea alla medesima e così diverrebbe ciò che neppure la barbarie d’alcuni tempi ha voluto, cioè un mestiere»(56).
Ancora nel 1868 a pochi anni dalla legge del ’75, il Senatore Poggi, che nel corso di questo intervento abbiamo già incontrato, riferiva che: «In diverse province del Regno … i notai erano, e lo sono in parte anche oggi, ridotti alle condizioni di semplici scrittori e copiatori di atti minutati».
Ancora è del 1904 la visione del Notariato del milanese Angelo Moretti, notaio relatore per l’esame del disegno di legge Orlando, disegno certo non favorevole alla categoria, il quale ricorda come proprie del notaio, semplici operazioni giuridiche, quali la conformità di una copia autentica, ma anche come propria del notaio l’adeguamento alle norme sia nei testamenti che nei contratti della volontà delle parti, che definisce: «Compito da affaticare la mente dei più illuminati giuristi»(57).
Negli anni Trenta del Novecento, è uno scritto di Giovanni Battista Curti Pasini, notaio lodigiano, a trasmetterci, invece, l’indiscusso valore del Notariato d’allora(58).
È di quel notaio lodigiano la fedele ricostruzione di tutto l’arco temporale del Notariato, da Leone il Savio che, nel IX secolo, crea la figura del notaio pubblico ufficiale professionista, alla precisa e puntuale ricostruzione giuridica del rogito notarile degli anni trenta del novecento, insostituibile strumento del sistema economico giuridico di allora, come di oggi.
Come abbiamo sopra esposto, con la legge del 1913, il requisito della laurea e il concorso conseguono l’innalzamento culturale della categoria che nel dopoguerra, unito alla trasformazione economica del paese, comportarono una radicale mutazione della professione. Voglio ricordare le parole di Sabatino Santangelo nel 1987 in una sua intervista all’Espresso: «Certo è cambiato il modo d’essere notai. È stata la trasformazione del Paese ad imporre la nuova figura del notaio … da notaio di famiglia si è trasformato in notaio d’impresa». E va ricordato come in questa trasformazione abbiano concorso in maniera determinante le scuole di Notariato gestite autonomamente dalla professione, creando una formazione culturale tipica ed avanzatissima. Ma se vi è una mutevolezza delle condizioni sociali e culturali del Notariato, non altrettanto può dirsi per ciò che del Notariato è l’essenza: la “pubblica fede”. Individuata da autorevole dottrina (M.S. Giannini) come creatrice di certezze giuridiche documentate, in quanto attività propria dell’amministrazione pubblica del diritto privato volta alla tutela di situazioni giuridiche proprie dello stesso con finalità di interesse generale(59). Attività risultante dalla presenza di due fattori il publicum officium e la publica fides, consistente nell’attività propria del soggetto che, investito di auctoritas publica, attraverso le fasi procedimentali della redazione del documento pubblico, consegue la certezza legale tipica della “pubblica fede”. La “pubblica fede” rimane costante nel periodo considerato ed in tutto l’arco storico del Notariato, nonostante la mutevolezza delle vicende proprie del soggetto titolare del publicum officium: il notaio. Vorrei usare un concetto che ben esprime quanto qui intendo riferire, concetto caro al notaio Marmocchi, cui chiedo questo prestito d’uso: «La stabilità applicativa dei principi cardini della fides e dell’officium, con i quali il notaio descrive con certezza probatoria e prescrive con forza esecutiva, sono tutte componenti verificate dell’agire del notaio, componenti che comprovano la continuità dell’Istituzione Notarile. Un continuo storico che si è svolto senza interruzioni dalla legge del Ventoso ad oggi»(60).
Continuità che ritroviamo nella “pubblica fede” del notaio del Ventoso, quel notaio figlio della tradizione storica dell’Ancien Regime discendente diretto della riforma organica del Notariato voluto da Francesco I nel 1539, o nel notaio del Lombardo Veneto della Restaurazione che, ancorché privo dell’esecutività dei suoi atti, fu sempre richiesto dai cittadini di quello Stato, nel notaio dell’Unità alla ricerca costante di una propria identità normativa e del riconoscimento del suo ruolo culturale, ed anche in quello della legge del’13 colto ma ancora privo del ruolo sociale che doveva essergli consono. Ancora nel notaio di un paese che diviene potenza economica nel secondo dopoguerra, ed infine nel notaio di oggi, con le sue incertezze e la sua grande cultura. Tutte figure parte di un unicum inscindibile con il sistema economico e giuridico di cui hanno fatto e sono parte indissolubile, in forza di quella fondamentale essenza che è la “pubblica fede”.
(1) Cfr. G.B. CURTI PASINI, La funzione essenziale del notaio, Lodi, 1932. Massè era notaio a Parigi sul finire del secolo XVIII.
(2) G.B. CURTI PASINI, op. cit.
(3) Atti del “Congresso Internazionale del Notariato Latino”, Buenos Aires, 1948.
(4) M. DA PASSANO, La questione costituzionale nella Repubblica Ligure , (1800-1802).
(5) M. MILAN, «Cultura, società e politica a Genova nell’età Giacobina e Napoleonica», in Annali della facoltà di Scienze Politiche, Università di Genova , 1978-1979, p. 581-625.
(6) N.M. CONZO, Commentario sul Regolamento Notarile del Regno delle Due Sicilie corredato di note dichiarative sulla moderna Giurisprudenza, vol. 2, Napoli, 1812-1814.
(7) Archivio della Società romana di Storia Patria, Presidenza degli Archivi , Busta I fasc. I.
(8) Cfr. N. CORTESE «Per la storia del Regno delle Due Sicilie dal 1815 al 1820», in Archivio Storico per le Provincie Napoletane .
(9) D. LISSONI, P rogetto di legge per l’esercizio del Notariato con annotazioni, cenni storici e raffronti , Milano, 1868.
(10) Ibidem .
(11) Notificazione del 19/10/1817 dell’Imperial Regio Governo di Milano da: Raccolta degli atti dei Governi di Milano e di Venezia e delle disposizioni Generali emanate dalle diverse autorità in oggetti sia amministrativi che giuridici, Milano, p. 1815 e ss.
(12) Archivio di Stato di Milano, Fondo Studi, Parte Moderna, p. 319.
(13) V. CONTI, Commentario teorico-pratico della nuova legge sul Notariato , Napoli, 1880.
(14) Relazione Poggi al Progetto presentato al Senato dalla Commissione il 30 maggio 1868.
(15) F. PANCIATICHI, Riforma radicale del Notariato per tutto il Regno , Torino, 1862.
(16) Relazione della Commissione presentata alla Camera il 22 aprile 1875 (relatore Villa Pernice).
(17) Statuto dell’Accademia Notarile Italiana, Torino, 1860, presso Biblioteca del Consiglio Nazionale del Notariato.
(18) Il Giornale dei notai di Roma fu fondato nel 1876 da Carlo Astengo e Vincenzo Conti, chiuse le pubblicazioni nel 1941. Si ricorda il suo intervento in favore della necessità della laurea con articoli di G. CATTANEO, Necessità della laurea in Giurisprudenza per la nomina a notaio, 1881, p. 513-18.
(19) Atti del Congresso Notarile Italiano, in Gazzetta dei notai, II, 1872. Il Congresso di Roma si aprì il 23 febbraio 1877, concludendosi il 2 marzo 1877. Membri di maggior rilievo furono Michelozzi di Firenze, Moscatello di Palermo, per il Consiglio Notarile di Ferrara l’Avv. Vincenzo Conti (vedi supra). Cfr. Giornale dei notai, anno II, 1877, p. 297-329.
(20) Cfr. G. ANCARANI, La prima legge unitaria, Roma, 1983, p. 360 e ss.
(21) Cfr. Relazione De Falco al progetto presentato in Senato il 23 marzo 1866, n. 28.
(22) Cfr. G. ANCARANI, op. cit., p. 365 e ss. Ed anche Giornale dei notai e Avvocati, Biblioteca Nazionale di Firenze, anno III, n. 6, 10 febbraio 1866.
(23) Cfr. D. LISSONI, Progetto di legge per l’esercizio del Notariato con annotazioni, Cenni storici e raffronti , Milano, 1868.
(24) Cfr. Del Progetto di legge sul Notariato, pubblicato dal Governo Italiano. Memoria analitica diretta al Parlamento Italiano da M. Mazzoni, notaio esercente in Genzano, Comarca di Roma. Genova 1865, cfr. LISSONI, Progetto di legge ..., cit .
(25) Vedi Relazione Poggi al progetto presentato al Senato dalla Commissione il 30 maggio 1868 n. 28.
(26) Vedi Relazione Vigliani alla Camera 30 novembre 1874.
(27) Vedi Relazione della Commissione presentata alla Camera il 22 aprile 1875.
(28) R. FIASCHI, «Il Congresso notarile di Roma», in Monitore del Notariato, anno II, 1877, p. 69 e ss.
(29) Art. 5, comma 3, L. 2786/1875.
(30) Vedi su N. ALIANELLI, Il diritto Notarile Italiano, commento della legge sul riordinamento del Notariato nel Regno d’Italia, con la collaborazione del notaio Cav. Gennaro Sciarretta e dell’Avv. Giuseppe Tron, Napoli, 1875.
(31) Contrario anche all’obbligo di residenza, vedi G. CANTALAMESSA in «Osservazioni sui motivi che nel progetto di riordinamento del Notariato Italiano indussero a confermare l’obbligo di residenza per i notai» in Gazzetta dei notai, 1872, p. 500 e ss.
(32) A. GALVAGNI, «Il Notariato in Italia», in Bollettino Notarile, Anno VIII, 1890, p. 6.
(33) Cfr. M. SANTORO, Notai. Storia sociale di una professione in Italia , Bologna, 1989, p. 184.
(34) Giornale dei notai , 1901.
(35) M. SANTORO, op. cit., p. 234, nota 2.
(36) Per Micheli vedi A. PARISELLA, Giuseppe Micheli, la montagna e la questione agraria, Roma, 2002.
(37) Cfr. M. SANTORO, op. cit., p. 211 e ss.
(38) AP. Senato Legisl. X,XIII Sen. 1909-10, Doc. 397.
(39) Per commenti alla Novella vedi Degni (1913) Bruni (1915) Solimena (1918).
(40) Vedi «L’Associazione notarile Italiana», in Il Giornale dei notai, 1904-1905.
(41) Vedi Il Notaro, 1918, p. 105 e 106.
(42) Cfr. «Atti della Federazione Notarile», in Il Notaro, 1923.
(43) Cfr. «La crisi del Notariato e le associazioni durante la guerra», in Il Notaro, 1915.
(44) Cfr. M. SANTORO, op. cit., p. 256.
(45) M. SANTORO, op. cit., p. 259.
(46) Cfr. Guasti, 1929, Anselmi, 1931 e «La Cassa del Notariato ai notai», in Il Notaro, 1922.
(47) Cfr. Il Notaro, 1927.
(48) Cfr. Il Notaro, 1927.
(49) Cfr. Rolandino, 1927.
(50) Vedi Guasti, 1936, Mistretta, 1938.
(51) Cfr. Il Notaro, 1945, 21, p. 43. 52 Cfr. P. CARUSI, «Consiglio Superiore del Notariato», in Il Notaro, 1946, 2.
(53) Vedi G. AMATO, «I limiti della libertà professionale del notaio», in Riv. not., 1960, p. 77-78.
(54) F. CARNELUTTI, «La figura giuridica del Notaro», in Riv. trim. dir. proc. civ ., 1950, p. 921 e ss.
(55) S. SATTA, Poesia e verità nella vita del notaio, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, 1968, p. 76.
(56) C. GHERARDI, Del Notaro considerato ne’ suoi rapporti colla società, Lucca, 1864.
(57) Relazione sul disegno di legge presentato da S.E. il Ministro Orlando … presentata al Collegio Notarile dei Distretti Riuniti di Milano, Monza, Busto Arsizio; Milano, 1909.
(58) G.B. CURTI PASINI, La funzione essenziale del notaio, Lodi, 1932.
(59) M.S. GIANNINI, voce Certezza pubblica. in Enciclopedia del Diritto.
(60) E. MARMOCCHI, «La funzione del notaio per l’Italia Unita», in Riv. not., LXVI, parte I, p. 755 e ss.
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