Omologazione delle SpA nell’Italia post-unitaria: il ruolo del notaio
Omologazione delle SpA nell’Italia post-unitaria:
il ruolo del notaio
di Antonio Padoa Schioppa
Professore Emerito di Storia del diritto medievale e moderno, Università di Milano

Premessa *

Quando, pochi anni dopo l’unità, il governo italiano accolse la proposta di riscrivere il codice di commercio, avanzata da Pasquale Stanislao Mancini nel 1869, uno dei punti sui quali l’accordo della Commissione ministeriale si manifestò sùbito unanime fu quello dell’abolizione dell’autorizzazione governativa per le società per azioni. Da pochi anni la Francia aveva approvato una nuova disciplina societaria con la legge del 24 luglio 1867(1). In essa, l’art. 21 disponeva che «à l’avenir, les sociétés anonymes pourront se former sans l’autorisation du gouvernement». In questo la Francia seguiva il modello inglese, che da un decennio aveva rimosso quel vincolo, mentre il codice tedesco del 1861 (ADHGB) - approvato dagli Stati germanici prima ancora dell’unità nazionale raggiunta nel 1866 e fatto proprio anche dall’Austria asburgica - manteneva in linea generale il principio dell’autorizzazione (art. 208), pur consentendo ai singoli ordinamenti di derogarvi (art. 249); ma già nel 1870 una novella, abolita l’autorizzazione, richiese per la costituzione un atto pubblico notarile o giudiziario (ADHGB 1870, art. 208). Il progetto elvetico del 1865, elaborato da Munzinger, per parte sua non esigeva l’autorizzazione per le società con durata prevista inferiore ai trent’anni (art. 19).
Quanto alla forma, la nuova disciplina societaria della Francia consentiva la costituzione delle società anonime con atto privato (art. 21: «elles pourront … être formées par un acte sous seing privé»), riformando anche su questo punto la disciplina del Code di commerce del 1807, che esigeva invece l’atto pubblico (art. 40). Invece sia la Germania (1861/1870), sia il Belgio (1873), sia la Svizzera (1881) esigeranno per la costituzione delle SpA l’atto pubblico, e così sarà anche per l’Italia nel codice del 1882.

Il Progetto preliminare (1872)

Il Progetto di codice di commercio della Commissione ministeriale nominata dal Governo italiano - il Progetto preliminare del 1872, pubblicato al termine di un attento lavoro di quasi tre anni(2)- accoglieva l’impostazione del relatore, l’avvocato toscano Tommaso Corsi (1814-1891)(3)- un protagonista, come vedremo, della storia che qui ci interessa - il quale sin dal 1862 aveva sostenuto, per allora senza successo, la tesi dell’abolizione con argomentazioni forse discutibili, ma di indubbia efficacia(4); sicché il codice del 1865 aveva accolto ancora la disciplina tradizionale. Né va dimenticato che dal 1866 era stato istituito un apposito Ufficio di Sindacato presso il ministero di Agricoltura Industria e Commercio, al quale spettava, sotto la direzione del Censore centrale Carlo De Cesare(5), sia l’istruttoria sulle domande di nuove autorizzazioni sia il controllo delle società anonime già esistenti sul territorio nazionale; un ufficio che pochi anni più tardi, prima della sua abolizione, venne esaurientemente illustrato, nei suoi fini e nei suoi risultati, dallo stesso De Cesare(6).
Il Progetto preliminare del 1972, eliminata ormai l’autorizzazione del governo, richiedeva sia per le anonime che per le accomandite per azioni la costituzione per atto pubblico (art. 88), con l’obbligo per il notaio - un obbligo anche penalmente sanzionato in caso di inosservanza e posto inoltre sotto la responsabilità degli amministratori - di depositare e di affiggere per tre mesi l’atto costitutivo con lo statuto nella cancelleria del Tribunale di commercio competente per il luogo o i luoghi in cui la società avrebbe avuto sede (art. 92, cfr. art. 91).
Sulla disciplina del Progetto del 1872 le Camere di commercio, chiamate ad esprimere il loro parere, non sollevarono particolari obiezioni; solo la Camera di commercio di Milano espresse l’avviso che l’atto pubblico notarile non fosse necessario neppure per la società per azioni(7). Invece alcune Corti ritennero che un atto così rilevante quale è la costituzione di una società di capitali non potesse vedere la luce senza un previo esame da parte della magistratura: la Cassazione di Napoli proponeva che per l’Atto costitutivo fosse il Tribunale di commercio a deliberare l’omologazione su domanda dei proponenti, con eventuale impugnazione avanti alla Corte d’appello ed alla Cassazione, previa requisitoria del pubblico ministero, mentre la Corte di Venezia suggeriva una procedura meno impegnativa ma tuttavia ben più stringente rispetto a quella del progetto, che cioè fosse affidato al Tribunale di commercio il compito di verificare la regolarità delle disposizioni dello statuto e dell’atto costitutivo prima dell’iscrizione nei registri dello stesso tribunale(8). Anche il ministro Gaspare Finali(9), in un’ampia Memoria del 25 ottobre 1874, propose che l’atto costitutivo venisse sottoposto all’esame del Tribunale di commercio in camera di consiglio «affinché sia accertato l’adempimento delle condizioni prescritte dalla legge per la costituzione della società»(10).

Il Progetto del Senato sulle società (1875)

Negli stessi mesi della fine del 1874 era frattanto maturata l’iniziativa di anticipare, con una legge specifica, la nuova disciplina delle società commerciali: l’urgenza di provvedere in materia era stata sottolineata sin dagli anni precedenti da autorevoli uomini politici del Regno, tra i quali Marco Minghetti(11)e Stefano Castagnola(12). Un Progetto ministeriale, approntato dai due ministri Vigliani (Giustizia) e Finali (Agricoltura Industria e Commercio)(13), venne sottoposto all’Ufficio centrale del Senato, che lo discusse tra il dicembre di quell’anno e l’aprile successivo. Una pregevole relazione conclusiva della Commissione - composta dai senatori Eula, Lampertico, Corsi, Alessandro Rossi e De Filippo - fu redatta dal senatore di Vicenza Felice Lampertico(14)e presentata in Senato il 25 aprile
1875, alla vigilia del dibattito in aula. Sulla questione delle formalità da esperire per la costituzione delle società per azioni e in accomandita per azioni, i senatori della Commissione proponevano che le mansioni relative all’accertamento dei requisiti di legge - che il Progetto ministeriale assegnava al Tribunale di commercio secondo l’impostazione di Finali sopra ricordata - venissero invece affidate al notaio; e riferivano di avere già ricevuto su questo punto il consenso dei due ministri(15).
I motivi di questa scelta erano dichiarati apertamente nella Relazione. Si voleva evitare che l’attenzione dei possibili sottoscrittori della nuova società fosse meno vigile perché in certo senso garantita a monte per effetto del previo controllo del Tribunale; ma tale controllo, osservava Lampertico, non poteva comunque garantire se non la presenza dei requisiti di legge, non la bontà intrinseca della disciplina statutaria né tantomeno la correttezza della condotta dei promotori, ad esempio in tema di bilancio societario. E poi la delibera del Tribunale avrebbe comportato come conseguenza che «quando il pubblico … fosse esposto a delusioni e rovine, rovescerebbe la colpa sull’autorità pubblica»(16). Questi i motivi della scelta della Commissione, nella quale è probabile che un ruolo di spicco sia stato svolto da Tommaso Corsi.
Quando il Progetto giunse all’esame del Senato, il 27 aprile 1875, si avviò una discussione approfondita che si distese per ben tredici tornate, sino alla conclusione avvenuta il 26 maggio(17). Fu anzitutto deciso di porre a base dell’esame il Progetto del governo, mentre le modifiche apportate dall’Ufficio centrale del Senato sarebbero state presentate come emendamenti. E sin dall’inizio presero la parola due senatori che anche in séguito rappresenteranno i due versanti estremi del dibattito, il Senatore Alessandro Rossi, grande industriale di Schi(18), e il senatore Matteo Pescatore, alto magistrato a Torino(19); il primo campione del liberismo pieno, il secondo assai più incline ad una legislazione efficace e puntuale nel controllo dell’autonomia privata(20).
Sulla questione che ci interessa, Pescatore si pronunciò risolutamente in favore della soluzione accolta nel Progetto ministeriale: non si poteva passare dal regime dell’autorizzazione discrezionale del governo, che egli stesso riteneva da accantonare, ad una totale libertà non controllata di stipulazione. Altro è la discrezionalità piena del sistema autorizzativo, altro il necessario controllo «punto per punto, articolo per articolo, se la legge sia stata osservata»(21). Questo controllo non può, non deve mancare, e il Tribunale di commercio costituisce, per l’oratore, l’organo adatto per effettuarlo. Con la precisazione che gli azionisti dovranno essere informati che il controllo è di legittimità, non di merito, cosicché sbaglierebbero gli azionisti a non verificare per proprio conto, con il proprio discernimento, la serietà e la professionalità dei promotori.
A lui rispondeva il relatore del Progetto senatorio Felice Lampertico, difendendo le ragioni già espresse dall’Ufficio centrale, cioè la convinzione che l’esame dell’autorità giudiziaria avrebbe comunque ingenerato una fiducia pericolosa negli azionisti(22). La discussione generale si chiudeva con un intervento conciliativo del ministro Vigliani.
Sulla questione specifica delle formalità necessarie per la pubblicazione dell’atto costitutivo e dunque per la valida costituzione delle società di capitali il Senato giunse solo alla fine della discussione, nella tornata del 6 maggio 1875, che fu interamente dedicata a questo tema, considerato di importanza cruciale(23). Essa iniziò con la presentazione dell’articolo 21 nella versione predisposta dal governo, che affidava al tribunale di commercio il compito di accertare in camera di consiglio l’adempimento puntuale delle disposizioni di legge nell’atto costitutivo dell’istituenda società per azioni(24). A ciò si contrapponeva la formulazione proposta dall’Ufficio centrale, che riservava invece questo compito al notaio(25). Il ministro Finali aprì il dibattito con una difesa della soluzione del Progetto del governo, «reso edotto … purtroppo da un’esperienza lunga e dolorosa che bisognava stabilire una garanzia efficace per l’osservanza della legge» (MARGHIERI, Motivi, III, p. 495), sottolineando che il ruolo del Tribunale di commercio sarebbe stato comunque ben più circoscritto rispetto a quello del governo che concedeva l’autorizzazione; e che, inoltre, l’affidare questo compito ai notaio non offriva le stesse garanzie professionali, personali e di dissuasione da intenti non corretti dei promotori (ivi, p. 498).
Il senatore Sineo manifestò subito un’opinione ben diversa: non ci sono differenze rispetto alle altre contrattazioni, «bisogna lasciare ai contraenti di provvedere ai loro interessi» (ivi, p. 499), né è vero che il notaio non sia in grado di rispondere degnamente a responsabilità anche molto delicate, quale garante della pubblica fede nelle successioni e nei contratti privati e familiari (ivi, p. 500).
Prendeva la parola a questo punto il senatore Matteo Pescatore. Con un discorso appassionato (ivi, pp. 500-506), egli metteva anzitutto in rilievo la radicale diversità delle società di capitali rispetto alle società do persone per l’enormità delle somme che le prime potevano raccogliere, il che giustificava una ben diversa diciplina quanto alla loro attivazione (ivi, p. 501). Occorreva tenere conto delle «infinite arti dei promotori delle società per azioni» (soggetti definiti “proteiformi” nella varietà delle loro possibili strategie fraudolente), che spesso li vedono entrare nel capitale di una società anonima solo «per traversarla speditamente» avendo realizzato un utile transitorio (ivi, p. 502). E poi «il notaio è un uomo privato, l’autorità giudiziaria è tutta intera la società». La delibera del Tribunale di commercio, se fallace, può essere impugnata e riformata (ivi, p. 503), né è vero che questa procedura comporti ritardi nell’avviamento perché frattanto la sottoscrizione del capitale è già avvenuta (ivi, p. 504) e, se necessario, un regolamento governativo potrebbe esplicitare il carattere di mero accertamento del provvedimento del Tribunale di commercio (ivi, p. 505).
Al discorso del magistrato torinese - che aveva esordito dichiarando che la sua convinzione era così irreversibile, quanto lo sarebbe il concepire un riflusso del Po dalle Venezie sino al Monviso - replicava il relatore dell’Ufficio centrale, Felice Lampertico. Perché non riporre fiducia «nell’efficacia persuasiva della discussione?», si chiedeva il senatore. Egli stesso dichiarava di aver mutato d’avviso, convincendosi che l’affidamento al notaio fosse preferibile, dal momento che si trattava di «incombenze di mera verificazione», che tali dovevano rimanere (ivi, p. 506 e ss.). Il tribunale sarebbe invece fatalmente entrato nel merito; se poi l’atto approvato fosse stato impugnato, avrebbe dovuto «giudicare del fatto proprio», su una materia già affrontata in sede di verifica preliminare, il che sarebbe certamente incongruo (ivi, p. 508). Quanto all’idea di precisare la materia con regolamento governativo, la sua reazione fu drastica: «misericordia! Tralasciamo piuttosto di fare la legge!» (ivi, p. 509).
Altrettanto convinto della soluzione “notarile” si mostrò il sen. Alessandro Rossi, già menzionato. L’atteggiamento quasi sacerdotale di Pescatore - «se fosse stato vestito di bianco, l’avrei preso senz’altro per un domenicano» commentava pungentemente Rossi - lo lasciava alquanto perplesso: al senatore torinese che aveva dichiarato di sentire in sé, quando operava come magistrato, «il Dio della giustizia» (ivi, p. 503), il senatore di Schio opponeva di sentire anch’egli agitarsi in sé un altro Dio, «il Dio del progresso economico onesto», che ispirava le centinaia di società di capitali operanti nel Paese (ivi, p. 510).
Anche il senatore Sineo riprese la parola per confermare il suo sostegno alla soluzione patrocinata dall’Ufficio centrale (ivi, p. 512). E così pure fece il senatore Miraglia, che da una parte sottolineava come gli adempimenti da affidare al notaio fossero chiari, semplici, non suscettibili di incertezze interpretative, dall’altra dichiarava che proprio la recente riforma del Notariato aveva inteso «dare maggior lustro ad un corpo benemerito, aggiungendo altre garanzie di capacità e di moralità» (ivi, p. 513).
A questo punto la discussione sembrò matura, tanto che si chiese da più parti di andare al il voto. La proposta dell’Ufficio centrale venne approvata nell’identica formulazione originaria dell’art. 21, respingendo l’aggiunta proposta in extremis dal sen. Miraglia, che prevedeva che il notaio negligente quanto alla verifica a lui affidata potesse venire sospeso o addirittura destituito (ivi, p. 514).
Quanto alle pubblicazioni, anche qui la proposta dell’Ufficio centrale venne approvata (ivi, p. 517). La formulazione approvata dal Senato era pertanto la seguente:
«Art. 21. Nell’atto costitutivo della società in accomandita per azioni e della società anonima deve il notaio assicurarsi che siano adempiute tutte le disposizioni della legge, e particolarmente fatto il deposit di cui all’art. 65 [relativo ai tre decimi del capitale interamente sottoscritto]. Altrimenti è responsabile, solidalmente cogli amministratori.
Art. 22: L’atto costitutivo della società in accomandita per azioni e della società anonima deve essere, per cura del notaio che ha ricevuto il contratto e degli amministratori, depositato e fatto trascrivere e affiggere per intero entro quindici giorni dalla sua data nella cancelleria del Tribunale di commercio nella cui giurisdizione è stabilita la sede della società».
Terminato due giorni più tardi l’esame dei singoli articoli, nella tornata del 26 maggio 1875 il Progetto di legge sulle società commerciali veniva approvato dal Senato con 76 voti a favore e 10 voti contrari (ivi, p. 613).

Il Progetto Mancini (1877)

Il testo del Senato venne prontamente tramesso alla Camera per l’approvazione del primo ramo del Parlamento. Ma poco più tardi intervenne un mutamento fondamentale nella realtà politica italiana, con la caduta della Destra e con l’avvento della Sinistra al potere nel 1876. Nel nuovo governo presieduto da Agostino Depretis, Pasquale Stanislao Mancini fu chiamato a reggere il ministero della Giustizia. E nell’ottobre di quell’anno nominò una nuova Commissione - in massima parte con i medesimi componenti di quella del 1869 - per la revisione del Progetto di codice di commercio del 1872, allo scopo di prendere in debito esame le già ricordate Osservazioni della Magistratura e delle Camere di commercio sul Progetto medesimo. Tuttavia quasi sùbito lo stesso Mancini, volendo accelerare l’iter di approvazione del nuovo codice - l’esperienza del primo quindicennio post-unitario lo aveva forse convinto della precaria durata dei governi e delle legislature - decise di prendere direttamente su di sé il compito di predisporre la versione riveduta del Progetto. Vide così la luce, in pochi mesi, un nuovo Progetto ministeriale(26), che Mancini non solo curò personalmente, ma accompagnò con un Relazione da lui stesso firmata, anch’essa prontamente data alle stampe, che illustrava analiticamente le scelte del nuovo Progetto(27). Per le società, la relazione presentava con lucidità le scelte del nuovo Progetto con puntuale riferimento non a solo al Progetto preliminare del 1872, ma alle legislazioni coeve, dall’Inghilterra alla Francia, dalla Spagna al Portogallo, dalla Germania al Belgio, dall’Olanda all’Ungheria, sino all’Argentina e all’Uruguay. Anche la migliore dottrina francese, italiana, belga e tedesca (Frémery, Waelbroek, Lescoeur, von Hahn, Pardessus, Marré e molti altri) veniva richiamata ad avallare le scelte del progetto.
Quanto alla forma e alla procedura per la costituzione delle società di capitali, il Progetto Mancini del 1877 confermava la forma dell’atto pubblico per le anonime e per le accomandite per azioni (art. 86). Inoltre esigeva il deposito dell’atto costitutivo e dello statuto - per cura e responsabilità del notaio e degli amministratori - presso la cancelleria del Tribunale di commercio competente per territorio, assegnando al tribunale stesso il compito di «verificare l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge per la legale costituzione della società» e di «ordinare, con provvedimento in camera di consiglio, la trascrizione e l’affissione dell’atto costitutivo e dello statuto» (art. 90). Tale verifica riguardava la presenza dei requisiti necessari per la costituzione della nuova società (art. 88), includendo la documentazione della sottoscrizione dell’intero capitale e del versamento pro quota in danaro di almeno i tre decimi del capitale sottoscritto (art. 129). L’atto costitutivo e lo statuto dovevano essere pubblicati a cura del Ministero di agricoltura industria e commercio nel Bollettino ufficiale delle società per azioni (art. 94)(28).
Dunque quanto alla verifica dell’atto costitutivo delle società anonime e delle accomandite per azioni Mancini abbandonò la soluzione approvata appena due anni prima dal Senato. Mancini ne spiegava con chiarezza le ragioni nella Relazione: a suo avviso «la sola responsabilità del notaro … è senza dubbio affatto inefficace, né casi specialmente nei quali un forte interesse può indurre a simulare l’adempimento di formalità che non sono state osservate»(29). Per queste ragioni il Progetto adottava la soluzione - per la quale Mancini richiamava i precedenti analoghi del codice germanico e di quello ungherese - di affidare la Tribunale di commercio la verifica della conformità dell’atto costitutivo e dello statuto della costituenda società ai dettami della legge.
Va sottolineato il fatto che né la legge francese del 1867 né quella del Belgio di sei anni posteriore, avevano prescritto la necessità di una delibera formale della magistratura. La legge francese chiedeva il deposito dell’atto costitutivo nella cancelleria del Tribunale di commercio competente per territorio e la pubblicazione in un giornale legale autorizzato (Francia, legge 24 luglio 1867, artt. 55 e 56), la legge belga esigeva il deposito dell’atto costitutivo - che doveva essere pubblico a pena di nullità - nelle mani del funzionario competente, nonché la pubblicazione entro dieci giorni sul Moniteur (Belgio, legge 18 maggio 1873, art. 10). A sua volta il codice delle obbligazioni svizzero del 1881, eliminata l’autorizzazione governativa, esigerà l’atto pubblico per la costituzione di una società per azioni e per il relativo statuto (art. 637-638), nonché l’iscrizione nel Registro del commercio del luogo in cui ha sede (art. 640), senza di che le società non acquisisce la personalità giuridica (art. 643), (art. 554).
La delibera in Camera di consiglio - una procedura formale e collegiale, ben più impegnativa rispetto alla semplice registrazione - costituisce dunque una significativa innovazione, introdotta nel Progetto del 1877, a sua volta aderente alla proposta della Camera di commercio di Napoli del 1873.
È chiaro che l’esigere un esame da parte di magistrati implicava un esame assai più accurato e approfondito non tanto dei requisiti formali, abbastanza agevolmente accertabili sul piano tecnico, quanto piuttosto delle disposizioni contenute nello statuto della società che si intendeva costituire. In particolare, solo giuristi professionali potevano adagiatamente valutare se le disposizioni statutarie proposte sugli organi societari, sulle azioni e obbligazioni, sui bilanci e così via fossero o meno compatibili con la normativa di legge, distinguendo come era necessario, all’interno di questa e in rapporto con la proposta di statuto, tra norme derogabili e norma imperative: un’operazione sempre delicata.

Il nuovo codice di commercio (1882)

Anche l’accelerazione impressa da Mancini si rivelò per il momento illusoria. La ripresa del cammino verso il nuovo codice imboccò la via risolutiva poco più tardi, allorché nel febbraio del 1879 il nuovo ministro della Giustizia Diego Tajani(30)decise di sottoporre al Senato - che l’approvò - la proposta di mettere in discussione e approvare senza ulteriori indugi il Progetto ministeriale nella redazione messa a punto da Mancini nel 1877 e non già con una discussione articolo per articolo, bensì soltanto su quegli articoli sui quali una apposita Commissione avesse ritenuto di proporre emendamenti. Il Senato procedette dunque a nominare una Commissione incaricata di ciò, della quale fu chiamato a far parte, una volta di più, Tommaso Corsi. La Commissione concluse i suoi lavori e nell’aprile 1880 presentò la Relazione conclusiva, stesa dal relatore, lo stesso Corsi(31). Non desta meraviglia che per la Commissione senatoria la verifica della regolare costituzione delle società anonime dovesse venire affidata al notaio, in coerenza con quanto deliberato dal Senato stesso cinque anni prima, ma in contrasto con la proposta del Progetto Mancini di tre anni precedente(32).
La discussione in Senato sugli emendamenti proposti dalla Commissione Corsi si aprì il 30 maggio e si concluse un mese più tardi, il 29 giugno 1880(33). Tra le questioni discusse, relative a tutta una serie di articoli del Progetto Mancini, quella che occupò più intensamente l’assemblea - quasi la metà dell’intero tempo dedicato al Progetto - fu precisamente la questione che qui ci interessa: l’alternativa tra l’affidamento alla magistratura o l’affidamento al notaio della verifica dell’atto costitutivo delle società di capitali fu discussa ampiamente nella giornata del 12 giugno 1880 e risoluta alla fine col voto(34).
Esordì il ministro della Giustizia, che era nel frattempo mutato con l’avvicendamento in quegli anni incessante delle compagini governative. Il nuovo ministro Tommaso Villa(35)difese la scelta del progetto Mancini e del precedente progetto ministeriale sulle società presentato al Senato, che affidava al tribunale di commercio il compito di verificare l’adempimento delle norme prescritte la costituzione di una nuova società di capitali a tutela degli azionisti, senza vedere difficoltà nell’ipotesi di una successiva impugnazione del decreto avanti allo stesso tribunale (A. MARGHIERI, Motivi, IV, p. 395 e ss.). A lui rispose immediatamente Tommaso Corsi, con un efficace discorso incentrato sulla preferibilità della soluzione scelta tre anni prima dallo stesso Senato: se l’obiettivo vero del controllo sta nell’accertare la sottoscrizione del capitale e il versamento della quota prevista da parte dei promotori, allora perché non ritenere pienamente adeguata a questo l’attestazione del notaio (ivi, p. 398 e ss.)? Egli rammentava inoltre, con orgoglio, di essere stato il primo a proporre sin dal 1862 l’abolizione dell’autorizzazione governativa, allora respinta in Italia e poco più tardi accettata, ma solo dopo che la Francia l’ebbe deliberata(36).
Sull’altro versante, il senatore Finali, non più ministro, ricordava di essere stato in minoranza nella Commissione senatoria del 1875 - per l’influenza dominante di Tommaso Corsi, appoggiato da Felice Lampertico - e di ritenere necessario il tornare alla posizione da lui allora difesa, in sostegno del ruolo necessario della magistratura nell’iter costitutivo delle società per azioni: perché il principio della libertà individuale va bene, ma bisogna altresì tenere conto «della clientela, spesso incauta, alla quale si volgono i promotori di società, serbando talvolta a sé la parte del leone»; in Belgio, dove da poco si era adottato il sistema più liberale con l’affidamento al solo notaio, ci si stava seriamente orientando ad introdurre una tutela più severa (ivi, p. 401). Inoltre la verifica non riguardava soltanto la sottoscrizione e i versamenti in danaro da parte dei promotori, ma anche il recepimento nello statuto delle «tante e disseminate» prescrizioni legislative sulle società (ivi, p. 403). È questo un punto effettivamente assai rilevante, che venne richiamato nel successivo intervento del senatore Majorana-Calatabiano: il notaio, se responsabile esclusivo della regolare costituzione della società, doveva in realtà «fare da giudice», sia pure non contenzioso, in quanto incaricato di «assicurarsi che siano adempiute tutte le disposizioni della legge» (ivi, p. 404), un compito non suo(37). Su analoghe posizioni si schierò anche il nuovo ministro di Agricoltura Industria e Commercio Miceli, nel sollecitare il Senato ad abbandonare la scelta compiuta in precedenza e ad accogliere la proposta del Progetto ministeriale (ivi, p. 407).
In una rinnovata difesa della posizione che abbiamo qualificato liberista, ancora Corsi ammoniva in un nuovo intervento che la miglior tutela dei propri interessi la compie l’interessato medesimo, se fa propria l’esortazione dantesca, «guarda dov’entri e di cui tu ti fide» (ivi, p. 410). A lui nuovamente e diffusamente replicavano il Ministro Tommaso Villa e il senatore Gaspare Finali, il primo sottolineando che con la verifica del Tribunale non si lede l’interesse di nessuno e si tutelano invece «quegli interessi che altrimenti resterebbero abbandonati; il secondo assicurando che era lungi da lui, propugnatore della competenza giudiziaria, il «voler mettere in discredito l’alta e nobile professione» del Notariato, ma che è pur vero che «non tutti i notari sono forniti dello stesso corredo di cognizioni», mentre se si fosse ritenuto che il compito dovesse essere di mero accertamento, si sarebbe dovuto eliminare dal Progetto l’obbligo di «assicurarsi che siano adempiute tutte le disposizioni della legge»(38).
A sostenere la tesi del controllo notarile fu invece indirizzato l’intervento del senatore Giacomo Astengo, savonese, avvocato di spicco in materia commerciale(39): il notaio, proprio perché reso personalmente reponsabile, accerterà con particolare scrupolo tutte le condizioni poste dalla legge e può inoltre ritenersi addirittura più affidabile dei Tribunale per il fatto di conoscere bene non solo il territorio ma spesso anche i soggetti che vi perano sul terreno dell’economia (ivi, p. 420 e ss.).
A questo punto, un intervento del senatore Giuseppe Pica(40)aggiunse al dibattito un importante elemento nuovo. Egli, favorevole all’intervento della magistratura, propose però che il compito della verifica venisse affidato non già al Tribunale di commercio, come previsto dal Progetto ministeriale, bensì al Tribunale civile; ciò avrebbe tra l’altro evitata la duplicazione di pronunce da parte del medesimo organo in caso di impugnazione dell’atto costitutivo (ivi, p. 423 e ss.), una duplicazione che alcuni oratori, come si è visto, avevano criticato. E la proposta venne immediatamente recepita dal Ministro Villa, con l’integrazione del necessario intervento del pubblico ministero (ivi, p. 425). Ma sia Astengo (ivi, p. 426), sia Corsi (ivi, p. 428) si dichiararono contrari, asserendo che la proposta Pica, lungi dal migliorare, avrebbe peggiorato ulteriormente il progetto, perché avrebbe accentuato il ruolo dello Stato, che si voleva al contrario limitare con il venir meno dell’autorizzazione, in pari tempo creando le premesse per un contrasto tra la giurisdizione commerciale e quella civile.
Un intervento di grande peso fu quello del senatore Carlo De Cesare. Alle considerazioni del sen. Astengo, che aveva portato nel dibattito la sua esperienza di avvocato, egli contrapponeva la sua diretta esperienza sul campo come responsabile dell’Ufficio del sindacato governativo sulle società per azioni, istituito come sappiamo nel 1866 e da lui guidato per tre anni, sino all’abolizione nel 1869. E dichiarava:
«Ho visto società, le quali intendevano procurarsi il capitale che non avevano colla emissione di obbligazioni; società che si proponevano di fare anticipazioni su se stesse, ovvero ai loro azionisti sulle azioni emesse; società che avevano l’occulto disegno palliato sotto forme ambigue di fare operazioni su i titoli di rendita consolidata, che sarebbero stati depositati come pegno di anticipazioni; società che statuivano di dichiarar libere e non nominative le azioni prima del loro integrale pagamento; ho visto infine tante e tante altre frodi che avrebbero poi, come doveva accadere, il loro venerdì nero. Lo ricordano bene Napoli, Genova, Firenze, Bologna e tante altre parti d’Italia. … Dubito che un povero notaro, che attende la mercede dell’opera sua, che ha desiderio di fare affari, di stipulare atti (ad eccezione di Alcidi per morale per carattere fortissimi) abbia sempre la forza necessaria di resistere innanzi a grandi e sedicenti commercianti … e di respingere … le carezze di certi promotori di società che la sanno lunga!» (ivi, p. 425).
Sia Astengo, sia Corsi intervennero ancora per difendere la loro impostazione che dopo il discorso di De Cesare avvertivano ormai periclitante, tra l’altro dicendo che se si fosse deliberato in favore dell’intervento della magistratura, avrebbero comunque preferito affidarlo al Tribunale di commercio; né il ruolo di controllo dello Stato si era poi dimostrato così efficace contro le frodi, come proprio i casi citati da De Cesare, avvenuti tutti ancora in regime di autorizzazione, chiaramente dimostravano (ivi, pp. 426-429): un argomento indubbiamente efficace.
Ma l’intervento del senatore De Cesare fu quello che risultò, così riteniamo, l’elemento alla fine decisivo. L’Assemblea, ormai impaziente di sciogliere o tagliare il nodo, giunse a questo punto al voto. Accolto il sottoemendamento del senatore Pica, il Senato varò l’approvazione del testo nella seguente formulazione: codice di commercio, art. 90. L’atto costitutivo e lo statuto delle società in accomandita per azioni e delle società anonime devono essere, per cura sotto reponsabilità del notaro che ha ricevuto l’atto e degli amministratori, depositato entro quindici giorni dalla data nella cancelleria del tribunale civile nel cui circondario è stabilita la sede della società.
Il tribunale civile, inteso il pubblico ministero, verificato l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge per la legale costituzione della società, ordina con provvedimento deliberato in Camera di consiglio la trascrizione e l’affissione dell’atto costitutivo e dello statuto nelle forme prescritte nell’articolo precedente.
Terminata la discussione il 29 giugno 1880, il Progetto di codice di commercio approvato dal Senato fu trasmesso alla Camera senza indugio. Nominata già il 7 luglio di quell’anno la Commissione che doveva esaminare il Progetto(41), solo un anno e mezzo più tardi, accompagnato da una nuova ampia relazione di Pasquale Stanislao Mancini(42), il testo approdò alla Camera dei deputati, con la proposta di pubblicare e mettere in esecuzione, senza ulteriori modifiche, il testo del codice come approvato dal Senato. La discussione che si svolse dal 21 al 31 gennaio 1882(43)fu intensa e vivace, perché esponenti di rilievo della Camera espressero sulle scelte del codice critiche non marginali: come furono quelle che il deputato veneto Giovanni Battista Varé ebbe modo di sviluppare con efficacia, in particolare criticando la scelta di riservare (come era peraltro tradizione italiana) la procedura del fallimento ai non commercianti, invece di recepire il modello austriaco da lui preferito(44). Tuttavia sulla disciplina delle società commerciali adottata dal Senato non vi furono critiche particolari. La Camera delegò il governo a compiere un’ultima verifica meramente formale e lessicale, che venne accuratamente eseguita nel luglio del 1882. E si giunse finalmente, nell’ottobre di quell’anno, alla pubblicazione del nuovo codice.
L’articolo relativo alla costituzione delle società di capitali divenne così, nella versione approvata dal Senato, con leggere rettifiche lessicali, l’articolo 91 del codice di commercio del 1882.

Conclusioni

La vicenda rievocata in queste pagine presenta alcuni aspetti degni di nota, sui quali, concludendo, vorremmo richiamare l’attenzione.
Il dibattito parlamentare, che sul tema delle società commercali si svolse quasi esclusivamente nel Senato del Regno, mostra con chiarezza la presenza di due orientamenti contrastanti. Da un lato si manifestò un indirizzo decisamente favorevole alla libertà di impresa, sospettoso di controlli pubblici sulle forme societarie, fiducioso nelle capacità d’autotutela dei soggetti privati che volessero investire capitali nelle compagnie anonime. Dall’altro lato stanno le opinioni di chi, al contrario, riteneva utile un controllo pubblico preliminare al momento della costituzione di una nuova società per azioni, per evitare frodi e raggiri ai danni di capitalisti meno provveduti da parte di promotori senza scrupoli.
Il primo indirizzo, che ben possiamo definire liberistico, ebbe come esponente di maggiore spicco l’avvocato toscano Tommaso Corsi, un personaggio importante del Risorgimento fiorentino, già prefetto con Cavour nel 1859 e per breve tempo ministro nel primo anno di governo della Destra; e con lui si schierarono, come abbiamo visto, il senatore vicentino Felice Lampertico e soprattutto Alessandro Rossi, grande industriale laniero, il quale proclamava che il capitale, se «imprigionato, fugge ed emigra; libero, diventa gigante»(45); ma anche senatori quali Astengo e Sineo, avvocati ed esperti di affari, sono su questa linea. Il secondo indirizzo trova il suo sostegno in uomini anch’essi di formazione giuridica, favorevoli al mantenimento di un ruolo superiore di controllo da parte dello Stato. Non a caso alcuni di loro svolsero funzioni di ministro: anzitutto Pasquale Stanislao Mancini(46)- il vero, indiscusso protagonista della lunga vicenda che condusse, dopo tredici anni di lavori preparatorii, al varo del codice del 1882 - ma anche i senatori succedutisi in breve tempo ai ministeri della Giustizia e del Commercio e Industria, i ministri Vigliani, Finali, Tajani, Villa; e accanto a loro, alcuni magistrati e alti funzionari, tra i quali in primo luogo Matteo Pescatore e Carlo De Cesare.
È evidente che l’affidamento al notaio del compito di controllo sull’atto costitutivo e sullo statuto delle nuove società era congeniale ai sostenitori del primo indirizzo, mentre l’intervento della magistratura rispondeva assai meglio alle esigenze dei fautori del secondo indirizzo. Tuttavia non va sottovalutato il fatto che anche l’orientamento che potremmo chiamare “pubblicistico” non giunse mai, in questi anni e decenni del secondo Ottocento, ad invocare il mantenimento del principio dell’autorizzazione discrezionale del governo sulla costituzione di nuove società di capitali. Il criterio di un controllo di legalità, ben diverso da un controllo di merito e di opportunità, si era ormai imposto anche in chi si dimostrò contrario all’affidamento di questo compito ai notai.
Degna di interesse è anche la dinamica politica che questo dibattito rivela entro la compagine del Senato del Regno. Che nel 1875 l’indirizzo liberistico abbia decisamente avuto la meglio, come si è visto, e che invece appena cinque anni più tardi il Senato, composto in larghissima misura ancora dagli stessi uomini, abbia optato per l’indirizzo pubblicistico, questo può stupire, se non altro per la tendenza naturale di un corpo a rimanere fedele alle proprie scelte e ai propri precedenti. La ragione di questo mutamento di indirizzo forse non è solo né tanto di natura politica, anche se una grande svolta politica era avvenuta proprio in quegli anni, dal momento che nel 1875 la Destra era ancora al potere, mentre dall’anno seguente era iniziato il governo della Sinistra. Senonché il Senato, per la composizione dei suoi esponenti nominati a vita e scelti tra i notabili del Paese, risentì di questo mutamento assai meno della Camera. Piuttosto, fu probabilmente l’autorevolezza di uomini quali Mancini e De Cesare, insieme con l’unanime orientamento espresso in aula da ministri e senatori provenienti sia della Destra che della Sinistra, a persuadere nel 1880 il Senato a mutare indirizzo. Non vorremmo qui tacere la sorpresa che desta la lettura di questo civile dibattito, nel corso del quale - come sempre meno è poi occorso nel tempo - si ha l’impressione che gli argomenti portati dai singoli oratori abbiano potuto davvero convincere non solo gli incerti ma pure alcuni almeno di coloro che all’inizio della discussione erano di diverso orientamento.
È poi il caso di osservare che in questi primi decenni dopo l’unità il Notariato non aveva ancora ottenuto l’assetto stabile e ordinato che sarà realizzato soltanto alla vigilia della prima guerra con la legge del 1913, né aveva ancora conseguito il prestigio e l’autorevolezza che questo assetto gli permise di raggiungere e di mantenere.
La scelta del codice di commercio del 1882 che affidava l’omologazione delle società per azioni al Tribunale civile risultò alla fine vincente. Essa rimase ferma per oltre un secolo, mentre a partire dai primi anni Venti del Novecento(47)l’indirizzo pubblicistico tornerà ad accrescersi con la progressiva reintroduzione del controllo del governo sulle società di capitali: un indirizzo che per talune categorie di società si è mantenuto sino al presente.
Eppure, quasi per contrappeso, a distanza di ben centotrenta anni dal dibattito ottocentesco, ormai da un decennio l’Italia ha fatto sua, con la legge del 18 luglio 2003, proprio la scelta di affidare al notaio il potere di omologa delle società per azioni. È stata, questa, una svolta storica, che rende ancora attuale e stimolante la vicenda che abbiamo cercato di ricostruire.


(*) Abbreviazioni: A.A. MARGHIERI, Motivi = I motivi del nuovo codice di commercio italiano ossia Raccolta completa di tutti i lavori preparatorii …, pubblicata a cura di Alberto A. Marghieri, Napoli 1884-1885, vol. 5 in 6 tomi.

(1) Francia, Loi sur les sociétés, 24-29 juillet 1867, in Dalloz, Jurisprudence générale, a. 1. 1867, p. IV, p. 98-122. Sul regime giuridico delle società per azioni nella Francia dell’Ottocento, è da vedere anzitutto la monografia di A. LEFEBVRE-TEILLARD, La société anonyme au XIXe siècle, Paris 1985; ivi, alle p. 21-62, la ricostruzione del regime dell’autorizzazione governativa nella prassi del tempo.

(2) Progetto preliminare per la riforma del codice di commercio del Regno d’Italia approvato dalla Commissione il 26 aprile 1872, Firenze Stamperia Reale 1873. Il titolo sulle società commerciali è omesso nella raccolta di A. MARGHIERI, Motivi, vol. IV, cf. p. 60. Sulle vicende dei lavori preparatorii del codice di commercio del 1882 rinvio al mio scritto su La genesi del codice di commercio del 1882, ora in Saggi di storia del diritto commerciale, Milano 1992, p. 157-204.

(3) Tommaso Corsi, nato a Livorno nel 1814, laureato a Pisa, divenne presto uno tra i più noti avvocati toscani in materia commerciale; attivo oppositore del regime granducale, nel 1848-49 vicino al Guerrazzi, del quale nel 1853, nel clima della reazione post-quarantottesca assunse con coraggio la difesa, fu tra i protagonisti dell’avvicinamento della Toscana al Piemonte di Cavour, ricoprendo per breve tempo la funzione di prefetto di Firenze nel 1859 e di ministro di Agricoltura Industria e Commercio nel 1860-61; deputato i più legislature, poi senatore del Regno, morì nel 1891. Su di lui, N. DANELON VASOLI, Corsi Tommaso, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 29 (1983); F. COLAO, Avvocati del Risorgimento nella Toscana della Restaurazione, Bologna 2006, ad indicem. Le carte dell’archivio di Corsi sono presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

(4) «Il capitalista ha capacità civile per trattare i propri affari, può essere eletto a trattare gli interessi comunali e provinciali, può sedere rappresentante della nazione nelle assemblee legislative, dettare codici e leggi, fare e disfare ministeri, tutto questo senza tutore; ma se vuol sottoscrivere per 200 lire in una società, ha bisogno che il governo gli studi l’affare per non essere ingannato»: Tommaso Corsi, in Relazione della Commissione Ballanti … Corsi (in A. MARGHIERI, Motivi, Appendice, p. 197); cfr. A. PADOA-SCHIOPPA, Saggi [sopra, nota 2], p. 208.

(5) Carlo De Cesare (1824-1882), pugliese di Bari, laureato a Napoli in giurisprudenza, magistrato della Corte dei Conti nel 1870, fu deputato della Destra a diverse riprese dal 1861 al 1869 e senatore del Regno dal 1876; dal 1867 al 1869 fu Censore del Sindacato sulle società commerciali e gli istituti di credito presso il Ministero di Agricoltura Industria e Commercio.

(6) C. DE CESARE, Il sindacato governativo, le società commerciali nel regno d’Italia, Firenze, 1867/1869, rist. a cura di Franco Belli e Antonio Scialoja, Sala Bolognese 1978. Cfr. F. BELLI E A. SCIALOJA, alle origini delle istituzioni capitalistiche in Italia: «il Sindacato governativo sulle società commerciali e gli istituti di credito (1866-1869)», in Riv. trim. dir. pubbl., (1972), 22, p. 1515-1531.

(7) Sunto delle Osservazioni e proposte fatte dalla Magistratura e dalle Università degli studi intorno al titolo preliminare del codice di commercio, in A. MARGHIERI, Motivi, vol. III, p. 164-238.

(8) A. MARGHIERI, Motivi, vol. III, p. 174.

(9) Gaspare Finali (1832-1915), nato a Cesena, fu attivo nel Quarantotto cesenate, quid funzionario e segreterio del ministero delle Finanze dopo l’unità, Ministro di Agricultra Industria e Commercio dal 1873 al 1876, senatore dal 1873, infine presidente della Corte dei Conti dal 1893 al 1907.

(10) A. MARGHIERI, Motivi, vol. III, p. 1-151, alle p. 21; 28.

(11) M. MINGHETTI, Memoria del Ministro di Agricoltura Industria e Commercio intorno alle modificazioni da introdursi nel codice di Commercio, Firenze, 11 ottobre 1979, in A. MARGHIERI, Motivi, vol. II/1, all. A, p. 931-941, a p. 937 e ss.

(12) S. CASTAGNOLA, Memoria del Ministro di Agricoltura Industria e Commercio sulla legislazione delle società commerciali, in A. MARGHIERI, Motivi, vol. II/1, all. G, p. 1031- 1070, a p. 1048 s. Si veda sul Castagnola la recente monografia di R. BRACCIA, Un avvocato nelle istituzioni: Stefano Castagnola giurista e politico dell’Italia liberale, Milano, 2008, in particolare p. 89-110 e 181-205.

(13) Esso era accompagnato da una Relazione dei due Ministri, pubblicata in A. MARGHIERI, Motivi, vol. III, p. 152-163.

(14) Il vicentino Felice Lampertico (1833-1906) fu economista e poligrafo, autore di centinaia di scritti di economia, statistica, storia delle dottrine economiche, geografia, letteratura, politica, diritto. Una sua Raccolta di scritti storici e letterari fu pubblicata a Firenze in due volumi nel 1882-83. Deputato dal 1873, senatore dal 1873.

(15) Relazione dell’Ufficio centrale, in A. MARGHIERI, Motivi , vol. III, p. 239-252, a p. 246.

(16) Ibidem , p. 247.

(17) Il testo completo della discussione è in A. MARGHIERI, Motivi , vol. III, p. 253-613.

(18) Il veneto di Schio Alessandro Rossi (1819-1898) fu tra i pionieri dell’industria in Italia, dopo aver trasformato in grande stabilimento il piccolo opficio laniero fondato del padre; si interessò anche di scuole popolari e di società di mutuo soccorso; dal 1870 senatore del Regno. Su di lui, L. AVAGLIANO, Alessandro Rossi. Fondare l’Italia industriale, Roma 1998.

(19) Il piemontese Matteo Pescatore (1810-1879) fu magistrato di alto profilo, consigliere di Cassazione a Torino e autore di opere di sicuro rilevo nel campo della procedura e della teoria del diritto, tra le quali vanno almeno ricordate la Teoria delle prove civili e criminali, Torino, 1847, la Logica del diritto, Torino 1863 e la Sposizione compendiosa della procedura civile e criminale, 3 voll., Torino 1864-65. Su di lui G. RODDI, «Matteo Pescatore e la teoria della progressività delle imposte)», in “Clio”, 18, (1982), p. 385-405; ID., Matteo Pescatore, Torino, 1986.

(20) Questi due interventi sono stati riediti in Riv. soc., 6, 1961, p. 11-325, sotto il titolo «Gli idilli del piccolo azionista».

(21) PESCATORE, in Motivi, III, p. 276.

(22) LAMPERTICO, in Motivi, III, p. 291.

(23) La discussione del Senato, 6 maggio 1875, è in A. MARGHIERI, Motivi, III, p. 491-515.

(24) Progetto ministeriale sulle società commerciali (1874), art. 21: «l’atto costitutivo della società in accomandita per azioni e della società anonima deve essere depositato, per cura degli amministratori, entro quindici giorni dalla sua data, nella cancelleria del Tribunale di commercio. Il Tribunale esamina prontamente in camera di consiglio l’atto medesimo e, qualora riconosca che furono adempiute le disposizioni della legge, ordina l’iscrizione della società nel Registro delle società per azioni».

(25) Progetto dell’Ufficio centrale del Senato sulle società commerciali (1874), art. 21: «Nell’atto costitutivo della società in accomandita per azioni e della società anonima deve il notaio assicurarsi che siano adempiute tutte le disposizioni della legge, e particolarmente fatto il deposito di cui all’art. 65 [relativo ai tre decimi del capitale interamente sottoscritto]. Altrimenti è responsabile, solidalmente cogli amministratori». Art. 22: «L’atto costitutivo della società in accomandita per azioni e della società anonima deve essere, per cura del notaio che ha ricevuto il contratto e degli amministratori, depositato e fatto trascrivere e affiggere per intero entro quindici giorni dalla sua data nella cancelleria del Tribunale di commercio».

(26) Progetto del codice di commercio del regno d’Italia presentato al Senato del Regno nella tornata del 18 giugno 1877 dal Ministro di Grazia e Giustizia (Mancini) …, Firenze Stamperia Reale 1877 [Progetto Mancini, 1877]; la raccolta di A. MARGHIERI, Motivi, vol. IV, p. 60, omette di riprodurre il titolo del Progetto Mancini sulle società.

(27) Relazione del Ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti (Mancini) od esposizione dei motivi del Progetto di codice di commercio pel Regno d’Italia …, Roma 1878; anche in A. MARGHIERI, Motivi, vol. IV, p. 1-276. La Relazione illustra il Progetto solo sino al titolo sulle società commerciali incluso.

(28) Queste disposizioni passeranno poi quasi immutate nel codice di commercio del 1882, con la differenza che la verrà, come vedremo, affidata al Tribunale civile con delibera in camera di consiglio e con l’intervento del pubblico ministero (codice di commercio 1882, artt. 91; 95; 131; 133).

(29) Relazione Mancini, 1877, in A. MARGHIERI, Motivi, vol. IV, p. 158. E aggiunge: «Perciò non ho saputo tenermi pago della vana e illusoria garentia accettata nel Progetto senatorio …. Si ha un bel dire che spetta a’ privati interessati curare che la società (sia) legalmente creata e che ogni socio è sempre nel diritto d’impugnarne la legittima costituzione. Giova che la legge protegga gli interessi dei soci … contro la possibile malafede dei fondatori … ed anziché accontentarsi di un tardivo e insufficiente rimedio dopo che gravi danni siano avvenuti, li prevenga, non già richiedendo dal governo un’arbitraria e discrezionale autorizzazione, ma incaricando i Tribunali di verificare se i fondatori abbiano adempiuto a tutte le condizioni necessarie per la legale esistenza della società» (ivi, p. 158 e ss.).

(30) Diego Tajani (1827-1921), salernitano, laureato a Napoli, arruolatosi contro i Borboni nel 1859, fu magistrato di Corte d’appello e di Cassazione dal 1865 al 1872, poi deputato della Sinistra di Amalfi e di Salerno per un ventennio dopo l’Unità, ministro della Giustizia nel 1879, senatore del Regno dal 1896.

(31) Relazione Corsi, 25 aprile 1880, in A. MARGHIERI, Motivi , vol. IV, p. 307-353.

(32) Relazione Corsi, in A. MARGHIERI, Motivi, vol. IV, p. 327.

(33) Discussione sul codice di commercio, Senato, 30 maggio - 29 giugno 1880, in A. MARGHIERI, Motivi, vol. IV, p. 369-469.

(34) La discussione Senato, 12 giugno 1880, in A. MARGHIERI, Motivi, vol. IV, p. 394-431.

(35) Tommaso Villa (1832-1915), piemontese di Cuneo, deputato della Sinistra per quasi un quarantennio (1865- 1902), senatore dal 1909, fu ministro dell’Interno e poi di Grazia e Giustizia dal 1879 al 1881.

(36) «Il sortire da una forma di tutela per andare ad uno di libertà è qualche cosa che non si afferra facilmente dagli abituati a chieder tutto al Governo» (A. MARGHIERI, Motivi, IV, p. 397 e ss.).

(37) Si potrebbe obbiettare che il notaio questo compito lo svolge comunque negli atti e nei contratti da lui rogati, ma a ciò si potrebbe replicare che altra cosa è il verificare la conformità alla legge di un documento di natura sostanzialmente normativa quale lo statuto di un’anonima.

(38) A. MARGHIERI, Motivi, IV, p. 411-417, rispettivamente alle p. 413; 414 e ss.; 416.

(39) Giuseppe Astengo (1814-1884) fu deputato sabaudo dal 1852 al 1860, dal 1861 al 1865 deputato della Destra e dal 1865 senatore del Regno.

(40) Giuseppe Pica (1813-1887), abruzzese, aveva fatto parte del Parlamento napoletano del 1848, e scontò poi per le sue idee liberali sei anni di carcere nel penitenziario di Procida; deputato della Destra dal 1861 al 1865, autore della legge sul brigantaggio del 1863, nominato senatore del Regno nel 1873.

(41) A. MARGHIERI, Motivi, vol. IV, p. 493.

(42) A. MARGHIERI, Motivi, vol. IV, p. 497-621. La motivazione delle scelte del Senato sulla costituzione delle società di capitali sono ivi, p. 592 e ss.

(43) A. MARGHIERI, Motivi, vol. IV, p. 622-828.

(44) Su questa fase finale del dibattito rinvio ancora al mio saggio La genesi del codice di commercio del 1882, ora in Saggi [sopra, nota2], p. 189-195.

(45) A. MARGHIERI, Motivi, vol. III, p. 257.

(46) Su questa figura eminente del pensiero giuridico italiano dell’Ottocento, autore di fondamentali contributi sul diritto internazionale, attivissimo e spesso determinante anche nella veste di legislatore nel primo venticinquennio dell’Italia unita, ci limitiamo a rinviare alla raccolta di saggi Pasquale Stanislao Mancini, l’uomo, lo studioso, il politico, Napoli, 1991.

(47) Sugli svolgimenti della legislazione italiana successivi al 1882, A. PADOA SCHIOPPA, La normativa sulle società per azioni: proposte e riforme, un concerto a più voci (1882-1942), in ID. e P.G. MARCHETTI, La società per azioni, Roma-Bari, 1910 (“Tra imprese e istituzioni, 100 anni di Assonime”, 4), p. 5-82; 179-184; cfr. p. 53.

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