Il notaio e la sua presenza nell’apparato giurisdizionale: profili storici
Il notaio e la sua presenza nell’apparato giurisdizionale:
profili storici
di Lorenzo Sinisi
Ordinario di Storia del diritto medievale e moderno, Università “Magna Graecia” Catanzaro

Le pagine che seguono si ricollegano inevitabilmente ad alcune tematiche già affrontate circa dieci anni fa, sempre a Genova, nell’ambito del bel Convegno di studi storici patrocinato dal Consiglio Nazionale del Notariato sul notaio e l’amministrazione della giustizia(1). In quella circostanza avevo cercato di tratteggiare, prendendo spunto da alcuni contributi della dottrina e della prassi di diritto comune, soprattutto la figura del notaio di tribunale, comunemente detto “actuarius”, così come si sviluppò nell’area italiana fra Medioevo ed Età moderna(2). Ora, evitando il più possibile di essere ripetitivi e di ribadire concetti già espressi allora, cercherò da un lato di approfondire alcuni aspetti allora appena toccati circa il ruolo svolto dal notaio-cancelliere in diversi apparati giurisdizionali del passato, prendendo come punto di riferimento sempre l’area italiana (con al più uno sguardo rivolto a quella francese) e dall’altro di soffermarmi su un fenomeno, destinato a riproporsi ciclicamente in un arco temporale che va dall’alto Medioevo all’età dei codici, quale lo svolgimento di funzioni specificatamente giurisdizionali da parte di soggetti provvisti della qualifica notarile.
La presenza nei tribunali, accanto ai giudici propriamente detti, di scriptores che, qualificati con vari nomi fra cui quello di “notarii”, erano deputati alla redazione degli acta processuali, è come noto già attestata in età altomedievale. Una tale figura di ufficiale di pubblica cancelleria, verosimilmente dedito in modo saltuario anche alla redazione per iscritto delle stipulazioni negoziali dei privati, la ritroviamo perlomeno già in età longobarda attraverso alcuni documenti che ci attestano la presenza in giudizio di funzionari regi che, col nome di “notarii”, assumevano in genere funzioni non solo di documentazione, ma anche di istruzione e definizione della vertenza(3).
Con l’avvento della dinastia Carolingia, la presenza dei notarii nell’apparato giurisdizionale non solo si conferma e consolida con provvedimenti legislativi che sanciscono tra l’altro l’attuazione di un maggior controllo sulle loro nomine affidate ai missi dominici(4), ma conosce anche un crescente apprezzamento con soggetti forniti della qualifica notarile che vengono a svolgere in diversi contesti, oltre a quelle più frequenti di redattori e dettatori di “notitiae iudicati”, le funzioni di giudici imperiali e addirittura di rappresentanti dell’autorità sovrana chiamati a presiedere dei placiti(5). Questa contiguità fra la figura del giudice e del notaio, che in un primo tempo porta sporadicamente alla coincidenza nelle stesse persone di entrambe le funzioni, tende quasi a diventare la regola intorno al X secolo quando emerge un nuovo protagonista nella redazione di atti giuridici denominato espressamente «notarius et iudex» che da questa doppia qualifica trae la forza per attribuire maggiore credibilità alle sue scritture(6). L’ulteriore incremento di tale credibilità, ben espresso dalla specificazione dell’origine (il «Sacro Palazzo») delle prerogative professionali che tende ad accompagnare quasi sempre le due qualifiche nella documentazione del secolo successivo, avrà come punto di arrivo l’acquisizione della «publica fides» autonoma effetto ed espressione di un cambiamento epocale, quale il rinascimento giuridico bassomedievale, che vede fra l’altro l’affermazione di nuove e più evolute forme processuali destinate ad esaltare ancora di più il ruolo della scrittura(7).
In quasi perfetta concomitanza con l’acquisizione da parte dei notarii, in relazione all’«auctoritas publica» di cui erano emanazione, della capacità di attribuire autonomamente pieno valore legale alle stipulazioni negoziali dei privati contenute nei loro instrumenta, si afferma quindi parallelamente la prassi di affidare agli stessi soggetti il compito di rivestire della stessa publica fides la documentazione delle attività processuali svolte nelle varie curie giudiziarie espressione del pluralismo ordinamentale del tempo(8). Gli esiti di tale fenomeno saranno l’istituzionalizzazione della figura del «notarius actorum» come funzionario pubblico investito di delicate funzioni sia in ambito più specificatamente processuale in relazione a particolari attività e fasi del procedimento, sia nella custodia e conservazione dei risultati di tali attività sotto forma di singoli scritti(9).
Anche se già nella seconda metà del XII secolo è documentata l’esistenza di notai ufficialmente addetti al servizio degli organi giudiziari del comune quali i consoli de iustitia o de placitis, un contributo decisivo in tal senso verrà dalla Chiesa con l’importante riconoscimento, in un canone del Concilio Lateranense IV (1215), del notaio come «publica persona» deputata alla redazione di tutta una serie di «iudicii acta» minuziosamente elencati fra i più ricorrenti nel processo per giungere alla definizione della controversia(10).
La contiguità della figura del notaio di tribunale con quella del giudice è ben simboleggiata in alcuni ordinamenti, a partire dalla fase podestarile della storia comunale, dalla condivisione con il suo dominus e con i di lui più stretti collaboratori non solo del requisito dell’«extraneitas» a garanzia di imparzialità nell’esercizio del suo ministero, ma anche dell’assoggettamento, «expleto munere», al procedimento di sindacato sul suo operato(11).
Tale contiguità più in generale fra il Notariato e la funzione giurisdizionale viene anche avvalorata dalla dottrina di diritto comune che, a partire perlomeno dal secolo XIII, comincia ad assimilare frequentemente la figura del notaio a quella dello «iudex ordinarius» o «iudex chartularius» inquadrando anche alcuni aspetti della sua attività di certificatore della volontà negoziale dei privati nell’ambito dell’esercizio di una forma di «iurisdictio inter volentes»(12). Tale assimilazione avviene sulla scia di una prassi che, verosimilmente collegata in qualche modo con la figura del notaio-giudice altomedievale di cui si è detto, già nella prima metà del Duecento è attestata da diplomi di nomina in cui, accanto all’ufficio di pubblico notaio, l’autorità imperiale attribuiva allo stesso soggetto quella di giudice ordinario con il conferimento della facoltà di compiere atti tipici della giurisdizione non contenziosa come l’intervenire nelle nomine dei tutori e dei curatori, nelle formalità dell’emancipazione dei figli e in quelle delle donazioni di una certa rilevanza economica, dichiarando inoltre che in relazione a coloro che intendevano «litigare sub eo de eorum voluntate et assensu» egli potesse «de nostra licentia inter tales consentientes in eum, habere iurisdictionem cognoscendi et iudicandi inter eos»(13).
Gli interventi dottrinali in materia si moltiplicano fra XIV e XV secolo mettendo in evidenza uno stretto legame fra i poteri giurisdizionali riconosciuti al notaio in funzione di tale nomina ed il riconoscimento all’atto notarile di un’esecutività pari a quella della sentenza in caso di inadempimento dell’obbligazione in esso contenuta(14). Tale «executio parata» derivava, o direttamente da una norma statutaria che la prevedeva, oppure dall’inserzione da parte del notaio nell’instrumentum di una specifica formula precettiva denominata «praeceptum guarentigiae» secondo una prassi ben descritta agli inizi del Cinquecento da un importante commentatore civilista in tali termini:
et fit instrumentum guarentigiae isto modo, pone partes sunt in concordia et dicunt: eamus ad notarium; nam omnes notarii habent iurisdictionem voluntariam et sunt iudices chartularii...nam qui creant notarios creant iudices. Et unus dicit notario: facias instrumentum quod ego confiteor me esse debitorem talis et creditor acceptat confessionem et notarius facit instrumentum, quia talis est confessus se debere decem coram me tali, ego notarius iubeo et praecipio sibi, quod det tali decem intra tale tempus, scilicet determinatum a partibus etc., et sic instrumentum guarentigiae est quod habet praeceptum notarii in confessum de solvendo(15).
Tornando alle funzioni del notarius actorum nell’ambito dell’apparato giurisdizionale, è noto come fra la fine del Medioevo e gli inizi dell’età moderna esse non si limitassero in genere alla mera verbalizzazione delle attività processuali ma, anche in violazione di quanto stabilito dallo ius commune, si estendessero ad attività direttive del procedimento sia nel civile che nel criminale dove, spesso senza la presenza del giudice e a volte persino in assenza di una sua espressa delega (commissio), il notaio attuario eseguiva sopralluoghi, raccoglieva le prove, interrogava i testimoni, svolgendo quindi in sostituzione dell’autorità giudicante tutta una serie attività delle quali redigeva anche i relativi verbali e finendo così per ritagliarsi un ruolo da protagonista assoluto della fase istruttoria del giudizio(16).
La delicatezza delle funzioni svolte dai notai nel processo richiese spesso particolari cautele nella scelta di coloro che aspiravano a tale ruolo, oltre che per il prestigio, per gli introiti che tale ufficio garantiva; a Padova, per esempio, lo Statuto della Fraglia dei notai del 1419 stabiliva che per poter «exercere officia coram iusdicentibus ad banchos ubi et quando redditur jus et acta processus causarum civilium et criminalium quae inter partes agitantur legitime scribere» l’aspirante dovesse possedere, oltre ai normali requisiti dell’età, della nascita cittadina e del titolo notarile, quello di un comprovato studio per almeno due anni del diritto o dell’arte notarile presso pubbliche scuole e quindi superare ben due esami, uno di fronte a tre membri del Collegio e l’altro di fronte al vicario del Podestà(17). Requisiti meno pretenziosi sotto il profilo degli studi, ma comunque il superamento di un esame «de eorum doctrina, eruditione, studio et practica», richiedeva nel 1546 una disposizione dei Rettori e Consiglieri del Venerando Collegio dei notai di Genova per entrare a far parte della cerchia dei notai collegiati abilitati a ricevere gli «acta curialia» presso i principali tribunali cittadini(18).
Essendoci spostati con questo provvedimento in piena età moderna vediamo brevemente come si possa ravvisare una certa continuità in tale ambito, anche a seguito dell’affermazione di compagini statuali di maggiore estensione (Stati regionali-nazionali) che reclamano sempre di più il proprio monopolio legislativo in settori di importanza cruciale, fra cui quelli del processo e dell’amministrazione della giustizia. Un elemento di novità può essere ravvisato più che altro in una tendenza, in alcuni casi più o meno marcata, a distinguere le due anime del Notariato, quella della libera professione per i privati e quella del pubblico impiego nelle cancellerie dei tribunali, mettendo così le basi per l’emersione di due differenti figure professionali(19). Limitandoci solo ad alcuni esempi, vediamo come se in alcuni contesti come quello proprio della Repubblica di Genova più a lungo resisterà la prassi dell’esercizio parallelo delle due funzioni con i notai nella maggior parte dei casi costretti, ormai più per bisogno che per prestigio, a dividere il loro tempo fra la redazione di instrumenta nei loro scagni e una periodica presenza «ad bancum iuris» per ricevere e stendere gli acta iudiciaria, in altri, di carattere per lo più monarchico, si registri invece già a partire dagli ultimi decenni del Medioevo una progressiva separazione fra le due figure di professionisti della documentazione(20).
Negli Stati sabaudi, ad esempio, tale frattura diventa sempre più marcata a partire perlomeno dal XV secolo, per quanto riguarda i Secretarii (Segretari) e gli Scribae (nelle fonti successive denominati Attuari) degli organi giudiziari di grado superiore che, pur provvisti necessariamente della qualifica notarile richiesta per legge, in realtà una volta entrati in carica si concentravano prevalentemente sulle loro mansioni di redazione e conservazione della documentazione processuale(21). Ma se proprio commentando gli antichi decreti ducali un giurista piemontese del XVI sottolineava tale separazione di funzioni affermando «quod notarius actorum iudicialium instrumenta recipere non debet quae ab officio non dependent»(22), fra la seconda metà dello stesso secolo e i primi decenni di quello successivo riemerge intanto nelle terre subalpine, attraverso la categoria dei giudici «ordinari de panni curti», la figura di origine medievale del magistrato non togato che non solo veniva generalmente reclutato fra i notai, ma che anche in virtù di tale qualifica poteva fungere da verbalizzatore delle attività svolte di fronte a lui stesso come organo giudiziario(23). L’introduzione nel corso del Seicento del sistema della venalità, che interessò sia i notai che esercitavano la professione per i privati, sia quelli impegnati in qualità di segretari ed attuari nei tribunali, contribuì ad accentuare la separazione fra le due categorie di operatori del diritto che anche le Regie Costituzioni amedeane ci presentano, almeno per quanto riguarda le magistrature maggiori, con contorni abbastanza distinti(24). Diversa fu sicuramente, fra il XVII e il XVIII secolo, la situazione nelle giurisdizioni minori dove «per la piccolezza del luogo e per la consuetudine» non solo i notai finivano per esercitare cumulativamente svariate funzioni fra cui quelle di giusdicente (giudice) e di segretario (cancelliere) ma, a causa della tenuità degli introiti, erano anche costretti a cercare di esercitare queste ultime in più giudicature contemporaneamente finendo per dar luogo a casi di accaparramento eccessivo come quello del notaio Giuseppe Arditi che arrivò, intorno alla metà del Settecento, alla titolarità di ben undici «giudicature o podesterie» del Vercellese(25). I fenomeni della rilevante e polivalente presenza del notaio nel settore dell’amministrazione della giustizia e della sua sostanziale distinzione nei confronti del professionista dedito solamente alla certificazione della volontà negoziale dei privati emergeranno ancora in maniera eloquente in un’opera istruttiva sul Notariato sabaudo di fine secolo in cui, ad un solo volume dedicato alla figura del «semplice notaio», ne faranno riscontro ben tre dedicati al notaio come «segretario di tribunale» e come «giusdicente»(26). Ancora più marcata e più precoce appare la separazione nel Regno napoletano fra i comuni notai che redigevano - sempre affiancati da un giudice «ai contratti» (figura di funzionario di ben limitato prestigio non facente parte dell’ordine giudiziario) ancora anacronisticamente chiamato ad integrarne la fides - gli «strumenti» per i privati e i notai-cancellieri delle corti giudiziarie(27).
Chiamati comunemente, almeno a partire dagli inizi del XV secolo nei Riti della Gran Corte della Vicaria, «magistri actorum» (in volgare mastridatti), essi cominciarono ad essere fatti oggetto proprio nel corso di quel secolo di una specifica attenzione da parte del legislatore, consapevole dell’importanza e della delicatezza del ruolo da essi svolto nell’ambito del processo sia presso le giurisdizioni superiori che presso quelle provinciali(28). Quanto alle prime, ed in particolare alla «Magna Curia», si segnala l’intervento di Ferdinando I d’Aragona del 1477 in cui, relativamente ai mastridatti e ai loro collaboratori denominati «subactarii» (in volgare scrivani subattuarii o più frequentemente scrivani), non solo si stabiliva un numero massimo (fissato rispettivamente in otto e sedici) per attuare su di essi un maggior controllo, ma si fissavano anche i requisiti in cui, a differenza della legislazione sabauda, non compare un’esplicita menzione relativa ad una formazione notarile dicendosi semplicemente:
qui magistri actorum et subactarii sint probi, et legales, experti et boni scriptores a nobis, seu nostro Sacro Consilio approbati(29).
Anche presso il Sacro Regio Consiglio, che proprio in quegli stessi anni nasce e si afferma come «vertice dell’amministrazione giudiziaria del Regno di Napoli»(30), troviamo nel corso del XVII secolo, in un contesto ormai dominato dal sistema della venalità, ben tredici mastridatti posti ciascuno di loro a capo di un ufficio di cancelleria, denominato «banca», presso il quale il numero massimo di collaboratori denominati scrivani, fissato dalle prammatiche a sei unità, veniva comunemente disatteso giungendo sovente a cifre spropositate che denunciavano spesso un vero e proprio mercato delle nomine(31). Se infatti, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, si accedeva all’ufficio di mastrodatti generalmente attraverso un formale atto di acquisto o più spesso, visti i prezzi particolarmente elevati, prendendolo in affitto dal proprietario che il più delle volte non aveva le qualità per esercitarlo, si arrivava invece ad ottenere un posto da scrivano mediante nomina da parte del titolare (sia proprietario che affittuario) della mastrodattia, nomina per la quale, a parte i casi di speciale favore nei confronti dei parenti degli scrivani defunti o ritirati, venivano spesso estorte illecitamente somme di denaro(32).
Date le importanti mansioni che spaziavano da quelle di carattere più propriamente cancelleresco ad altre riguardanti le notifiche e la conservazione degli atti, i mastridatti del Sacro Regio Consiglio (ma il discorso può essere esteso agli altri grandi tribunali cittadini) sia per il prestigio del ruolo «cuius prerogativae altius praecellunt tabellionatus officium», come sottolineava un noto giurista napoletano del Seicento(33), sia per la mole del lavoro da sbrigare, di regola non esercitavano contemporaneamente la professione per i privati, pur nel caso che fossero provvisti di un «privilegium notariatus»(34).
Il discorso cambiava presso le Regie Udienze provinciali e ancor più presso le corti baiulari dei piccoli centri periferici del Regno, dove addirittura era possibile vedere svolgere dalla stessa persona le funzioni di redattore di strumenti per i privati con quelle di estensore di acta iudiciaria e persino di giusdicente(35). Questo tipo di situazione, con notai che nelle piccole comunità locali potevano assommare su di sé, come in età medievale, varie qualifiche corrispondenti a diverse funzioni in ambito giuridico, non fu però certo prerogativa esclusiva del Regno napoletano, essendo al contrario possibile ritrovarla anche in altri contesti italiani di Antico regime come ad esempio la Toscana medicea in cui, secondo la testimonianza di un processualista del Cinquecento,
videtur notarium, qui (ut saepe accidit) aliquo in loco iudex est, acta coram se facta, saltem in causis minoribus scribere posse, et ex consequenti duplici persona, iudicis et notarii fungi(36).
A tale commistione di funzioni si pose fine, in linea di principio, solo agli inizi dell’Ottocento quando irruppe sullo scenario italiano, sull’onda dei mutamenti politici seguiti all’espansionismo napoleonico, la legge notarile francese del 25 ventoso anno XI(37). Con tale testo normativo, che dove non entrò direttamente in vigore funse da modello prioritario per nuovi sviluppi legislativi in materia, si introdusse una disciplina sicuramente più uniforme e moderna della professione notarile basata su vari principi, tra cui spiccava quello contenuto nell’art. 7 dell’incompatibilità dell’esercizio delle funzioni notarili con quelle di giudice, di procuratore e di cancelliere, recependo in tal caso un indirizzo affermatosi oltralpe per lo meno già a partire dal regno di Francesco I(38).
La vigenza della legge notarile francese ebbe importanti conseguenze fra cui quella di riportare in auge sul piano dottrinale la concezione, usando le parole del consigliere di stato Pierre François de Réal, del notaio come
juge volontaire, dont la présence et la signature impriment aux actes passés devant lui, le caractère, la force et les effects d’un jugement en dernier ressort(39).
Non si interruppero però con essa gli antichi legami fra il Notariato e l’ordine giudiziario, di cui secondo il notaio parigino Massé esso era ancora parte integrante, come testimoniavano del resto alcune attribuzioni dei Tribunali civili di prima istanza circa i notai residenti nel loro circondario, prima fra tutte quella di sovraintendere all’investitura dei notai di prima nomina(40).
La Restaurazione in alcuni contesti segnò, soprattutto nei primi tempi, il ritorno all’antico e di tale fenomeno fornisce un esempio significativo il caso degli Stati sabaudi dove, almeno presso le giurisdizioni inferiori rappresentate dalle giudicature di Mandamento, tornarono a figurare, in veste di segretari-cancellieri verbalizzatori di attività processuali, regi notari iscritti nei ruoli delle rispettive tappe dell’Insinuazione e quindi abilitati ad esercitare contemporaneamente l’attività professionale relativa agli atti negoziali dei privati(41).
In altri contesti si preferì invece non mettere in discussione gli apporti di un sistema più moderno quale quello francese, che fu pienamente recepito nella legge organica 29 maggio 1817 del Regno delle Due Sicilie la quale, infatti, prevedeva una figura autonoma di funzionario giudiziario, denominato «cancelliere», con i classici compiti di documentazione e conservazione degli atti processuali connessi con l’esercizio della giurisdizione da parte della Magistratura(42).
A tale sistema, più che a quello stabilito dalla legge Rattazzi del 1859 sull’Ordinamento giudiziario del Regno di Sardegna, ancora legata in questo settore alla vecchia legislazione sabauda ben simboleggiata dalla denominazione di «segretari» data ai funzionari addetti alla redazione e alla conservazione degli atti giudiziari, guardò il legislatore dello Stato unitario(43). Nella prima legge italiana sull’Ordinamento giudiziario, varata in concomitanza con i primi codici nazionali nel 1865, troviamo, infatti, disciplinata con caratteri propri la figura del «cancelliere», funzionario giudiziario qualificato da uno specifico percorso di carriera che assisteva i giudici nelle udienze e nell’esercizio delle loro funzioni, contrassegnandone le firme, riceveva gli atti giudiziari e pubblici concernenti il loro ufficio, eseguiva le registrazioni degli atti, li conservava in deposito e ne rilasciava le copie e gli estratti a norma di legge(44). È però significativo notare come in tale contesto non ci si dimenticasse del tutto della figura del notaio che infatti veniva infatti ancora evocata per lo meno in due casi. Uno era rappresentato dalla possibilità prevista dall’art. 159 che, sulla scia della legge sarda, in caso di mancanza od impedimento del cancelliere o di vice-cancellieri, potessero essere eccezionalmente assunti in loro sostituzione, previa prestazione del prescritto giuramento, dei «notai esercenti»(45); l’altro era invece quello che, fra le varie categorie di aspiranti alla nomina a pretore, primo grado della magistratura togata, prevedeva anche quella dei notai laureati in legge dopo otto anni di effettivo esercizio(46). Come chiarirà il primo ordinamento notarile unitario varato con la legge 25 luglio 1875, n. 2786 tali funzioni, similmente a quelle di qualsiasi altro ufficio retribuito dallo Stato, erano evidentemente incompatibili con l’ufficio di notaio così come delineato da tale testo normativo che si ricollegava in molti aspetti alla legislazione napoleonica (a dire il vero più a quella del Regno Italico che a quella propriamente francese)(47). Trattandosi invece di un impiego del tutto onorario, rimaneva aperta la possibilità per i notai residenti in piccoli centri di svolgere, parallelamente alla loro professione, funzioni giudiziarie in veste di Conciliatore, altro istituto che il legislatore del 1865 aveva mutuato dall’Ordinamento giudiziario del dissolto stato borbonico(48). Tali funzioni, accessibili quindi, oltre che ai notai esercenti, anche a quelli abilitati in attesa di sede, vennero ricoperte da ambedue le categorie costituendo inoltre un titolo di preferenza, accanto a quello dell’anzianità di esame previsto dalla legge notarile, nel conferimento di posti notarili vacanti(49).
Accanto alla possibilità di svolgere funzioni propriamente giudicanti in questa veste, il notaio conservava però all’interno dell’ordinamento unitario la competenza ad esercitare speciali atti di giurisdizione per delegazione dell’autorità giudiziaria come ad esempio procedere alla vendita «ai pubblici incanti» di beni pignorati (artt. 627 c.p.c. e ss.), alla rimozione dei sigilli e alla redazione di inventari (artt. 866 c.p.c e ss.) e alle operazioni relative alle divisioni giudiziali (artt. 887 c.p.c. e ss.). Vi erano poi altri atti e funzioni speciali, sempre di indole giudiziaria o perlomeno attinenti all’ordinamento giudiziario, conferiti al notaio direttamente dalla legge come ad esempio il rilascio di copie autentiche dei propri atti pubblici muniti della formula esecutiva - la cui natura e funzione che si ricollegava storicamente all’antico precetto di guarentigia li rendeva così titoli processualmente efficaci al pari delle sentenze (art. 556 c.p.c.) -, il ricevimento dell’atto di consenso dei creditori alla liberazione del debitore arrestato (art. 772 c.p.c.), il procedere alla vendita per incanto, su incarico del tutore, dei beni mobili del minore (art. 816 c.p.c.), all’offerta reale di pagamento al creditore per conto del debitore (art. 902 c.p.c.) e all’elevazione di protesti per obbligazioni cambiarie insolute (art. 259 cod. comm.)(50). A parte queste ultime due attività che avevano qualche attinenza anche rispetto alla giurisdizione contenziosa, il complesso di tutte le funzioni sopra menzionate veniva significativamente ricondotto dalla dottrina, sulla scia di un’antica tradizione, all’esercizio da parte del notaio di atti di giurisdizione volontaria(51).
Tutte queste competenze e facoltà vennero così a prolungare nel tempo quell’antica presenza del notaio nell’apparato giurisdizionale che si protrasse anche a seguito delle novità legislative del Novecento continuando, per alcuni aspetti rimasti sostanzialmente invariati e per altri invece del tutto nuovi, ancora oggi.


(1) AA.VV., Hinc publica fides. Il notaio e l’amministrazione della giustizia. Atti del Convegno internazionale di studi storici, Genova 8-9 ottobre 2004, a cura di V. Piergiovanni, Milano, Giuffrè, 2006.

(2) L. SINISI, «Judicis oculus. Il notaio di tribunale nella dottrina e nella prassi di diritto comune», in AA.VV., Hinc publica fides ..., cit., p. 217-240.

(3) Emblematico, per quanto concerne l’esercizio di funzioni istruttorie, è il caso del notaio Gunteram che su incaricato del re Liutprando procedette a compiere un’inquisitio attraverso la raccolta di testimonianze circa una vertenza che opponeva i due vescovi di Siena ed Arezzo (il ruolo svolto dal detto notaio in tale vicenda è stato acutamente evidenziato da A. PADOA SCHIOPPA, «Notariato e giurisdizione», in AA.VV., Hinc publica fides ..., cit., p. 153-155. Nello stesso periodo, in due documenti tratti dalla stessa fonte utilizzata dal contributo appena citato e relativi sempre al territorio toscano, si segnala la presenza di un «notarius et missus domini regis» che svolgeva funzioni di giudice aggiunto (cfr. L. SCHIAPARELLI, Codice diplomatico longobardo, I, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1929, docc. n. 20, 21, p. 77-87). Anche se, come è stato autorevolmente sostenuto, è assai poco plausibile l’esistenza in questo periodo di una figura specifica di «notarius» inquadrabile esclusivamente come «scrittore privato di chartae» (G. COSTAMAGNA, L’Alto Medioevo, in M. AMELOTTI-ID., Alle origini del Notariato italiano, Roma, CNN, 1975, p. 176-177), è comunque attestata la presenza di soggetti «che si qualificano assai semplicemente “notarii” o “scriptores”», ma che le fonti legislative del tempo identificano normalmente col nome di “scribae”, impegnati prevalentemente nella redazione di carte private (cfr. A. PETRUCCI, Notarii. Documenti per la storia del Notariato italiano, Milano, 1958, p. 5-7).

(4) Fra i riferimenti normativi più importanti possiamo ricordare il Capitulare mantuanum del 781, che sanciva la necessaria presenza di un notaio a coadiuvare i giudici nei tribunali, e il Capitulare missorum dell’803 che attribuiva ai missi dominici l’incarico di nominare per «singula loca» nei quali si dirigevano, insieme non a caso ai giudici e agli avvocati, i notarii (per i testi di tali provvedimenti carolingi, entrambi contraddistinti da un latino assai approssimativo, cfr. Monumenta Germaniae Historica, III, Legum I, Hannoverae, impensis Bibliopolii Aulici, 1835, p. 40, 115).

(5) È questo il caso di «Ursinianus», che già attestato in alcuni precedenti placiti come notaio e dettatore nonché come giudice aggiunto, compare nel marzo dell’830 a presiedere con il titolo di «notarius domnus imperatoris» un placito a Parma in cui si segnala la presenza di altri due notai dei quali uno, Emesindo, compare come dettatore, e l’altro, Ansprando, più semplicemente come redattore («... ex dictatu Emesindi notarii scripsi») della «notitia iudicati» (C. MANARESI, I placiti del “Regnum Italiae”, I, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1955, doc. n. 40, p. XII, 126-128). Nelle “notitiae iudicati” si trovano compendiati in un unico documento interi procedimenti con riferimenti che vanno dalle fasi preliminari fino alla decisione finale.

(6) Se già alcuni decenni fa è stata ipotizzata, sulla base di alcune esperienze documentate quale ad esempio quella di Lucca, l’esistenza di un cursus honorum che prevedeva la possibilità di passare dalla qualifica di semplice notaio a quella, di rango superiore e quindi dotata di maggior prestigio, di notaio-giudice (cfr. G. COSTAMAGNA, op. cit., p. 198), recentemente è stato evidenziato come intorno al X secolo la formazione notarile era divenuta quasi una tappa obbligata per chi volesse intraprendere la carriera di giudice (cfr. A. MEYER, Felix et inclitus notarius. Studien zum italienischen Notariat vom 7. bis zum 13. Jahrhundert, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 2000, p. 87-92).

(7) La diffusa presenza nel corso dell’XI secolo di soggetti che redigono atti privati sottoscrivendosi col titolo di «notarius et iudex sacri palacii» è ben documenta nel territorio lombardo (cfr. Gli atti privati milanesi e comaschi del sec. XI, a cura di G. Vittani e C. Manaresi, vol. I [1001-1025], Milano, Hoepli, 1933; Gli atti privati milanesi e comaschi del sec. XI, a cura di C. Manaresi e C. Santoro, vol. III [1051- 1074], Milano, Castello Sforzesco, 1965); il Sacro Palazzo cui ci si riferisce non sembra in quest’epoca identificabile con quello regio di Pavia alludendo piuttosto, e in modo astratto, stante la situazione «itinerante» della corte, al «governo regio con l’insieme degli uffici effettivamente operativi, chiamato idealmente ed anticamente Sacro Palazzo» (G. NICOLAJ, Cultura e prassi di notai preirneriani. Alle origini del rinascimento giuridico, Milano, Giuffrè, 1991, p. 23-24); per una sintesi efficace delle caratteristiche del processo romano-canonico, espressione del rinascimento giuridico bassomedievale, cfr. A. PADOA SCHIOPPA, Storia del diritto in Europa. Dal Medioevo all’Età contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 139-142).

(8) Sull’«inscindibile connessione della fides con la professione notarile e il valore della sua documentazione» presto messo in evidenza dalla dottrina giuridica medievale cfr. V. PIERGIOVANNI, «Fides bona e bona fides: spunti dalla scienza e dalla pratica giuridica medievale», in AA.VV., Hinc publica fides ..., cit., p. 93-107; sul pluralismo ordinamentale che fiorisce nell’età bassomedievale grazie anche all’affermazione di una svariata serie di «strutture politiche nuove» come i comuni, le consorterie e le corporazioni cfr. il classico affresco di F. CALASSO, Gli ordinamenti giuridici del rinascimento medievale, Milano, Giuffrè, 1965, passim.

(9) Sul tema cfr. L. SINISI, «Judicis oculus. Il notaio di tribunale ...», cit., p. 219-220 e passim.

(10) Secondo il testo conciliare, successivamente inglobato nel Liber Extra di Gregorio IX del 1234 (X, 2. 19. 11), questi erano: «citationes et dilationes, recusationes et exceptiones, petitiones et responsiones, interrogationes et confessiones, testium depositiones et instrumentorum productiones, interlocutiones et appellationes, renunciationes, conclusiones et caetera quae occurrerint competenti ordine conscribenda» (cfr. Concilium Lateranense IV - 1215, cap. 38, in Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di G. Alberigo, G. A. Dossetti, P.P. Joannou, C. Leonardi, P. Prodi, s. la dir. di H. Jedin, Bologna, Istituto per le scienze religiose, 1973, p. 252); sulle più antiche testimonianze (relative al territorio lombardo) riguardanti l’esistenza di notai ufficialmente addetti al servizio degli organi giudiziari del Comune consolare cfr. P. TORELLI, Studi e ricerche di diplomatica comunale, P. II, in Pubblicazioni della R. Accademia Virgiliana di Mantova, I, 1915, p. 112.

(11) Sul coinvolgimento nel sindacato dei magistrati, accanto alla figura monocratica del podestà e in numero variabile a seconda del particolare ordinamento cittadino, di notai-cancellieri, assessori-giurisperiti (giudici), berrovieri, bargelli e cavalieri incaricati di mantenere l’ordine pubblico e sul procedimento che vedeva altri notai intervenire in veste di attuari verbalizzatori delle magistrature preposte al sindacato cfr. G. MASI, «Il Sindacato delle Magistrature comunali nel sec. XIV», in Riv. it. sc. giur. N.S. - a. V, 1930, fasc. I e II, p. 44-55; più in generale per un inquadramento dell’istituto fra dottrina e prassi con particolare riguardo all’esperienza genovese cfr. da ultimo R. FERRANTE, La difesa della legalità. I Sindacatori della Repubblica di Genova, Torino, Giappichelli, 1995).

(12) Punto di partenza della riflessione dottrinale sulle figure di questi giudici assimilati ai notai è prevalentemente un brano del quinto libro dei Digesta, come dimostra l’intervento di un esponente di spicco dell’ultima fase della scuola della glossa che definisce gli «iudices cartularii» come quei magistrati aventi «dignitatem sine administratione», identificabili in coloro che «quando venit imperator in Italia currunt infiniti et vadunt ad imperatorem et procurant ita quod faciunt eos iudices ordinarios quid habent isti ut possit emancipari et manumitti coram eis; et dicuntur cartularii quia eorum iurisditio pendet ex carta bullata» (ODOFREDUS, Matura diligentissimeque repetita interpretatio in undecim primos pandectarum libros, Lugduni, s.t., 1550, ad D. 5.1.1, c. 200v); dello stesso tono, ma più preciso ed esplicito, è un intervento al riguardo in un testo più tardo della dottrina canonistica (si tratta di una additio all’apparato ordinario di Giovanni d’Andrea alle Clementinae): «est alius iudex, qui dicitur iudex Chartularius. Et olim tales iudices erant privilegiati ab Imperatore ut qui vellent coram eis litigare, possent; sed ipsi non poterant cogere aliquem ad litigandum coram eis. Et dicuntur etiam hodie iudices ordinarii creati a Comite Palatino, qui non habent administrationem nisi in habitu...et isti iudices vocantur hodie notarii apostolici et imperiales et chartularii a charta quia dum creantur mittuntur in possessionem chartae» (Clementinae constitutiones suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, apud socios Aquilae renovantis, 1605, ad Clem., 2. 12. 1, gl. Si a iudicibus. Casus, p. 99).

(13) È questo il caso di un tal «Bentius de Sancto Miniato», creato nel 1220 a Mantova pubblico notaio e giudice ordinario dall’imperatore Federico II con un diploma il cui testo si trova pubblicato integralmente in J. FICKER, Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens, Innsbruck, Wagner, 1868-1874 (rist. Aalen, Scientia, 1961), t. IV, n. 282, p. 319. Tale prassi di attribuzione congiunta dei due officia, almeno in alcune zone, dovette sopravvivere a lungo come dimostra un formulario di area romana di inizio Seicento che riporta una formula di nomina notarile in cui il candidato instante «diligenter examinatum ac habilem et idoneum repertum» viene creato ancora «notarium publicum et tabellionem ac Iudicem ordinarium cum solitis facultatibus» (S. TIBERIUS A CORNETO, Formularium cuiusvis generis instrumentorum ad stylum et communem usum Romanae Curiae, Romae, apud Gullielmum Facciottum, 1601, p. 196; su tale opera cfr. L. SINISI, Formulari e cultura giuridica notarile in età moderna. L’esperienza genovese, Milano, Giuffrè, 1997, p. 54-57).

(14) Significativo è, agli inizi del Trecento, l’intervento di Iacobo Bottrigari (1274 c.a.-1347-48) che afferma: «attende quod iudices cartularii sunt illi qui sunt ordinarii et habent iurisdictionem inter volentes tamen et multi sunt in Tuscia; nam quasi omnes tabelliones sunt iudices ordinarii et faciunt instrumenta debiti» (I. BUTRIGARIUS, Super Codice lectura, Parrhisiis, impensis Ioannis Parvi, 1516, ad C. 3. 47 .3, c. 79r; per notizie sul giurista cfr. M. KRIECHBAUM, Iacopo Bottrigari, in Dizionario biografico dei giuristi italiani [XII-XX secolo], s. la dir. di I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti – DBGI, Bologna, 2013, vol. I, p. 1096-1098). Non casuale è il riferimento alla Toscana, territorio in cui particolarmente precoce fu il riconoscimento ai notai di funzioni giurisdizionali in qualità di «iudices cartularii» e in cui si registra «il primo apparire del documento notarile guarentigiato» (D. BIZZARRI, Il documento notarile guarentigiato. Genesi storica e natura giuridica, Torino, Istituto giuridico della R. Università, 1932, soprattutto p. 39- 41; sull’esecutività dell’instrumentum notarile si vedano anche fra i contributi successivi A. CAMPITELLI, Precetto di guarentigia e formule di esecuzione parata nei documenti italiani del secolo XIII, Milano, Giuffrè, 1970; I. SOFFIETTI, «L’esecutività dell’atto notarile. Esperienze», in AA.VV., Hinc publica fides ..., cit., p. 163-183).

(15) I. MAYNUS, In secundam Digesti novi partem commentaria, Venetiis, apud Iuntas, 1573, ad D. 45. 1. 1, c. 7v; lo stesso autore in un altro passo dei suoi commentari, oltre a fornirci una testimonianza circa la prassi diffusa ai suoi tempi nella sua terra d’origine vale a dire del fatto che «in partibus Lombardiae quando comites palatini creant aliquem notarium, faciunt etiam eum iudicem, et isti sunt proprie iudices cartularii», sottolinea l’effetto che il diritto statutario riconosceva al «praeceptum factum a notario» vale a dire l’immediata esecuzione dell’obbligazione «omni exceptione remota» sulla base della semplice presentazione dell’instrumentum quale titolo esecutivo (cfr. ID., In primam Codicis partem commentaria, Venetiis, apud Iuntas, 1585, ad. C. 1. 18. 7, c. 35v; sulla figura e sulle opere del grande giurista lombardo morto a Pavia nel 1519 cfr. M.G. DI RENZO VILLATA, Giasone del Maino, in DBGI, vol. I, p. 995-999); sulla situazione di città come Genova in cui l’esecutività era concessa dagli Statuti cittadini a tutti gli instrumenta notarili non viziati, indipendentemente dalla presenza di una formula precettiva, e sulle giustificazioni di tale prassi elaborate dalla dottrina cfr. L. SINISI, Un frammento di formulario notarile genovese del Trecento, in Studi in memoria di Giorgio Costamagna, a cura di D. Puncuh, Genova, Società Ligure di Storia Patria, 2003, p. 1037-1038.

(16) Il principio di base che, come affermava un celebre esponente del così detto «triumvirato» dell’Umanesimo giuridico agli albori dell’Età moderna, recitava: «Notarius tamen solus sine iudice non posset conficere acta iudiciaria, quamvis sit iudex chartularius», subiva un’importante eccezione rappresentata dalla facoltà, comunemente riconosciuta al giudice, che egli potesse «expresse vel ratione officii, generaliter vel specialiter» delegare al notaio il potere di «acta facere etiam in absentia iudicis» (U. ZASIUS, Commentaria seu lecturae in titulos tertiae partis Pandectarum, in ID., Operum, t. III, Lugduni, apud Sebastianum Gryphium, 1550, col. 483). Anche se la delega veniva generalmente concessa assai facilmente, abbiamo testimonianze di contesti, quale quello lombardo del XVI secolo, in cui un’attività importante come l’escussione dei testi pare fosse svolta dal notaio-cancelliere da solo «etiam absque ulla commissione iudicis» (cfr. I. CLARUS, Practica criminalis, in ID., Opera omnia, Lugduni, sumptibus Philippi Tinghi, 1575, q. XXVI, p. 317).

(17) Cfr. G. FERRARI, L’ordinamento giudiziario a Padova negli ultimi secoli della Repubblica Veneta , in Miscellanea di storia veneta edita per cura della R. Deputazione Veneta di Storia Patria, s. III, t. VII, 1913, p. 44-45.

(18) Il provvedimento, datato 9 novembre 1546, si trova pubblicato in Riforma delle leggi, ordini e decreti del Venerando Collegio de’ Notari con la comprovazione del Serenissimo Senato, Genova, Stamperia Gesiniana, 1770, p. 42-43.

(19) Tale tendenza si manifesta precocemente in età bassomedievale in alcuni contesti particolari come quello di Venezia e di parte del suo Stato dove, tra la seconda metà del XIII secolo e l’inizio del Quattrocento, si assiste ad una «progressiva separazione di carriere tra notai di cancelleria e notai ad instrumenta» (cfr. al riguardo S. GASPARINI, La disciplina del Notariato veneziano: bozza di una cronologia medievale, in Il Notariato veneziano tra X e XV secolo, a cura di G. Tamba, Bologna, Forni, 2013, p. 51- 52; al di là delle Alpi, già l’apparire in un’ordonnance del 1320 del termine di «greffier» segnala un processo destinato a portare velocemente di lì a qualche decennio quei «notaires du roi qui étaient chargés de suivre et de consigner par écrit ce qui passait à l’audience» ad assumere stabilmente tale denominazione emergendo come «des auxiliaires de justice» sempre più distinti dai semplici rogatari di atti privati (cfr. al riguardo J.-P. ROYER, Histoire de la justice en France, Paris, Puf, 1996, p. 147-148).

(20) Sulla «doppia anima» come nota caratteristica del Notariato genovese, i cui esponenti continuarono fino alla fine del XVIII secolo a svolgere contemporaneamente due attività: «quella professionale privata come rogatari di instrumenta e quella pubblico-amministrativa, di notai ad acta titolari di una scribania» cfr. R. SAVELLI, Notai e cancellieri a Genova tra politica ed amministrazione, in Tra Siviglia e Genova: notaio, documento e commercio nell’Età Colombiana, a cura di V. Piergiovanni, Milano, Giuffré, 1994, p. 481; anche se difficilmente gli impegni di cancelleria consentivano di svolgere parallelamente un’attività professionale di una certa consistenza, non mancano però casi di notai che nel corso del XVII secolo riuscirono a produrre negli stessi anni un cospicuo numero di acta come cancellieri della Rota civile e di altri magistrati e di instrumenta per certificare la volontà negoziale dei privati (sul punto cfr. L. SINISI, Formulari e cultura giuridica ..., cit., p. 205-207 e passim).

(21) Nel dettato normativo della «prima vera “consolidazione” di leggi dello Stato sabaudo», presso il «Consilium cum Domino residens» - che nel periodo antecedente all’occupazione francese svolse nell’ordinamento del Ducato, accanto a funzioni consultive-amministrative, quelle di vertice del sistema giudiziario - il duca sottolineava la necessità di «habere et assumere ... viros providos, discretos, probos et honestos, notarios publicos et in scientia et arte notariatus idoneos et expertos, ad scribendum, signandum, registrandum, grossandum et expediendum decenter omnes et singulas litteras clausas et apertas, instrumenta, acta, processus causarum et caeteras scripturas negociorum in praedicata curia nostra occurrentes, bene scribentes, legentes et intelligentes» (Amedeo VIII, Decreta seu Statuta [1430], in Decreta seu Statuta vetera Serenissimorum ac praepotentum Ducum et Pedemontii Principum, Augustae Taurinorum, apud haeredem Nicolai Bevilaquae, 1586, lib. II, cap. XXVI, De qualitate, officio et iuramento secretariorum , cc. 13v-14r; su tale importante corpo normativo, che dedicava alla professione notarile finalizzata alla redazione degli atti per i privati una non breve sezione del libro III intitolata De notariis et tabellionibus publicis et eorum officio , e sulle funzioni del Consilium ducale cfr. I. SOFFIETTI, Il diritto negli Stati sabaudi: fonti ed istituzioni (secoli XV-XIX) , Torino, Giappichelli, 2008, p. 7-29); secondo uno studio, seppur datato, sempre utile, già negli Statuti di Amedeo VI del 1379 si era cominciato «a far distinzione fra i notai che sono assunti per redigere gli atti giudiziari e quelli che si occupano dei contratti e testamenti dei privati» (E. DURANDO, Il tabellionato o Notariato nelle leggi romane, nelle leggi medioevali italiane e nelle posteriori specialmente piemontesi, Torino, Bocca, 1897, p. 151).

(22) A. SOLA, Commentarii in constitutiones antiquas Ducatus Sabaudiae ac Principatus Pedemontium, Augustae Taurinorum, apud haeredes Nicolai Bevilaquae, 1582, gl. ad decr. Ad honestatem (lib III, cap. 19), c. 137v; sul giurista subalpino, morto a Torino nel 1593, cfr. C. MONTANARI, Sola, Antonio, in DBGI, vol. II, p. 1882-1883).

(23) Di tale fenomeno ci fornisce una chiara testimonianza nel secolo successivo il giurista saluzzese Della Chiesa quando afferma: «et in hac Patria est notoria consuetudo generalis, quod iudices breviorum pannorum funguntur officio iudicis et tabellionis et possunt acta gesta coram se levare et authenticare et de prolatione sententiae concedere testimoniales et conficere instrumenta» (I.A. AB ECCLESIA, Observationes forenses Sacri Senatus Pedemontani ad Supremae Curiae praxim et ad declarationem styli Marchiae Salutiarum, Augustae Taurinorum, ex officina Bartholomaei Zappatae, 1668, observ. XXXII, p. 49). Degli «ordinari de panni curti», magistrati «privi quindi di toga e presumibilmente di dottrina» la cui giurisdizione era limitata alle cause in prima istanza sorte nei territori cittadini e rurali loro affidati all’interno di una provincia retta da un Prefetto, si parla già nelle riforme legislative di Emanuele Filiberto (cfr. C. PECORELLA, Introduzione a, ID., a cura di, Il libro quarto degli “Ordini Nuovi” di Emanuele Filiberto, Torino, Giappichelli, 1994, p. XIX-XX).

(24) Se per i due Segretari del Senato non viene nemmeno più espressamente affermato il requisito della qualità di notaio, tale qualità viene invece richiesta, però solamente come requisito minimo, ancora per i loro sostituti («che dovranno esser’ almeno notaj»), mentre per gli attuari e segretari dei tribunali subalterni la qualifica notarile è ancora obbligatoria sulla scia di una costituzione ducale del 1632 (cfr. Leggi e costituzioni di Sua Maestà, Torino, per Gio. Battista Valetta, 1723, lib. II, tit. III, cap. XIX, §§. 1- 7, p. 88-90; tit. XVI, §§. 1-2, p. 182); si tratta però di una qualifica che, acquisita attraverso un percorso formativo e burocratico identico a quello di coloro che esercitano la professione per i privati, diventa sempre di più una tappa obbligata per accedere ad una carriera sostanzialmente diversa.

(25) Il che avveniva in palese violazione delle Regie Costituzioni che, pur autorizzando a determinate condizioni l’esercizio contemporaneo di più giudicature, richiedevano una presenza fissa in ognuna di esse almeno «un giorno della settimana» per tenervi tribunale, cosa che non poteva di certo avvenire visto che la settimana è composta da solo sette giorni (cfr. Leggi e costituzioni di Sua Maestà, Torino, appresso Gio. Battista Chais, 1729, t. I, lib. II, tit. V, §. 5, p. 131-132; l’episodio menzionato, risalente al 1756, si trova evidenziato in I. CURLETTI-L. MINEO, “Al servizio della giustizia e del bene pubblico”. Tradizione e conservazione delle carte giudiziarie negli Stati Sabaudi (secc. XVI-XIX), in La documentazione degli organi giudiziari nell’Italia tardo-medievale e moderna, a cura di A. Giorgi, S. Moscadelli e C. Zarrilli, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, 2012, vol. II, p. 592-593. Sotto la carica di giudice ordinario, a sensi delle Regie Costituzioni, i notai potevano ancora ambire nell’ambito dell’esercizio della giurisdizione a quella di Luogotenente-sostituto dello stesso giudice ordinario (Leggi e costituzioni ... [1729], cit., t. I, lib. II, tit. V, §. 18, p. 138) nonché a quella di Castellano o Bailo, figura di giudice di base competente per le cause di minimo valore (Leggi e costituzioni di Sua Maestà, Torino, Stamperia Reale, 1770, tit. VI, §. 14, p. 143).

(26) Si tratta della nota opera dell’avvocato Giuseppe Belmondo di Bricherasio, Istruzione per l’esercizio degli uffizi del notajo, pubblicata a Torino nel 1779 per i tipi di Giammichele Briolo e composta da quattro volumi dedicati appunto il I al semplice notaio, il II al notaio come segretario di tribunale, il III al notaio come giusdicente, mentre il IV, essendo i due precedenti incentrati esclusivamente sul processo civile, riguarda le nozioni necessarie al notaio, sia nelle vesti di segretario-cancelliere che di giusdicente, in relazione al procedimento criminale (su tale opera, ristampata con un’appendice di formule nel 1815 a seguito della Restaurazione, cfr. E. MONGIANO, Belmondo, Giuseppe, in DBGI, I, p. 212-213).

(27) Una prima distinzione fra le due figure sembra già affiorare nel XIII secolo nell’ambito della legislazione fredericiana ove troviamo lo scrittore di atti giudiziari qualificato con la specifica denominazione di «actorum notarius» (cfr. Constitutionum Regni Siciliarum libri III cum commentariis veterum iurisconsultorum, Neapoli, sumptibus Antonii Cervoni, 1773, t. I, lib. I, tit., LI De iustitiariis, assessoribus et actorum notariis ordinandis et de officio iustitiariatus, p. 107; maggiori contatti sembrano esserci fra i notai ad instrumenta e appunto i giudici a contratti, come appare dalle parole di un importante giurista meridionale del primo Cinquecento che al riguardo degli ultimi afferma: «nam isti iudices regii ad contractus dicuntur meri iudices chartularii, quia habent solam iurisdictionem voluntariam et habent honorem iurisdictionis sine administratione » (R. MARANTA, Tractatus de ordine iudiciorum vulgo speculum aureum et lumen advocatorum , Venetiis, apud Dominicum Lilium, 1557, P. IV, dist. XVIII, c. 103r; sulla figura di origine fredericiana del giudice a contratti, le cui mansioni finirono spesso per essere assunte da aspiranti al Notariato e, in epoca più tarda, anche da persone prive di qualsiasi tipo di formazione giuridica, cfr. M. CARAVALE, La legislazione del regno di Sicilia , in AA.VV., Per una storia del Notariato meridionale , Roma, CNN, 1982, p. 105 e passim).

(28) Gli studi sulla formazione dei Riti della Gran Corte, il cui testo risulta costituito di più nuclei principali databili dalla seconda metà del XIII alla riforma della regina Giovanna II del 1432, confermerebbero il passaggio proprio con quest’ultima all’adozione nell’uso corrente del termine «magistri actorum» (riti 24-28, 37) essendo in quelli più antichi (35-36) utilizzata ancora la denominazione della legislazione fredericiana «notarius actorum» (sulla Gran corte della Vicaria e sulla complessa genesi dei suoi Riti, la cui raccolta si affermò come il punto di riferimento legislativo primario in materia processuale per i tribunali del Regno fino alla codificazione, cfr. soprattutto G.M. MONTI, «Le origini della Gran Corte della Vicaria e le codificazioni dei suoi Riti», in Annali del Seminario Giuridico- Economico della R. Università di Bari, a. 1928, P. II, p. 76-205).

(29) Cfr. Capitula, leges et constitutiones [pubbl. nel Sacro Regio Consiglio e nella Gran Corte della Vicaria il 30 ottobre 1477], in Capitula Regni Utriusque Siciliae, Ritus Magnae Curiae Vicariae et Pragmaticae, t. II, Neapoli, sumptibus Antonii Cervoni, 1773, p. 233; l’additio posta nel commento stampato come nota a piè di pagina (che essendo siglata «Matthaeus» dovrebbe essere ascrivibile al D’Afflitto), pur recitando testualmente «quod magister actorum debet esse notarius», non è particolarmente significativa della presenza di tale requisito in quanto le parole successive, che prevedono la derogabilità della presunta regola («et si non potest haberi notarius, debent assumi duo probi viri, textus est in cap. quoniam contra, de probationibus »), denunciano espressamente la dipendenza di tale additio dal citato decreto conciliare lateranense del 1215 cui verosimilmente si era rifatta la prassi del Regnum (cfr. ibidem ).

(30) Su questo grande tribunale si veda, da ultimo, M.N. MILETTI, Tra equità e dottrina. Il Sacro Regio Consiglio e le “decisiones” di V. De Franchis, Napoli, Jovene, 1995, p. 143- 149.

(31) Proprio per porre un correttivo all’«eccessivo numero degli scrivani» era intervenuto il 12 gennaio 1608 un decreto del Visitatore Generale che, facendo seguito a precedenti disposizioni legislative dello stesso tenore, non solo ribadiva tale limite numerico specificando (senza fare alcun riferimento a studi o a pratica notarile) che i nominandi scrivani dovessero essere «di buona opinione e fama, e de gli approvati, abili ed esperti ne’ loro uffizi e che non sieno inquisiti di furti, estorsioni ne falsità, ne di altra sorta di delitti nelli detti uffizi», ma sanzionava anche quel comportamento che era verosimilmente alle origini di tale fenomeno «dichiarando in oltre che li detti Mastridatti non ricevano denaro alcuno, ne altre cose, per la nomina delli detti sei scrivani» minacciando ai trasgressori un castigo «con ogni rigor di legge» (il provvedimento si trova pubblicato in D. GATTA, Regali dispacci, parte seconda che riguarda il civile, Napoli, a spese di Giuseppe-Maria Severino-Boezio, 1775, t. I, p. 170-172). Sull’efficacia degli interventi normativi volti a reprimere tale malcostume è lecito qualche dubbio dal momento che, a quanto si sa, più o meno nello stesso periodo il numero complessivo degli scrivani del Sacro Consiglio, invece di ammontare ai 78 di legge, raggiungeva le quasi 200 unità (cfr. al riguardo R. MANTELLI, Il pubblico impiego nell’economia del Regno di Napoli: retribuzioni, reclutamento e ricambio sociale nell’epoca spagnuola [secc. XVI-XVII], Napoli, nella sede dell’Istituto, 1986, p. 198-199).

(32) A parte il superamento di un esame, sulle cui formalità non si sa molto, e l’accertamento delle qualità morali «previa perquisitione librorum Magnae Curiae Vicariae si sunt de aliquo delicto notati», le fonti normative e dottrinali non fanno cenno a requisiti particolari per ricoprire posti di mastrodatti i quali, come ci informa un celebre giurista del tempo, «plus offerenti venduntur» con la conseguenza che «aliqui ignorant poenitus quid ad eorum pertineat officium», anche se non mancavano eccezioni (cfr. C. TAPIA, Ius Regni Neapolitani ex constitutionibus, capitulis, ritibus, pragmaticis, Neapolitanorum privilegiis, Neapoli, ex Typographia Io. Iacobi Carlini et Constantini Vitali, 1608, lib. II, annot. ad pragm. XXIIII, p. 164); indipendentemente dalla prassi assai comune, visti i prezzi molto elevati, di concessione in affitto da parte dei proprietari (spesso nobili o comunque dotati di notevoli possibilità economiche e che non avevano alcuna intenzione né capacità di esercitare l’ufficio in prima persona) a soggetti idonei, era possibile per il proprietario esercente ottenere un privilegio di «ampliatione per un’altra vita dopo la sua» che lo rendeva trasmissibile - previo intervento autorizzativo della Real Camera della Sommaria comunicato al Presidente del Sacro Regio Consiglio per l’esecuzione - per via ereditaria (per un esempio di tale prassi cfr. Archivio di Stato di Napoli - d’ora in poi Asn -, Tribunali antichi, stanza 235, Sacro Regio Consiglio, busta 773, c. 122). Quanto invece agli scrivani, essi cominciavano la loro carriera «attitando» già in giovanissima età come «allievi, chiamati scrivanotti» presso la “banca” di un mastrodatti alle dipendenze di uno scrivano; questi, ancorché si trattasse di un proprio figlio o stretto congiunto, doveva avere il previo consenso dello stesso mastrodatti al quale, in caso di vacanza di un posto da scrivano per morte o rinuncia del titolare, competeva la nomina del successore effettuata di preferenza fra i parenti del defunto, già attivi come allievi, che però potevano anche essere scavalcati da chi fosse disposto a versare una determinata somma stante «la scandalosa venalità» che praticava illecitamente «la maggior parte de’ mastridatti del Consiglio de’ luoghi de’ scrivani» (cfr. Istruzione del ministro Tanucci in data 19 aprile 1758, in D. GATTA, op. cit., p. 175-176; per alcuni esempi di pratiche relative alle nomine di scrivani, con testimonianze anche sulla possibilità che questi avevano di raggiungere il culmine della carriera diventando a loro volta mastridatti a seguito dell’acquisto o dell’affitto di una «banca», cfr. Asn, Tribunali antichi, stanza 235, Sacro Regio Consiglio, busta 1273, passim).

(33) I. CAPONUS, Disceptationum forensium, ecclesiaticarum, civilium et moralium pluribus in casibus decisarum, Coloniae Allobrogum, sumptibus Pellissari et sociorum, 1737, t. IV, disc. CCCXXII, p. 435; sull’autore (Otranto,1612- Napoli, 1673), apprezzato docente ed avvocato, cfr. E. CORTESE, Capone, Giulio, in DBGI, I, p. 432-433.

(34) Anche se per avere un quadro più certo sarebbe opportuno un lavoro di ben più ampio raggio sui documenti, lavoro assai complesso reso ancora più difficile dalle gravi perdite (dovute all’ultima guerra) di documentazione notarile e giudiziaria dell’Archivio di Stato napoletano e dal recente ritiro dalla consultazione di una parte di fonti manoscritte rilevanti per la ricerca, prime fra tutti quelle della serie «notariorum» dei fondi «Cancelleria» del Consiglio collaterale e della Real Camera di S. Chiara, il noto caso di Francesco di Ruggiero di Torrecuso, notaio con studio («curia») aperto a Napoli «nella piazza della Porta di San Gennaro», che verso la fine del XVII secolo esercitò (avvalendosi di sostituti per tenere contemporaneamente in vita l’attività professionale) l’ufficio di «Maestro d’atti in capite della detta Gran Corte della Vicaria» sembra, allo stato attuale delle conoscenze, piuttosto isolato (sulle vicende biografiche del De Ruggiero, autore di opere indirizzate alla pratica notarile e giudiziaria in epoca recente fatte oggetto di ristampa anastatica a cura di A. De Feo, e sull’ambiente notarile napoletano di fine Seicento cfr. G. BORRELLI, Notai napoletani tra Seicento e Settecento, Napoli, Arte Tipografica, 1995, p. 14-17, 108- 111 e passim). Una conferma in tal senso ci proviene dalla documentazione, prevalentemente settecentesca, contenuta in una unità archivistica dell’archivio napoletano relativa all’assunzione di mastrodattie in cui non si è mai incontrata le qualifica di notaio accanto ai nomi dei molti mastrodatti citati, prevalentemente non proprietari (cfr. Asn, Tribunali antichi, stanza 235, Sacro Regio Consiglio, busta 1272, c. 200); in questa ed in un’altra di fine Seicento appartenente alla serie «Notamentorum» sempre del Sacro Regio Consiglio si riscontrano invece dei nominativi di mastridatti accompagnati dal titolo di «dottore», di cui invece i notai erano normalmente sprovvisti (cfr. ibidem, cc. 72, 200; Asn, Tribunali antichi, stanza 235, Sacro Regio Consiglio, busta 773, c. 2).

(35) Quanto ai mastridatti delle Regie Udienze, la cui carica era annuale con possibilità di conferma senza limitazioni e con obbligo di sottoporsi a sindacato almeno dopo un quadriennio, dovevano essere necessariamente originari di altra provincia, fattore che poteva ostacolare a coloro che erano notai la prosecuzione «durante munere» dell’esercizio professionale (sui requisiti e sulle funzioni degli attuari- mastridatti nelle Udienze provinciali cfr. A. POLICE, De praeminentiis Regiarum Audientiarum Provincialium, Neapoli, sumptibus Nicolai et Vincentiis Rispoli, 1724, t. I, p. 54- 55 e passim); la possibilità che regi notai potessero svolgere funzioni di giudice e allo stesso tempo di verbalizzatori delle attività compiute dinanzi a loro ci viene attestata dalla dottrina alla presenza della condizione «si in parvis terris, puta casalibus existeret consuetudo, quod capitaneus esset pariter actuarius» (I.M. NOVARIUS, De vassallorum gravaminibus tractatus, Neapoli, ex typographia Moriana, 1777, t. III, grav. XVII, p. 30); presso le giurisdizioni minori quindi non solo avveniva che «multoties ipsimet officiales iure iudicis et actuarii funguntur ... licet regulariter in aliis terris et civitatibus talia simul exercere sit prohibitum et acta sunt nulla», ma persino che il requisito della extraneitas venisse derogato «ut etiam cives officiales esse possint, cum difficile sit exteros ad tam parvas villas accedere» (I.F. CAPIBLANCUS, Tractatus de iure et officio baronum erga vasallos burgenses, Neapoli, typis Ioannis Francisci Paci, 1666, p. 77).

(36) I. B. ASINIUS, Ad Statutum florentinum de modo procedendi in civilibus interpretatio, Venetiis, apud Philippum Iuntam et fratres, 1581, §. De actis iudiciariis, cap. XIX, c. 111r). Sul Notariato toscano in età moderna ed in particolare sulla perdurante presenza in tale contesto dei notai negli uffici pubblici cfr. A. BARBAGLI, Il Notariato in Toscana alle origini dello Stato moderno, Milano, Giuffrè, 2013, soprattutto p. 171-201.

(37) Sulla legge notarile francese del 1803 e sull’influenza che ebbe nel contesto italiano sugli sviluppi legislativi in materia di Notariato nel corso del XIX secolo cfr. da ultimo L. SINISI, «Sviluppo ed evoluzione ottocentesca degli ordinamenti notarili italiani sino all’Unità», in Riv. st. dir. it., a. LXXXV, 2012, p. 45-49.

(38) Ad una prima norma proibitiva circa il ricevimento di atti notarili da parte di cancellieri e giudici emanata ad Angoulême nel novembre del 1542 (cfr. Recueil général des anciennes lois françaises depuis l’an 420 jusqu’a la Révolution de 1789, Paris, Plon, 1821-33, t. XII/1, p. 794), aveva fatto seguito tre anni più tardi a Ferriere una dichiarazione ancora più netta comportante di fatto un’incompatibilità di funzioni: « defendons à tous nos Iusticiers, Officiers, leurs Lieutenans et Greffiers, de quelque auctorité qu’ils soyent ... ne aucun d’eux ayent à exercer l’office de Notaire, ne de commis de Tabellions, pour recévoir ne passer contrats, actes instrument, partages et inventaires qui doivent estre receuz et passez par Notaires sur peine de nullité desdits...et d’estre punis comme faulsaires » (cfr. Code du roy Henry III roi de France et de Pologne, Lyon, pour les Freres de Gabiano , 1593, lib. III, tit. XXII, §. XIV, p. 205). Sotto il profilo dottrinale tale separazione è sottolienata da Jean Papon che dedica al cancelliere un’apposita trattazione, distinta da quella dedicata al notaio propriamente detto ( Instrument du premier notaire ) e al segretario ( Secrets du troisieme et dernier notaire ), in cui, prendendo lo spunto da un’affermazione di Giasone, (evidentemente riferita al contesto italiano) «qu’un greffier doit estre notaire », non esita ad affermare: « neanmois l’usage de France est contraire à ce et suffit qu’il soit receu et iuré par le Iuge sous lequel il besongne... sera neantmois, avant que d’estre receu à exercer l’estat, examiné tant en son age, qui est necessaire de vingt cinq ans passés, en scavoir et experiences, que preud’hommie et reputation» (I. PAPON, Trias iudiciel du second notaire , Lyon, par Iean de Tournes, 1580, p. 142). Per il testo dell’articolo 7 cfr. il testo bilingue della Loi contenant organisation du Notariat du 25 ventose an XI / Legge che organizza il Notariato del 25 ventoso anno XI riprodotto anastaticamente in Le leggi notarili. Dagli Stati preunitari al Regno d’Italia , a cura di L. Sinisi, Padova-Torino, Cedam- Utet, 2011, p. 7-27.

(39) Cfr. P.F. DE REAL, Motifs de la loi du 25 Ventose an XI, in A. GUICHARD, Supplément au code et guide des notaires publics, Paris, Garnery, 1803, p. 31. Un’opera di qualche anno più tardi, assai diffusa fra i notai, si soffermava ancora su tale concetto in questi termini: «les notaires exercent une éspece de juridiction volontaire à l’occasion des actes qu’il passent: en effet ils sont les régulateurs des engagements que les parties veulent contracter, et ils exercent une sorte de magistrature. Cependant ils n’ont point, comme les juges le droit d’appeller les parties, vocatio, ni de venger les injuries qui leur seraient faites pendant l’exercice de leurs fonctions, coercitio, ni de juger les faits sur lesquels les parties veulent asseoir leurs conventions, qu’ils pourraient au surplus refuser de recevoir, s’il en résultait quelque disposition contraire aux lois ou aux moeurs» (cfr. Dictionnaire du Notariat ... par les notaires et jurisconsultes rédacteurs du Journal des notaires et des avocats, Paris, Administration du Journal, 1832, t. IV, v. Juridiction, n. 4, p. 484).

(40) Il Massé, premessa l’affermazione, tratta dalla legge del 19 brumaio dell’anno IV, che «le Notariat fait partie de l’ordre judiciaire et comme les cours de justice, comme tous les tribunaux de la France, il est dans les attributions du ministère du grand- juge», passava in veloce rassegna «les diverses attributions» dei Tribunali di prima istanza sui notai «qui resident dans leur ressort» - che oltre all’investitura contemplavano il controllo dei repertori da parte del presidente del Tribunale, la decisione in merito alle contestazioni riguardanti gli onorari, il concedere l’autorizzazione a permettere la conoscenza dei contenuti degli atti a persone diverse dai diretti interessati, il procedere alla legalizzazione degli atti da eseguirsi al di fuori della competente giurisdizione e la pronuncia circa i provvedimenti punitivi nei confronti dei notai - concludendo che, al di fuori di tali ipotesi espressamente previste dalla legge non si potesse però andare oltre non essendo permessa l’usurpazione delle funzioni specificatamente di spettanza notarile «ni franchir la ligne de démarcation qui sépare la juridiction contentieuse de la juridiction volontaire» cui, per esempio, andavano riferiti atti quali gli inventari e le divisioni (A.J. MASSÈ, Le parfait notaire ou la science des notaires, Paris, Garnery, 1809, t. I, p. 6-9, 36-38).

(41) L’incompatibilità dell’esercizio di funzioni cancelleresche presso gli organi giudiziari superiori rappresentate dai Senati e dai Tribunali di Prefettura, di fatto già operante nel contesto sabaudo di Antico Regime, venne definitivamente sancita dall’Editto sull’esercizio del Notariato emanato da Carlo Felice nel 1822 che prescriveva, per coloro che possedevano la qualifica di notaio, il divieto assoluto di esercitare «altre funzioni notariali, che quelle dipendenti dalle loro funzioni di Segretario sotto pena della destituzione dal loro impiego» permettendo però, alla cessazione di tali funzioni, la possibilità di essere riammessi all’esercizio della professione notarile previa nomina ad un posto vacante; lo stesso editto, oltre ad eccettuare implicitamente da tale incompatibilità i Segretari dei giudici minori, prevedeva ancora espressamente un’ulteriore eccezione nell’ambito degli impieghi giudiziari relativa ai Luogotenenti Giudici (cfr. Regio Editto in data 23 luglio 1822, in Le leggi notarili ..., cit., artt. 1, 4, p. 419-420; sull’evoluzione della legislazione in materia notarile negli Stati sabaudi fra Restaurazione ed Unità cfr. da ultimo L. SINISI, «Sviluppo ed evoluzione ...», cit., p. 67-71). Quanto ai notai Segretari dei giudici di mandamento la loro autorizzazione «a rogare qualunque atto notarile», esplicitata nell’art. 2 del Manifesto Camerale del 2 settembre 1822, viene comprovata da un’utile fonte coeva che attesta la normale attribuzione a regi notai esercenti contemporaneamente la professione delle segreterie dei tribunali di mandamento di una parte del Regno e, a contrario, il rispetto dell’incompatibilità riguardo alle giurisdizioni superiori dal momento che gli unici due casi di segretari di Tribunali di Prefettura insigniti del titolo di «notaro» (nella fattispecie quelli di Genova e di Bobbio) vedono i rispettivi titolari non menzionati fra quelli esercenti la professione non potendo essere come tali ai sensi di legge iscritti nella relativa tappa di insinuazione (cfr. L’indicatore ossia guida per la Città e Ducato di Genova, Genova, Pagano, 1835, p. 163-169, 177-180).

(42) Se da un lato era la Legge notarile borbonica del 1819, ispirata al precedente ordinamento murattiano, a sancire l’incompatibilità dell’esercizio del Notariato con «l’uffizio di giudice di circondario, di cancelliere del medesimo, di giudice, cancelliere e vice cancelliere di una Corte o di un Tribunale» (cfr. Legge sul Notariato de’ 23 novembre 1819, in Le leggi notarili ..., cit., art. 7, p. 777), dall’altro la nuova legge sull’ordinamento giudiziario del Regno varata nel 1817 stabiliva presso gli organi giudiziari del Regno, a partire dai Giudici di circondario sino alla Corte Suprema di Giustizia, dei cancellieri di nomina regia col compito di assistere i giudici in udienza e in genere nell’esercizio delle loro funzioni contrassegnandone le firme, di registrare gli atti conservandone il deposito, di rilasciare copie e di dare «corso agli affari giudiziari» (cfr. Legge organica dell’ordine giudiziario de’ 29 maggio 1817, in Supplemento alla cinque parti del Codice per lo Regno delle Due Sicilie, P. I, Napoli, Capasso, 1849, artt. 168-171; sulla legge organica giudiziaria del 1817 ed in particolare sullo «stato giuridico dei cancellieri» cfr. G. LANDI, Istituzioni di diritto pubblico del Regno delle Due Sicilie [1815-1861], Milano, Giuffrè, 1977, p. 843-897); i cancellieri, che come retaggio dell’ordinamento di Antico Regime avevano parte nelle nomine dei vice-cancellieri e degli altri impiegati occorrenti, erano figure che nulla avevano ormai a che fare col Notariato come sottolineava la dottrina che tendeva a dividerne nettamente gli ambiti come un noto manuale notarile che, sulla scia dei testi francesi, esordiva affermando: «La giurisdizione è contenziosa o volontaria. Appartengono alla prima i giudici, i cancellieri ecc. È affidata la seconda ai soli notaj» (A. TORTORA, Manuale de’ notai, Napoli, Tipografia nella pietà de’ Turchini, 1832, p. 4).

(43) Tale legge, che per il resto costituì (con poche altre eccezioni) la base dell’ordinamento unitario varato sei anni più tardi, confermava il suo attaccamento alla tradizione non solo sotto l’aspetto nominalistico legato all’utilizzo dell’antico nome di «Segretari» per i funzionari di cancelleria, ma contemplava ancora un legame fra queste figure e il notariato negli organi giudiziari minori prevedendo ancora, fra i titoli per la nomina a tale funzione presso le Giudicature mandamentali, quello «di aver subito con successo l’esame di notaio o di procuratore», mentre per i Sostituti segretari era sufficiente l’aver «atteso per due anni alla pratica presso un notaio o un procuratore»; stabiliva inoltre che, in caso di mancanza o impedimento del Segretario e dei Sostituti d’una Corte o di un Tribunale, il Presidente potesse «richiedere in caso di assoluto bisogno un notaio per le funzioni di Segretario» mentre il Giudice di mandamento, sempre nella stessa situazione, poteva accontentarsi anche di un «candidato notaio» (cfr. Legge sull’Ordinamento giudiziario, n. 3781 del 13 novembre 1859, in Collezione celerifera delle leggi, decreti, istruzioni e circolari, a. XXXIX, 1859, P. II, artt. 188-195, p. 1641- 1642; sui contenuti della legge Rattazzi cfr. M. D’ADDIO, Politica e Magistratura [1848-1876], Milano, Giuffrè, 1966, p. 41-48).

(44) Nell’ordinamento giudiziario unitario, a differenza di quello sardo, non figurava inoltre più il riferimento a studi notarili fra i requisiti per la nomina «all’ufficio di cancelliere o vice-cancelliere» essendo ormai previsto uno specifico percorso formativo («alunnato») per il personale di cancelleria e segreteria (cfr. Legge sull’ordinamento giudiziario del Regno d’Italia, n. 2626 del 6 dicembre 1865, in Collezione celerifera delle leggi, decreti, istruzioni e circolari, a. XLV, 1866, artt. 152-154, 160, p. 365-366; sulle caratteristiche di tale normativa cfr. M. TARUFFO, La giustizia civile in Italia, Bologna, il Mulino, 1980, p. 138- 141).

(45) Cfr. Legge sull’ordinamento giudiziario [1865], cit., art. 159, p. 366.

(46) Cfr. ibidem, art. 39, p. 356.

(47) La prima legge notarile unitaria prevedeva un’unica possibile deroga all’incompatibilità dell’ufficio di notaio con impieghi pubblici retribuiti che era quella degli impieghi in comuni aventi una popolazione non superiore a 5.000 abitanti (cfr. Legge sul Notariato, 25 luglio 1879, in Le leggi notarili ..., cit., art. 2, p. 842; sulla legislazione unitaria in materia di Notariato cfr. da ultimo L. SINISI, «Sviluppo ed evoluzione ...», cit., p. 100-108).

(48) Minimi erano i requisiti previsti per la nomina: l’età di 25 anni compiuti, la dimora nel comune e l’iscrizione nelle liste degli elettori dello stesso comune (cfr. Legge sull’ordinamento giudiziario[1865], cit., art. 33, p. 355). L’esercizio dell’ufficio di conciliatore, spesso ricoperto, più ancora che da notai, da avvocati e in genere da notabili del posto dotati di una certa istruzione e di un certo prestigio a livello locale, fu più volte nel corso degli ultimi decenni del XIX secolo fatto oggetto di rimostranze da parte della classe notarile. Questa vedeva, nel comportamento di alcuni di tali giudici i quali, sebbene tra le parti non esistesse alcuna controversia, «eccedendo i limiti delle loro attribuzioni» solevano «sotto forma di conciliazioni, ricevere ed estendere atti o contratti civili», la commissione di una vera e propria usurpazione delle funzioni notarili meritevole di essere portata a conoscenza del Ministero che, infatti, intervenne pronunciandosi in loro favore (cfr. Circolare del Ministro di grazia e giustizia del 19 giugno 1879, n. 823, diretta ai signori procuratori generali presso le Corti d’appello del Regno , in Rolandino - Monitore del Notariato , a. IV-9, 1884, p. 377-378). Sul ruolo del conciliatore, giudice onorario comunale esclusivamente competente nel civile, inizialmente male accolto ma rivelatosi nei successivi anni di vigenza dell’ordinamento giudiziario unitario come «uno dei punti chiave nell’amministrazione della giustizia civile» cfr. M. TARUFFO, op. cit., p. 158-159.

(49) Poiché sul modello della legge borbonica, a sensi dell’ articolo 30 dell’ordinamento giudiziario unitario era previsto che le funzioni del conciliatore, «puramente onorifiche», servissero come titoli «di merito per ottenere pubblichi impieghi» concorrendo i requisiti di legge (cfr. Legge sull’ordinamento giudiziario [1865], cit., p. 355) non essendo dubbio che tra questi vi fosse anche l’ufficio del notaio, un importante organo di categoria concludeva che i notai idonei che rivestivano la qualità di giudice conciliatore potessero vantare, nei concorsi a posti notarili tale titolo di merito «senza che esso sia supplantato dal titolo di anzianità» previsto dall’art. 11 della legge notarile (cfr. «Della qualità di notaro conciliatore nei concorsi a posti notarili», in Rolandino - Monitore del Notariato, a. II-7, 1882, p. 173-176). Ai sensi dell’articolo 5 della stessa legge doveva invece considerarsi come titolo per avere diritto ad una pratica abbreviata da due anni a sei mesi ai fini della nomina notarile la qualità di giudice conciliatore, da considerarsi «vero magistrato» ai sensi dell’art. 6 della normativa sull’ordinamento giudiziario del 1865 (cfr. Legge sull’ordinamento giudiziario [1865], p. 353; «Consultazioni gratuite», in Il Giudice Conciliatore, a. XXVIII, 1894, n. 32, cons. 287, p. 512).

(50) È interessante notare come, relativamente a due di queste attività, la competenza dei notai a svolgerle fosse posta dalla legge (cfr. art. 816 e 902 c.p.c) in alternativa a quella dei cancellieri delle preture a conferma di un antico legame fra queste due figure (si precisa che il riferimento fra parentesi nel testo ai codici di procedura civile e di commercio si intende fatto alla prima codificazione unitaria di questi settori del diritto avvenuta nel 1865).

(51) Si veda fra gli altri uno dei più autorevoli studi specifici in materia di volontaria giurisdizione della dottrina postunitaria, secondo il quale il notaio, oltre che in queste speciali attività d’indole prettamente giudiziaria, esercitava atti di giurisdizione volontaria anche quando più comunemente rogava atti pubblici o riceveva in deposito testamenti olografi (cfr. G. SAREDO, Del procedimento in camera di consiglio e specialmente per le materie di volontaria giurisdizione, Roma, Civelli, 1872, p. 35-57. Alle obiezioni che una parte della dottrina opponeva a tale tesi basandosi sul fatto che i notai, pur essendo «uffiziali pubblici», non appartenessero all’ordine giudiziario, rispondeva l’autore di un importante commento alla legge notarile in questi termini: «il ricercare nella persona, che compie l’atto, nella sua qualità unicamente, la ragione perché l’atto debba dirsi di volontaria giurisdizione, cozza del tutto con la sana logica.»; facendo quindi riferimento specifico alle due figure del notaio e del pretore concludeva: «ambedue adunque esercitano atti di volontaria giurisdizione: chè anzi, per parlar meglio e con più verità, mentre il pretore solo eccezionalmente compie uffici di giurisdizione volontaria, poiché egli esercita per regola generale la contenziosa, il notaio sempre costantemente per logica conseguenza per fine e scopo del suo ministero esercita la giurisdizione volontaria e compie atti che a questa appartengono» (V. CONTI, Commentario teorico-pratico della nuova legge sul Notariato, Napoli, Marghieri, 1880, vol. I, p. 87).Quanto in particolare all’offerta reale di pagamento o di deposito e al protesto cambiario, per il carattere di tali atti rappresentanti «la storia di un fatto, che può influire sui rapporti delle persone interessate in sede contenziosa o esecutiva», sono stati per questo classificati di «mista giurisdizione» appartenendo «mistamente alla giurisdizione volontaria, della quale il notaio impersona la magistratura per eccellenza, ed a quella contenziosa o esecutiva» (G. DONÀ, Istituzioni di diritto notarile, Torino, Utet, 1938, p. 58).

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