Ars notaria e cultura giuridica tra storia ed attualità
Ars notaria e cultura giuridica tra storia ed attualità
di Massimo Palazzo
Notaio in Pontassieve
Presidente della Fondazione Italiana del Notariato
Crisi del diritto o crisi delle fonti?
La crisi economica ha generato una percezione di disagio, spesso ha indotto sentimenti di disperazione, diffondendo un senso di incertezza. L’attuale realtà civile e politica del Paese evoca talora quella della Repubblica di Weimar (1919 - 1933), tra le macerie del vecchio Impero guglielmino: a partire dalla caduta del ceto medio sino ad arrivare alla disgregazione delle istituzioni. Da qualche anno stiamo, infatti, vivendo una fase di marcata recessione e, conseguentemente, di forte turbamento sociale, economico, politico. Ad avviso di molti economisti la crisi attuale è più ampia e profonda di quella del 1929; ovviamente tali rivolgimenti investono anche la dimensione giuridica e il mondo delle professioni.
La constatazione della crisi ricorre insistentemente ed i notai, insieme agli altri operatori giuridici, ne hanno puntuale riscontro nella loro attività professionale.
Nel lessico dei giuristi la crisi è stata, attraverso i tempi, riferita al contratto, alla legge, al processo. L’impiego del lemma è costante, ma la nozione è complessa e comprensiva di qualcosa che cade e di qualcosa che sorge. Nella sua dimensione negativa - come prodromo di rovina - la crisi oggi è riferibile alle fonti del diritto. Nella sua dimensione positiva, legata al proprio etimo - come transito o trasformazione - essa è un presente che si fa faticosamente futuro.
In questo momento storico non pare inutile volgere indietro lo sguardo, alla ricerca delle origini della instabilità che caratterizza il Novecento giuridico, emersa già negli ultimi decenni dell’Ottocento e non ancora conclusa, anzi accentuata. Nel Novecento, acutamente definito un secolo post moderno(1), tutto è stato sottoposto a revisione: una riflessione su questo secolo può fornire indicazioni sull’attuale ruolo e funzione del notaio.
La crisi che investe oggi la dimensione giuridica non sembra circoscritta ad una specifica manifestazione del diritto contemporaneo ma, come da più parti è stato osservato, affonda nel sistema delle fonti; su questo terreno è agevole notare come la linea della storia si allontani dal primato della legge, dirigendosi verso quello della prassi, che nel momento presente vede amplificato il proprio peso, dopo due secoli di costrizioni. Naturalmente per prassi intendiamo non solo quella delle officine notarili (contratti, testamenti, statuti societari), ma la forense e soprattutto la giurisprudenza. Oggi si parla diffusamente di “rete di fonti” e, con riferimento alla gerarchia, vi è chi si esprime in termini di ordine irreale(2).
Un tentativo di comprensione storiografica
La civiltà moderna trova la sua maturità nei secoli XVIII e XIV e una prima realizzazione nel nuovo ordine socio - politico instaurato dalla rivoluzione francese; tra i suoi fondamenti figura la convinzione - professata da parte della classe borghese definitivamente vincente con i moti del 1789 - della valenza coesiva della dimensione giuridica rispetto al costruendo Stato. Il code civil costituisce la più compiuta manifestazione della modernità giuridica: si volle riservare allo Stato la produzione del diritto, identificando la fonte del diritto nella legge e postulando una rigida scansione gerarchica. La Rivoluzione francese, soprattutto nella sua fase giacobina, realizza appieno siffatto programma, laddove il modello di principe moderno viene incarnato da Napoleone, il quale non è solo un sovrano accentratore, ma un produttore di diritto, promotore di una codificazione a largo raggio, collocata al centro del suo programma politico, di raggio larghissimo, comprensivo di quel diritto civile che l’assolutismo politico di antico regime aveva affidato a un’immemorabile prassi consuetudinaria e all’interpretazione di giudici e dottori. La sua opera codificatrice inizia precisamente dal code civil e la cosiddetta “ragion civile” perde il carattere della estrastatualità, diventando semplicemente “mancipio dello Stato”(3).
Il monopolio statuale della produzione del diritto, cementato con i principi della divisione dei poteri e della gerarchia delle fonti, promossi e voluti dalla rivoluzione borghese di fine Settecento, per tutto l’Ottocento e la prima metà del Novecento rende il giurista un soggetto autopoietico, immerso nella più ferma autarchia culturale, chiuso nel suo catechismo noto come dottrina del positivismo giuridico(4). Il paesaggio giuridico del tempo si presenta assai uniforme. Lo Stato si propone come il produttore necessario del diritto, l’unico in grado di conferire ad una regola sociale il crisma della giuridicità. Il diritto positivo pretende di ridursi perciò alla legislazione, ossia a manifestazioni della volontà suprema dello Stato, inchiodando il sistema delle fonti in una rigida piramide gerarchica che toglieva vigore alle altre manifestazioni, relegandole al grado inferiore. Si arriva a presumere di controllare l’ordinamento attraverso l’ escogitazione di una fonte, il codice, che associa l’aspirazione alla completezza con quella alla realizzazione di un’opera definitiva.
In questo clima non c’è molto spazio per i giuristi, siano essi teorici o pratici. È il tempo della mitizzazione legislativa, della legolatria più spinta, durante il quale il legislatore è l’unico soggetto legittimato a formulare regole. Al culto della legge non può che accompagnarsi per ogni giurista (teorico o pratico) quella collocazione cadetta che suol condensarsi nella “esegesi”, termine non a caso preso a prestito dai teologi e ben rappresentativo della subalternità dell’interprete rispetto ad un testo ritenuto sacro.
Quando, nel 1791, con la c.d. legge Le Chapelier, si cancellano in un sol colpo tutte le società intermedie, fatta eccezione soltanto per la famiglia, è una strategia assolutistica a prevalere. È però un’illusione ingannevole perché irrealistica. Con i primi del Novecento la società moderna, coniata nelle officine della rivoluzione, inizia progressivamente a declinare a causa di due novità rilevanti e profondamente eversive dell’Italia giolittiana: la rivoluzione industriale, che genera una coscienza degli interessi collettivi, ed il consolidarsi delle società intermedie. Invero, in specie partiti politici e sindacati, iniziano a proliferare unitamente ad altre formazioni sociali, contribuendo a minare a fondo la compattezza della società, che per tutto l’Ottocento era rimasta compressa sotto il tallone del vecchio Stato borghese liberale; quest’ultimo, rigidamente mono classe, non riesce più ad imporre i suoi riduzionismi ad una società che da semplice si fa complessa. Nel 1913, anno di promulgazione della vigente legge notarile (vigilia della prima guerra mondiale), occorre rinunciare ad un assetto politico censitario, per tollerare il suffragio universale maschile (merita ricordare che nel primo anno del nuovo Regno unitario italiano era chiamato al voto un numero inferiore al due per cento dell’elettorato maschile).
Sebbene nei primi anni del Novecento si registrino queste importanti novità, la scienza giuridica rimane segnata a fondo dalle mitologie della modernità. I due congegni (la separazione tra i poteri e la gerarchia delle fonti) che erano serviti alla civiltà successiva alla rivoluzione francese per controllare la dimensione giuridica e renderla ancillare al potere politico, rimangono ben saldi nel cuore e nella mente dei giuristi fino alla metà del Novecento.
Quella visione totalizzante del diritto privato risulta coerente con precise premesse politico ideologiche e perciò sorretta da una mitologia altrettanto intensa. Tra i molti tentativi che in quel torno di tempo vi attentano occorre qui ricordare alcune voci: Santi Romano sulla pluralità degli ordinamenti (1918)(5); Giuseppe Capograssi sul diritto come esperienza (1937)(6); Filippo Vassalli sulla estrastatualità del diritto civile (1951)(7); Tullio Ascarelli (1933)(8)sul carattere creativo dell’opera dell’interprete. Si tratta di messaggi autorevoli e clamorosamente anticipatori, ma sostanzialmente negletti dalla maggioranza dei giuristi.
Moderno e post moderno. Il formante giurisprudenziale
Espressione limpida del perdurare dello statalismo e legalismo moderno sono “Le dottrine generali del diritto civile”(9)di Francesco Santoro Passarelli, una ardua e precisa matematica di concetti, «un distillatissimo sapere astratto consistente in arditi pinnacoli gotici eretti al di sopra della fondazione solida del codice civile»(10). Per un’intera generazione di giuristi il codice civile e il manuale santoriano rappresentano i principali libri di riferimento. Intorno alla metà degli anni Quaranta le “dottrine generali” rappresentano la definitiva sistemazione concettuale di quella raffinata cultura italiana che aveva assorbito e condotto a maturazione l’insegnamento della Begriffsjurisprudenz elaborato dalla dottrina pandettistica tedesca; quel libro giunge alla sua ultima edizione (del 1966) senza sostanziali mutamenti di struttura(11), e senza introdurre alcun cenno alla Costituzione nel frattempo entrata in vigore.
Il codice civile del 1942 esibisce non poche innovazioni e tentativi di aperture in tema di lavoro e di impresa: malgrado l’eccellenza della sua orditura tecnica frutto dell’opera dei migliori privatisti italiani, esso resta sempre vincolato a scelte corrispondenti alla condizione della società e della scienza giuridica italiana degli anni Trenta. Tale impronta resiste al successivo dilatarsi della legislazione speciale.
Ancora nel 1964 il pensiero giuridico è dominato dal positivismo e dalla concezione dogmatica: nella voce “diritto civile” del Novissimo Digesto Italiano Giovanni Pacchioni ed il suo allievo Cesare Grassetti firmano pagine che rimarcano l’assoluta continuità fra le sistemazioni di Gaio e gli schemi ordinanti necessari alla società italiana novecentesca(12). Ancora, dunque, nei maturi anni Sessanta il metodo positivo viene identificato con gli stessi statuti epistemologici della scienza civilistica: l’interpretazione è attività puramente ricognitiva, che si esaurisce in mere operazioni di logica formale.
Alla metà del Novecento nella dottrina civilistica italiana perdura la drastica separazione fra privato e pubblico, mentre la Costituzione resta una sorta di ingombrante oggetto misterioso che il civilista deve avere la prudenza di ignorare, al fine di evitare il costo di una delegittimante contaminazione con dimensioni ritenute meta giuridiche(13).
Considerazioni non coincidenti si addicono all’impostazione della dottrina giuscommercialistica italiana dall’Unità ad oggi(14). Sulle orme di Levin Goldschmidt, che aveva descritto il diritto commerciale come diritto a formazione spontanea e tendenzialmente sovranazionale, Vidari, Vivante e in seguito Asquini individuano - già tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento - una fonte di diritto non scritta nella “natura delle cose”, anche sulla scorta dell’art. 1 cod. comm., che attribuisce valore preminente agli usi commerciali rispetto alle leggi civili(15). Viceversa, malgrado gli imponenti rivolgimenti sociali verificatisi nella prima metà del secolo ventesimo, il civilista italiano - teorico o pratico che sia - resta legato alla visione esegetico-pandettistica.
La scienza giuridica dell’età repubblicana dal 1948 dispone della Costituzione, ampio forziere cui attingere, ma da parte del civilista persistono diffidenze verso un prodotto che l’esasperato legalismo formalista suggerisce di collocare nel grembo delle soluzioni puramente politiche. Solo a partire dagli anni Sessanta alcuni civilisti, i più colti, i più sensibili al processo storico, cominciano a “rileggere” il codice civile in stretta connessione dialettica con i principi del testo costituzionale e a familiarizzarsi con i due piani di legalità, il primo dei quali sovraordinato e depositario della legittimazione suprema. Pionieristico in questa dialettica è Pietro Rescigno nel 1968, seguito poi da Pietro Perlingieri(16)e da molti altri.
Come ha osservato un Maestro della storia del pensiero giuridico, la Carta repubblicana del 1948 è, invero, espressione del costituzionalismo novecentesco, fase che poco ha da spartire con gli schematici cataloghi settecenteschi di situazioni soggettive protette del cittadino(17). È un breviario di valori condivisi che con il suo pluralismo rappresenta un testo storicamente dirompente, il quale offre «uno scossone forte al sonnacchioso ordine giuridico ufficiale»(18), al sistema delle fonti, immobilizzato e mummificato all’interno del codice civile nei decrepiti articoli delle disposizioni preliminari. Le dimensioni sociali e collettive sono valorizzate e trovano un fattore interno di coesione nel principio di solidarietà.
Queste considerazioni segnano nel profondo la scienza civilistica italiana del secondo Novecento imprimendole una svolta. Basti pensare al rivolgimento apportato dalla Costituzione ai rapporti familiari, a breve distanza dalla codificazione. La Costituzione pretende, infatti, dal civilista «una palingenesi interiore», che implica «l’abbandono del comodo rifugio di un sapere astratto»(19)e il superamento delle regole depositate nei codici per aprirsi ai valori ed interessi circolanti nella società, finalmente innalzati a bussola per legislatori ed interpreti. La stessa Corte Costituzionale - che a partire dal 1956 è eretta custode di quei valori e misuratrice della coerenza con essi da parte delle leggi statali e regionali - svolge un ruolo di organo della comunità piuttosto che dello Stato ed è essa stessa artefice del diritto vivente.
Nel 1960 Rosario Nicolò, osservatore attento e vigile del processo storico in atto, dà voce alla inquietudini, presentando al civilista questioni scomode, ma ormai ineludibili. Nella voce Codice civile dell’Enciclopedia del diritto (1960), poi ripresa e sviluppata nella voce Diritto civile, nella medesima enciclopedia (1964), Nicolò prende atto dell’ingombrante evento novissimo rappresentato dalla Costituzione, costata l’allentarsi dei rigidi confini tra pubblico e privato, inizia a cogliere l’autonomia privata non più soltanto nella sua insularità individualistica, ma all’interno del contesto socio economico circostante, sottolineando la necessaria consapevolezza della storicità dei concetti e delle categorie giuridiche(20).
Nel clima arioso ed aperto del secondo dopoguerra, Salvatore Pugliatti sistema una de-mitizzata visione dello sfaccettato pianeta proprietario(21). Pietro Rescigno, non episodicamente, ma con scavi ripetuti, dedica grande attenzione alle formazioni sociali nel solco dell’art. 2 della Carta Costituzionale, per recuperare una vasta gamma di situazioni collettive entro i confini del diritto privato(22).
Si registra, insomma, il risveglio dal “sonno dogmatico”, per dirla con Bobbio, e l’avvio di una radicale transizione, il primo germinare di una insofferenza culturale verso il panlegalismo statalistico continentale e nei confronti del soggettivismo individualistico ormai penetrato al fondo della coscienza del giurista e ivi ancora stagnante. Il paesaggio giuridico dei civilisti si amplia, ma anche si articola. Allo sguardo realista del costituente si accompagnano altre energiche sollecitazioni per il diritto privato, che non vuole né può essere soltanto italiano.
Il civilista non è più dedito alla contemplazione beata ed inconsapevole di un codice indubbiamente invecchiato anche se di eccellente fattura, perché affidato dal Regime ai migliori privatisti. Nell’antica purezza la cultura giuridica coglie ormai più un vizio che una virtù e ritiene necessario accrescere e valorizzare la comparazione verticale (volta alla conoscenza diacronica dei fenomeni giuridici) ed orizzontale (volta alla conoscenza di dati presenti in diversi ordinamenti coevi) nel loro comune messaggio di storia vivente(23).
Stefano Rodotà, già negli anni Sessanta, ritiene doveroso il superamento del legalismo ottuso della tradizione moderna, puntando ad allargare quelle finestre aperte nelle muraglie del codice che sono le clausole generali(24), affidando al giudice e al giurista un ruolo attivo di mediatore fra la dinamica dei fatti e la statica delle regole, assai distante da quello dell’esegeta coniato dal giacobinismo giuridico come bocca della legge.
Negli anni Settanta il codice civile, anche se novellato in alcune parti, resta appartato nella sua maestà immobile, perché completamente risparmiato dalle trasformazioni realizzatesi nel processo produttivo dietro l’impulso dello sviluppo economico e delle conquiste tecniche. Con il moltiplicarsi delle leggi speciali aumenta a dismisura il particolarismo legislativo, espressione della degradata nomopoiesi italiana. Crescente non è, però, solo il declino della legge, ormai ridotta ad un ammasso disorganico che nulla ha a che vedere con i micro-sistemi vagheggiati in qualche ottimistica riflessione, ma addirittura il suo eclissi. I mutamenti rapidissimi della seconda parte del ventesimo secolo rendono la legge inadeguata a ordinare il sociale e provocano dal basso una genesi spontanea assai frastagliata e disordinata: giudici, scienziati, notai (gli attori che il legalismo moderno aveva voluto ridurre a semplici esegeti) hanno la loro riscossa alle spalle di un legislatore lento e sordo, spesso anche impotente.
Si ingigantisce la figura del giudice ed il ruolo della giurisprudenza. Non è, invero, eccessiva la qualificazione di giudizialità che da più parti viene avanzata per contrassegnare l’esperienza contemporanea. È nettamente visibile lo spostamento dell’asse portante dell’ordinamento dal momento nomopoietico a quello interpretativo/applicativo(25).
Dal primato della legge a quello della prassi
Oggi molto è cambiato proprio in seno al regime ufficiale delle fonti, giacché l’ordinamento giuridico si propone a noi come realtà non compatta, ma polidimensionale, contrassegnata da molteplici gradi di legalità: quella ordinaria si colloca al di sotto di quella costituzionale e sovracostituzionale. Concorrono all’evoluzione dell’ordinamento e ad una revisione del sistema delle fonti almeno altri tre fenomeni, emersi negli ultimi decenni del secolo scorso, che hanno inciso fortemente sul nostro presente. Il primo riferimento è diretto al ripensamento della teoria dell’interpretazione, ormai designata con il termine di ermeneutica che attiene, come è noto, alla epistemologia generale e al ripudio di una vieta e fuorviante linea metodologica positivistica che troppo sacrifica l’apporto dell’interprete rispetto al testo. Hans Georg Gadamer(26)pone al centro del suo breviario filosofico “Verità e metodo” il capitolo dedicato per l’appunto a “Il significato esemplare dell’ermeneutica giuridica”. La verità elementare che questa porta allo scoperto - tanto elementare, quanto intimamente eversiva - risiede nella inseparabilità del momento di produzione della norma da quello dell’interpretazione/applicazione. L’interpretazione - ossia l’attribuzione di significato a un testo normativo - non si esaurisce nella spiegazione di un testo conchiuso e indisponibile, ma è piuttosto intermediazione necessaria e vitale tra le proposizioni astratte della disposizione e la ineludibile concretezza storica. Del resto anche Kelsen, il maggior esponente del normativismo, riteneva che l’interpretazione giuridica sia atto di volontà, non di conoscenza(27). Grazie alla benefica riflessione ermeneutica - la quale dota le revisioni della scienza giuridica di una solida fondazione speculativa - l’intuizione della creatività dell’interprete viene ribadita negli ultimi decenni del secolo con pacatezza, ma risolutamente da Luigi Mengoni(28)in Italia e da Josef Esser(29)in Germania.
La normativa europea rappresenta il secondo elemento del pluralismo delle fonti: essa meriterebbe una sosta ravvicinata. Quel cantiere, malgrado i continui impedimenti politici susseguiti negli ultimi sessanta anni, è tuttora vivacemente affaccendato nella lenta e difficile ma progressiva costruzione di un’Europa politica e giuridica, ossia di una unità politica e giuridica sovrastatuale. Vi sono impegnate istituzioni legislative e di governo, ma soprattutto giudici (in primo luogo la Corte di Giustizia del Lussemburgo): il non trascurabile risultato è la messa a punto di alcuni principi su temi in perenne sviluppo quali i contratti e la responsabilità civile.
Il diritto europeo in via di formazione ha, quindi, un volto prevalentemente giurisprudenziale, ma, accanto ai canoni interpretativi elaborati dalla Corte di Giustizia e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, vi è poi una fioritura di libere iniziative di studiosi con il fine specifico di disegnare le linee rivolte a sorreggere la prassi nella regolamentazione degli affari quotidiani. L’esito più noto è offerto dai “Principles of European Contract Law”, elaborati sotto la guida del commercialista danese Ole Lando in tre fasi di lavoro dal 1982 al 2003. A sua volta a partire dal 2001 la Commissione ha dedicato comunicazioni e rapporti all’edificazione di un diritto contrattuale europeo; nel 2004 ha messo mano alla composizione di un “Common Frame of Reference”, prevedendo l’istituzione di un gruppo di lavoro permanente di esperti degli stati membri per mettere a punto definizioni di termini giuridici, principi fondamentali e modelli coerenti di regole di diritto contrattuale(30). Il messaggio proveniente dall’Unione europea è, dunque, di apertura verso la dimensione giudiziale e dottrinale del diritto, verso il pluralismo delle fonti.
Ulteriore fattore che segnala la transizione dal primato della legge a quello della prassi è costituito dall’odierno fenomeno della “globalizzazione giuridica”(31)che, in sostanza, registra la dinamica per cui poteri economici diventano produttori di diritto. Le strutture dello Stato legislatore sovrano, nazionale, territoriale, servono ad una micro economia che opera in ambito locale, ma rappresentano un abito troppo stretto per gli imprenditori globali, soggetti che in maniera dinamica e innovativa operano oltre gli Stati. Si è spezzata la catena Stato - legge - territorio: nel mondo globalizzato non è più lo Stato, ad esempio a scegliere “come” tassare la ricchezza, ma è questa a scegliere “dove” e per quanto tempo essere sottoposta ad imposizione. Il caso Fiat Chrysler Automobiles, costituita in Olanda e tassata in Inghilterra, ne fa capire il senso con una certa chiarezza.
Gli imprenditori globali, premuti dalle nuove esigenze del maturo capitalismo e bisognosi di nuovi strumenti tecnico-giuridici a disciplina dei loro traffici, di fronte alle sordità, alle lentezze, all’impotenza dei poteri politici, producono diritto oltre (e talvolta contro) gli Stati e le organizzazioni sovrastatuali, con riguardo sia alle tipologie contrattuali (contratti atipici), sia ai testi contrattuali (che tendono ad essere autosufficienti), sia ai rimedi (mediation, arbitration).
Accanto ai diritti ufficiali - stabilizzati in codici, leggi, trattati - prendono forma canali giuridici privati che hanno una genesi privata e prevedono giudici privati (arbitri) a garanzia di una puntuale esecuzione(32).
La funzione “promotrice” della prassi notarile
Dopo questo sintetico tratteggio delle profonde trasformazioni che hanno inciso sull’ordinamento giuridico durante quel “secolo lungo” che è per il giurista il Novecento, occorre interrogarsi sull’interazione tra cultura giuridica accademica e professione notarile in questo periodo, ricercando i frutti prodotti.
Come è noto, il Notariato italiano ha risentito del clima generale e non è rimasto estraneo ai grandi mutamenti sociali e culturali del Novecento, ma al contrario ha contribuito in maniera essenziale all’unificazione del diritto dopo il 1861 ed alla attuazione, interpretazione, applicazione del codice(33). Tuttavia nella fase post unitaria il Notariato non ha vissuto una stagione felicissima, essendosi trovato rispetto alle altre professioni giuridiche, in particolare Magistratura e Avvocatura, in una posizione di sudditanza non solo psicologica, ma anche professionale, a causa della modesta preparazione giuridica allora richiesta.
Mentre alle altre categorie era riconosciuta una rappresentanza nelle istituzioni politiche, che consentiva loro di partecipare alla formazione legislativa, in Senato non vi era alcun notaio e pochissimi sedevano alla Camera. Non suscita, quindi, meraviglia scoprire che nella discussione parlamentare sulla legge del 1875, cui il Notariato non aveva praticamente partecipato, il Guardasigilli affermava che la formazione dell’atto non compete al notaio, ma agli avvocati e consulenti, mentre i notai sarebbero chiamati solo a ricevere passivamente l’atto e a dargli forma legale. A ciò si aggiungano i conflitti interni alla categoria, in particolare quelli tra notai rurali e cittadini, i problemi del recapito, della fissazione della residenza, della concorrenza sleale, della domiciliazione dei notai presso le sedi degli avvocati più influenti in città, quindi praticamente in funzione subalterna. Ogni compito progettuale viene allontanato. In questa fase, tra fine Ottocento e primi Novecento, la parte essenziale delle funzioni del notaio si risolve nel compilare l’atto con ordine, chiarezza, precisione.
Del resto anche l’impostazione codicistica è costruita muovendo dall’angolo visuale della funzione certificativa: il notaio è collocato nel quadro della normativa sulla prova documentale (art. 1315 del c.c. 1865; art. 2699 c.c.). L’ufficio notarile è definito in funzione della costruzione di documenti rappresentativi - con efficacia probatoria privilegiata - di manifestazioni dell’autonomia privata. Il notaio è un documentatore, un formatore di documenti. La stessa attività di ricevimento è vissuta come operazione meramente passiva.
La scelta culturale del Notariato italiano inizia, tuttavia, proprio in questo periodo ed evidentemente senza un coinvolgimento politico non poteva aver successo. Basterà ricordare che la legge organica del febbraio 1913, emanata all’esito di un processo lungo e accidentato che può farsi risalire nella sua genesi all’indomani dell’emanazione del T.U. Del 1879, è dovuta per larga parte ad un gruppo di notai (tra i quali Giuseppe Micheli, poi Ministro del lavoro e dell’agricoltura) che rappresentava le nuove forze cattoliche con cui Giolitti voleva entrare in rapporto(34).
La legge del 1913 impone l’obbligo di una formazione universitaria piena. Nel 1926, durante il Fascismo, si registra un secondo snodo decisivo: la previsione di un concorso nazionale per esami e a numero chiuso, che diminuisce notevolmente il numero dei notai e quindi eleva il livello professionale, recependo la necessità di una crescita.
La progressiva costruzione dell’identità professionale e culturale del notaio avviene, tuttavia, lentamente e in maniera difficoltosa: scienza accademica e Notariato seguono un percorso parallelo. La prima è dominata, come si è detto, dalla pesante ipoteca esegetico-pandettistica. Il secondo resta legato al ruolo del documentatore. Questa situazione perdura finché continua a prevalere nella cultura giuridica ufficiale l’idea del diritto come un insieme di comandi piuttosto che come ordinamento della società civile.
Un segmento ulteriore della traiettoria si colloca dopo il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica e l’entrata in vigore della Costituzione e coincide con la istituzione del Consiglio Nazionale del Notariato (legge 3 agosto 1949, n. 577). Con l’industrializzazione del Paese, il miracolo economico, l’aumento dei trasferimenti immobiliari e quindi la crescente complessità dei rapporti economici, diviene più complessa anche la prestazione richiesta al notaio in materia contrattuale, familiare, societaria.
Non è casuale, d’altra parte, che in questa fase prenda vita la Rivista del Notariato, appunto nel 1947, e che essa si apra con una rubrica espressamente dedicata alla “dottrina e problemi del Notariato”, laddove sono ospitati i più rilevanti contributi di giuristi accademici in materia. Come non stupisce che il suo comitato di direzione ospiti fin dall’inizio tra i suoi membri maestri tra i quali Antonio Cicu, Virgilio Andrioli, Guido Zanobini, Gino Gorla. Nel 1951 nella Rivista del Notariato fu pubblicato il celebre intervento carneluttiano, originariamente pronunciato al congresso notarile di Madrid nel
1950, nel quale si denunciava la colpevole noncuranza della scienza giuridica nei riguardi della figura del notaio, coniugandola ad un’istanza di elevazione della preparazione professionale quale premessa essenziale dell’innalzamento della qualità della prestazione professionale(35).
Il Notariato italiano dimostra di essere entrato a pieno nell’aria che respira la cultura giuridica più avanzata a partire dai decenni successivi al secondo dopo guerra, mettendo a frutto le conoscenze tecniche che il codice civile del 1942 e la Costituzione del 1948 avevano reso imprescindibili. Come emerge anche da importanti contributi di autorevoli studiosi (Carnelutti negli anni Cinquanta(36); Salvatore Romano nel 1962(37); Tondo nel 1966(38); Lipari nel 1977(39); Nigro nel 1979(40); Busnelli nel
1991(41)) il Notariato raccoglie i frutti di una semina più risalente, iniziata alcuni decenni prima, e partecipa all’elaborazione delle riforme che si sono succedute, rendendole immediatamente operative attraverso la funzione di adeguamento, con la piena consapevolezza che l’applicazione della disposizione costituisce, al pari della comprensione e della spiegazione, un aspetto costitutivo dell’ermeneutica giuridica, intesa come processo unitario, secondo l’insegnamento di Gadamer, Esser, Mengoni.
Conviene tornare sul percorso parallelo tra scienza e Notariato, per osservare che il filosofo Gadamer
e il giurista Esser, quando guardano con attenzione scrupolosa all’interpretazione giuridica per superare le angustie del formalismo positivistico, pensano non solo a quella accademica, ma anche all’attività dei pratici; in questa prospettiva, l’applicazione, la c.d. funzione di adeguamento, secondo la classica formula di D’Orazi Flavoni, costituisce un momento centrale dell’attività ermeneutica(42). In effetti l’interpretazione/applicazione del notaio traduce il contenuto di una disposizione da un’astratta oggettività nel risultato concreto di una clausola o di un patto che rappresenta il frutto dell’interpretazione.
In generale deve rilevarsi che l’applicazione delle regole giuridiche è opera sempre in qualche misura
creativa, poiché diretta ad individuare l’effettiva valenza in concreto della disposizione da applicare. È importante insistere - dal momento che non è per nulla ovvio - che una gran parte del diritto vigente è costituita da regole formulate, in via interpretativa, non già dalle autorità normative, ma dai giudici e dai giuristi teorici e pratici.
Il notaio, chiamato ad applicare il diritto, è anche il primo interprete. Nel linguaggio comune dei giuristi
il lemma “interpretazione” è usato in modo alquanto opaco per indicare la totalità delle operazioni intellettuali degli operatori giuridici. Ad uno sguardo più approfondito non è difficile accorgersi che i giuristi - e tra questi il notaio - non si limitano ad attribuire un significato ai documenti normativi: l’interpretazione strettamente intesa (attribuzione di significato ad un testo) non è che una parte del lavoro del giurista. Accanto all’interpretazione in senso stretto gli operatori giuridici svolgono opera di “costruzione giuridica”, secondo la nota espressione di Rudolph von Jhering, attraverso un indeterminato insieme di operazioni intellettuali tra le quali in via esemplificativa: la creazione di gerarchie assiologiche tra le norme; la concretizzazione di principi; il bilanciamento di principi confliggenti; la elaborazione di norme inespresse(43).
Successivamente a questa prima tensione tra fatto e diritto, in occasione della redazione di una
clausola o di un intero regolamento contrattuale, si registra una seconda tensione tra pratico attuarsi del fenomeno giuridico (factum) e regola contrattuale che aspira a disciplinarlo (ius), in ragione della complessità dell’esperienza sociale e della conseguente difficoltà di cristallizzarla all’interno di un patto. In verità la costruzione giuridica è attività genuinamente nomopoietica del giurista: legislazione interstiziale, come si usa dire. Con una precisazione ulteriore: la prassi negoziale di matrice notarile presenta la peculiarità di essere una fonte di diritto, di indole consuetudinaria(44), espressione diretta della volontà di coloro che ne sono destinatari. La prassi negoziale notarile ha, quindi, il pregio di essere un diritto “sentito” e non “imposto”, creatrice di modelli che vanno a collocarsi in uno spazio vuoto del diritto legislativo, istituti che il legislatore è stato incapace di progettare, ma che può recepire a livello legislativo in una fase successiva, dopo il vaglio giurisprudenziale.
Pur nella consapevolezza che una teoria della prassi è, evidentemente, teoria e non prassi, non pare inutile individuare alcuni snodi significativi del valore ordinante dell’intervento notarile. È con il passaggio dalla fase “industriale” a quella “postindustriale” e il conseguente affermarsi - a partire dall’ultimo quarto di secolo - di esigenze e bisogni nuovi, in parte indotti dall’impetuoso esplodere
«della complessità sociale», che la «profonda essenza giurisdizionale della funzione del notaio»(45)vale non tanto a sottolineare la tradizionale terzietà del suo intervento, quanto a valorizzare l’importanza di una mediazione tra fatto e diritto che - analogamente a quella del giudice - è orientata a fornire un’adeguata costruzione giuridica alla richiesta delle parti.
Dal secondo dopo guerra ad oggi l’operosità intellettuale dei notai si manifesta in una molteplicità e varietà di forme di cui è difficile compiere una rassegna, sia pure approssimativa. Una prima forma di partecipazione del Notariato alla costruzione del diritto vivente consiste nel contributo espansivo all’elaborazione delle regole; un puntuale riscontro di questa valenza della prassi, in seno all’itinerario normativo, la si riscontra proprio nel momento applicativo delle riforme del secondo Novecento: tra le tante, la riforma fiscale (1973), quella del diritto di famiglia (1975), la legislazione sul condono edilizio, la c.d. Riforma Vietti del diritto societario, (in vigore dal 1 gennaio 2004,) le disposizioni a tutela degli acquirenti di immobili da costruire (D.lgs. 20 giugno 2005, n. 122). Si pensi inoltre al contributo notarile in materia di pubblicità immobiliare ed al ruolo svolto dalla categoria nel promuovere il passaggio dalla tipicità degli atti a quella degli effetti, con il conseguente allargamento delle fattispecie soggette a trascrizione, sempre tipiche ma non più rigorosamente tassative. Esemplare è la vicenda degli acquisti immobiliari delle formazioni prive di personalità giuridica, ammessi alle pubblicità a seguito del tenace contributo della categoria notarile, sfociata nella legge 27 febbraio 1985, n. 54; ancora, la trascrizione dei contratti preliminari (legge 28 febbraio 1997, n. 30, che ha introdotto l’art. 2645-bis c.c.). Analogamente è dirsi per la trascrizione dei negozi di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e dei vincoli urbanistici (art. 2645-quater c.c.). In sintesi, grazie anche ad un imponente sostegno scientifico messo in campo dagli organi di categoria in collaborazione con l’accademia, nell’ultimo quarto di secolo, negli studi notarili nasce una prassi interpretativa espansiva delle nuove regole che attesta uno status professionale pienamente in linea con la cultura giuridica più sensibile, in grado di incidere a fondo sul diritto vivente.
Specularmente la interpretatio notarile ha contribuito al ridimensionamento di limiti all’autonomia privata: si pensi al divieto dei patti successori (art. 458 c.c.), eroso attraverso l’elaborazione dei c.d. Istituti alternativi al testamento o fenomeni parasuccessori (come le clausole di successione in materia societaria, il family buy out, ed altri).
La prassi notarile ha, inoltre, creato diritto anche attraverso il ripensamento di figure elaborate dalla prassi (la condizione di adempimento; il mutuo dissenso dei contratti con effetti reali) o divenute obsolete (la permuta di cosa presente con cosa futura; la superficie ripensata nel c.d. condominio precostituito), sulla base delle esigenze che le fattispecie concrete pongono.
Nella seconda metà del Novecento l’attività notarile si confronta con la vasta categoria dei contratti innominati o atipici: emerge una prassi che forza le maglie del sistema e ne anticipa gli sviluppi. Molti istituti nuovi trovano nella prassi notarile il primo conio e le prime applicazioni.
Si segnalano apporti di rilievo anche nell’ambito della proprietà edilizia, dove - tra l’altro - si recepisce l’esigenza, segnalata dalla scienza giuridica, di statuti differenziati per taluni beni e la necessità di regole differenziate per disciplina. Nascono in questa fase versatili arnesi privatistici, quali i regolamenti contrattuali di condominio; i diritti di uso esclusivo nell’ambito condominiale; le servitù reciproche.
A partire dagli anni Ottanta del Novecento negli studi notarili nascono le cessioni di cubatura, frutto ancora acerbo di un’esperienza destinata a crescere con il tempo anche grazie all’apporto della giurisprudenza; si tratta di strumenti tecnici scaturiti da una collaborazione tra privati e Pubblica amministrazione che matura più tardi sotto forma di accordi e convenzioni. Quell’esperienza non è ancora conclusa, sebbene con il D.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito con legge 12 luglio 2011, n.
106, sia stato consumato un timido tentativo di riduzione ad unità della fattispecie nota nella prassi notarile come “cessione di cubatura”, prevedendo altresì l’obbligo di trascrizione (art. 2643 n. 2-bis c.c.) dei contratti aventi ad oggetto «diritti edificatori comunque denominati»(46).
Sempre nei tempi recenti si segnalano ulteriori vicende degne di nota: l’identità e l’eredità digitale, i
patti di convivenza, i trusts, il c.d. testamento biologico.
Nel diritto commerciale l’apporto della prassi è ancora più evidente: basti pensare all’importanza che hanno assunto nel settore (non solo per le grandi società, ma soprattutto per quella moltitudine di piccole realtà che pare rappresentare la spina dorsale della nostra economia) alcune clausole che, seppure con formulazioni differenti ma accomunate dalla medesima finalità socio economica, sono il prodotto di un’accorta opera di interpretazione ed applicazione notarile, quali le clausole di prelazione e di gradimento, le clausole di co-vendita (tag along), le clausole di trascinamento (drag along).
Con riferimento alla interpretatio notarile una speciale menzione meritano gli “orientamenti” e le
“massime” di diritto societario, elaborate dai comitati regionali o da apposite commissioni create dai
Consigli notarili, poiché costituiscono un notevole esempio di diritto di matrice extralegale.
Si tratta di prassi applicative con attitudine a svolgere un ruolo ordinante assai più incisivo di una semplice guida offerta ai singoli notai. Essi non rappresentano atti isolati, legal opinion di un singolo studioso sia pure autorevole, ma regole che, impegnando appunto la riflessione collettiva di una comunità di esperti, possessori di uno specifico sapere professionale, godono di una effettività giuridica sostanziale; costituiscono, in altre parole, una soft law, un canale privato di produzione del diritto che si affianca a quelli ufficiali, dando luogo a una prassi uniforme e tramandabile che si afferma come diritto applicato, ponendosi nel sistema delle fonti - in sinergia con l’interpretazione giudiziale
- quale sede privilegiata di interpretazione/applicazione del diritto societario contemporaneo. Questi orientamenti hanno garantito applicazioni uniformi del nuovo diritto societario, consentendo al notaio di fronteggiare richieste di clienti troppo “esigenti” e mettendo le parti al riparo da interpretazioni soggettive o difensive del singolo professionista.
Volgendo uno sguardo alla seconda metà del secolo scorso non è difficile accorgersi del contributo
fornito dall’operosità intellettuale del notai non solo nell’invenzione di soluzioni, ma anche nel favorire l’instaurarsi di prassi interpretative ordinanti e tramandabili che hanno consentito di transitare dal vecchio al nuovo senza traumi e senza pregiudicare la coerenza complessiva del sistema.
Il notaio contemporaneo trova, quindi, il quid proprium della sua attività nella partecipazione alla
costruzione del diritto vivente, che oggi appare solo in minima parte lasciato alle norme di fonte legale. Accanto alla prassi amministrativa, alla giurisprudenza delle corti, la prassi notarile è creatrice di diritto e rappresenta un modello non conclamato e appariscente, ma evoluto e idoneo a incidere in profondità sulla sistemazione del diritto vivente(47). In questa prospettiva, recuperata la consapevolezza del rinnovato coinvolgimento del giurista nella produzione del diritto, credo che il messaggio da lanciare al notaio/giurista del ventunesimo secolo sia quello di impadronirsi di un sapere che non si arresti alla dimensione logico-sistematica, ma che affondi nel terreno fertile del ripensamento delle categorie classiche(48), in sintonia con le esigenze proprie del nostro tempo.
Del resto, secondo l’orientamento ormai costante della giurisprudenza, sia costituzionale sia di legittimità, l’interprete ha un vero e proprio obbligo di scegliere, tra più significati possibili di un testo normativo, quello conforme alle fonti sovraordinate (Costituzione; diritto europeo): non può limitarsi all’analisi puramente letterale delle previsioni normative, ma deve sempre andare oltre in quanto l’interpretazione deve essere assiologica, sistematica e costituzionalmente orientata(49). Non pare incongruo prevedere che sia alle porte una nuova stagione di studi alla quale la scienza giuridica e il Notariato saranno chiamati ad offrire il proprio contributo.
(1) P. GROSSI, Introduzione al novecento giuridico, Roma - Bari, 2011, p. 3.
(2) U. BRECCIA, «Immagini della giuridicità contemporanea tra disordine delle fonti e ritorno al diritto», in Pol. dir., 2006, p. 366, qualifica il paesaggio giuridico disegnato dai redattori del codice nelle disposizioni preliminari “un ordine irreale”, un “sistema perduto”. A. GENTILI, «L’interpretazione giuridica: il contributo della dottrina», in Giust. civ., 2014, p. 63 osserva che «il sistema delle fonti è interamente mutato».
(3) Estrastatualità del diritto civile , è il titolo di un noto saggio di un grande civilista italiano, Filippo Vassalli, (il saggio è apparso originariamente negli Studi in onore di A. Cicu , II, Milano, 1951, p. 481 e ss. ora in ID., Studi Giuridici , vol. III, t. II, Milano, Giuffrè, 1960). Della riduzione del diritto privato a “ mancipio dello Stato” parla più volte lo stesso Vassalli cfr.: Estrastatualità del diritto civile , cit . p. 755 e ss; Esame di coscienza di un giurista europeo , in ID., Studi Giuridici , cit ., vol. III, t. II, p. 768.
(4) G. TARELLO, L’interpretazione della legge, Milano, Giuffrè, 1980, p. 25, ricorda che «è stata nel secolo scorso, e tuttora è, ideologia peculiare del ceto dei giuristi quella della c.d. positivismo giuridico, secondo cui tutto il diritto scaturisce solo da tutte le leggi; ma tale ideologia ha funzionato … senza però occultare il fatto che non tutta la disciplina del vivere sociale può reperirsi nell’insieme delle leggi». Recentemente ha riflettuto sul superamento del legicentrismo G. BENEDETTI, La cultura del civilista al risveglio dal sonno dogmatico, in ID., Oggettività esistenziale dell’interpretazione. Studi su ermeneutica e diritto, Torino, Giappichelli, 2014, p. 5 e ss.
(5) Il libretto del 1917/18 è il notissimo L’ordinamento giuridico pietra miliare nella riflessione giuridica del Novecento, consultabile ora nella ristampa della seconda edizione del 1946: L’ultimo Santi Romano, Milano, 2013. La nozione romaniana di ordinamento giuridico da intendersi non più nel modo tralatizio di un insieme organico di norme, bensì di auto-organizzazione della società, sposta dallo Stato alla società il perno dell’universo giuridico e recupera una rappresentazione oggettiva del diritto il quale se vuole essere ordinamento del sociale deve fare i conti con valori ed interessi circolanti della società.
(6) G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto, Roma, Foro Italiano, 1937 (nuova edizione a cura di Pietro Piovani, Milano, 1962): la visone del diritto come “esperienza” lo recupera come lettura dei fatti segnalando una genesi del fenomeno giuridico che avviene in basso e dal basso, anche se lo Stato non può non conservare un ruolo rilevante.
(7) Si rinvia alla citazione riportata nella nota 3.
(8) Il punto di maturazione del pensiero di Ascarelli emerge già nella prolusione parmense del 1933: T. ASCARELLI, «La funzione del diritto speciale e le trasformazioni del diritto contemporaneo», in Riv. dir. comm., 1934, I, p. 1 e ss. La posizione è poi ripresa in ID., Contrasto di soluzioni e divario di metodologie (1953), ora in Saggi di diritto commerciale, Milano, Giuffrè, 1955, p. 565 e ss.
(9) Apparso nel 1944 con il titolo Istituzioni di diritto civile, il mutamento di titolo segnalato nel testo avviene con la quarta edizione del 1954.
(10) P. GROSSI, Il diritto civile italiano alle soglie del terzo millennio, in F. MACARIO e M. LOBUONO, Il diritto civile nel pensiero dei giuristi. Un itinerario storico e metodologico per l’insegnamento, Padova, Cedam, 2010, p. 408.
(11) Come ha notato P. GROSSI, Il diritto civile italiano alle soglie del terzo millennio, cit., p. 409, in sostanza, ancora alla fine degli anni Sessanta, la dottrina civilistica più autorevole - dopo aver escluso ogni riferimento alle fonti del diritto - riteneva di potersi ancora muovere nella griglia di concetti consolidati, ritenuti ancora utilizzabili come criterio di classificazione di un’esperienza della quale pure si avvertivano le prospettive evolutive.
(12) La voce Diritto civile nel Novissimo digesto italiano è del 1964, identica a quella pubblicata da Pacchioni nel 1938 sul Nuovo Digesto, integrata da un solo minimo accenno alla codificazione nel frattempo intervenuta. Cfr.: P. GROSSI, op. cit., loc. ult. cit.
(13) Per la ricostruzione dell’itinerario storico e metodologico anteriore e successivo al secondo dopo guerra si rinvia a P. GROSSI, Scienza giuridica italiana - un profilo storico (1860- 1950) , Milano, Giuffrè, 2000. ID., La cultura del civilista italiano. Un profilo storico , Milano, Giuffrè, 2002. Utile lettura è costituita da F. MACARIO e M. LOBUONO, Il diritto civile nel pensiero dei giuristi. Un itinerario storico e metodologico per l’insegnamento , cit .
(14) Cfr. P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico (1860/1950), cit. p. 51 e ss.; M. LIBERTINI, «Diritto civile e commerciale. Il metodo del diritto commerciale in Italia», in Riv. delle soc., 2013, p. 1 e ss.; P. SPADA, «Codice civile e diritto commerciale», in Riv. dir. civ., 2013, p. 331 e ss.
(15) Doverosa la citazione di A. ASQUINI, «La natura dei fatti come fonte del diritto», in Arch. giur., 1921, p. 129 e ss. L’idea di un sistema di fonti proprie del diritto commerciale rispetto a quello del diritto civile diventerà poi eterodossa per continuare in modo isolato con Lorenzo Mossa negli anni Trenta e scomparire del tutto per decenni dopo l’unificazione dei codici nel 1942. La riscoperta della lex mercatoria e di un sistema giuridico caratterizzato dalla elasticità delle fonti è stata tuttavia ripresa nell’ultimo quarto del ventesimo secolo e nei primi anni del secolo presente da F. GALGANO, Lex mercatoria. Storia del diritto commerciale, Bologna, Il Mulino, 1993. ID., La globalizzazione nello specchio del diritto, Milano, Giuffrè, 2005.
(16) P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, Esi, 1984, ma si veda già la prolusione camerte del 18 aprile 1969, in P. PERLINGIERI, Produzione scientifica e realtà pratica: una frattura da evitare, in P. PERLINGIERI, Scuole, tendenze e metodi: problemi del diritto civile, Napoli, Esi, 1988, nonché i numerosi saggi raccolti in ID., L’ordinamento vincente e i suoi valori, Napoli, Esi, 2006.
(17) P. GROSSI, «La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno», in Riv. trim. dir. pubbl., 2013, p. 607 e ss.
(18) P. GROSSI, «Sulla odierna fattualità del diritto», in Giust. civ ., 2014, p. 21.
(19) P. GROSSI, «Sulla odierna fattualità del diritto», cit., p. 22.
(20) R. NICOLÒ, voce Diritto civile, in Enc. dir., XII, Milano, Giuffrè, 1964, p. 904 e ss., spec. 907 e ss.
(21) S. PUGLIATTI, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, Giuffrè, 1954.
(22) I contributi sono oggi riuniti in P. RESCIGNO, Persona e comunità, saggi di diritto privato, Padova, Cedam,1987.
(23) Precursore di questa prospettiva fu G. GORLA, Il contratto. Problemi fondamentali trattati con il metodo comparativo e casistico, 2 Vol., Milano, Giuffrè, 1955 ma v. già ID. L’interpretazione del diritto, Milano, Giuffrè, 1941.
(24) S. RODOTÀ, «Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile», in Riv. dir. comm., 1967, I, p. 83 e ss.
(25) Savigny aveva condannato la scelta della codificazione in quanto strategia doppiamente antistorica, poiché rinnegava il passato, quasi una “ribellione alla storia”, e bloccava l’evoluzione giuridica futura. Ma, di fatto, i codici non hanno potuto evitare di fare i conti con la storia. Cfr. F. C. VON SAVIGNY, Von Beruf unser Zeit fur Gesetzgebung und Rechtswissenschaft (Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza), in A.F. THIBAUT - F. C. VON SAVIGNY, La polemica sulla codificazione, a cura di G. Marini, Napoli, Esi, 1982.
(26) H.G. GADAMER, Verità e metodo, (trad. ital. di G. Vattimo), Milano, Bompiani, 2000, p. 639.
(27) H. KELSEN, Sulla teoria dell’interpretazione (1934), in P. COMANDUCCI - R. GUASTINI, L’analisi del ragionamento giuridico, vol. II, Torino, Giappichelli, 1988.
(28) L. MENGONI, Ancora sul metodo giuridico (1983), in Diritto e valori, Bologna, Il Mulino, 1986.
(29) J. ESSER, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto. Fondamenti di razionalità nella prassi decisionale del giudice , Esi, Napoli, 1983, (trad. It di S.Patti e G. Zaccaria), con Introduzione di P. Rescigno.
(30) Comunicazione in data 11 ottobre 2004 della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio.
(31) Cfr. G. IUDICA, «L’influenza della globalizzazione sul diritto italiano dei contratti», in Nuova giur. civ. comm., 2014, p. 143 e ss.
(32) Proprio dall’attenzione agli aspetti concreti della realtà (prassi sociale e giuridica, realtà fattuale) hanno preso nome le correnti del realismo giuridico scandinavo e statunitense nei primi decenni del Novecento, accomunate dalla considerazione del momento della decisione come “fonte di produzione del diritto”, con il conseguente venir meno del ruolo di centralità della legge. Per un approfondimento di questi indirizzi di studio si veda la sintesi di G. FASSÒ, Storia della filosofia del diritto, vol. III, Ottocento e Novecento, ed. aggiornata a cura di C. Faralli, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 289; M. BARBERIS, Filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino, p. 269 e ss.
(33) E. MARMOCCHI, «La funzione del notaio per l’Italia unita», in Riv. not., 2012, p. 755.
(34) Riassume la vicenda M. SANTORO, «Il Notariato dagli Stati pre-unitari alla Repubblica: un profilo di sociologia storica», in Unità d’Italia e tradizione notarile relazioni storica, XLVI Congresso nazionale del Notariato, Roma, 2011.
(35) Riv. not ., 1951, p. 1 e ss. Per un esame disteso del ruolo delle riviste notarili cfr. I. STOLZI, «Università e notai a colloquio: un profilo storico», in Riv. not ., 2009, p. 519. Sul ruolo del notariato nella costruzione del scienza del diritto si rinvia a A. GIULIANI, «Ancora sul mistero del notariato», in Riv. not ., 1955, p. 697 e M. SANTORO, Il Notariato nell’Italia contemporanea , Milano, Giuffrè, 2004.
(36) F. CARNELUTTI, «La figura giuridica del Notaro», in Riv. trim. di dir. e proc. civ ., 1950, p. 921 e ss.; ID., «Diritto o arte notarile?», in Vita not., 1954, p. 5 e ss.
(37) SALV. ROMANO, «La distinzione tra diritto pubblico e privato e i suoi riflessi sulla configurazione dell’ufficio notarile», in Riv. not., 1963, p. 4.
(38) S. TONDO, «Caratteri e prospettive dell’attività notarile», in Riv. not., 1966, p. 215.
(39) N. LIPARI, «La funzione notarile oggi: schema di riflessione», in Riv. not., XXXI, 1977, p. 935.
(40) M. NIGRO, «Il notaio nel diritto pubblico», in Riv. not., XXXIII, 1979, p. 1157.
(41) F. BUSNELLI, «Ars notaria e diritto vivente», in Riv. not., XLV, 1991, p. 2 e ss.
(42) Come ha osservato P. GROSSI, «Il diritto tra norma e applicazione. Il ruolo del giurista nell’attuale società italiana», in Quaderni fiorentini, 30 (2001), Milano, p. 503 nel pensiero gadameriano si ha «la massima rivalutazione del momento applicativo in seno a quell’unità complessa che è l’itinerario normativo».
(43) R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu Messineo Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2011; G. PINO, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello stato costituzionale, Bologna, Il Mulino, 2010.
(44) Testimonianza piena della natura consuetudinaria della prassi notarile e della sua rilevanza sul piano della effettività sono i formulari notarili, raccolte di clausole negoziali che danno forma e adeguata veste tecnico giuridica alle regole di diritto traducendole in figure giuridiche di cui la vita quotidiana ha necessità. Questo genere letterario di antica ed egregia tradizione non ha ricevuto tuttavia, almeno per l’età moderna e contemporanea, la meritata attenzione, poiché ritenuto di scarso valore scientifico e frutto di bassa empiria. La riflessione scientifica, tuttavia, tende oggi a rivalutare il ruolo dell’autonomia privata come fonte del diritto: cfr. N. LIPARI, Le fonti del diritto, Milano, Giuffrè, 2008, p. 168. In tale prospettiva queste raccolte di modelli di atti meriterebbero una rivalutazione quantomeno come presenza all’interno della ricostruzione della vita reale dei rapporti giuridici. In tal senso si veda V. PIERGIOVANNI, Prefazione a Notar Francesco di Ruggiero, Prattica de’ Notari, a cura di A. De Feo, Napoli, Laino, 1713 (rist., anast., Napoli, 1993), p. XXVI e A. ERA, «Di Rolandino Passeggeri e della sua “Summa artis notariae”», in Riv. st. dir. it., 1934, p. 406 - 407.
(45) S. SATTA, «Poesia e verità nella vita del notaio», in Riv. not., 1955, p. 8.
(46) Su questa figura e sulla vicenda concettuale si veda G. TRAPANI, I diritti edificatori, Ipsoa, 2014.
(47) L. MENGONI, «Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico», in Jus, 1976, 3, p. 26 (ora in Diritto e valori, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 40) con significativa attenzione per il ruolo professionale svolto dall’interprete osserva che «nella situazione ermeneutica propria del giurista positivo, gli elementi non giuridici o pregiuridici (ideologici in senso ampio) della precomprensione sono filtrati dalla tradizione dogmatica del ceto professionale cui appartiene».
(48) Come ribadito da N. LIPARI, Le categorie del diritto civile, Milano, Giuffrè, 2013.
(49) Su tale carattere dell’interpretazione si veda S. PUGLIATTI, La logica e i concetti giuridici, in La polemica sui concetti giuridici, Giuffrè, Milano, 2004; A. FALZEA, Dogmatica giuridica e diritto civile, in Ricerche di teorie generali di diritto e di dogmatica giuridica, 1, Milano, Giuffrè, 1999, p. 248 ss. In particolare sull’interpretazione adeguatrice, con ampie citazioni cfr. F. VIOLA - G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione, Laterza, Roma - Bari, 2004, p. 217 ss.
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