Indubitato affectu michi coniuncta. Matrimonio e rapporti di coppia nel Medioevo genovese
Indubitato affectu michi coniuncta.
Matrimonio e rapporti di coppia nel Medioevo genovese
di Giustina Olgiati
Archivista

In concomitanza con il convegno organizzato dalla Fondazione italiana del Notariato, l’Archivio di Stato di Genova ha presentato al pubblico una mostra documentaria, curata da Giustina Olgiati e Valentina Ruzzin, incentrata sul tema dei rapporti di coppia, formalizzati attraverso un matrimonio o dipendenti da situazioni di fatto. Per illustrare adeguatamente un argomento di tale ampiezza, che coinvolge aspetti patrimoniali e sociali, consuetudini e norme giuridiche, il prestigioso fondo notarile genovese, famoso in tutto il mondo per la sua antichità e ricchezza, ha offerto materiale straordinario e innumerevoli punti di osservazione su una città, la Genova dei secoli XII-XVI, estremamente dinamica e aperta alle novità. Di questa società in perenne evoluzione si fanno interpreti i notai, che nelle molte funzioni che la loro professione comporta, a servizio dei privati o del podestà, nelle vesti prestigiose di cancellieri dell’Arcivescovo o del Comune, ma anche come semplici attori di negozi giuridici, raccontano le vicende più delicate e personali dei genovesi.
Si evince, fin dall’analisi della documentazione più antica, l’attenzione del governo genovese per le questioni legate ai riflessi patrimoniali dei rapporti di coppia. La vocazione commerciale della città impone norme volte ad evitare la dispersione della ricchezza delle famiglie in inutili spese ed a privilegiare i diritti ereditari dei figli o, in loro mancanza, dei fratelli del capofamiglia. In questo contesto, appaiono tutt’altro che casuali l’atteggiamento dei consoli nei confronti della tercia, il diritto attribuito dalla legge franco-salica alle donne sul patrimonio del marito, abolita a Genova fin dal 1143, e le norme degli Statuti sul tetto massimo dell’antefatto o donatio propter nuptias e sul divieto di costituire legati testamentari a favore delle mogli, fino alle leggi suntuarie del XV secolo, che impongono restrizioni alle spese per la cerimonia nuziale ed all’eccessivo lusso nell’abbigliamento e nell’esibizione dei gioielli.
All’interno di un quadro normativo poco favorevole ai diritti delle donne, ma facilmente superato nella vita quotidiana, si sviluppa il tema dei rapporti familiari, illustrato nelle diverse sezioni della mostra. Gli accordi matrimoniali, stipulati davanti ai notai dai diretti interessati o dai loro padri, evidenziano l’importanza degli aspetti economici del legame (dote, eventuali beni extradotali, antefatto) e spesso la sua precocità, seppur temperata dal differimento dell’inizio della convivenza fino al raggiungimento dell’età considerata legale (12 anni per la sposa, 14 per lo sposo). L’importanza del consenso appare tutelata dalla possibilità attribuita ai promessi sposi, anche giovanissimi, di ricorrere al giudizio dell’arcivescovo per evitare unioni non gradite e dall’esplicito rifiuto opposto alle nozze anche al momento della loro celebrazione o dell’inizio della convivenza. Nel contempo, la legittimità dello scambio della promessa tra i nubendi in presenza di testimoni, anche all’insaputa delle famiglie, e la difficoltà di provare l’esistenza di un legame contratto altrove determinano frequenti episodi di bigamia, risolti dal tribunale vescovile attraverso l’escussione di testi spesso non veritieri.
I documenti esposti permettono di ricostruire nel dettaglio lo svolgimento della cerimonia dello scambio del consenso reciproco (matrimonio per verba de presenti) dinanzi al notaio verbalizzante, anche con funzioni di attestazione pubblica (publicationes) di una importante unione dinastica, o durante un notturno incontro furtivo, in presenza di testimoni, con la pronuncia della formula “voglio essere la tua legittima sposa/il tuo legittimo sposo” e l’eventuale consegna dell’anello. Il vizio del consenso, estorto sotto minaccia della vita, è trattato nella sezione dedicata al rapimento - non infrequente nel XV secolo - di giovani ereditiere, orfane di padre ed in età da marito, come Bianchinetta Doria e Argentina Lomellino, ma anche nei documenti relativi alla disavventura del notaio Pietro Battista di Levanto e del suo amico Barnaba de Cazerio, trascinati di notte in una casa situata fuori dalle mura, percossi e costretti contro la loro volontà a contrarre matrimonio per verba de presenti con due fanciulle, una delle quali del tutto sconosciuta.
Se il problema dell’esistenza di un rapporto di consanguineità tra i futuri sposi entro il quarto e terzo grado di parentela viene risolto attraverso la concessione di dispense pontificie, sul tema della violenza domestica si registra un vuoto normativo tutt’altro che risolto dal capitolo degli Statuti che impone ai mariti generiche norme di comportamento (De uxore bene tractanda) e dalle sentenze del tribunale ecclesiastico: così la giovanissima Druda viene riportata, nel 1222, nella casa del marito Pietro di Ortexeto, ancora sottoposto alla patria potestas del padre, con la sola prospettiva di giacere e mangiare con lo sposo e di non essere picchiata fino a morirne o a riportare lesioni permanenti nel fisico o nella mente; mentre nel 1378 Caterina, più volte fuggita dal tetto coniugale, vi viene ricondotta con il consenso del padre, che autorizza il genero a tenerla richiusa e si offre di metterla in catene con le sue mani. L’adulterio, che per l’uomo non prevede sanzioni di sorta, può travolgere la donna e il suo patrimonio: e mentre il marito di Giovannina lo volge a proprio favore, invocando presso il podestà di Bonifacio il diritto di non restituirle più la dote, quello di Giovannetta, uccisa per la sua inhonesta vita, ottiene di ristabilire la pace con il cognato restituendo il patrimonio di lei.
Sono d’altronde molteplici le sfaccettature del tema dei diritti dotali che si svelano attraverso l’esame dei documenti esposti: l’incombenza di stabilire l’ammontare della dote, che grava sul padre della sposa o su chi ne fa le veci; la garanzia del marito sulla sua restituzione (in caso di vedovanza, divorzio o dichiarazione di insolvenza) con un’ipoteca virtuale su tutti i suoi beni presenti e futuri; la rateizzazione dell’esborso, spesso preceduta da un atto di quietanza simulato - forse da mostrare a soggetti terzi - e dalla dichiarazione tra le parti della sussistenza del debito (controcarta); l’esistenza di uno specifico settore della beneficienza privata, spesso dispensata attraverso il Magistrato di Misericordia, per provvedere di dote le fanciulle povere.
Le conseguenze patrimoniali della fine del vincolo matrimoniale sono oggetto di precise norme statutarie, il cui contenuto si riflette sulla documentazione notarile: il diritto della vedova di rientrare in possesso dei suoi beni dotali e di riscuotere l’antefatto, oltre che di essere mantenuta a spese dell’eredità del marito, nelle more del pagamento, ha una sorta di condizione di reciprocità nel diritto del marito di lucrare dalla dote - in caso di morte di lei - l’ammontare dell’antefatto assegnatole al momento delle nozze. La restituzione della dote è prevista anche nei casi di annullamento del matrimonio, sanciti da atti della cancelleria arcivescovile nei quali la procedura posta in essere, le testimonianze prodotte e le vicende umane rappresentate costituiscono i principali motivi di interesse. E se lo scioglimento per impotentia coeundi da parte della sposa Melior è accompagnato dalla pietà per la condizione di lei, condannata a non poter essere madre ed invitata a dedicarsi al servizio di Dio, l’intera vicenda dell’accertamento della condizione di Filippo, affidata prima ad un venerabile canonico, poi ad un medico competente, infine ad una prostituta di origine russa, assume nella minuziosissima verbalizzazione del notaio Andrea de Cario una involontaria ma irrefrenabile vis comica. Più drammatico il caso di Bartolomea, che ha dato alla luce una figlia illegittima prima dell’inizio della vita coniugale con lo sposo, e che per evitare lo scandalo ed il rischio della propria vita accetta di chiudersi in convento e di lasciare libero il marito di contrarre una nuova unione. Nonostante la posizione subordinata riservata loro negli statuti cittadini, il ruolo delle donne genovesi si dimostra rilevante nell’ambito dei rapporti familiari. Le leggi dell’epoca romana imperiale e quelle di Giustiniano, che ne tutelano i diritti patrimoniali ma che impongono la presenza del padre o del marito e di due consiglieri maschi nella gestione dei contratti, possono essere applicate in modo da lasciarle comunque libertà di iniziativa: il marito è spesso assente e non di rado affida alla moglie mandato di procura per agire in sua vece; in presenza o in assenza del capofamiglia, la donna gestisce la casa, stipula contratti, riscuote crediti, investe denaro, si rivolge ai magistrati per salvare il proprio patrimonio dal fallimento del coniuge ed all’autorità ecclesiastica per ottenere lo scioglimento del matrimonio o l’allontanamento di una rivale. La vedova è quasi sempre nominata usufruttuaria dei beni del marito e può assumere la tutela dei figli e del loro patrimonio; spetta spesso a lei l’amministrazione dei lasciti pro anima del marito e la scelta sul matrimonio o la monacazione delle figlie.
Al di fuori dell’ambito del matrimonio, la posizione della donna appare invece priva di tutela e regolata solo dagli accordi con la controparte maschile, che la vedono comunque come il soggetto più debole. Nel patto di convivenza che nel 1274 impegna Richeta e Guglielmo de Aste alla fedeltà reciproca per tutto il tempo della loro vita la donna prevede almeno la riserva di recedere dall’accordo (in caso di matrimonio o nell’eventualità che il padre o il fratello la portino via da Genova), mentre l’uomo inserisce la formula utilizzata nei contratti di lavoro domestico (famulatus) per indicare che alla controparte non verranno inflitte imposizioni eccessive, ma con l’aggiunta di un riferimento per nulla usuale all’uso della violenza (non faciam superimpositam sive violenciam quam substinere non possis). Maggiore tutela è riservata ai figli nati da unioni non legittime, comunque considerati dal padre come figli naturali e oggetto di cure e lasciti testamentari, quando non legittimati dall’intervento di un conte palatino.
In questo panorama così composito, l’intervento del notaio si qualifica come quello di un vero interprete delle novità, capace di selezionare e reinterpretare norme e formulari per creare nuovi modelli. Ne è esempio il testo dell’accordo che il 1° luglio 1265 sancisce la separazione legale tra Giovanni di Monleone e la moglie Giovanna, unica soluzione possibile per un’unione che non può essere annullata dalla Chiesa né protratta con una convivenza ormai ritenuta inaccettabile. La parte economica prevede da parte dello sposo la restituzione della dote e, non essendo questa sufficiente a garantire le necessità quotidiane della donna, la concessione di un vitalizio mensile (alimenta). Alla parte giuridica provvede l’abilità del notaio, che affianca alla dichiarazione del marito, che concede alla moglie licenza di vivere per conto proprio e separatamente da lui, quella che la prosecuzione della convivenza metterebbe a rischio la vita di lei (et confiteor tibi quod mecum sine periculo tue persone stare non possis), ricalcando quasi perfettamente la frase del capitolo degli Statuti De muliere que auffugerit de domo mariti che poneva questa come condizione per evitare alla donna la perdita dei suoi diritti dotali.
In altri casi, una diversa applicazione delle norme permette di provvedere al futuro di una persona amata, alla quale gli Statuti impediscono di destinare lasciti testamentari. Così, nel 1310, il notaio Simone Roveto, consapevole del fatto che la dote della moglie Filippina non sarebbe sufficiente per il suo sostentamento in caso di vedovanza, effettua in favore di lei come segno del proprio affetto una donacio inter vivos esigibile solo dopo la morte del marito. Nel 1212 Bertolino di Leo modifica il suo testamento per includervi il terzo figlio che sta per nascere dalla sua concubina Lucencia, unica e sola donna entrata nella sua casa, legata a lui da un affetto mai velato da nessuna ombra di dubbio. Il desiderio di provvedere anche al suo futuro, oltre a quello dei figli, spinge il testatore ad inserire nell’atto una sorta di instrumentum dotale, con il quale impegna gli eredi a restituirle 20 lire, valore dei beni che la donna avrebbe portato con sé, ed un lascito pro anima di 10 lire: di fatto, un vero e proprio riconoscimento di dote e antefatto, per la donna amata con la quale, per ragioni a noi non note, non ha potuto stringere un legame ufficiale.
A completamento della mostra sono stati esposti al pubblico alcuni documenti - di recente scoperta e tuttora oggetto di studio da parte di Valentina Ruzzin - di natura pattizia e patrimoniale, che riportano forme di accordo tra soggetti che pongono i propri beni ed i futuri profitti in rapporto di fraternitas, societas e communio ad unum panem et unum vinum.

1158 aprile 21, Genova

Testamento di Ota Fornaria.

ARCHIVIO DI STATO DI GENOVA, Notai antichi, 1, c. 47r.

Il documento, una delle minute notarili (imbreviature) del cartolare di Giovanni Scriba, il più antico conservato al mondo, costituisce una delle poche testimonianze genovesi dell’uso della tercia, il contributo patrimoniale che il marito conferiva alla sposa e corrispondeva alla terza parte dei suoi beni tanto presenti quanto futuri. Le ultime volontà di Ota lasciano supporre qualche problema tra lei ed il figlio, Lamberto Rocio, che costituisce erede solo per un sesto del suo patrimonio a titolo di legittima, dichiarando che non dovrà chiedere di più (et volo quod sit inde contentus) e nominando erede per la parte rimanente il nipote Suzopel. L’apporto del marito al suo patrimonio (antefacto et tercia mea) sarà diviso in tre parti uguali tra Lamberto, Suzopel e Pagana, figlia del defunto mastro Ogerio. Suzopel subentrerà nei diritti di Lamberto in caso di morte di questi; se fosse invece lui a morire senza eredi, gli subentreranno il nipote di Ota, mastro Bertrame di Soziglia, e Ogerio Gisla.

PUBBLICAZIONE
» Indice
» Approfondimenti