Le convivenze nella Costituzione e nella giurisprudenza delle Corti europee
Le convivenze nella Costituzione
e nella giurisprudenza delle Corti europee (*)
di Elisabetta Lamarque
Professore associato di istituzioni di diritto pubblico, Università di Milano-Bicocca
Premessa
Questo contributo ha il limitato obiettivo di illustrare lo scenario costituzionale all’interno del quale, a legislazione invariata, si collocano le iniziative di autonomia privata a tutela dei conviventi che sono presentate al pubblico nel corso di questo convegno.
Qui, dunque, non si intende prendere posizione nel difficile dibattito degli ultimi anni sugli aspetti caldi o addirittura scottanti dal punto di vista etico e politico del diritto di famiglia, come ad esempio è quello del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Un dibattito in cui ai costituzionalisti è chiesto di impegnarsi nella quasi impossibile impresa di assegnare una portata normativa precisa alle norme costituzionali, allo scopo o di valutare l’incostituzionalità ‘per difetto’ di una normativa primaria vigente che si sospetta lacunosa e/o discriminatoria, oppure di individuare i profili di incompatibilità con la Costituzione dei vari progetti di legge sulle unioni civili che si sono via via susseguiti.
Nel presente contributo, invece, ci si limiterà a descrivere i tre grandi movimenti che a partire dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e fino ai giorni nostri hanno investito a livello costituzionale il fenomeno sociale delle convivenze.
Il primo movimento riguarda l’interpretazione che nel corso del tempo hanno subito le previsioni costituzionali positive in materia di relazioni familiari. È proprio nella descrizione di questo primo movimento che si chiarirà perché la radicale carenza di accordo tra gli studiosi di diritto costituzionale non dipende soltanto dal fatto che i temi in gioco sono eticamente sensibili, e quindi la precomprensione da parte di ogni interprete ha un peso maggiore che in altri campi. Una simile incertezza nella ricostruzione delle direttive costituzionali in materia è legata probabilmente anche alla strutturale incapacità - storicamente provata - delle previsioni che la Costituzione dedica appositamente alla famiglia e ai figli di imporsi di per sé, per il loro contenuto normativo, nell’ordinamento repubblicano. Sempre all’interno di questo primo movimento troverà spazio un resoconto sintetico delle posizioni assunte dalla Corte costituzionale sulle convivenze.
Il secondo e il terzo movimento, invece, sono quelli che provengono dall’esterno del nostro ordinamento e che, pure avviati già in epoca risalente, irrompono sulla scena italiana solo nel nuovo millennio. Si darà quindi conto, sempre con rapide pennellate, della giurisprudenza sul nostro tema della Corte europea dei diritti dell’uomo (secondo movimento) e della Corte di Giustizia dell’Unione europea (terzo movimento).
Che poi gli orientamenti delle due Corti europee che danno vita ed effettività alle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, da una parte, e alle norme di diritto primario (tra cui la Carta dei diritti) e derivato dell’Unione europea, dall’altra parte, agiscano di fatto, se non sempre di diritto, a livello costituzionale, è ormai un dato acquisito, su cui poi si spenderà comunque qualche parola.
Primo movimento. Le norme costituzionali
La Costituzione del 1948 dedica all’area del diritto di famiglia due appositi articoli: l’art. 29 (sul rapporto tra coniugi) e l’art. 30 (sul rapporto tra genitori e figli). Come si dirà meglio a breve, questi due articoli non sono nati bene, e ancora meno bene hanno funzionato nel corso della loro storia, perché nei quasi settanta anni dalla loro entrata in vigore è stato fatto dire loro tutto e il contrario di tutto.
Un dato certo, tuttavia, c’è, ed è che essi esistono e sono due articoli ben distinti. Questa circostanza non può essere priva di conseguenze per l’interprete, il quale deve prendere atto che la Costituzione, mentre all’art. 29, discute di «famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», all’art. 30 conferisce dignità costituzionale espressa anche a un rapporto di tipo familiare certamente non fondato sul matrimonio, e cioè al rapporto tra un genitore e un figlio nato appunto «al di fuori del matrimonio»(1). Per la cultura dell’epoca in cui furono quei due articoli furono scritti una simile impostazione era rivoluzionaria, e non può essere trascurata neppure dall’interprete odierno, perlomeno nel significato minimale di ritenere che la Costituzione prenda in considerazione, per garantirle, anche persone collocate al di fuori della ristretta cerchia della famiglia legittima.
La resa di entrambi questi articoli, tuttavia, non è stata buona, perché essi sono stati travolti da un insolito, comune, amaro destino(2): quello di non essere stati capaci di assolvere pienamente alla funzione per la quale erano stati inseriti nel testo costituzionale, non riuscendo mai a imporsi come norme giuridiche fondamentali del settore dell’ordinamento giuridico, il diritto di famiglia, di cui erano stati pensati come têtes de chapitre.
Nei primi venti anni dall’entrata in vigore della Costituzione, infatti, la dottrina e la giurisprudenza comune hanno interpretato e applicato quegli articoli alla luce delle disposizioni del codice civile, invertendo il più elementare canone esegetico secondo cui le norme inferiori devono essere intese in senso conforme a quelle superiori, e non viceversa; mentre il giudice delle leggi ha mantenuto un atteggiamento conservatore, conforme alla comune mentalità dell’epoca, rifiutando sistematicamente di eliminare le previsioni codicistiche in palese contrasto con il loro dettato. Dottrina e giurisprudenza comune, dunque, fino alla fine degli anni ’60 diedero sostanzialmente ragione agli argomenti spesi in Assemblea Costituente dal vecchio giurista e statista liberale Vittorio Emanuele Orlando, che avrebbe voluto espungere dal progetto di Costituzione tutti gli articoli relativi ai Rapporti etico-sociali, in considerazione proprio della ritenuta efficacia non precettiva delle norme in essi contenute e della supposta loro inidoneità a modificare il sistema del recente codice civile(3).
Ma paradossalmente il tenore letterale degli stessi articoli e le concezioni etico-politiche a essi sottese sono stati ignorati o traditi anche in seguito, quando, grazie all’evoluzione della società e al conseguente mutamento di indirizzo assunto dalla Corte costituzionale, la dottrina civilistica ha iniziato a ripensare le disposizioni codicistiche in materia di famiglia. Negli anni che hanno preceduto e immediatamente seguito la riforma del diritto di famiglia del 1975, infatti, si è avuto un fenomeno di iper (o sovra) interpretazione delle disposizioni costituzionali sulla posizione dei coniugi e dei figli, e cioè si sono imposte operazioni interpretative a volte anche estremamente creative, suggerite da una dottrina che pretendeva di utilizzare l’argomento costituzionale come perno e strumento di una politica legislativa volta a favorire, prima, e a legittimare, poi, la riforma del codice civile, presentandola come il necessario e dovuto adempimento di chiari e univoci imperativi costituzionali(4), che in realtà chiari e univoci non erano, e non erano mai stati.
A partire da quel periodo, dunque, molti interpreti non si accontentano di compiere una doverosa interpretazione sistematica delle previsioni costituzionali, leggendo gli artt. 29 e 30 Cost. in combinato disposto con gli artt. 2 e 3 Cost., e cioè insieme al principio personalista, che sancisce l’anteriorità logica e di valore della persona umana rispetto a ogni pubblico potere, e al principio di eguaglianza (tra coniugi e tra figli), ma si sentono autorizzati forzare il tenore letterale degli artt. 29 e 30 Cost. fino a ignorare l’esistenza di quei passaggi che esplicitamente prevedono deroghe agli artt. 2 e 3 Cost. Questi interpreti dimenticano, in altre parole, che secondo l’art. 29 la garanzia dell’unità familiare è un limite posto nientemeno che all’eguaglianza morale, oltre che giuridica, dei coniugi; e che l’art. 30 impone che la stessa tutela giuridica e sociale dei figli nati fuori del matrimonio venga meno ove leda i diritti dei membri della famiglia legittima (per non parlare della espressa previsione costituzionale di limiti posti alla ricerca della paternità, con conseguente esenzione del genitore da ogni responsabilità nei confronti del generato).
Una delle cause che hanno determinato letture così differenti degli artt. 29 e 30 Cost. nelle diverse epoche è certamente l’oggettivo carattere compromissorio e in alcune parti contraddittorio e ambiguo del loro tenore testuale(5).
Si pensi, quanto alle contraddittorietà, innanzitutto alle incoerenze appena rilevate, tra le solenni proclamazioni dell’eguaglianza tra coniugi e tra figli (nati dentro o fuori un matrimonio), da una parte, e le esplicite, ai nostri occhi inammissibili, espresse previsioni di limiti e deroghe legislative all’eguaglianza tra questi soggetti, tanto più gravi in quanto simili deroghe non si ritrovano in nessuna altra parte della Costituzione.
Ma si pensi anche e soprattutto, quanto all’ambiguità, ed entriamo così in medias res, alla formula del primo comma dell’art. 29, quella della famiglia come «società naturale fondata sul matrimonio», che rappresenta da sempre un rompicapo logico per tutti gli interpreti. Come può essere ‘naturale’, se ci pensiamo bene, ciò che è fondato su un istituto giuridico (il matrimonio con effetti civili) che è per definizione un prodotto artificiale del potere pubblico? Già Grassetti evidenziava il paradosso che «la Costituzione riconosce come società naturale la famiglia legittima, non riconosce come società naturale la famiglia semplicemente naturale»(6). Ha ragione allora chi ha parlato, a proposito della formula dell’art. 29, primo comma, Cost., di un vero e proprio ‘ossimoro’, originato dall’accostamento di termini tra loro incompatibili, di una “proposizione impossibile”, che “ha un senso”, in quanto “muove reazioni emotive”, ma è priva di “significato” per il diritto, e cioè «non si traduce in regole giuridiche che possano basare un ragionamento argomentativo serrato»(7).
La spiegazione offerta dalla quasi unanime dottrina del perché questa formula sia stata voluta dai nostri Costituenti è certamente condivisibile. Sembra certo, infatti, che la previsione della famiglia come “società naturale” della quale la Repubblica, e cioè l’insieme dei pubblici poteri, deve limitarsi a “riconoscere” i preesistenti diritti, sia stata votata da tutte le forze politiche, e non solo da quelle di ispirazione cattolica, proprio perché ritenuta capace di esprimere, come l’analoga formula di riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo contenuta nell’art. 2 Cost., l’anteriorità logica e di valore della famiglia rispetto ad ogni potere pubblico costituito(8), e quindi la necessità di una non ingerenza del potere pubblico nell’ambito familiare. Ma si tratta di una spiegazione che non chiude affatto le discussioni, perché lascia irrisolti molti interrogativi.
Quali precise conseguenze giuridiche produce, se appunto ne produce, quella formula? Gran parte del dibattito costituzionalistico degli ultimi anni, originato dai diversi progetti di legge in materia di unioni civili non matrimoniali, ha avuto ad oggetto proprio questo dilemma: se cioè la Costituzione imponga o meno di considerare come ‘famiglia’ solo quell’unico modello - l’unione ufficializzata dal vincolo matrimoniale - e conseguentemente di ritenere incostituzionale, perché non inquadrabile in quello schema, qualsiasi altro diverso modello legislativo di unione tra due persone. In altri termini, la domanda che ci si rivolge è questa: il primo comma dell’art. 29 contiene o meno una definizione chiusa, esaustiva, escludente, di famiglia?
Per chi risponde affermativamente, tutte le altre relazioni affettive e di convivenza prive del vincolo matrimoniale nel nostro ordinamento non potrebbero neppure essere chiamate ‘famiglia’, bensì più propriamente sarebbero ‘unioni parafamiliari’ alle quali il legislatore non potrebbe dare forma e riconoscimento ufficiale, pena la violazione del modello esclusivo di famiglia delineato in Costituzione(9). Per accedere alla regolamentazione legislativa di un diverso modello di unione, secondo i sostenitori di questa tesi, si dovrebbe dunque passare prima attraverso la revisione costituzionale dell’art. 29 Cost. Altri, invece, sempre partendo dal tenore testuale dell’art. 29 e prendendolo sul serio, riconoscono che per la Costituzione «la carta di identità della famiglia è il matrimonio», ma giungono a una conclusione di segno completamente opposto, sostenendo che proprio per questo motivo debbano potere accedere al matrimonio tutti coloro che legittimamente aspirano a costituire una famiglia, e quindi anche le coppie composte da persone del medesimo sesso(10). Una strada completamente diversa è invece imboccata da chi non crede che la Costituzione configuri un modello ‘chiuso’ di famiglia, ma contempli piuttosto una pluralità di modelli familiari e non imponga nemmeno una gerarchia che veda prevalere la famiglia legittima sulla famiglia di fatto, dato che i tre elementi della coabitazione, della mutua assistenza e della contribuzione ai bisogni sarebbero sempre presenti (nella famiglia legittima come obblighi giuridici e nella famiglia di fatto come precondizioni, o indicatori di esistenza, di quella formazione sociale)(11).
Ma su questo dibattito per fortuna ora non è necessario prendere posizione. Qui basta ricordare quale sia la varietà delle possibili letture - e il ventaglio è naturalmente anche più ampio di quello appena illustrato - a cui può dare adito il ‘difficile’ tenore letterale dell’art. 29 Cost.
Tuttavia, non è solo l’ambiguità oggettiva del testo che ha segnato il comune, amaro destino delle disposizioni che la nostra Costituzione dedica appositamente alla famiglia, quello di non essere mai riuscite a guidare gli interpreti e lo stesso legislatore, e quindi di risultare sostanzialmente inutili. È stata ovviamente determinante, in questo senso, anche la circostanza che nel campo degli istituti familiari «i costumi sono più forti del diritto», come diceva sempre Cesare Grassetti(12), nel senso che l’evoluzione della coscienza sociale si impone sempre sulle previsioni giuridiche positive provocandone un costante aggiornamento (ma questo non è il caso della disciplina costituzionale della famiglia, che non è mai stata sottoposta a revisione costituzionale), oppure generando interpretazioni creative, non fedeli alla lettera del dettato normativo ma adatte alla mutata realtà sociale, economica e culturale, come è appunto accaduto agli artt. 29 e 30 Cost.
E cosa è accaduto nella società in questi ultimi settanta anni? È cambiato radicalmente quasi tutto, e a una velocità che mai nella storia umana si era registrata. Pensiamo soltanto al miglioramento della posizione sociale della donna, all’evoluzione della morale sessuale e alla scissione della sessualità dalla procreazione, che sono tutte rivoluzioni dei costumi, vere e proprio rivoluzioni antropologiche, per dirla con Marcel Gauchet(13), che hanno demolito le fondamenta sulle quali si poggiava l’intera società all’epoca dell’Assemblea Costituente, richiedendo così agli interpreti di compiere l’acrobatica operazione di adattare su altre basi le medesime, inalterate, previsioni costituzionali. E tra queste rivoluzioni, forse, va posta particolare attenzione alla perdita di centralità dell’istituzione familiare in sé e per sé, che era invece in cima alle preoccupazioni della maggioranza dei Costituenti e della stessa
popolazione italiana dell’epoca. Si è in altre parole verificata nella società un’inversione dell’ordine logico e di valore tra la famiglia legittima, come istituzione, e le persone che la compongono, che non poteva che rispecchiarsi nel mondo del diritto. I nostri Costituenti, da uomini e donne della loro epoca, nell’occuparsi del rapporto di coppia e del rapporto tra genitore e figlio avevano considerato, insieme alle posizioni delle due persone coinvolte nel rapporto, le esigenze di un terzo soggetto, l’istituzione familiare, effettuando negli artt. 29 e 30 un innegabile bilanciamento a tre. Ma poi è intervenuta la rivoluzione antropologica di cui si è detto, e progressivamente si è alleggerito, nel bilanciamento, il peso di quel terzo soggetto, fino a scomparire del tutto nelle relazioni tra genitori e figli, e attenuarsi fortemente nelle relazioni di coppia.
L’effetto è stato quello di rendere sempre più problematico per l’interprete gestire il testo di due articoli costituzionali che con certezza sono lo specchio di una società ormai scomparsa, facendo contemporaneamente diventare irresistibile l’umana tentazione di appoggiarsi ad altre norme costituzionali di principio più aperte ai mutamenti sociali - come sono gli artt. 2 e 3 Cost. - per elevarle alla posizione di norme cardine dell’intero sistema legislativo del diritto di famiglia. Una posizione che, invece, nell’impianto della Costituzione sembra tuttora inequivocabilmente riservata agli artt. 29 e 30(14).
La giurisprudenza costituzionale sul tema delle convivenze
Ricostruito così a grandi linee e in tutta la sua problematicità il sistema della Costituzione, si può esaminare come questo sistema abbia reagito davanti alla Corte costituzionale quando è venuta in rilievo la convivenza more uxorio.
Sul punto sono necessarie due avvertenze. La prima è che la limitazione del discorso alla giurisprudenza costituzionale risponde soltanto alla suddivisione dei compiti tra i relatori di questo convegno, nel quale si è scelto di affidare ad altri l’esame della giurisprudenza comune nazionale. È tuttavia importante ricordare che non solo l’uso giudiziario della Costituzione non è monopolio esclusivo della Corte costituzionale, perché è attività condivisa, sia pure con strumenti processuali diversi, dalla Corte costituzionale e dai cosiddetti giudici comuni, ma neppure spetta alla Corte costituzionale l’ultima parola in ordine alla interpretazione delle norme costituzionali. I giudici comuni, infatti, si servono quotidianamente della Costituzione sia allo scopo di interpretare la legge in modo a essa conforme (attività che in questi ultimi anni ha anzi assunto il carattere della doverosità), sia per darvi applicazione diretta nei vuoti o negli interstizi lasciati dalle norme legislative, sia, infine, ove ravvisano una insanabile incompatibilità tra legge e Costituzione, per sollevare, come extrema ratio, la questione di costituzionalità della legge davanti alla Corte costituzionale. E in tutte queste tre attività, naturalmente, l’attribuzione di un significato applicativo alle norme costituzionali è sempre un passaggio logico necessario. Anzi, nello specifico settore del diritto che qui interessa, quello delle convivenze more uxorio, l’uso diretto e indiretto della Costituzione da parte dei giudici comuni è stato in passato ed è tuttora ben più massiccio, dal punto di vista quantitativo, di quello che ne ha fatto lo stesso giudice costituzionale, e forse è addirittura più significativo dal punto di vista qualitativo.
La seconda avvertenza è la seguente. È vero quello che molto spesso si dice e si ripete, che la Corte costituzionale ha affermato che l’art. 29, primo comma, Cost. «non nega dignità a forme naturali del rapporto di coppia diverse dalla struttura giuridica del matrimonio» (così, fra le molte, C. cost., sent. n. 310 del 1989), e ciò perché la convivenza tra due persone fondata sull’affetto e sull’appoggio reciproco è una formazione sociale all’interno della quale si sviluppa la personalità dell’individuo, e quindi gode anch’essa di una propria norma costituzionale di riferimento, che è appunto l’art. 2 Cost.
Tuttavia, da un simile straordinario riconoscimento di principio, che aggancia la convivenza more uxorio a una norma idealmente addirittura più importante, nel sistema costituzionale, di quella che regola il rapporto coniugale, potremmo dire addirittura alla sua pietra angolare, molto raramente la Corte costituzionale ha fatto derivare qualche conseguenza positiva per le convivenze. Anzi, l’attuale punto di approdo e di sintesi di questo orientamento giurisprudenziale che ascrive la tutela delle due situazioni - il matrimonio e la convivenza - a due norme costituzionali diverse va proprio nel senso di sottolineare l’incolmabile diversità, l’incomparabilità, tra le due(15), a tutto scapito, naturalmente, della convivenza e dei conviventi. Una sentenza abbastanza recente riassume così il consolidato orientamento del giudice costituzionale: «posto che la posizione del convivente meriti riconoscimento, essa non necessariamente deve coincidere con quella del coniuge dal punto di vista della protezione di vincoli affettivi e solidaristici»(16). Punto. E a chi si domanda in cosa consiste la differente natura delle due situazioni, la Corte costituzionale risponde che essa risiede nella circostanza che solo il matrimonio conferisce alla coppia i «caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri».
Questo orientamento del giudice costituzionale sul tema delle convivenze muove i primi passi alla fine degli anni ‘70 e conta oggi un numero considerevole di pronunce(17). Ed è piuttosto sorprendente che esso non presenti alcuna oscillazione di rilievo nella impostazione di fondo ora descritta, nonostante l’ampiezza del periodo di tempo trascorso e la varietà delle vicende esaminate (che vanno dal diritto civile al quello penale e a quello previdenziale e ancora oltre)(18).
È utile ancora mettere in rilievo tre ulteriori caratteristiche di questa giurisprudenza.
a) Sebbene i giudici comuni abbiano sollevato numerose questioni di costituzionalità volte a estendere le garanzie previste dalla legge per i soli coniugi ai conviventi more uxorio, parti dei loro processi, quasi mai la Corte costituzionale ha accolto tali questioni, dichiarando incostituzionale la legge nella parte in cui non equipara la posizione del convivente a quella del coniugato.
b) Nelle rare occasioni nelle quali la Corte costituzionale ha equiparato il convivente al coniuge - che sono salvo errore solo tre - l’operazione è stata giustificata non perché la formazione sociale formata dai due conviventi fosse meritevole di tutela di per sé sulla base dell’art. 2 Cost., né in nome della garanzia di un diritto individuale a esplicare la propria personalità in un rapporto di coppia non consacrato dal vincolo matrimoniale, ma sempre in nome della necessità di garantire un altro e diverso diritto fondamentale inviolabile della persona(19). In particolare, in tutte e tre queste occasioni la Corte costituzionale, nel confermare la non comparabilità tra matrimonio e convivenza, ha considerato dirimente, nel senso di imporre l’equiparazione nel singolo caso concreto, la presenza di figli minori dei conviventi (nelle sentenze n. 404 del 1988 e n. 559 del 1989, entrambe relative alla successione del convivente nel contratto di locazione, il favor minoris è stato rafforzato dalla considerazione dell’esistenza di un diritto fondamentale inviolabile all’abitazione; nella sentenza n. 203 del 1997, invece, in materia di ricongiungimento familiare, si trattava di garantire il diritto del figlio minore di vivere con il genitore cittadino extracomunitario)(20).
c) C’è infine una sentenza costituzionale, tra le molte adottate finora dalla Corte nella nostra materia, che, pur non essendo di accoglimento, sposta l’attenzione dall’aspetto della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo anche all’interno di una convivenza more uxorio al ben diverso profilo della necessità di una tutela diretta, proprio in ossequio all’art. 2 Cost., di quella stessa formazione sociale. È la sentenza del 2010 che respinge come inammissibile e non fondata la questione di costituzionalità volta ad estendere alle coppie di persone dello stesso sesso le norme del codice civile in materia di matrimonio(21).
Là la Corte costituzionale ricorda che in tutta la propria giurisprudenza pregressa sulle convivenze more uxorio, nella quale erano sempre venute in rilievo convivenze eterosessuali, essa si era riservata «la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni». Ed è proprio vero che fino al 2010 la Corte costituzionale si era sempre interrogata soltanto sulla necessità costituzionale, o meno, di colmare le singole lacune di tutela legislativa delle persone conviventi denunciate dai giudici a quibus. Nella sentenza del 2010, invece, la Corte compie un passo ulteriore, perché dopo avere specificato che «l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia», rientra tra le formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost., aggiunge che l’aspirazione al riconoscimento giuridico di tale condizione di coppia «necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia».
Insomma: quando vengono in rilievo coppie del medesimo sesso, e cioè coppie che non hanno attualmente alcuna possibilità di accedere al riconoscimento da parte dei pubblici poteri perché sono escluse dal matrimonio, per riportare l’ordinamento legislativo al rispetto dell’art. 2 Cost. non sarebbero sufficienti singoli interventi chirurgici correttivi di specifici aspetti di mancata tutela delle persone conviventi, ma sarebbe necessario un intervento legislativo generale che riconosca e garantisca, ex art. 2 Cost., proprio tale formazione sociale in sé e per sé.
Si tratta, a mio parere, di una vera e propria novità, di un significativo cambiamento di paradigma nella lettura dell’art. 2 Cost. applicato al tema delle convivenze.
Secondo movimento. Il sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
Dell’importanza qualitativa e quantitativa che ha assunto per il nostro ordinamento la Convenzione europea dei diritti dell’uomo almeno da quando, dopo il 1998, esiste il ricorso individuale diretto alla Corte di Strasburgo, siamo tutti consapevoli, e qui non è possibile soffermarsi.
È necessario solo ricordare pochi elementi. Innanzitutto la Convenzione è un living instrument, e cioè un impegno internazionale che vive e si evolve continuamente grazie alla giurisprudenza della Corte di Straburgo che la applica ai numerissimi casi singoli portati alla sua attenzione. Senza poter qui compiere le sottili e opportune precisazioni che l’argomento richiederebbe, si può dire quindi ciò che ci vincola non è tanto il testo della Convenzione del 1950 e dei suoi 14 protocolli, recepiti da altrettante leggi ordinarie del nostro Stato, ma è piuttosto la lettura di quel testo che ne fa la Corte europea.
Quando la Corte di Strasburgo cambia idea, in altre parole, anche l’ordinamento italiano deve seguirla. È quello che è avvenuto in numerose occasioni. Una delle più importanti è quella ricordata dal presidente della Corte costituzionale nella più recente conferenza stampa annuale: la Corte di Strasburgo ha affermato, nel 2009, rivedendo il proprio precedente orientamento, che l’art. 7 della Convenzione reca il principio della necessaria applicazione retroattiva della legge penale più favorevole, e la Corte costituzionale italiana, nel 2013, non ha potuto fare altro che prenderne atto, come se oggi la Convenzione davvero imponesse testualmente a tutti gli Stati di attenersi a quel principio(22).
In secondo luogo, la Convenzione europea, così come interpretata dalla sua corte, condiziona la legittimità costituzionale delle nostre leggi a doppio titolo. Una prima volta perché, recando essa diritti inviolabili dell’uomo, concorre a integrare l’elenco dei diritti contenuto nella nostra Costituzione. I diritti convenzionali entrano infatti nel nostro ordinamento attraverso la porta aperta dell’art. 2 Cost., secondo cui la Repubblica “riconosce e garantisce” tutti i diritti inviolabili dell’uomo, e quindi non solo quelli scritti in Costituzione, ma anche quelli enunciati negli strumenti internazionali. Ma la Convenzione europea condizione la legittimità costituzionale delle leggi anche e contemporaneamente una seconda volta, perché le norme convenzionali agiscono come parametri interposti ai sensi dell’art.
117, primo comma, Cost., introdotto dalla riforma costituzionale del 2001, secondo cui le leggi statali e regionali devono appunto rispettare i vincoli internazionali.
È un esempio di questo doppio, micidiale, condizionamento della legittimità costituzionale delle leggi interne da parte della giurisprudenza di Strasburgo una sentenza della Corte costituzionale del 2011, la n. 245. Là, infatti, la Corte costituzionale arriva a dichiarare incostituzionale una norma, introdotta nel codice civile dal pacchetto sicurezza del 2009, che impediva allo straniero irregolarmente soggiornante in Italia di procedere alle pubblicazioni matrimoniali, e lo fa proprio sulla base di quel duplice titolo: sia perché ravvisa l’esistenza di un diritto inviolabile di sposarsi, traendolo in via interpretativa tramite l’art. 2 Cost. (anche) dall’art. 12 della Convenzione europea (se esiste un diritto inviolabile dell’uomo questo spetta per definizione a ogni essere umano, indipendentemente dal fatto che sia cittadino o straniero, regolare o irregolare); sia perché l’art. 12 della Convenzione europea, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, assunto come parametro interposto di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost., dà luogo come tale a un autonomo motivo di illegittimità costituzionale della stessa legge.
Tuttavia, il condizionamento prodotto dal sistema della Convenzione europea sul tema delle convivenze e dei diritti dei conviventi, che qui interessa, non è così incisivo come si rivela invece in altri ambiti, anche vicini o affini al nostro. Pensiamo all’esempio appena fatto, del diritto inviolabile al
matrimonio anche dello straniero, oppure alle vicende, da tutti conosciute per il loro rilievo mediatico, del cognome materno (caso Fazzo e Cusan)(23), dell’accesso alla procreazione medicalmente assistita anche da parte di coppie non infertili ma portatrici sane di malattia genetica (caso Costa e Pavan)(24), dell’anonimato della madre biologica che decida di non riconoscere il figlio (caso Godelli)(25).
Sul nostro tema, invece, le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo sono più prudenti, più rispettose del margine di apprezzamento degli Stati nazionali, e in definitiva sfornite di una reale capacità di innovare gli assetti interni al nostro ordinamento, salvo che per un due fondamentali aspetti.
Il primo aspetto nel quale il sistema della Convenzione diverge da quello costituzionale italiano è la definizione della ‘famiglia’ oggetto di tutela. Secondo una antica e consolidatissima giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che prende l’avvio dal noto caso Marcks del 1979 sulla necessaria parità di tutti figli indipendentemente dallo status giuridico dei genitori(26), la nozione di ‘vita familiare’ protetta dall’art. 8 della Convenzione è basata esclusivamente sulla effettività del legame esistente tra le persone(27), siano esse una coppia di persone adulte oppure adulti e minori che vivono come genitori e figli. La vera ‘famiglia’ per la Corte di Strasburgo, in altre parole, è il rapporto di tipo familiare di fatto esistente tra più persone. Il matrimonio, in questa prospettiva, non è altro che uno dei diversi ‘indici’ che la Corte di Strasburgo valuta per stabilire se si è o meno, nel caso concreto sottoposto al suo esame, in presenza di una ‘vita familiare’ di coppia tutelata dall’art. 8 della Convenzione. Ma anche l’atto formale di matrimonio di per sé non basta, perché per ricadere nella garanzia convenzionale il matrimonio deve essere genuino, e non fittizio, sebbene non necessariamente accompagnato dalla coabitazione, come ad esempio accade quando la controversia verte proprio sul ricongiungimento familiare del coniuge(28). La distanza della definizione convenzionale di famiglia da quella costituzionale pare quindi notevole. Altri ‘indici’ dell’esistenza di una vita familiare tutelata dalla Convenzione possono poi essere, secondo la giurisprudenza di Strasburgo, la vita in comune, il tempo vissuto insieme e la qualità, le caratteristiche concrete, della relazione. Nel caso di rapporti tra adulti e minori, ad esempio, conta il ruolo assunto dall’adulto nei confronti del bambino, venendo in essere una ‘vita familiare’ anche se il minore è collocato in affido, e non in adozione, presso una coppia di adulti per un tempo significativo(29). Nel caso di rapporti di coppia, ancora, contano di nuovo come ‘indici’ di una ‘vita familiare’ la coabitazione, la durata della relazione e la circostanza che le persone abbiano dimostrato un impegno reciproco, avendo dei figli insieme o in qualsiasi altro modo(30). Ed è importante notare come, rinnegando la propria precedente giurisprudenza che ascriveva il rapporto affettivo tra persone dello stesso sesso alla nozione di ‘vita privata’, nel 2010 la Corte di Strasburgo abbia fatto rientrare sotto la garanzia della ‘vita familiare’ anche la coppia same-sex che viva una stabile relazione de facto(31).
Il secondo elemento della giurisprudenza di Strasburgo in grado di condizionare pesantemente il nostro ordinamento, ipotecando le scelte del legislatore futuro, è nuovissimo. La novità è stata introdotta da una sentenza di fine del 2013 con la quale la Corte europea ha condannato la Grecia perché la legislazione nazionale greca del 2008 rende accessibile il ‘patto di libera convivenza’ soltanto alle coppie di sesso diverso(32). Afferma per la prima volta in quell’occasione la Corte europea che, una volta che uno Stato, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, abbia deciso di affiancare al
matrimonio una disciplina legislativa sulle unioni civili, non può a quel punto riservarla alle sole coppie eterosessuali, ma deve necessariamente estenderla anche alle coppie di persone dello stesso sesso, in ossequio al principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della Convenzione, letto in combinato disposto con l’art. 8 sulla vita privata e familiare.
Per il resto, invece, gli esiti concreti a cui finora è pervenuta la Corte di Strasburgo a proposito della tutela dei conviventi more uxorio non sono molto diversi da quelli ai quali è giunta, pur nella diversità del parametro di riferimento, la nostra Corte costituzionale.
Secondo la Corte di Strasburgo, ad esempio, la Convenzione non impone agli Stati di predisporre una disciplina legislativa generale a tutela di categorie particolari di coppie di fatto, come le coppie che non possono sposarsi perché uno dei due componenti è già sposato con un’altra persona e la legislazione nazionale non consente il divorzio(33), oppure la coppia di persone unite in un matrimonio religioso sfornito di effetti civili(34). Inoltre, sostiene ancora la Corte europea che la Convenzione non richiede agli Stati di estendere l’istituto matrimoniale alle coppie same-sex(35). Infine, quanto ai diritti dei conviventi more uxorio, la Corte di Strasburgo afferma che gli Stati non sono mai obbligati a riconoscere ai conviventi gli stessi vantaggi (ad esempio: successori, previdenziali, fiscali o relativi alla successione nel contratto di locazione) previsti per i coniugi(36).
Terzo movimento. L’Unione europea
Se ci fermassimo a una prima lettura dei Trattati sull’Unione europea il discorso si chiuderebbe qui per una serie di semplice constatazioni: l’Unione è dotata delle sole competenze normative attribuitele dai Trattati, mentre le altre restano salde nelle mani degli Stati membri; tra le competenze attribuite all’Unione non c’è il diritto di famiglia, né il tema specifico delle convivenze, che oggi ci occupa; l’Unione, quindi, non ha competenza normativa sul nostro tema; e se non ha competenza sul nostro tema, non dovrebbe potersi pronunciare nel nostro ambito la Corte di Giustizia, né tantomeno potrebbero venire in rilievo gli articoli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che più da vicino ci interessano, e cioè l’art. 7, secondo cui «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare»; e l’art. 9, ai cui sensi «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». Secondo l’art. 51 della stessa Carta, infatti, come noto, le sue disposizioni si applicano «agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» e, ancora la Carta non deve servire a introdurre «competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione».
Chiuso il discorso, quindi? Il diritto di famiglia (e dintorni) resta ancora oggi uno degli ambiti in cui gli Stati membri sono pienamenti sovrani? Apparentemente sì. E in effetti abbiamo una pronuncia della Corte di Giustizia del 2009, su rinvio pregiudiziale proprio del Tribunale di Milano, che afferma seccamente che “non presenta alcun nesso con il diritto comunitario” la questione sollevata, relativa alla mancata previsione a favore del convivente more uxorio della rendita Inail spettante invece al coniuge, secondo il diritto italiano, in caso di decesso del lavoratore a seguito di infortunio sul lavoro(37). Se tuttavia si fa una ricerca nella giurisprudenza della Corte di Giustizia ci si accorge che essa ha in realtà affrontato nel merito e risolto molte questioni di diritto di famiglia, anche se in verità per la maggior parte relative al rapporto di tra genitori e figli più che al rapporto di coppia. E ciò è accaduto per due motivi: sia perché una delle libertà fondamentali che derivano dalla cittadinanza comunitaria è la libertà di circolazione, e il lavoratore migrante non può godere di una effettiva libertà di circolare e soggiornare sul territorio degli Stati membri se non è libero di portare con sé le persone che sono parte della sua stessa vita, persone che quindi il diritto dell’Unione deve potere individuare(38); sia perché l’Unione europea ha molte competenze che intersecano trasversalmente il diritto di famiglia, e sulle quali ha adottato atti normativi importanti, come ad esempio i vari regolamenti Bruxelles sul riconoscimento delle decisioni nazionali in materia matrimoniale e sulla potestà dei figli e le normative in materia lavoristica, oltre naturalmente alla fondamentale direttiva 38/2004, appunto sul ricongiungimento dei familiari del cittadino dell’Unione che abbia esercitato la sua libertà di circolazione e soggiorno, la quale fa testualmente rientrare tra i componenti della famiglia, tra gli altri, accanto al coniuge, il partner con cui il cittadino dell’Unione ha contratto una forma di unione registrata che presenta caratteristiche equivalenti al matrimonio sulla base della legislazione di uno Stato membro. Ed ecco quindi che, a cascata, riescono a venire in rilievo anche le previsioni della Carta dei diritti fondamentali, che gli Stati membri devono rispettare quando agiscono in esecuzione del diritto dell’Unione che trasversalmente ‘taglia’ le loro competenze in materia di famiglia. Fermiamoci un attimo sulla Carta e sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
In primo luogo si può notare che tutto spinge, all’interno dell’Unione, nel senso di allontanarsi sempre più dalla nozione di famiglia come società fondata sul vincolo matrimoniale formale, e di preferire piuttosto quella medesima concezione ‘sostanziale’ di famiglia fatta propria dalla Corte di Strasburgo. Innanzitutto, l’art. 7 della Carta, che tutela la ‘vita familiare’, deve essere inteso - lo richiede la stessa Carta stessa all’art. 52, par. 3 - come avente lo stesso “significato” e la medesima “portata” del corrispondente art. 8 della Convenzione europea, che sono appunto il significato e la portata stabiliti dalla giurisprudenza di Strasburgo di cui si è già detto(39). Ma c’è di più. L’art. 9 della Carta, diversamente dall’art. 12 della Convenzione, garantisce in modo distinto(40), e non congiunto, il diritto di sposarsi e quello di costituire una famiglia, come a sottolineare che per l’Unione europea è ‘famiglia’ anche l’unione tra due persone non fondata sul vincolo matrimoniale(41).
Inoltre, a una nozione sostanziale di famiglia ha fatto autonomamente riferimento anche la Corte di Giustizia in alcune sporadiche occasioni precedenti all’assunzione di valore giuridico vincolante da parte della Carta dei diritti. In particolare, ha dato rilievo alla convivenza more uxorio in almeno due casi.
Il primo caso è particolarissimo. Interpretando l’accordo di associazione con la Turchia, la Corte
ha ritenuto che al fine di riconoscere al coniuge di un lavoratore migrante turco la possibilità di esercitare un’attività lavorativa subordinata deve essere calcolato, nel tempo trascorso da dopo il ricongiungimento, anche il periodo di convivenza more uxorio tra i due coniugi, compreso tra la data del loro divorzio e il momento in cui hanno deciso di sposarsi tra loro una seconda volta(42).
Il secondo caso, meno particolare e di maggiore interesse per il nostro ragionamento, riguardava l’interpretazione di una direttiva del 1990, poi abrogata dalla già citata direttiva del 2004, che consentiva agli Stati di esigere dai cittadini di altro Stato membro che volessero beneficiare del diritto di soggiorno nel loro territorio di dimostrare di avere risorse sufficienti per evitare di diventare un onere per l’assistenza sociale dello Stato. In quel caso la Corte di Giustizia ha affermato che la direttiva impone di tenere conto, ai fini della prova della disponibilità di risorse sufficienti, non solo del reddito dei familiari del migrante, ma anche del reddito del suo partner residente nello Stato membro ospitante, e ciò anche in mancanza di un «atto negoziale stipulato dinanzi al notaio contenente una clausola di assistenza»(43).
Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, dunque, le convivenze de facto un qualche rilievo ce l’hanno, in omaggio alla definizione sostanziale e non formale di famiglia accolta da quel sistema. Tuttavia, sul tema delle convivenze la giurisprudenza di Lussemburgo non ha detto molto di più. Anzi, in un’unica vecchissima pronuncia ha affermato che quando una norma europea si riferisce ai ‘coniugi’ per assegnare loro un certo beneficio, il termini non deve intendersi come comprensivo anche dei conviventi more uxorio(44).
Quanto invece alle coppie di persone dello stesso sesso legate in una unione civile registrata prevista da una legislazione nazionale, nel corso degli anni la Corte di Giustizia ha modificato il proprio orientamento. Qui non è possibile ricostruire nel dettaglio l’evoluzione della giurisprudenza europea sul tema(45). Basta dire che in una prima fase la Corte di Giustizia ha negato che il diritto dell’Unione imponesse l’equiparazione delle due situazioni - matrimonio e unione same-sex registrata - quando lo Stato membro che aveva previsto l’unione civile desiderava, seguendo le proprie tradizioni culturali, tenerla ben distinta dal matrimonio(46); mentre nella seconda fase, a cui hanno dato vita le notissime sentenze Maruko del 2008 e Römer del 2011, entrambe relative alla Germania, la Corte ha al contrario ravvisato una discriminazione diretta nella scelta tedesca di non assegnare al partner di una unione registrata di una coppia omosessuale in un caso la pensione di reversibilità garantita invece ai vedovi, e nell’altro caso la pensione complementare di vecchiaia garantita invece ai coniugi(47). L’orientamento è stato poi consolidato e portato alle sue estreme conseguenze con la sentenza Hay di fine 2013(48), nella quale la Corte di Giustizia ha ritenuto che la discriminazione diretta per orientamento sessuale sulla retribuzione e sulle condizioni di lavoro sussista anche nei confronti di un cittadino francese al
quale non siano stati concessi, in occasione della stipula di Pacs con il compagno del medesimo sesso, i congedi retribuiti e i premi previsti dal contratto collettivo di lavoro in occasione del matrimonio. In quest’ultima pronuncia la Corte di Giustizia non solo ha ritenuto che le (notevoli) differenze esistenti tra il matrimonio e il Pacs nell’ordinamento francese sono ininfluenti, e che quindi le due situazioni restano comunque perlomeno “paragonabili” per valutare la sussistenza del diritto del lavoratore, ma ha anche essa stessa comparato le due situazioni al fine di stabilire l’avvenuta discriminazione per orientamento sessuale, senza lasciare alcun tipo di valutazione al giudice nazionale, al contrario di quanto aveva fatto nelle due occasioni precedenti(49).
Brevi notazioni conclusive sul secondo e sul terzo movimento
Cosa dire dunque conclusivamente delle giurisprudenze europee ora descritte?
Si può notare, innanzitutto, che entrambe esigono che i legislatori statali, quando intervengono a regolare la vita di coppia, evitino accuratamente di introdurre discipline discriminatorie per orientamento sessuale.
Così facendo, però, le due corti europee insieme danno vita a una specie di asta al rialzo, perché la Corte di Strasburgo vieta agli Stati che abbiano previsto unioni civili di riservarle alle coppie eterosessuali; mentre la Corte di Lussemburgo, rivolgendosi agli Stati che già adempiono alle richieste di Strasburgo, avendo previsto un’unione civile aperta alle coppie di persone delle stesso sesso, richiede loro un passo ancora ulteriore, e cioè di trattare i componenti della coppia in modo sostanzialmente equivalente ai componenti della coppia unita in matrimonio.
Ma quanto alle convivenze di fatto non registrate, siano esse etero o omosessuali, le giurisprudenze europee aggiungono qualcosa a quanto già ci offre la nostra giurisprudenza costituzionale e comune? Ben poco, a parte l’importante affermazione di principio, che pare superare il tenore testuale dell’art. 29 Cost., secondo cui anche le convivenze prive di vincolo matrimoniale devono essere considerate ‘famiglie’ a pieno titolo.
Dal punto di vista pratico, invece, entrambe le Corti europee concordano con la Corte costituzionale italiana sul fatto che le persone che vivono una relazione non formalizzata in un vincolo giuridico possono essere trattate dalla legge in modo diverso da coloro i quali hanno rivestito la loro unione con un vincolo formale(50)- sia esso matrimonio o altro tipo di unione registrata - proprio in considerazione della mancanza di ufficialità della loro situazione, salvo naturalmente che ricorrano motivi eccezionali che richiedono un’equiparazione.
(*) Il testo e le note del presente contributo restano aggiornate al 7 marzo 2014, data in cui si è svolto il Convegno nel corso del quale l’Autrice ha tenuto la sua relazione.
(1) Lo sostengono, per primi, P. CAVALERI - M. PEDRAZZA GORLERO - G. SCIULLO, Libertà politiche del minore e potestà educativa dei genitori nella dialettica del rapporto educativo familiare, in AA.VV., L’autonomia dei minori tra famiglia e società, a cura di A. Belvedere - R. De Cristofaro, Milano, 1980, p. 76-78.
(2) E. LAMARQUE, Famiglia (dir. cost.), in Dizionario di diritto pubblico diretto da S. Cassese, III, Milano, 2006, p. 2418 e ss.; EAD., Gli articoli costituzionali sulla famiglia: travolti da un insolito (e inesorabile) destino , in La “società naturale” e i suoi “nemici” , a cura di R. Bin - G. Brunelli - A. Guazzarotti - A. Pugiotto - P. Veronesi, Torino, 2010, p. 191 e ss.
(3) Sul punto sia consentito il rinvio a E. LAMARQUE, Art. 30 , in Commentario alla Costituzione , I, a cura di R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti, Torino, 2005, p. 623 e ss.
(4) Fondamentali, in questo senso, le osservazioni di G. CATTANEO, La Costituzione e il diritto familiare nella dottrina civilistica italiana dell’ultimo quarantennio, in La civilistica italiana dagli anni ’50 ad oggi, Padova, 1991, p. 95-106.
(5) La constatazione si ritrova negli scritti di ogni epoca. Si veda, per tutti, A.M. SANDULLI, Rapporti etico-sociali, in Commentario al diritto italiano della famiglia , a cura di G. Cian - G. Oppo - A. Trabucchi, I, Padova, 1992, p. 3-4.
(6) C. GRASSETTI, I principii costituzionali relativi al diritto familiare, in Commentario sistematico alla Costituzione italiana, a cura di P. Calamandrei - A. Levi, Firenze, 1950, p. 295.
(7) R. BIN, «La famiglia: alla radice di un ossimoro», in Studium iuris , 2000, p. 1066 e 1068.
(8) Per queste conclusioni cfr., per tutti, R. BIAGI GUERINI, Famiglia e Costituzione, Milano, 1989, p. 18 e 62, e F. CAGGIA - A. ZOPPINI, Art. 29, in Commentario alla Costituzione, cit., p. 603. Inoltre, secondo C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, II, IX ed., Padova, 1976, p. 1165, il riferimento alla famiglia in termini di “società naturale” comporta, come ulteriore conseguenza, l’impossibilità di sottoporre a revisione costituzionale la struttura fondamentale dell’istituto familiare. Quanto all’origine, l’inserimento nella Carta costituzionale di disposizioni in materia di relazioni familiari, sconosciuta nelle Costituzioni brevi di epoca liberale, fu fortemente voluto in Assemblea Costituente specialmente dagli esponenti di parte cattolica, i quali ritenevano che l’interposizione costituzionale potesse garantire la conservazione dell’istituzione familiare, mettendola al riparo dal potere unilaterale dello Stato tramite la sua sottrazione alle decisioni delle maggioranze politiche (lo sottolinea S. STAMMATI, «Declinazioni del principio di sussidiarietà nella disciplina costituzionale della famiglia», in Dir. soc., 2003, p. 271-272). E, del resto, l’esplicita preoccupazione nei confronti di una futura ingerenza statale di tipo paternalistico nell’ambito familiare, simile a quella conosciuta nell’esperienza fascista, si manifestò anche nella discussione relativa al futuro art. 31 Cost., e prese corpo nel testo di quell’articolo, che si premura di configurare un intervento pubblico a protezione della famiglia non eccessivamente invasivo dell’autonomia della stessa (L. CASSETTI, Art. 31, in Commentario alla Costituzione, cit.), oltre che nel disposto dell’art. 30, secondo comma, Cost., ove si dice che solo «nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti».
(9) A. RUGGERI, «Idee sulla famiglia e teoria (e strategia) della Costituzione», in Quad. cost., 2007, p. 753 e passim; ID., «Il diritto al matrimonio e l’idea costituzionale di “famiglia”», in Nuove aut., 2012, p. 37 e ss. Ma in questo senso si vedano anche E. ROSSI - N. PIGNATELLI, La tutela costituzionale delle forme di convivenza familiare diverse dalla famiglia, in L’attuazione della Costituzione. Recenti riforme e ipotesi di revisione, a cura di S. Panizza - R. Romboli, Pisa, 2006, p. 208 e passim; E. ROSSI, «Il riconoscimento delle coppie di fatto: alla ricerca di una sintesi», in Quad. cost., 2010, p. 388, e ancora, ma con minori argomentazioni sul punto specifico, V. TONDI DELLA MURA, «La dimensione istituzionale dei diritti dei coniugi e la pretesa dei diritti individuali dei conviventi», in Quad. cost., 2008, p. 125 e L. VIOLINI, «Il riconoscimento delle coppie di fatto: praeter o contra constitutionem?», in Quad. cost., 2007, p. 394.
(10) P. VERONESI, «Costituzione, “strane famiglie” e “nuovi matrimoni”», in Quad. cost., 2008, p. 584 e ss.
(11) B. PEZZINI, Uguaglianza e matrimonio. Considerazioni sui rapporti di genere e sul paradigma eterosessuale nel matrimonio secondo la Costituzione italiana, in Tra famiglie, matrimoni e unioni di fatto. Un itinerario di ricerca plurale, a cura di B. Pezzini, Napoli, 2008, p. 102 e ss.
(12) C. GRASSETTI, I principii costituzionali relativi al diritto familiare , cit ., p. 286.
(13) M. GAUCHET, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Milano, 2009, p. 9.
(14) Fino a dire esplicitamente, ad esempio, che l’art. 2 Cost. è «l’autentica norma di principio dell’intero ordinamento giuridico della famiglia» (M. BESSONE, Rapporti etico- sociali , in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna - Roma, 1976, p. 7).
(15) Così anche sintetizza conclusivamente la giurisprudenza costituzionale G. BRUNELLI, Famiglia e Costituzione: un rapporto in continuo divenire, in Famiglia italiana. Vecchi miti e nuove realtà, a cura di C. Mancina - M. Ricciardi, Roma, 2012, p. 91-92.
(16) Corte cost., sent. n. 140 del 2009. Individua in questa affermazione l’attuale punto di sintesi raggiunto dalla giurisprudenza costituzionale L. CONTE, «Le unioni non matrimoniali», relazione al convegno annuale dell’Associazione Gruppo di Pisa, Catania, 7-8 giugno 2013, sul tema La famiglia davanti ai suoi giudici, in http://www.gruppodipisa.it, p. 39.
(17) Senza pretesa di completezza si possono ricordare almeno Corte cost., n. 6 del 1977; n. 45 del 1980; n. 237 del 1986; n. 404 del 1988; n. 423 del 1988; n. 310 del 1989; n. 559 del 1989; n. 8 del 1996; n. 2 del 1998; n. 166 del 1998; n. 352 del 2000; n. 461 del 2000; n. 491 del 2000; n. 204 del 2003; n. 86 del 2009; n. 140 del 2009; n. 7 del 2010; n. 138 del 2010.
(18) Ritiene la non equiparabilità tra le due situazioni alla luce del principio di eguaglianza una caratteristica costante di tutta la giurisprudenza costituzionale anche E. ROSSI, Le difficoltà di una regolamentazione normativa delle convivenze, in Forme di convivenza e loro regolamentazione, a cura di E. Rossi, Padova, 2010, p. 19.
(19) Lo nota anche S. ROSSI, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Tra famiglie, matrimoni e unioni di fatto. Un itinerario di ricerca plurale, cit., p. 155.
(20) Così C. BERGONZINI, «La convivenza more uxorio nella giurisprudenza costituzionale (note a ritroso all’indomani di Corte cost., n. 140 del 2009)», in Studium iuris, 2010, p. 4. La medesima considerazione dell’interesse del figlio (minore o maggiorenne non economicamente autosufficiente) nel caso assegnazione della casa a seguito di cessazione del rapporto di convivenza dei genitori ha ispirato la correzione in via interpretativa del sistema legislativo suggerita dalla sentenza interpretativa di rigetto n. 166 del 1998 (annotata sotto questo profilo da R. BIN, «Tra matrimonio e convivenza di fatto: un difficile esercizio di equilibrio», in Giur. cost., 1998, p. 2518 e ss.).
(21) Corte cost., sent. n. 138 del 2010 (v. in particolare il punto 8 del Considerato in diritto). I contributi della dottrina costituzionalistica nell’imminenza e a poi a seguito di questa pronuncia non si contano. Si segnalano, tra i molti, il volume del seminario preventivo ferrarese La “società naturale” e i suoi “nemici”, cit., e il volume che raccoglie gli atti di un seminario successivo Unioni e matrimoni same- sex dopo la sentenza 138 del 2010: quali prospettive?, a cura di B. Pezzini - A. Lorenzetti, Napoli, 2011 (nel quale, in particolare R. ROMBOLI, «La sentenza 138/2010 della Corte costituzionale sul matrimonio tra omosessuali e le sue interpretazioni», ivi, p. 12, sottolinea la straordinaria novità per il nostro ordinamento delle affermazioni contenute nel passaggio della motivazione della sentenza riprodotte nel testo) e i contributi di F. DAL CANTO, Le coppie omosessuali davanti alla Corte costituzionale: dalla “aspirazione” al matrimonio al “diritto” alla convivenza, e A. PUGIOTTO, Una lettura non reticente della sent. n. 138/2010: il monopolio eterosessuale del matrimonio, entrambi in Studi in onore di Franco Modugno, Napoli, 2011, rispettivamente p. 1195 e ss. e 2697 e ss.
(22) Relazione del Presidente Gaetano Silvestri sulla giurisprudenza costituzionale del 2013, par. 5, in http:// www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_annuali/Silvestri_20140227.pdf.
(23) Corte eur. dir. uomo, 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo c. Italia, ric. n. 77/07.
(24) Corte eur. dir. uomo, 28 agosto 2012, Costa e Pavan c. Italia, ric. n. 54270/10.
(25) Corte eur. dir. uomo, 25 settembre 2012, Godelli c. Italia, ric. n. 33783/09, seguita già da Corte cost., sent. n. 278 del 2013.
(26) Corte eur. dir. uomo, 13 giugno 1979, Marckx c. Belgio c. Regno Unito, ric. n. 683/74.
(27) Si vedano, per tutti, Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a cura di S. Bartole - P. De Sena - V. Zagrebelsky, Padova, 2012, p. 300; L. TOMASI, «Famiglia e standard internazionali di protezione dei diritti fondamentali, con particolare riguardo alla Cedu», in Dir. pubbl. comp. eur., 2010, p. 432.
(28) Corte eur. dir. uomo, 28 maggio 1985, Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, ricc. n. 9214/80 e altri, par. 60.
(29) Corte eur. dir. uomo, 27 aprile 2010, Moretti e Benedetti c. Italia, ric. n. 16318/07, parr. 47-48.
(30) Corte eur. dir. uomo, 22 aprile 1997, X, Y e Z c. Regno Unito, ric. n. 21830/93, par. 36.
(31) Corte eur. dir. uomo, 24 giugno 2010, Schalk e Kopf c. Austria, ric. n. 30141/04, su cui, tra gli altri, C. DANISI, «La Corte di Strasburgo e i matrimoni omosessuali: vita familiare e difesa dell’unione tradizionale», in Quad. cost., 2010, p. 870 e ss. ed E. CRIVELLI - D. KRETZMER, Il caso Schalk e Kopf c. Austria in tema di unioni omosessuali, in Dieci casi sui diritti in Europa, a cura di M. Cartabia, Bologna, 2011, p. 59 ss.; G. FERRANDO, «Diritti delle persone e comunità familiare nei recenti orientamenti della Corte Europea dei diritti dell’uomo», in Fam. pers. succ., 2012, p. 281 e ss. Prepara la svolta, riferendosi contemporaneamente alla ‘vita privata’ e alla ‘vita familiare’ Corte eur. dir. uomo, 2 marzo 2010, Kozak c. Polonia, ric. n. 13102/02, in Fam. dir., 2010, p. 873 e ss., con nota di C. Danisi.
(32) Corte eur. dir. uomo, 7 novembre 2013, Vallianatos e altri c. Grecia, ricc. n. 29381/09 e altri, annotata da L. GIACOMELLI, «Vallianatos & Altri c. Grecia: unioni civili, vita familiare e coppie dello stesso sesso», in Quad. cost., 2014; R. CONTI, «La Corte dei diritti umani e le unioni civili negate alle coppie omosessuali. Osservazioni a primissima lettura» su Corte dir. uomo, Grande Camera, 7 novembre 2013, in http://www.magistraturademocratica. it; e L. CONTE, «Nota a Corte Edu», Vallianatos e altri c. Grecia, in http://www.articolo29.it.
(33) Corte eur. dir. uomo, 18 dicembre 1986, Johnston e altri c. Irlanda, ric. n. 9697/82, par. 68.
(34) Corte eur. dir. uomo, 2 novembre 2010, Yigit c. Turchia, ric. n. 3976/05, par. 102.
(35) Ancora Corte eur. dir. uomo, 24 giugno 2010, Schalk e Kopf c. Austria, cit.
(36) Corte eur. dir. uomo, 26 gennaio 1999, Saucedo Gomez c. Spagna, ric. n. 37784/97; Corte eur. dir. uomo, 27 aprile 2000, Shackell c. Regno Unito, ric. n. 45851/99; Corte eur. dir. uomo, 29 aprile 2008, Burden c. Regno Unito, ric. n. 13378/05; Corte eur. dir. uomo, 4 novembre 2008, Courten c. Regno Unito, ric. n. 4479/06.
(37) Corte Giust. Ue, 17 marzo 2009, proc. C-217/08, Mariano.
(38) Lo nota S. NINATTI, Famiglia. Sezione I. Famiglia e integrazione europea, in I diritti fondamentali dell’Unione europea. La Carta di Nizza dopo il Trattato di Lisbona, a cura di P. Gianniti, Bologna-Roma, 2013, p. 1022. A questo e all’altro lavoro di S. NINATTI, Ai confini dell’identità costituzionale. Dinamiche familiari e integrazione europea, Torino, 2012 sono debitrice per quasi tutte le considerazioni svolte in questo paragrafo.
(39) Tra l’altro, l’art. 7 della Carta non contiene tutti quei potenziali limiti all’espansione del diritto alla vita familiare che l’art. 8 della Convenzione testualmente ammette, ed è quindi potenzialmente più garantista dei diritti dei membri della famiglia di fatto.
(40) In questo senso anche S. TROILO, I progetti di legge in materia di unioni di fatto: alla ricerca di una difficile coerenza con i principi costituzionali , in Tra famiglie, matrimoni e unioni di fatto. Un itinerario di ricerca plurale , cit ., p. 233.
(41) Oltre a non riprodurre la dizione dell’art. 12 della Convenzione, nel quale si dice che «l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi», affermando semplicemente il diritto di sposarsi senza precisare il sesso dei contraenti. Sul punto si vedano per tutti T. GROPPI, Commento all’art. 9, in L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a cura di R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto, Bologna, 2001, p. 89 ed E. CRIVELLI, La tutela dell’orientamento sessuale nella giurisprudenza interna ed europea, Napoli, 2011, p. 123.
(42) Corte Giust. Ue, 22 giugno 2000, proc. C-65/98, Eyup.
(43) Corte Giust. Ue, 23 marzo 2006, proc. C-408/03, Commissione c. Belgio.
(44) Corte Giust. Ce, 17 aprile 1986, proc. C-59/85, Reed.
(45) Si vedano in proposito i due contributi di S. Ninatti citati supra alla nota 38.
(46) Corte Giust. Ue, 17 febbraio 1998, proc. C-249/96, Grant e Corte Giust. Ue, 31 maggio 2001, procc. C-12/99 P e C-125/99 P, D.
(47) Corte Giust. Ue, 1° aprile 2008, proc. C-267/06, Maruko e Corte Giust. Ue, 10 maggio 2011, proc. C-147/08, Römer. In entrambi i casi il legame con il diritto dell’Unione viene ravvisato nel fatto che le prestazioni in discussione fossero da considerarsi ‘retribuzione’, e ricadessero quindi nell’ambito di una direttiva comunitaria in materia di lavoro.
(48) Corte Giust. Ue, 12 dicembre 2013, proc. C-267/12, Hay .
(49) Lo nota bene V. VALENTI, «Verso l’europeizzazione del diritto nazionale di famiglia? (Brevi osservazioni a margine del caso Hay », Corte di Giustizia Ue C-267/12, sent. 12 dicembre 2013), in www.forumcostituzionale.it, 24 febbraio 2014.
(50) Corte Giust. Ue, 12 dicembre 2013, proc. C-267/12, Hay, cit ., discorre di «una veste giuridica certa e opponibile a terzi».
|
|
|