Obblighi di mantenimento dopo la separazione e il divorzio
Obblighi di mantenimento dopo la separazione e il divorzio
di Salvatore Patti
Professore ordinario di diritto privato, Università “La Sapienza” di Roma

L’evoluzione del diritto della famiglia e gli obblighi di mantenimento

Il diritto di famiglia è il settore del diritto privato che ha maggiormente risentito le conseguenze delle trasformazioni sociali e ha quindi conosciuto numerosi interventi legislativi, in Italia e negli altri paesi europei, che hanno profondamente inciso sulla configurazione dei rapporti familiari tramandata per secoli. Perfino riforme importanti, come quella del BGB in materia di obbligazioni (la nota Schuldrechtsreform del 2002), non hanno determinato modifiche dei rapporti giuridici interessati paragonabili a quelle che hanno riguardato la materia della famiglia, anche per quanto concerne lo scioglimento del matrimonio e i suoi effetti economici. Sotto quest’ultimo profilo, come si vedrà, l’ordinamento italiano, soprattutto alla luce degli orientamenti giurisprudenziali, non appare in linea con l’evoluzione riscontrabile in Europa.
Il tema relativo agli obblighi di mantenimento dopo la separazione e il divorzio impone di considerare, in primo luogo, gli ambiti di autonomia negoziale concessa ai coniugi nella gestione dei mutati rapporti: ambiti tradizionalmente ridotti a causa dei limiti derivanti dall’impostazione pubblicistica del codice civile del 1942, che recepiva la nota teoria istituzionale del Cicu.
Rilevanti innovazioni si devono alla riforma del 1975 che, attuando il principio costituzionale di cui all’art. 29, ha cancellato la concezione della famiglia basata sull’autorità e sulla diseguaglianza. Posto che l’affermazione dell’eguaglianza rappresenta il fondamento dell’autonomia negoziale, sussistono i presupposti per accordi dei coniugi. Tuttavia, la legge del 1975, come le altre leggi di riforma entrate in vigore più o meno contemporaneamente in molti Paesi europei, si basa ancora sulla visione della donna sposata come casalinga (in Germania si parlava di Hausfrauenehe); visione che presupponeva una diversità di ruoli tra i coniugi, in grado di incidere e di ripercuotersi sulla formazione del patrimonio, sulla sua gestione ed eventualmente sugli effetti della crisi.
La trasformazione del concetto di famiglia accolto nei codici del secolo scorso, ed in parte modificato a seguito delle riforme degli anni settanta, spiega le scelte compiute con le più recenti leggi di alcuni Paesi europei in materia di mantenimento dell’ex coniuge e serve per indicare in quale direzione dovrà andare anche il nostro ordinamento giuridico.

Il tramonto della solidarietà postconiugale, la gestione contrattuale della crisi e i regimi patrimoniali atipici

Per quanto riguarda la configurabilità di obblighi di mantenimento successivi al divorzio, le soluzioni in Europa sono abbastanza variegate: si spazia dal principio di solidarietà post-coniugale, ancora seguito in Italia dalla dottrina e dalla giurisprudenza, all’idea di “autoresponsabilità”.
La c.d. solidarietà post-coniugale, un tempo accolta anche in altri ordinamenti europei (si pensi alla nacheheliche Solidarität), è ormai in gran parte superata. Si è affermato, infatti, il principio di autodeterminazione e di autosufficienza, almeno come regola generale. Il tramonto della solidarietà post-coniugale non è soltanto dovuto a moderni indirizzi accademici(1), ma rappresenta la conseguenza della scelta legislativa negli ordinamenti del nord Europa, nonché di quello francese e di quello tedesco, dove, tra l’altro, nell’ottica di una gestione negoziale della vicenda, un ruolo importante è stato attribuito o si propone di assegnare al notaio(2). Ed il rilievo riconosciuto all’autonomia negoziale dei soggetti interessati consente di ribadire che, sotto il profilo in esame, si è assistito ad un passaggio dallo status al contratto(3).
La disciplina contrattuale della crisi è peraltro collegata al regime patrimoniale della famiglia, poiché dalle modalità di formazione del patrimonio durante il rapporto patrimoniale dipende la ripartizione della ricchezza dopo la sua fine e l’eventuale esigenza di configurare obblighi di mantenimento. Nel contesto di una soluzione negoziale della problematica, risulta evidente tra l’altro la rilevanza di regimi patrimoniali diversi da quelli disciplinati dal codice. Si dubita, tuttavia, dell’ammissibilità nel nostro ordinamento di regimi atipici e si registra anzi una netta divergenza di opinioni sulla configurabilità di questa esplicazione dell’autonomia privata(4). Alcuni autori, infatti, affermano la possibilità di stipulare convenzioni atipiche già sulla base dell’art. 1322 c.c., che non trova espresse limitazioni nella materia del diritto di famiglia, altri la negano. Ed è interessante osservare, per confermare la difficoltà della questione, che il Prof. Bianca nella prima edizione del noto volume sul diritto di famiglia aveva sostenuto la legittimità delle suddette convenzioni, mentre in una successiva edizione ha affermato che l’autonomia si può esplicare soltanto nell’ambito dei regimi espressamente disciplinati dal codice. Una base testuale per sostenere la tesi favorevole si rinviene nell’art. 161 c.c., secondo cui i coniugi per «pattuire … i loro rapporti patrimoniali» possono anche fare riferimento alle norme e agli usi del diritto straniero purché enuncino «in modo concreto il contenuto dei patti». Quindi, risulta vietato soltanto il mero rinvio al regime straniero, ma non l’inserimento nella convenzione della regola che proviene dal diritto straniero o dagli usi. Di conseguenza si potranno accogliere - anche in parte - i regimi patrimoniali di altri ordinamenti e altresì utilizzare norme di diversa origine. Già per tale motivo, possono ritenersi ammesse le convenzioni atipiche.
Si consideri inoltre che l’art. 161 c.c. deriva dall’ordinamento francese, ove peraltro da alcuni anni è stata abrogata la norma che richiedeva di inserire nella convenzione, sotto forma di clausole, il testo delle norme di un regime straniero o degli usi. Storicamente, la ratio della disposizione si ravvisava nell’esigenza di evitare che rivivessero le consuetudini locali, combattute dal Code Napoleon, attraverso un mero rinvio che avrebbe reso molto semplice riferirsi ad esse, mentre si voleva comunque lasciare ai coniugi la possibilità di esplicazione dell’autonomia negoziale.
La stessa situazione e una norma analoga si ritrovano nell’ordinamento tedesco, dove, tuttavia, la prassi notarile segnala un ridotto uso di questa forma di esplicazione dell’autonomia contrattuale(5). Pertanto, si può concludere nel senso che le convenzioni atipiche non rappresentano una realtà della prassi italiana e, nonostante le innovazioni legislative, esse non appaiono significative neanche negli altri paesi europei, mentre potrebbero essere utilizzate per porre le basi di una gestione negoziale della eventuale crisi del matrimonio attenta alle peculiari esigenze dei coniugi.

Contratti matrimoniali, contratti successori e obblighi di mantenimento

Il collegamento con i regimi patrimoniali è importante, dal punto di vista della gestione contrattuale della crisi, anche sotto altri profili.
In alcuni ordinamenti europei sono molto utilizzati contratti matrimoniali dal contenuto più ampio e complesso rispetto alle convenzioni disciplinate dal codice civile, soprattutto perché hanno ad oggetto le conseguenze patrimoniali dello scioglimento del matrimonio. Già al momento del matrimonio, si pensa anche all’eventuale crisi, considerata un’evenienza non remota, poiché in molti Paesi europei riguarda circa il 50% delle coppie. La diffusione dei suddetti contratti dipende, tra l’altro, dal significato che si attribuisce al matrimonio e dalla emotività che lo accompagna. A volte, in Italia, i giovani sposi evitano, ad esempio, di valutare l’eventuale scelta del regime della separazione dei beni perché la decisione di escludere il regime legale della comunione viene avvertita come un gesto di sfiducia nei confronti del coniuge, mentre in altri Paesi è “normale” affrontare anche il tema dell’eventuale scioglimento del matrimonio cercando di tutelare nel modo migliore i rispettivi interessi. Di conseguenza, il frequente ricorso all’autonomia contrattuale rende meno complicata la fine del rapporto.
Conviene altresì ricordare la possibilità - prevista nell’ordinamento tedesco - di stipulare, già in occasione del matrimonio, un contratto ereditario: evenienza da considerare opportuna, perché nel momento della costituzione del matrimonio gli sposi disciplinano anche gli aspetti relativi alla morte di uno di essi, soprattutto per tutelare il coniuge che sopravvive.
Peraltro, il contratto ereditario potrebbe avere una funzione nuova - segnalata nei commentari tedeschi più recenti - cioè quella di proteggere la persona molto anziana. Infatti, può accadere che - in età avanzata - un soggetto ormai debole rediga un testamento frutto di influenze esterne e non corrispondente all’effettivo volere, ma per gli eventuali successori ex lege è difficile fare accertare l’invalidità di un siffatto testamento visto l’orientamento restrittivo della giurisprudenza in materia di vizi del volere in materia testamentaria.
Il contratto ereditario, che non impedisce alla persona di disporre del bene per atto tra vivi, bensì che si possa disporre mediante testamento degli stessi beni oggetto del contratto(6), rappresenta pertanto uno strumento che, alla luce dell’invecchiamento della popolazione e della debolezza mentale che spesso accompagna l’ultima fase della vita, dovrebbe essere preso in considerazione anche nel nostro paese(7).

Le caratteristiche di un moderno regime patrimoniale e l’esigenza di armonizzazione in Europa

Continuando l’esame dei rapporti tra regimi patrimoniali e conseguenze economiche dello scioglimento del matrimonio, tenendo conto dei ridotti spazi dell’autonomia privata in questa materia, posto che non vengono utilizzati regimi atipici, conviene riflettere sulle caratteristiche che un moderno regime patrimoniale dovrebbe presentare, anche al fine di semplificare le questioni che si affrontano al momento del divorzio. In molti paesi europei, dove in genere si avverte l’insufficienza delle riforme degli anni ’70, si riflette sulle caratteristiche di un regime patrimoniale legale e delle alternative - regimi convenzionali - da offrire ai coniugi. In effetti, non soltanto il regime italiano della comunione dei beni si è dimostrato inadeguato: molteplici problemi - per diversi profili - sono stati causati anche da altri regimi legali, ad esempio da quello tedesco della comunione degli incrementi.
Un moderno regime patrimoniale utile anche per fronteggiare la crisi del matrimonio, come è stato suggerito da Dieter Henrich(8), deve rispettare alcuni principi e avere determinati presupposti:
i. l’eguaglianza dei coniugi, in buona misura già garantita dalle riforme degli anni ’70, che, tuttavia, può non risultare sufficiente. Ad esempio, un regime di separazione dei beni non lede l’eguaglianza dei coniugi ma in molti casi conduce a risultati ingiusti. Questo spiega la prevalenza in Europa dei regimi partecipativi.
ii. I regimi partecipativi sono giusti perché tengono conto dei contributi offerti dai coniugi, e quindi valorizzano anche il lavoro svolto all’interno della famiglia. Esistono - come è noto - molteplici regimi partecipativi. Secondo il modello italiano i beni acquistati entrano nella comunione fin dal momento iniziale. In altri ordinamenti giuridici il momento di rilevanza dell’acquisto è invece spostato alla (eventuale) conclusione del rapporto matrimoniale, al fine di consentire un riequilibrio delle posizioni, garantendo indubbi vantaggi per quanto riguarda l’amministrazione dei beni e la gestione del patrimonio durante il matrimonio.
iii. I regimi devono essere praticabili, nel senso di consentire un’amministrazione efficace del patrimonio. Ciò, come è noto, non accade nel caso della comunione dei beni disciplinata dal codice civile italiano.
iv. I regimi devono essere flessibili, quindi modificabili e adattabili alle varie evenienze della vita. Quasi tutti i regimi patrimoniali degli anni ’70 non presentano le suddette caratteristiche, ed occorre quindi una riforma degli ordinamenti europei, che avrebbe altresì il positivo effetto di rendere simili le discipline nazionali.
Un’armonizzazione in Europa sarebbe utile anche per un motivo ulteriore. Il giudice - come il notaio - si trova sempre più di frequente dinanzi al problema delle coppie «miste». In Francia circa il 15% dei matrimoni riguarda persone di diversa nazionalità, in Germania circa il 12% e il numero aumenta di continuo anche in Italia.
La diversa nazionalità dei coniugi, per quanto concerne il regime patrimoniale, incide sia al momento della costituzione del vincolo sia in quello della crisi. Giudice e notaio, sebbene in fasi diverse, devono affrontare la difficoltà di determinare quale sia la legge applicabile in base ai criteri di diritto internazionale privato, e sono note le difficoltà conseguenti alle diverse regole previste negli ordinamenti europei.
Sarebbe auspicabile, quindi, già per il motivo indicato, l’adozione di un unico regime patrimoniale. L’esigenza è molto avvertita in altri paesi ed è stato suggerito di individuare tre o quattro modelli, lasciando poi al legislatore di ciascun paese europeo il compito di scegliere il regime legale tra i modelli predeterminanti, mentre gli altri dovrebbero essere previsti come regimi convenzionali(9). In tal modo se, ad esempio, il giudice italiano non dovrà applicare il regime italiano ma quello francese, eventualmente diverso, questo corrisponderebbe comunque a uno dei regimi convenzionali, e sarà pertanto a lui ben noto.
Inoltre, passi concreti per l’armonizzazione si segnalano in Francia e in Germania a seguito della stipula di un trattato tra i due paesi, che introduce un regime patrimoniale convenzionale, simile al regime tedesco della comunione degli incrementi ma con opportune modifiche di derivazione francese, che in gran parte sono servite ad eliminare alcuni inconvenienti da lungo tempo denunciati rendendolo un modello interessante per l’Europa. Questa normativa, che si applica ai matrimoni tra francesi e tedeschi ma è aperta anche a coppie di diverse nazionalità, contiene disposizioni di tutela del coniuge (più) debole per l’ipotesi di scioglimento del matrimonio, che garantendo un «patrimoine final» evitano la situazione di bisogno presupposto dell’assegno di divorzio(10).

La dédramatisation del divorzio e l’orientamento della Corte di Cassazione sulla determinazione dell’assegno

L’aumento del numero dei divorzi ha condotto a una visione diversa della crisi del matrimonio, intesa come una fase da valutare come evenienza della vita, da accettare e gestire con serenità. Una delle caratteristiche della recente riforma francese(11)è proprio quella di “sdrammatizzare” (si parla di dédramatisation) il divorzio, che non deve essere vissuto come una tragedia.
La disciplina degli aspetti patrimoniali successivi alla crisi del matrimonio dovrebbe quindi tenere conto del frequente scioglimento del rapporto, semplificando e riducendo i termini del conflitto e valorizzando il principio secondo cui ciascuno degli ex coniugi, conclusa una fase dell’esistenza, riprende da solo il cammino.
Alla luce della suddetta evoluzione, a mio avviso, si impone una diversa lettura dell’art. 5, comma 6 della legge sul divorzio del 1970, che è stato peraltro interpretato dalla giurisprudenza in modo “creativo”, ma peggiorativo per il coniuge obbligato a versare l’assegno. Infatti, l’articolo citato si limita a stabilire che un coniuge deve somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione afferma invece che l’assegno deve consentire il mantenimento dello stesso livello di vita goduto durante il matrimonio e in molti casi ha inteso tale livello di vita non come quello che ha caratterizzato il rapporto matrimoniale, e quindi lo stile di vita che i coniugi avevano scelto, ma come possibilità di spesa che i coniugi avrebbero potuto sostenere in base al reddito e al patrimonio(12). Di conseguenza, a seguito del divorzio di persone benestanti ma che avevano scelto un livello di vita “misurato”, il coniuge che ha diritto all’assegno può pretendere una somma tale da consentirgli un livello di vita ben diverso e ciò, spesso, per il resto della vita. E, per altri aspetti ancor più gravi sono le situazioni, purtroppo frequenti, in cui l’ex coniuge obbligato a pagare l’assegno non è in grado di conservare un livello di vita dignitoso, già per la difficoltà di finanziare una seconda abitazione. Consolidato, inoltre, l’orientamento secondo cui per stabilire l’ammontare dell’assegno si deve altresì fare riferimento agli incrementi di reddito dell’ex coniuge obbligato, prevedibili al momento del divorzio; e una recente sentenza ha stabilito che si deve tenere conto addirittura degli eventuali lasciti ereditari, ricevuti dall’ex coniuge obbligato successivamente allo scioglimento del matrimonio(13). I suddetti orientamenti si basano su una concezione della solidarietà post-coniugale sostenuta dal Prof. Bianca anche nell’edizione più recente del suo volume sul diritto di famiglia, ove si legge: «il riconoscimento di questa funzione dell’assegno contrasta con la tendenza volta a ravvisare nel divorzio lo strumento di liberazione totale dal matrimonio e da ogni peso che direttamente o indirettamente vi si riconnette. Questa tendenza ha trovato un limite nell’esigenza, alla quale la nostra società è ancora sensibile, di non lasciare al singolo l’arbitrio di cancellare senza tracce l’impegno di vita assunto col matrimonio e di abbandonare alla sua sorte chi su tale impegno aveva costruito la propria famiglia» (p. 298).
La suddetta visione della crisi del matrimonio e della necessità dell’assegno non mi sembra condivisibile perché non considera, anzitutto, il fatto che in molti casi il titolare del diritto all’assegno non era stato abbandonato alla sua sorte. Infatti - come confermato dall’analisi statistica - di frequente è il coniuge obbligato ad essere stato “abbandonato”. Inoltre, alla luce della concezione della intollerabilità della convivenza e del cessare dell’affectio coniugale, punti di partenza della crisi, non appare coerente ragionare in termini di “abbandono” di un coniuge.

Il principio di autosufficienza

In definitiva, la visione tradizionale deve essere superata, perché non corrisponde al modo di sentire e alle esigenze della moderna società italiana nonché alla disciplina privilegiata in Europa. In tal senso, è sufficiente ricordare il modello offerto dai Principi elaborati dalla Commissione europea del diritto di famiglia. Il principio 2.2, in tema di «autosufficienza» e «autoresponsabilità» stabilisce che, a prescindere da determinate eccezioni riguardanti i casi di coniuge molto anziano o malato, l’ex coniuge deve fare riferimento alle proprie forze per il periodo successivo allo scioglimento del matrimonio: «dopo il divorzio ciascun ex coniuge provvede ai propri bisogni»(14). Si esclude, quindi, ogni forma di contribuzione, accogliendo la regola da lungo tempo vigente nei Paesi nordici. Occorre peraltro dare atto che in quei paesi la realtà sociale è molto diversa, per il sostegno offerto dallo Stato alle persone bisognose. Ciò induce ad una ulteriore considerazione, poiché in Italia si tenta di porre rimedio alle insufficienze del sistema sociale imponendo all’ex coniuge un sacrificio spesso insopportabile.
Il principio della autoresponsabilità o autosufficienza è stato accolto in diversi Paesi europei, ad esempio in Francia, dove, tra l’altro, è previsto l’intervento del notaio per gestire in maniera consensuale la fase della crisi e del conflitto, e in Germania. Quest’ultima esperienza presenta grande rilievo perché l’ordinamento tedesco aveva codificato una regola molto simile a quella italiana, mentre è stato ora stabilito che, già quando si avverte la crisi del matrimonio e quindi può prevedersi il divorzio (in Germania non esiste l’istituto della separazione personale dei coniugi e un periodo di separazione di un anno costituisce solo un presupposto di fatto per chiedere il divorzio), il coniuge eventualmente privo di reddito deve iniziare a cercare un’attività lavorativa. L’eventuale assegno divorzile ha inoltre carattere provvisorio, tranne ipotesi eccezionali, come grave malattia, handicap dell’ex coniuge o «situazione sfavorevole determinata dal matrimonio». In ogni caso l’ammontare dell’assegno non tiene conto del livello di vita goduto durante il matrimonio, ma serve a soddisfare le normali esigenze. La tendenza riscontrabile in Europa si comprende meglio alla luce di un aspetto sottolineato in recenti sentenze di Corti europee, ma avvertito anche dalla giurisprudenza italiana: l’obbligo di pagare un assegno «a tempo indeterminato» rende difficile o addirittura impedisce la costituzione di una nuova famiglia.
Per quanto concerne l’ammontare, come già ricordato, nella giurisprudenza italiana risulta prevalente l’orientamento favorevole ad un assegno in grado di consentire il mantenimento dello stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio, «o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio»(15). Tuttavia, alcune sentenze della Corte di Cassazione hanno aperto una breccia nell’orientamento consolidato, affermando che «il precedente tenore di vita da parte del coniuge beneficiario dell’assegno e della prole costituisce un obiettivo solo tendenziale»(16)perché si scontra con principi di logica: se, ad esempio, occorre pagare due canoni di locazione, al mantenimento dello stesso livello di vita da parte dell’ex coniuge avente diritto all’assegno si accompagna un abbassamento di quello dell’altro, con conseguenze a volte inaccettabili.
Della situazione descritta ha tenuto conto il Tribunale di Firenze, che, con una ordinanza del 22 maggio 2013(17), ha rimesso la questione di legittimità costituzionale della citata norma in tema di assegno divorzile alla Corte Costituzionale. I giudici fiorentini fanno riferimento al quadro europeo ed in particolare ai già ricordati principi della Commissione europea del diritto di famiglia, secondo cui, dopo il divorzio, ciascun ex coniuge deve provvedere ai propri bisogni. Inoltre, viene richiamato il principio di ragionevolezza e, quindi, di logica: «non è possibile che il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio venga mantenuto per entrambi i coniugi», e non si vede perché si debba garantire soltanto ad uno di essi. L’orientamento attuale determina infine una violazione del principio di eguaglianza, soprattutto con riferimento alla famiglia eventualmente costituita dopo la disgregazione del primo gruppo familiare.
Peraltro, la Corte di Cassazione(18)ha di recente affermato che il diritto di costituire una nuova famiglia è ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, nonché dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Anche nel nostro ordinamento, pertanto, il problema viene avvertito e l’orientamento della Corte di Cassazione in materia di assegno di divorzio appare destinato ad essere modificato, in modo da consentire - tra l’altro - un avvicinamento alle soluzioni che si sono affermate in Europa.
Il superamento della solidarietà post-coniugale dovrebbe consentire una disciplina dei rapporti successivi allo scioglimento del matrimonio più aperta nei confronti dell’autonomia contrattuale degli interessati. Ed al riguardo conviene ribadire che la riforma francese, oltre ad aver modificato la disciplina in tema di assegno di divorzio, ha favorito gli accordi attribuendo anche una competenza specifica al notaio. La stessa tendenza - come detto - da anni si riscontra in Germania, dove si propone un divorzio consensuale con assistenza notarile (einvernehmliche Scheidung durch Notare).
In definitiva, molte innovazioni sono auspicabili e ormai prevedibili: ciò non deve sorprendere perchè il diritto di famiglia è uno specchio della realtà sociale. Le difficoltà, come ha osservato un antico studioso, non stanno tanto nelle idee nuove ma nell’evadere dalle vecchie che si riunificano e si ramificano in tutti gli angoli della mente.


(1) Cfr. Principles of European Family Law Regarding Divorce and Maintenance Between Former Spouses, su cui v. S. PATTI, «I principi di diritto europeo della famiglia sul divorzio e il mantenimento tra ex coniugi», in Familia, 2005, p. 337 e ss.

(2) Cfr. S. PATTI, «La nuova legge francese sul divorzio e il ruolo del notaio», in Familia, 2008, p. 3 e ss.; e in Studi in onore di Messinetti, Napoli, 2008, p. 637 e ss.

(3) La materia del diritto di famiglia è stata tradizionalmente considerata terreno poco fertile per l’autonomia dei privati; la posizione e le prerogative del singolo nella famiglia, a differenza di quanto accade all’interno di altri gruppi sociali, non sono dipese, almeno in gran parte, dagli accordi dei partecipanti della comunità bensì dalla posizione rivestita al suo interno, cioè dallo status per il quale la legge prevedeva una disciplina specifica e spesso inderogabile. In argomento si rinvia a P. RESCIGNO, «Situazione e status nell’esperienza del diritto», in Riv. dir. civ ., 1973, I, p. 209 e ss., spec. 212.

(4) Cfr. S. PATTI, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Trattato di diritto di famiglia, 2, diretto da P. Zatti, III, a cura di F. Anelli - M. Sesta, Milano, 2012, p. 11 e ss.

(5) S. PATTI, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., p. 14 e ss.

(6) Cfr. M.V. DE GIORGI, I patti sulle successioni future, Napoli, 1976, p. 201 e ss.

(7) In generale, sull’esigenza di modificare l’art. 455 c.c., di recente, v. D. ACHILLE, Il divieto dei patti successori, Napoli, 2012, p. 16 e ss.

(8) D. HENRICH, Eheliche Gemeinschaft, Partnerschaft und Ver mögen im europäischen Vergleich: die deutsche Sicht, in Eheliche Gemeinschaft, Partnerschaft und Ver mögen im europäischen Vergleich , a cura di D. Henrich e D. Schwab, Bielefeld, 1999, p. 361 e ss.; ID., «Sul futuro del regime patrimoniale in Europa», in Familia , 2002, p. 1055 e ss.

(9) D. HENRICH, op. loc. cit.

(10) Cfr. D. MARTINY, «Der neue deutsch-französische Wahlgüterstand - Ein Beispiel optionaler bilateraler Familienrechtsvereinheitlichung», in ZEuP, 2011, p. 577 e ss.; B. LANDAHL e L. PATTI, «Il regime patrimoniale convenzionale franco-tedesco. Un modello per l’Europa?», in Fam. pers. e succ., 2011, p. 727 e ss.

(11) Legge n. 2004/439 del 26 maggio 2004, entrata in vigore il 1° gennaio 2005.

(12) V. ad es. Cass., 4 novembre 2010, n. 22501; Cass. 24 marzo 2010, n. 7145.

(13) Cass., 27 maggio 2014, n. 11797, in Giur. it., 2014, p. 1299.

(14) In argomento v. S. PATTI e M.G. CUBEDDU, Introduzione al diritto della famiglia in Europa, Milano, 2008, p. 271 e ss.

(15) Così, ad es., Cass., 27 settembre 2002, n. 14004.

(16) Cass., 28 aprile 2006, n. 9878; Cass., 16 novembre 2005, n. 23071.

(17) Per un commento v. E. AL MUREDEN, «Il parametro del tenore di vita coniugale nel “diritto vivente” in materia di assegno divorzile tra persistente validità, dubbi di legittimità costituzionale ed esigenze di revisione», in Fam. e dir., 2014, p. 690 e ss.

(18) Cass. 19 marzo 2014, n. 6289.

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