Autonomia privata, famiglie ricomposte, unioni non coniugali: la vicenda successoria
Autonomia privata, famiglie ricomposte, unioni non coniugali: la vicenda successoria
di Carmine Romano
Notaio in Napoli

Premessa

Il trattamento della famiglia costituisce tema che investe l’intero sistema delle successioni, da sempre connotato dalla dialettica tra l’autonomia del testatore - suprema espressione del diritto di proprietà - e la tutela dei più stretti congiunti, assicurata dalle disposizioni in materia dei legittimari. Invero, il modello di famiglia diffuso nel tessuto socio-economico ha costantemente orientato le scelte legislative in ordine all’individuazione dei soggetti e delle relazioni parentali da privilegiare nella devoluzione del patrimonio del de cuius, fino al punto di sancire la indisponibilità (peraltro relativa) di una frazione di detto patrimonio a beneficio dei legittimari. In ragione di ciò, i rinnovamenti dei modelli familiari registratisi nelle diverse epoche hanno determinato un corrispondente mutamento dei principi informatori del sistema successorio.
Ed infatti, se la legge 151/1975, in attuazione dei principi sanciti dall’art. 29 della Costituzione, ha quale “cellula sociale di riferimento” la famiglia nucleare, progressivamente si assiste al diffondersi di nuove forme di relazioni familiari, per le quali non è più indefettibile la presenza, quale titolo genetico, del matrimonio. Le relazioni familiari oggi costituiscono un mosaico le cui tessere sono quanto mai eterogenee.
Nella realtà sociale le famiglie si scompongono e si ricompongono, costituiscono forme “liquide”, autopoietiche, sempre più gruppo e meno istituzione, il che impone, ormai, una declinazione al plurale di un fenomeno che presenta un’ampia eterogeneità di manifestazioni. La famiglia nucleare italiana, quale unità di affetti, regolata da norme pubblicamente sancite, profondamente tradizionale negli stili di vita e di consumo, fondata su solidarietà collettiva, ordinata gerarchicamente per età e sesso, viene investita da una trasformazione inedita, tale da modificare i valori, le regole, i modelli sociali di riferimento. In nome di un imperante principio di libertà, vanno ad allentarsi i vincoli tradizionali: si registra una pluralità di forme familiari ed una accentuata instabilità delle stesse.
Dinanzi ad una realtà così complessa, una disciplina legale orientata unicamente alla tutela dei membri della famiglia fondata sul matrimonio si rivela palesemente inadeguata, in quanto non in grado di offrire una compiuta disciplina ai “modelli alternativi” di rapporti prepotentemente diffusisi nel tessuto sociale.
Sul piano successorio, gli elementi su cui concentrare l’attenzione sono: a) l’aumento dei conflitti di coppia (separazione e divorzio); b) l’ampia diffusione di unioni di fatto, non coniugali; c) le cosiddette famiglie ricomposte; d) la considerazione dei figli nati fuori dal matrimonio. I descritti temi costituiranno, invero, le principali traiettorie di indagine della presente relazione, nel tentativo di verificare se, ed entro quali termini, il “microsistema” di diritto successorio sia stato in grado di intercettare le sollecitazioni di una realtà sociale in continuo divenire. Sul piano metodologico appare, tuttavia, doveroso partire dalla considerazione dal modello familiare sotteso alla disciplina codicistica.

Il modello familiare dal codice del 1942 alla riforma del 1975

La famiglia parentale, basata sui vincoli di sangue, costituisce termine di riferimento del sistema successorio proposto dalla codificazione del 1942, ispirato all’esigenza di preservare la integrale conservazione del patrimonio del de cuius all’interno di quella famiglia.
Il modello sociale di riferimento è la famiglia parentale della media borghesia e delle classi agricole, famiglia che costituisce anche l’unità produttiva tipica su cui si basa l’economia. Rispetto a tale modello familiare, il coniuge è considerato un estraneo: i naturali destinatari del patrimonio del defunto sono i discendenti, o al più i fratelli o le sorelle del de cuius. In ragione delle considerazioni appena espresse, appaiono chiare le due finalità cui il sistema successorio si ispira: scongiurare il frazionamento del patrimonio familiare; evitare che i beni del defunto possano, a seguito della vicenda successoria, essere trasmessi ad altre famiglie, ed in particolare alla famiglia di origine del coniuge superstite o al nuovo nucleo familiare cui esso può dar luogo dopo la vedovanza. Di qui, l’istituto dell’usufrutto uxorio, che assicura il godimento dei beni senza incidere sulla titolarità: detto usufrutto costituisce il trattamento ordinario riservato al coniuge sia nella successione necessaria sia nella successione legittima in presenza di discendenti.
Quanto alla successione dei figli, le attenzioni legislative si rivolgono ai figli nati in costanza di matrimonio. Il codice del 1942, sull’abbrivio della tradizione napoleonica, qualifica come “illegittimo” il figlio nato fuori dal matrimonio, contrapponendo tale status in modo quanto mai netto a quello del figlio nato da genitori uniti da vincolo matrimoniale, definito figlio legittimo. La terminologia adoperata risulta evocativa di un giudizio di disfavore etico, prima ancora che giuridico, per le relazioni adulterine e, più in generale, per la posizione dei nati fuori dal matrimonio, il che peraltro trova riscontro nella previsione, nella legislazione penale, dei reati di concubinato e adulterio. L’unico modello familiare accettato è quello fondato sul matrimonio, ispirato ad una prospettiva “piramidale” in cui la famiglia costituisce istituzione con riflessi pubblicistici: è questo, pertanto, il solo ambito in cui la filiazione trova riconoscimento. Non a caso, le disposizioni relative al diritto dei figli al mantenimento, all’istruzione, alla educazione vengono collocate nel capo dei diritti e doveri nascenti dal matrimonio, fonte di legittimazione della prole(1).
Le legge 19 maggio 1975, n. 151 segna una rivoluzione copernicana nel riconoscimento di diritti ai membri della famiglia, adeguandone il trattamento successorio alla concezione di famiglia quale delineata dalla riforma, in aderenza al dettato costituzionale.
Gli indici del nuovo impianto normativo sono, da un lato, il riconoscimento della famiglia nucleare, dall’altro, l’eguaglianza di tutti i suoi membri: piena attuazione viene data, in tal modo, ai principi dell’articolo 29 della Costituzione. Quale parte integrante di un nuovo modello sociale di riferimento, il coniuge superstite consegue, jure successionis, non più un diritto di godimento su beni destinati ad altri, ma una quota in piena proprietà: non vi è più ragione per escluderlo dalla piena titolarità dei beni, giacché non è più considerato estraneo alla famiglia del de cuius.
Interessante è verificare come i cambiamenti sociali si traducano nel nuovo impianto normativo: nelle classi di successibili il coniuge occupa il primo posto; inoltre, in un sistema ispirato al principio della “quota mobile”, sovente al coniuge (nelle diverse combinazioni possibili), è riconosciuta una quota maggiore di quella destinata ai figli(2). Basti pensare che le quote di coniuge e figli sono eguali se i figli sono uno o due, mentre se il loro numero risulta più elevato, il coniuge consegue comunque una quota maggiore di quella ricevuta da ciascun figlio. Costituisce, ancora, assoluta novità la previsione del diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare. La ratio di tale attribuzione (che tecnicamente integra un legato ex lege) va ravvisata non soltanto in esigenze di tipo patrimoniale (comunque presenti, se si pensa che detto legato costituisce una aggiunta quantitativa alla legittima), ma altresì in istanze etiche e morali: la necessità di trovare un nuovo alloggio, a seguito della morte del proprio coniuge, può essere fonte di ulteriore grave disagio, psicologico e materiale, per la stabilità di vita e di abitudini del coniuge superstite.
Il rinnovato sistema offre ulteriori, interessanti spunti di analisi. Scompare il diritto di commutazione previsto dal codice del ’42 in favore dei figli nei confronti del coniuge superstite; in materia di collazione, il coniuge è tra i soggetti che vi sono obbligati, così come i figli, ma, diversamente da questi, non è tenuto a dare in collazione le donazioni di modico valore, scelta questa salutata in dottrina come espressione dell’esigenza di evitare un controllo postumo dei figli sulla vita coniugale(3).
La legge n. 151/1975 realizza, inoltre, importanti novità sul piano del trattamento dei figli, cogliendo anche sotto questo aspetto le sollecitazioni offerte da un mutato quadro di relazioni sociali. Viene abolito il termine “figlio illegittimo”; nei rapporti “genitore-figlio”, viene sostanzialmente equiparata la condizione dei figli legittimi a quella dei figli naturali la cui filiazione sia stata riconosciuta o accertata giudizialmente. Ciò si traduce (diversamente da quanto previsto dal codice del ’42), nella riserva di una quota del patrimonio del de cuius analoga ed in eguali diritti in caso di apertura della successione ab intestato. Unica, residua differenza è rappresentata dall’istituto della commutazione previsto dagli artt. 537 c.c. in materia di successione dei legittimari ed esteso alla successione legittima. Con tale istituto, il legislatore attribuisce ai figli legittimi il diritto potestativo (ad “esercizio controllato”) di soddisfare in denaro o in immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali riconosciuti. A rigore, il diritto di commutazione non incide sulla vocazione ereditaria, ma sulla successiva fase dell’apporzionamento: i figli naturali, nei cui confronti esso è esercitato, rimangono eredi, intervenendo la commutazione in un momento logico successivo, con lo scopo di escludere gli stessi dalla comunione ereditaria. Si tratta, dunque, di un istituto di carattere lato sensu divisionale.
La tutela accordata alla filiazione naturale viene, tuttavia, limitata ai soli rapporti con il genitore (la cui filiazione sia stata riconosciuta o accertata giudizialmente); l’attribuzione di diritti al figlio naturale nella successione collaterale avrebbe, infatti, minato il modello familiare di riferimento, quello fondato sul matrimonio. In ragione di ciò, l’art. 258 sancisce la relatività del riconoscimento (esso «non produce effetti che riguardo al genitore da cui fu fatto, salvi i casi previsti dalla legge»), per cui il profilo di più marcata differenziazione nella condizione giuridica dei figli naturali riconosciuti rimane l’assenza di ogni legame parentale, giuridicamente rilevante, con la famiglia del genitore, sì da potersi affermare che, anche dopo la riforma, la relazione di parentela presupponesse l’esistenza di un vincolo matrimoniale tra genitori. All’accertamento formale della filiazione naturale non è collegato l’effetto dell’ingresso del figlio nella famiglia di origine del genitore, e dunque non consegue uno status familiare in capo al figlio. Tra le conseguenze di detto sistema giuridico, rientra il caso dei figli nati da medesimi genitori fuori dal matrimonio, che non possono essere considerati fratelli.
In siffatta temperie storico-giuridica, al solo matrimonio viene dunque riconosciuta l’idoneità a porsi quale fonte di stabili relazioni familiari; il riconoscimento di figlio naturale, soggetto a revoca, non è ritenuto in grado di fornire certezza di rapporti(4). Il limite della riforma del ’75 è dunque l’aver, in definitiva, mantenuto categorie differenziate di figli(5).

La crisi del matrimonio e l’incidenza sul trattamento successorio

Un’analisi del trattamento successorio della famiglia non potrebbe, tuttavia, dirsi completa se non si considerassero le scelte operate dal legislatore per il caso di dissolvimento del nucleo familiare, dovuto a separazione o al divorzio tra i coniugi. Quanto all’ipotesi di separazione senza addebito, può dirsi che, nonostante la crisi del rapporto matrimoniale, permangono in capo al coniuge tutti i diritti successori, a meno che la separazione non sia stata addebitata al coniuge superstite.
Una scelta, questa, oggetto di talune critiche in considerazione della particolare collocazione che negli anni l’istituto della separazione avrebbe assunto nel diritto di famiglia, ed in particolare in ragione del suo collegamento con il divorzio, che ne accentua la valenza di rottura definitiva della compagine familiare, lasciando in secondo piano la connotazione, precedentemente riconosciuta allo stesso, di rimedio alla crisi familiare(6).
Il coniuge separato senza addebito rimane legittimario; estremamente discusso è il tema della titolarità dei diritti d’uso e abitazione sulla casa adibita a residenza familiare, tema questo sul quale si registra un acceso dibattito in sede dottrinale e giurisprudenziale(7). Secondo un primo orientamento(8), infatti, lo stato di separazione tra coniugi di necessità esclude il fondamentale requisito richiesto dalla legge per il sorgere dei diritti in esame, ossia l’effettiva esistenza di una casa familiare: il venir meno della comunione spirituale di vita tra i coniugi, ed il ridursi della “comunione materiale” ad un mero obbligo di contribuzione al mantenimento ed agli alimenti, farebbero perdere alla casa già adibita a residenza il proprio carattere di luogo destinato all’attuazione dell’indirizzo familiare e ciò anche laddove, per ipotesi, i coniugi continuassero ad abitare nel medesimo immobile, benché separati. Tale orientamento, quanto mai rigoroso, è stato recepito in una recente sentenza della Corte di Cassazione(9)nonché in talune pronunzie della giurisprudenza di merito sul punto(10)che ravvisano nella separazione, pur se solo di fatto, un ostacolo decisivo al sorgere dei diritti di cui all’articolo 540 cpv c.c.-. A fronte del rigore della posizione giurisprudenziale, come detto di recente confermato, più eterogenee sono le posizioni dottrinali. Una prima tesi(11)ritiene che i diritti in oggetto permangano allorquando sulla casa familiare si concentri l’aspettativa di una possibile ripresa della convivenza, testimoniata dal dato per il quale almeno uno dei coniugi (si tratti del superstite o del deceduto) sia rimasto ad abitarla fino all’apertura della successione. Per una diversa lettura(12), i diritti in oggetto competono al coniuge separato superstite allorquando questi, anche dopo la separazione, abbia comunque legittimamente proseguito la sua permanenza nella casa già adibita a residenza familiare, e ciò o in virtù di accordo con l’altro coniuge, o in quanto affidatario della prole. Tale tesi si richiama alla ratio legis, che è quella di assicurare al soggetto legato da vincolo di coniugio con il defunto la conservazione delle consuetudini abitative matrimoniali, purché esse abbiano una certa attualità e non siano completamente superate. Un particolare sistema di regole è altresì dettato per il coniuge cui sia stata addebitata la separazione, il quale, a fronte della perdita dei diritti successori previsti in costanza di matrimonio, si vede riconosciuto dall’articolo 548 c.c. il diritto ad un assegno vitalizio se, al momento dell’apertura della successione, godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. Tale assegno è commisurato alle sostanze ereditarie, a qualità e numero degli eredi legittimi e non è comunque di entità superiore alla prestazione alimentare goduta. Trattasi di un legato obbligatorio ex lege, avente natura alimentare. Sia consentito, al riguardo, compiere una considerazione: benché il coniuge separato con addebito non possa considerarsi legittimario nell’accezione tradizionale del termine, e dunque non faccia numero ai fini del calcolo della legittima, il riconoscimento dell’assegno vitalizio, legato a rigorosi presupposti, deve farsi rientrare nel novero dei diritti “riservati” ai più stretti congiunti del de cuius, imponendosi siffatta attribuzione anche su una diversa e contraria volontà del testatore. In altri termini, il coniuge cui sia stata addebitata la separazione, purché abbia goduto degli alimenti al tempo dell’apertura della successione, matura il diritto al legato in oggetto anche laddove il testatore nulla abbia disposto in tal senso, ed anche nel caso in cui, nella scheda testamentaria, tali diritti siano stati espressamente esclusi. Appare, pertanto, possibile parlare, in una accezione del tutto peculiare, di riserva anomala prevista dal legislatore a beneficio di questo soggetto.
Le tensioni sociali intorno al tema della famiglia, invero, già qualche anno prima della riforma del 1975 avevano trovato espressione nella legge sul divorzio (n. 898/1970), ed anche in questo caso, il diritto delle successioni era stato immediatamente implicato dalle nuove scelte legislative. La pronuncia di divorzio, cancellando lo status di coniuge, comporta la perdita della qualità di legittimario e di successibile ex lege, facendo altresì perdere i diritti d’uso e abitazione ex art. 540 c.c.-. Tuttavia, l’articolo 9-bis della legge n. 898/1970 prevede che «a colui al quale è stato riconosciuto il diritto alla corresponsione periodica di somme di denaro a norma dell’articolo 5, qualora versi in stato di bisogno, il Tribunale, dopo il decesso dell’obbligato, può attribuire un assegno periodico a carico dell’eredità, tenendo conto dell’importo di quelle somme, dell’entità del bisogno, dell’eventuale pensione di riversibilità, delle sostanze ereditarie, nel numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche. L’assegno non spetta se gli obblighi patrimoniali previsti dall’articolo 5 sono soddisfatti in unica soluzione». Trattasi del cosiddetto “assegno successorio” a beneficio dell’ex coniuge divorziato: la solidarietà post coniugale induce il legislatore a rafforzare, anche sul piano successorio, la tutela economica del coniuge più debole. La morte del soggetto obbligato all’assegno di divorzio non cancella le ragioni assistenziali e solidaristiche sottese a tale disposizione, portando il legislatore a prevedere a carico degli eredi il prolungamento di questa forma di “ultrattività del matrimonio”, in modo da far fronte all’insufficienza reddituale dell’ex coniuge divorziato. Sul piano successorio, trattasi di legato obbligatorio ex lege, che integra una forma di vocazione anomala: l’anomalia sta nel dato per il quale il coniuge divorziato è ormai estraneo alla famiglia, e ciò nonostante è destinatario di una attribuzione ex lege. Anche in tale ipotesi, così come in caso di coniuge separato con addebito, la disposizione normativa prevale su una contraria volontà del testatore, per cui è corretto parlare di diritti riservati dall’ordinamento.
A questo punto dell’analisi, è possibile compiere un primo ordine di considerazioni: a partire dalla riforma del 1975, il modello di famiglia considerato dal legislatore, ai fini successori, è quello della famiglia nucleare fondata sul matrimonio; in tale modello, il coniuge occupa una posizione di eguaglianza rispetto ai figli (diversamente da quanto accadeva laddove il modello di riferimento era quello della famiglia parentale); il riconoscimento del vincolo matrimoniale è talmente forte che, in una sorta di ultrattività del matrimonio, anche quando questo entra in fase patologica o vede cessare del tutto i suoi effetti con il divorzio, il coniuge (o l’ex coniuge superstite) si vede riconosciuti dal legislatore diritti successori.

Le unioni non coniugali: dal convivente more uxorio alla famiglia di fatto

Come detto nelle considerazioni introduttive, nel corso degli anni, il paradigma della famiglia nucleare fondata sul matrimonio appare non più esclusivo ad una compiuta analisi del tessuto sociale. Si registra, infatti, una rapida e vasta diffusione di diversi modelli di relazioni familiari rispetto ai quali il matrimonio non appare più quale titolo indefettibile. Invero, come sottolineato in dottrina(13), la considerazione di forme di convivenza non basate sul matrimonio cambia già sul finire degli anni Sessanta: in particolare, un ruolo di fondamentale importanza viene riconosciuto alle due pronunzie della Corte Costituzionale (n. 126 e 128 del 1968) che dichiarano incostituzionali le norme che prevedevano i reati di adulterio e concubinato. Se in precedenza la convivenza fuori del matrimonio veniva percepita, sul piano etico-sociale, come il principale attacco all’istituzione familiare (all’epoca fondata ancora su rapporti di tipo gerarchico), successivamente cambia la considerazione verso le diverse scelte di relazioni interpersonali. La dottrina coglie una valenza ideologica nel passaggio dal termine “convivente more uxorio” a quello di “famiglia di fatto”(14), quale riconoscimento di un fenomeno ormai diffuso a livello sociale tanto da diventare realtà ontologicamente autonoma sul piano dei rapporti. Si fa strada, allora, l’idea di due modelli alternativi che si distinguono per il modo di formazione. È bene precisare, al riguardo, come non ogni forma di convivenza possa essere inquadrata entro il novero delle famiglie di fatto. Dinanzi al proliferare di modelli di relazioni, la dottrina avverte in primo luogo l’esigenza di circoscrivere il fenomeno, ritenendo necessario il ricorrere di due requisiti essenziali: a) il primo, attinente alla sfera soggettiva, consistente nell’affectio coniugalis, vale a dire nella volontà di modellare la relazione ad immagine del rapporto coniugale, con quanto ne consegue in primo luogo sul piano dei doveri matrimoniali; b) il secondo, di tipo oggettivo, si traduce nella serietà, riconoscibilità sociale, tendenziale stabilità del vincolo, il che lascia fuori dal fenomeno tutte le relazioni occasionali. Sia consentito sottolineare come in un primo momento, la morale comune, tendenzialmente orientata verso un’immagine eterosessuale delle relazioni, riconosca meritevole di rilevanza soltanto le unioni tra persone di diverso sesso; oggi, invece, si impone prepotentemente all’attenzione anche il tema delle unioni tra persone dello stesso sesso.
Così delineata la nozione di famiglia di fatto, gli interpreti ne ravvisano un preciso fondamento costituzionale, non più nell’art. 29 della Costituzione (che pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima), ma nell’articolo 2, richiamandosi alla tutela offerta dall’ordinamento a tutte le formazioni sociali ove è in grado di realizzarsi la personalità degli individui. Ebbene, se prevale ancora, nel nostro ordinamento, il favor matrimonii, retaggio di un secolare processo storico, culturale e religioso, la famiglia di fatto si afferma prepotentemente quale espressione di nuovi valori nelle relazioni e nei costumi degli individui.
A fronte di ciò, l’atteggiamento del giurista è duplice: da un lato, vi sono quanti, dinanzi alla diffusione di un nuovo modello sociale, invocano esigenze di regolamentazione, auspicando l’applicazione in via analogica delle disposizioni dettate per la famiglia legittima. Dall’altro, invece, si pongono quanti sottolineano come una scelta di libertà, autonoma e responsabile, di quanti decidano di vivere una vita in comune al di fuori del matrimonio, possa venire sostanzialmente tradita da interventi legislativi tesi ad inquadrare tale scelta entro schemi giuridici(15).
Diversi, invero, sono gli indici di una crescente attenzione verso questo fenomeno nei diversi formanti dell’esperienza giuridica. Così, sul piano legislativo, la stessa riforma del 1975 introduce nel codice civile la disposizione dell’art. 317-bis, che riconosce la potestà sui figli naturali ad entrambi i genitori “se conviventi”: almeno sotto il profilo dell’educazione della prole, si assimila la famiglia di fatto a quella legittima(16). Sul piano giurisprudenziale, la mutata considerazione delle libere unioni determina il sorgere di un consolidato orientamento che qualifica le prestazioni tra conviventi more uxorio in termini di adempimento di obbligazioni naturali, e ne fa discendere l’irripetibilità delle stesse(17).
La materia successoria diventa, ben presto, l’ambito in cui maggiormente pressanti sono le esigenze di riconoscimento legislativo delle unioni di fatto.
Nell’impianto normativo introdotto dalla riforma, infatti, il convivente non ha alcuna tutela successoria, il che determina risultati di forte squilibrio: a fronte delle attenzioni del legislatore verso l’ex coniuge, nessun diritto viene riconosciuto all’abituale convivente, il che rende indefettibile lo strumento testamentario al fine di fargli pervenire sostanze ereditarie (entro i limiti della disponibile). Nel corso degli anni fanno la loro comparsa, in sede parlamentare, diversi disegni legislativi (ddl Manconi 1996; ddl Buffo dello stesso anno; ddl sulle “unioni affettive” del 1998). In alcuni casi, si propone la totale equiparazione tra la condizione di convivente more uxorio e quella di coniuge; in altri, il trattamento successorio appare improntato al diritto ad un assegno vitalizio che in qualche modo evoca quanto previsto per il coniuge separato con addebito o divorziato(18). Se, allo stato, nessuna delle proposte avanzate è divenuta legge, e dunque manca un trattamento che sia consentito definire ordinario sul piano dei diritti successori del convivente, nel corso degli anni il dibattito si concentra su alcuni temi quanto mai delicati, quali quello dell’abitazione o dei diritti previdenziali a beneficio del convivente superstite. Lo scontro sovente è così acceso da rendere necessari numerosi interventi della Corte Costituzionale, che non sempre appaiono coerenti nella delicata trattazione delle diverse questioni.
Prima materia oggetto di vivaci contrasti è quella delle locazioni di immobili ad uso abitativo, nella quale, ad oggi, si ha uno dei pochi riconoscimenti, e forse il più importante, dell’unione di fatto: il bisogno abitativo è “tema sensibile” onde evitare che la morte del convivente imponga anche il distacco dal luogo di residenza. Invero, già prima della legge 392/1978 la materia delle locazioni segna un acceso dibattito in ordine al riconoscimento di diritti successori in capo al convivente superstite(19). Vengono in considerazione numerosi interventi legislativi diretti a prorogare, di volta in volta, i contratti di locazione o sublocazione in essere alla data di entrata in vigore del provvedimento. Già con legge del 1950 si disponeva che, in caso di morte del conduttore, il diritto alla proroga operasse in favore di coniuge, eredi, parenti ed affini del defunto con lui abitualmente conviventi; nel 1974, l’elencazione degli aventi diritto a proroga del contratto in caso di morte del conduttore viene modificata, con l’eliminazione della vasta categoria degli eredi, ed il riconoscimento di tale diritto a coniuge, figli, genitori e parenti entro il II grado abitualmente conviventi. Ebbene, negli anni Settanta queste previsioni suscitano molteplici istanze nel senso della loro estensibilità all’abituale convivente del conduttore defunto. Sollevata questione di legittimità costituzionale, con pronunzia n. 45 del 14 aprile 1980(20)la Corte Costituzionale decide per l’infondatezza della questione, sottolineando le profonde differenze intercorrenti tra la posizione giuridica del convivente e quella del coniuge, differenze che la Corte ravvisa nella mancanza, nelle unioni di fatto, dei caratteri di stabilità, certezza, reciprocità, corrispettività del vincolo.
Le questioni sorte in materia di proroga legale delle locazioni si acuiscono a seguito dell’entrata in vigore della legge 392/1978: l’articolo 6 comma 1, per il caso di decesso del conduttore, introduce nel nostro ordinamento una vocazione anomala, in forza della quale si verifica una successione mortis causa ex lege nel rapporto locatizio avente ad oggetto un immobile urbano ad uso abitativo, fino alla scadenza prevista. Nell’originario dettato normativo, la successione viene ammessa a beneficio del coniuge, degli eredi, di parenti ed affini del de cuius. L’assenza, nel novero di coloro i quali possano succedere nel contratto, del convivente determina il sorgere di forti contrasti: nonostante la pronunzia della Corte Costituzionale in materia di proroga dei contratti, viene posta questione di legittimità costituzionale. Con la sentenza n. 404 del 07 aprile 1988(21), la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità dell’art. 6 della legge 392/1978 nella parte in cui non prevede la successione, nel contratto di locazione, del convivente more uxorio, sottolineando il contrasto tra tale disposizione e gli articoli 2 e 3 della Costituzione. Trattasi, come detto in precedenza, del primo espresso riconoscimento di diritti successori a beneficio di chi, pur non essendo legato da un vincolo matrimoniale col de cuius, ha con questi un’unione di fatto. Nell’argomentare della Corte, il richiamo all’articolo 2 della Costituzione non vale ad equiparare il convivente al coniuge; tuttavia, viene sottolineata l’incongruenza logica cui condurrebbe l’esclusione del convivente dall’applicazione di una norma finalizzata alla tutela di una situazione di coabitazione, che proprio in ragione di ciò contempla espressamente tra i beneficiari gli eredi quand’anche essi siano estranei al nucleo familiare(22).
L’intervento della Corte Costituzionale segna, come detto, un primo riconoscimento delle unioni di fatto sul piano giuridico. In quegli anni, studiosi ed operatori pratici del diritto innalzano i toni del dibattito, invocando in maniera decisa un trattamento successorio ordinario in favore dei conviventi. In particolare, nello stesso anno, con pronunzia del 21 marzo 1988 il Tribunale di Roma(23)solleva questione di legittimità costituzionale degli articoli 565 e 582 c.c., nonché del co. II art. 540, facendo appello agli articoli 2 e 3 della Carta Costituzionale. Le questioni sollevate dai giudici di merito coinvolgono il cuore stesso del sistema successorio, ma la reazione della Corte Costituzionale, nella pronunzia 26 maggio 1989, n. 310(24), appare ancora improntata a logiche tradizionali. In particolare, in maniera analoga alle conclusioni in materia di proroga delle locazioni, la Corte Costituzionale ribadisce le peculiarità e le chiare diversità della convivenza, quale unione sostanzialmente libera perché nata, per volontà degli stessi membri, al di fuori di ogni schema, laddove dal matrimonio nasce un rapporto stabile, certo, qualificato da reciprocità e corrispettività. Con specifico riguardo al tema del diritto di abitazione, la Corte giudica inammissibile il ricorso: tali diritti sono riconosciuti al coniuge in qualità di legittimario, di talché il convivente more uxorio potrebbe essere inserito tra i beneficiari del legato soltanto a seguito di una pronunzia additiva che gli riconosca tale qualità, il che integrerebbe una indebita ingerenza nelle competenze legislative.
Le forti tensioni tra un approccio religioso e tradizionale ed un approccio laico e sensibile alle nuove istanze sociali, si esprimono altresì con riferimento ai trattamenti pensionistici in caso di morte del lavoratore. Giova sottolineare come, nella materia de qua, venga in considerazione non già il tema della devoluzione jure successionis dei beni del de cuius, quanto quello del conseguimento, jure proprio, di diritti in occasione della morte: quello alle prestazioni previdenziali costituisce, infatti, autonomo diritto che sorge direttamente in capo ai familiari e non viene ricevuto dal patrimonio del de cuius; da qui, l’assoluta indisponibilità di tale diritto da parte del lavoratore, che non ne può attribuire la titolarità a soggetti diversi da quelli indicati dalla legge.
Anche in tale ambito, invero, gli interventi della Corte Costituzionale appaiono espressione dell’estrema problematicità del dibattito giuridico. Sia consentito notare, in via preliminare, come i diritti di natura previdenziale connessi alla morte del lavoratore trovino il proprio fondamento nell’art. 31 della Carta Costituzionale, norma che garantisce la tutela della famiglia contro lo stato di bisogno in cui la stessa potrebbe trovarsi per la perdita della persona che provvede al suo sostentamento. Viene in considerazione, in primo luogo, la pensione di reversibilità, ossia il trattamento pensionistico in favore dei congiunti a seguito della morte del soggetto già beneficiario di pensione. Referenti normativi sono l’art. 13 R.D.l. n. 636/1939, (convertito in legge 06 luglio 1939, n. 1272) nonché l’art. 9 comma II legge sul divorzio. La stratificazione nel tempo di diversi interventi normativi conduce a questo risultato: il diritto ad ottenere la pensione di reversibilità è riconosciuto sia al coniuge, sia dell’ex coniuge il quale risulti già titolare di assegno di divorzio, purché il rapporto di lavoro, da cui trae origine il trattamento pensionistico, sia anteriore alla sentenza di scioglimento del matrimonio. È, altresì, previsto il caso di concorso tra nuovo coniuge ed ex coniuge, nella quale ipotesi il Tribunale dovrà ripartire la pensione in quote, commisurate alla durate dei rispettivi rapporti.
Una prima considerazione della convivenza di fatto viene sollevata proprio in relazione alla durata dei rapporti matrimoniali susseguitisi nel tempo: in giurisprudenza si pone, infatti, il quesito se, ai fini della quantificazione della durata del secondo rapporto matrimoniale, sia possibile considerare anche una eventuale convivenza more uxorio precedente al secondo matrimonio. Le Sezioni Unite della Cassazione nel 1998 (sentenza n. 159 del 12 gennaio 1998)(25)rispondono negativamente, ma l’inasprimento del dibattito porta a sollevare questione di legittimità costituzionale. Ebbene, la Corte Costituzionale, con pronuncia n. 461 del 03 novembre 2000 si esprime, nuovamente, nel senso dell’infondatezza della questione, appellandosi ancora alle profonde differenze tra famiglia fondata sul matrimonio ed unione di fatto, ed al carattere di stabilità, certezza, corrispettività e reciprocità che solo il matrimonio offre al vincolo coniugale(26). Nella stessa pronunzia, la Corte Costituzionale affronta il più ampio tema della possibilità di riconoscere detta pensione al convivente more uxorio, risolvendolo negativamente: l’attribuzione di tale provvidenza si collega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico, assente nelle libere unioni. La pronunzia della Corte Costituzionale viene confermata in un successivo intervento del Giudice delle leggi (n. 86 del 27 marzo 2009)(27), con analoghe motivazioni.
Nessuna considerazione viene offerta, in sede di legislazione nazionale, al convivente con riguardo al diverso tema delle indennità per morte del lavoratore, tra cui il trattamento di fine rapporto. A norma dell’articolo 2122 c.c., tra gli aventi diritto figurano coniuge, figli e, se vivevano a carico del lavoratore al tempo del decesso, parenti entro il III grado ed affini entro il II grado; laddove manchino tali soggetti, le indennità vengono attribuite secondo le norme sulla successione legittima
Altri ambiti del diritto segnano, al contrario, interessanti aperture. Il riconoscimento al convivente di diritti in qualche modo connessi alla morte viene affermato, in via giurisprudenziale, in caso di morte provocata da fatto ingiusto altrui(28): la Corte di Cassazione, in diverse pronunzie(29)riconosce al convivente il diritto al risarcimento sia del danno non patrimoniale (ex art. 2059 c.c., per un patema analogo a quello che si ingenera nella famiglia legittima) sia del danno patrimoniale (per la perdita del contributo patrimoniale e personale apportato in vita dal convivente defunto). Interessante, al riguardo, è una pronunzia della Corte di Appello di Firenze del 1996(30), in cui, nell’ammettere la risarcibilità del danno a beneficio dell’abituale convivente, si afferma che, alla stregua del diritto vivente, la famiglia di fatto è considerata quale tipica formazione sociale in cui si estrinseca la personalità umana, e quindi deve essere adeguatamente tutelata, laddove risulti provata natura, qualità, e stabilità della relazione. Ciò esposto, il quadro delle posizioni assunte dai diversi formanti del diritto (legislativo, giurisprudenziale, dottrinale) in materia di riflessi successori delle unioni non coniugali impone di concludere che, a tutt’oggi, alla persona legata da vincolo di fatto rimane un’unica strada per tutelare il convivente, quella della disposizione testamentaria. Così, il bisogno abitativo può essere appagato con un legato di usufrutto o di abitazione; il testatore potrà, ancora, prevedere un legato di comportamento negoziale che faccia obbligo agli eredi di stipulare con il convivente un contratto di locazione a condizioni eque o di comodato. La destinazione abitativa dell’immobile in cui l’unione di fatto si è consolidata può essere ulteriormente rafforzata costituendo un vincolo di destinazione ai sensi dell’art. 2645- ter, accogliendo la tesi per la quale il testamento possa essere valida fonte di siffatti vincoli(31). In un rinnovato sistema di valori emergenti da un tessuto sociale in divenire, la tutela del convivente more uxorio è stata sovente qualificata in dottrina quale interesse meritevole di tutela in vista del quale è lecito imporre vincoli di destinazione ai sensi della richiamata disposizione, con le conseguenze previste sul piano della segregazione patrimoniale. Ebbene, proprio l’attenzione manifestata in dottrina in ordine agli interessi sottesi alle relazioni di fatto (considerati idonei a legittimare la segregazione patrimoniale a fini destinatori), testimonia in maniera inequivoca una evoluzione di valori cui il sistema successorio non può rimanere indifferente, soprattutto in presenza di norme inderogabili che non sempre si offrono ad interpretazioni evolutive assiologicamente orientate.
Passando all’altro tema sensibile, quello delle prestazioni previdenziali, il testatore può farvi fronte prevedendo prestazioni periodiche, attraverso i cosiddetti legati di durata, da quello di rendita vitalizia a quello di mantenimento o di alimenti(32).

Le “famiglie ricomposte”

Il mosaico di possibili relazioni familiari registra, nell’ultimo ventennio, l’ampia diffusione di fenomeni definiti di “ricomposizione familiare”, termine con il quale si fa riferimento a nuove unioni, formate da coniugi o conviventi di cui almeno uno proveniente da precedenti esperienze matrimoniali, conclusesi per separazione, divorzio, morte di uno dei coniugi. Il nuovo legame affettivo può portare al matrimonio (famiglia ricomposta legittima) o sostanziarsi in una convivenza (famiglia ricomposta di fatto)(33). In ragione del diffondersi di tali fenomeni, la famiglia - che viene a crearsi nel processo di ricomposizione - perde la sua connotazione unitaria per assumere una configurazione plurinucleare, con una complessa articolazione di legami biologici, affettivi e sociali.
In un primo tempo, i fenomeni di ricomposizione familiare facevano prevalentemente seguito a vedovanza; oggi, sempre più spesso, essi si iscrivono nei percorsi di riorganizzazione familiare post separazione e post divorzio. Appare chiara la profonda diversità di implicazioni tra i due fenomeni: se, infatti, in caso di ricomposizione familiare conseguente ad uno stato di vedovanza il nuovo nucleo familiare è sostitutivo di quello precedente, nell’ipotesi di ricomposizione post separazione o post divorzio esso è cumulativo e addizionale rispetto alla precedente struttura familiare, dando così luogo a più relazioni attuali, con un complesso intreccio parentale e generazionale. È possibile che vi siano figli nati dalla precedente unione coniugale, nel qual caso il nuovo coniuge si trova in una posizione di responsabilità verso figli non biologici (si parla, al riguardo, di “genitore sociale”); ove, poi, sopraggiungano altri figli, si creano rapporti tra fratelli biologici e “acquisiti”. Nella costruzione di possibili relazioni che hanno origine dalla famiglia ricomposta, si assiste alla creazione di ruoli familiari che, non essendo socialmente affermati, non hanno ancora parametri sociali di riferimento cui rivolgersi per definire ambiti, responsabilità, funzioni. Gli esempi appena formulati pongono prepotentemente all’attenzione il tema della pluralità di possibili rapporti endofamiliari, in passato non sufficientemente approfonditi, tanto che, anche sul piano terminologico, manca un linguaggio condiviso(34). Si parla, in modo fungibile, di famiglie riorganizzate, riformate, ricostituite e le incertezze definitorie riflettono la mancanza di consolidati modelli culturali e regole condivise nel tessuto sociale. La diffusione di tali fenomeni porta ad una progressiva evoluzione della percezione sociale degli stessi. Invero, in un sistema in cui le traiettorie di ricerca e le prospettive di analisi sono costantemente influenzate dai predominanti valori culturali, il diffondersi di queste relazioni appare, nei primi anni, in contrasto con i modelli sociali di riferimento, di talché queste famiglie vengono viste quali violazioni ad un sistema culturale dominante ed alle aspettative sociali. Nell’ultimo ventennio, a fronte dell’ampio sviluppo di tali fattispecie, si registra un sensibile mutamento dell’ approccio verso le stesse, analizzate non più in una cultura della devianza e della incompletezza, ma in una logica della differenza, quali famiglie “a struttura differenziata”. All’esito di tale percorso, nell’attuale temperie storico-giuridica la famiglia ricomposta è considerata lecita e non contraria all’ordine pubblico, alla stregua delle altre formazioni sociali tutelate dall’art. 2 della Costituzione, benchè non sia stata espressamente riconosciuta sul piano legislativo quale istituto di diritto familiare né tantomeno disciplinata.
Sul piano del diritto successorio, il fenomeno appena descritto offre due interessanti sollecitazioni.
In primo luogo, esso consente forme di concorso di assoluta novità (e, sovente, criticità), che emergono dall’analisi di taluni casi pratici:
a) si faccia l’ipotesi in cui un soggetto (Tizio), padre di due figli nati da un precedente matrimonio, sposi in seconde nozze Caia: all’apertura della sua successione, si avrà concorso tra figli e coniuge superstite che non è genitore dei primi(35), al quale coniuge competeranno anche i diritti d’uso e abitazione sulla casa adibita a residenza familiare, sussistendo i presupposti ex art. 540 c.c.;
b) nell’esempio innanzi esposto, si aggiunga che, al decesso di Tizio, gli sopravviva anche il coniuge divorziato: in tal caso, si può porre, all’apertura della successione, l’esigenza di assicurare i diritti successori tanto all’ex coniuge (assegno alimentare ex lege di cui all’art. 9-bis legge sul divorzio) quanto al nuovo coniuge; l’eterogeneità dei nuclei familiari, e la possibile mancanza di legami affettivi tra i membri degli stessi, può suggerire un accordo tra gli eredi e l’ex coniuge nel senso di una definizione una tantum dei diritti di quest’ultimo, come previsto dall’art. 9-bis della richiamata legge. A parere di chi scrive, ad una tale definizione può addivenire il testatore anche attraverso una disposizione lato senso tacitativa: benché non si tratti di autentica quota di legittima (non potendosi annoverare l’ex coniuge tra i legittimari), detti diritti integrano comunque posizioni “riservate”, che si impongono anche contro la volontà del testatore. Facendo applicazione dei principi di cui all’art. 551 c.c. (legato in sostituzione di legittima) e del richiamato art. 9-bis legge sul divorzio, appare ammissibile riconoscere al testatore la possibilità di una disposizione tacitativa.
Nel corso del successivo paragrafo sarà analizzata un’ulteriore ipotesi cui i percorsi di ricomposizione familiare possono dar luogo, la successione tra fratelli naturali, bi o unilaterali.
Estremamente interessante è, infine, il tema della possibilità di “legalizzare” il rapporto con il figlio che il proprio coniuge abbia avuto da precedente matrimonio, attraverso l’istituto dell’adozione, a norma del combinato disposto degli artt. 300 c.c. e 55 L. 184/1983 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), come riformata dalla legge 149/2001 (Diritto del minore ad una famiglia, anche detta legge sull’adozione). Giova ricordare, in questa sede, come l’adozione del figlio minore del proprio coniuge sia consentita anche in presenza di figli legittimi dell’adottante (art. 44, comma I lettera “b” L. ad.); all’adottato spettano tutte le prerogative riconducibili al rapporto di filiazione, e dunque in primo luogo i diritti al mantenimento, all’istruzione, all’educazione ex art. 147 c.c., espressamente richiamati dall’art. 48 comma II legge ad.
Quanto ai diritti successori, l’art. 55 legge ad. rinvia all’art. 304 c.c. In virtù di tale norma: a) all’adottato è riconosciuta la qualità di erede, con riguardo sia alla successione legittima sia a quella dei legittimari; b) tali diritti successori si sommano a quelli che l’adottato continua a mantenere nei confronti dei suoi parenti biologici; c) è esclusa ogni forma di reciprocità tra adottante ed adottato: in caso di premorienza di quest’ultimo, nessun diritto sarà riconosciuto al genitore adottante.

La riforma della filiazione naturale

L’analisi delle incidenze dei modelli familiari sul microsistema del diritto successorio termina con l’importante riforma della disciplina relativa alla filiazione naturale. La legge 10 dicembre 2012, n. 219 sancisce il principio di unicità di stato giuridico della filiazione. Peculiare è, invero, la tecnica normativa utilizzata dal legislatore: all’articolo 1 della legge vengono sanciti i principi fondamentali in materia, con disposizioni immediatamente operative; nel successivo articolo 2, viene data una corposa delega al Governo finalizzata alla revisione di tutte le disposizioni vigenti, non soltanto codicistiche, in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità, al fine di «eliminare ogni discriminazione tra i figli, anche adottivi, nel rispetto dell’art. 30 della Costituzione». In attuazione di tale delega, il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, ha attuato una “riscrittura” delle disposizioni, legislative e regolamentari, in materia di filiazione, coerente con il mutato quadro di principi quale introdotto dalla legge 219/2012. Principio cardine del nuovo quadro normativo è quello in virtù del quale «tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico», con il conseguente definitivo abbandono, nel nostro ordinamento, dei riferimenti a “figli legittimi e naturali”, che, ovunque ricorrano, vengono sostituiti dalla parola “figli”, eliminando in tal modo, anche sul piano lessicale, ogni rischio di discriminazione (cosiddetta “filiazione senza aggettivi”)(36).
Come si è avuto modo di chiarire nel corso delle precedenti considerazioni, il limite maggiore della legge 151/1975 era rappresentato dalla relatività del riconoscimento, come sancita dall’art. 258 c.c. («il riconoscimento non produce effetti che riguardo al genitore da cui fu fatto, salvi i casi previsti dalla legge»), di talché il profilo di più marcata differenziazione nella condizione giuridica dei figli naturali riconosciuti era rappresentato dall’assenza di ogni legame parentale, giuridicamente rilevante, con la famiglia del genitore, sì da potersi affermare che, anche dopo la riforma del ‘75, la relazione di parentela presupponesse l’esistenza di un vincolo matrimoniale tra genitori. All’accertamento formale della filiazione naturale non era collegato l’effetto dell’ingresso del figlio nella famiglia di origine del genitore, e dunque non conseguiva uno status familiare. Tra le conseguenze di detto sistema giuridico, vi era il caso dei figli nati da medesimi genitori fuori dal matrimonio, che non potevano essere considerati fratelli. Al solo matrimonio veniva, dunque, riconosciuta l’idoneità a porsi quale fonte di stabili relazioni familiari; il riconoscimento di figlio naturale, soggetto a revoca, non era ritenuto in grado di fornire certezza di rapporti(37).
A distanza di circa quarant’anni dalla legge 151/75, il legislatore del 2012 realizza il definitivo superamento delle residue differenziazioni, con la piena affermazione del principio di unicità di stato giuridico della filiazione, attraverso una serrata trama normativa, che si articola in quattro principali disposizioni: l’art. 315 c.c. (unicità di stato), l’art. 315-bis c.c. (diritti dei figli), art. 258 c.c. (effetti del riconoscimento), art. 74 c.c. (parentela).
L’art. 315 c.c. (definito “norma manifesto”(38)della riforma ed introdotto dall’art. 1 comma 7 della legge 219/2012) nella sua rinnovata formulazione sancisce, come detto, l’unificazione dello status filiationis, sganciato dall’appartenenza ad una comunità familiare (status familiae) o comunque a comportamenti che possano riguardare i genitori(39). L’eguaglianza dei figli realizza la piena attuazione dell’art. 30 comma 3 della Costituzione, assicurando ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale(40).
L’art. 315-bis enuncia, per la prima volta, i diritti fondamentali del figlio come persona(41), il che implica un deciso ribaltamento di prospettiva rispetto al passato, in cui la condizione del figlio veniva identificata con esclusivo riferimento ai doveri dei genitori ed agli obblighi alle prestazioni alimentari. Nel nuovo statuto della filiazione, accanto al tradizionale diritto al mantenimento, istruzione, educazione, viene espressamente enunciato il diritto di ogni figlio all’assistenza morale dei genitori (cosiddetto “diritto all’amore”)(42). Nell’intera disciplina della riforma l’interesse del figlio diviene la nuova prospettiva attraverso la quale il legislatore affronta sia i temi delle relazioni familiari, sia la delicata materia del riconoscimento dei figli incestuosi.
Il nuovo testo dell’art. 258 c.c. implica il superamento del principio di relatività: il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio produce i suoi effetti non più soltanto nei riguardi del genitore che lo ha compiuto, ma altresì rispetto ai suoi parenti(43).
Benchè non ve ne fosse bisogno, attesa la portata generale della norma, viene modificata anche la disposizione dell’art. 74 c.c., che definisce la parentela come vincolo tra persone che discendono dallo stesso stipite, con l’aggiunta «sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo». Una volta conseguito lo stato di figlio (a seguito della nascita da genitori coniugati, del riconoscimento, della dichiarazione giudiziale), il soggetto diventa parente delle persone che discendono dallo stesso stipite dei suoi genitori ed entra a far parte della loro famiglia (estesa). In questo modo, tutti i figli conseguono un’unica identità familiare, con eguali rapporti di parentela cui fanno riscontro i medesimi diritti, patrimoniali e successori.
Intuibili sono le ripercussioni, che sia consentito definire “trasversali”, prodotte dai rinnovati principi sulla materia successoria.
Volgendo lo sguardo ai rapporti tra genitore e figli, vengono abrogate le norme in materia di commutazione che, come esposto nei precedenti paragrafi, segnavano l’ultimo, residuo discrimen sul piano del trattamento successorio tra figli legittimi e naturali. La piena eguaglianza di stato non ammette alcuna discriminazione né sul piano della delazione ereditaria né su quello divisionale, non dovendo i figli naturali soggiacere a scelte, in merito all’assegnazione dei beni, cui non abbiano partecipato con pari dignità (che si traduca in un consenso costitutivo) rispetto ai figli legittimi.
Di particolare impatto sono poi le conseguenze prodotte dal superamento del principio di relatività del riconoscimento, con il nuovo “perimetro” riconosciuto al rapporto di parentela.
Viene, in primo luogo, in considerazione l’istituto della rappresentazione, (disciplinato dagli artt. 467 e ss. c.c.), in forza dei quale i discendenti del delato (che sia figlio o fratello del de cuius) subentrano «nel luogo e nel grado del loro ascendente in tutti i casi in cui questi non può o non vuole accettare l’eredità o il legato». La rappresentazione integra, dunque, uno degli istituti posti dall’ordinamento a presidio della vicenda successoria in tutti i casi di fallimento della delazione (abbia essa fonte testamentaria o legale), individuandosi (secondo i crismi della delazione indiretta) il soggetto che dovrà subentrare nel luogo e grado del proprio ascendente che non intenda o non possa accettare l’eredità o conseguire il legato disposto in suo favore.
È interessante notare come siffatto istituto abbia risentito, nel corso degli anni, dei differenti modelli familiari di riferimento della vicenda successoria, subendo sensibili modifiche nel suo fondamento e negli ambiti applicativi.
Così, nel codice del 1942, la rappresentazione era prevista a beneficio dei soli discendenti legittimi di figli o fratelli e sorelle del de cuius; coerentemente, la ratio dell’istituto veniva ravvisata nella tutela della stirpe legittima del delato(44). Con pronunzia n. 79 del 14 aprile 1969(45), la Corte Costituzionale riconosceva ai figli naturali di figli e fratelli del de cuius il diritto a succedere per rappresentazione, a condizione però che i rappresentati non avessero discendenti legittimi. Entro tali limiti, i figli naturali potevano succedere per rappresentazione al de cuius, in luogo del proprio genitore naturale, anche in caso di concorso con il coniuge. Successivamente, con le modifiche apportate al primo comma dell’art. 467 c.c. dalla legge 19 maggio 1975, n. 151, veniva realizzata una piena equiparazione tra figli legittimi e figli naturali riconosciuti nella rappresentazione in linea retta, potendo operare detto istituito a beneficio dei discendenti, legittimi e naturali riconosciuti (c.d. rappresentanti) del figlio, legittimo o naturale riconosciuto (c.d. rappresentato), del defunto. In conseguenza, risultava modificato il fondamento dell’istituto, ravvisato da una parte della dottrina nella tutela della famiglia del de cuius nella sua accezione allargata(46), da altra tesi nella tutela della stirpe del mancato successore, formata da tutti i discendenti dello stesso (legittimi, legittimati, naturali, adottivi)(47).
Particolarmente controversi erano, invece, gli ambiti di operatività dell’istituto in linea collaterale, essendo dibattuta la possibilità di ricomprendere fratelli e sorelle naturali del defunto nella categoria dei rappresentati, ossia di coloro in luogo dei quali si succede. Dinanzi ad un testo normativo di per sé anodino, parte della dottrina(48)affermava l’operatività della rappresentazione anche a beneficio di discendenti di fratelli e sorelle naturali alla stregua di diverse considerazioni. Veniva richiamato, in particolare, il disposto dell’art. 737 c.c. quale riconoscimento della giuridica rilevanza di un rapporto di parentela anche tra fratelli naturali, con conseguente reciproca successibilità; a sostegno di tale tesi, si adduceva il riconoscimento, sia pur limitato, di una successione tra fratelli naturali operato dalla Corte Costituzionale con le note sentenze n. 55/1979 e n. 184/1990 (sulle quali si tornerà in seguito). A fronte di tali posizioni, l’orientamento prevalente escludeva l’operare della rappresentazione a beneficio di discendenti di fratelli naturali del de cuius, e ciò in ragione della relatività del riconoscimento, quale sancita dall’art. 258 c.c., e dunque dell’assenza di qualsivoglia legame giuridicamente rilevante tra fratelli naturali al di fuori dei casi testualmente contemplati dal legislatore(49). Il perimetro operativo della rappresentazione era, dunque, il seguente: in linea retta, l’istituto faceva subentrare discendenti legittimi e naturali “nel luogo e nel grado” di figli legittimi e naturali del defunto (in omaggio alla piena equiparazione operata dalla legge 151/1975); in linea collaterale, essa faceva subentrare figli, legittimi e naturali, unicamente “nel luogo e nel grado” di fratelli (o sorelle) legittimi del de cuius.
A seguito dei principi fissati dalla legge 219/2012, deve ritenersi oggi superata ogni discriminazione anche con riguardo alla rappresentazione in linea collaterale, venendo ammessi a succedere anche i dicendenti dei fratelli naturali del defunto, la cui comune paternità o maternità sia stata riconosciuta o accertata giudizialmente. La norma dell’art. 468 c.c., nella parte in cui ammette la rappresentazione a beneficio di figli di fratelli e sorelle del defunto, non contempla l’aggettivo legittimo, e dunque non ha necessitato dell’intervento “correttivo” del decreto 154/2013. Trattasi di un caso di interpretazione sistematica del dato normativo, che va oggi letto alla stregua dei principi sottesi al combinato disposto degli artt. 74 e 258 c.c.
La possibilità di ravvisare un rapporto di parentela tra persone discendenti dallo stesso stipite (a prescindere da un vincolo matrimoniale) risulta gravida di conseguenze sul piano della vocatio ab intestato.
Anteriormente alla riforma, invero, la dottrina ravvisava quattro classi di successibili ex lege, in ragione della ratio che ne giustificava la vocazione(50): la prima classe era quella formata jure familiae, costituita dai parenti legittimi, cui venivano equiparati gli adottati; la seconda classe era formata jure coniugii e comprendeva il coniuge legittimo ed eventualmente il coniuge putativo; la terza classe era formata jure sanguinis dai parenti naturali, ed infine la quarta classe (“jure imperii”) era formata dallo Stato. Come è emerso dalle considerazioni precedenti, la riforma del 2012 incide profondamente su un sistema così esposto, impostato sul discrimen tra parentela (quella derivante dall’appartenenza ad una famiglia fondata sul matrimonio) e consanguineità. Non ha più senso tenere distinte, oggi, la classe jure familiae da quella jure sanguinis, atteso che, in ragione del rinnovato disposto dell’art. 74 c.c., i consanguinei entrano a pieno titolo nella classe dei parenti. A riprova di ciò, la nuova formulazione dell’art. 565 c.c., nel tracciare le categorie di successibili ex lege, prevede che «Nella successione legittima, l’eredità si devolve al coniuge, ai discendenti, agli ascendenti, ai collaterali, agli altri parenti e allo Stato, nell’ordine e secondo le regole stabilite dal presente titolo», così espungendo ogni riferimento a parenti legittimi ed a legami meramente naturali.
I rinnovati principi investono, in primo luogo, i rapporti del figlio naturale con la famiglia del genitore che ha effettuato il riconoscimento. Sussistendo un legame giuridicamente rilevante non più soltanto in linea retta, ma anche in linea collaterale, il figlio naturale riconosciuto potrà succedere a fratelli o sorelle del genitore che ha effettuato il riconoscimento nonché ad altri parenti entro il sesto grado. Viene, poi, in considerazione il caso dei rapporti tra “fratelli naturali”, che per lunghi anni ha animato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale. Se, infatti, nelle considerazioni iniziali si è fatto riferimento alla diffusione di modelli alternativi di relazioni sociali (dalla famiglia di fatto alle famiglie ricomposte), il sistema normativo, risultante dalla disciplina del codice del ’42 quale riformata dalla legge 151/75, negava un reciproco diritto a succedere tra fratelli e sorelle naturali, determinando un grave ritardo del legislatore nel dare risposta ad istanze prepotentemente emerse nel tessuto sociale. Basti pensare al caso delle famiglie di fatto: all’indomani della riforma del ’75, i figli nati da tali unioni avevano pieno diritto a succedere ai genitori, ma non si vedevano riconosciuto alcun titolo alla successione reciproca, non essendo, a rigore, configurabile un rapporto di parentela, giuridicamente rilevante, tra fratelli naturali.
Sollevata questione di legittimità costituzionale, la Corte, con pronunzia del 4 luglio 1979 n. 55, dichiarò costituzionalmente illegittima (per contrasto con gli art. 3 e 30 comma III della Carta Costituzionale) la norma dell’art. 565 c.c. nella parte in cui escludeva dalla categoria dei chiamati alla successione legittima, in mancanza di altri successibili e prima dello Stato, i fratelli e le sorelle naturali, riconosciuti o dichiarati(51). Con soluzione di compromesso che lasciava persistere un trattamento discriminatorio, veniva “creata”, in tal modo, una nuova categoria di successibili, collocata in posizione deteriore rispetto a tutti gli altri parenti legittimi, con precedenza soltanto sullo Stato. Con successiva pronunzia del 12 aprile 1990 n. 184, la Corte Costituzionale, confermando in linea di principio il precedente orientamento, riconosceva il diritto a succedere anche ai fratelli e alle sorelle naturali unilaterali, dei quali fosse stato riconosciuto o accertato giudizialmente lo status di filiazione nei riguardi di un solo genitore comune(52). Anche sul piano lessicale, il rapporto tra fratelli naturali veniva degradato a mera consanguineità. Giova rilevare, ancora, come con ulteriore pronunzia ( n. 377 del 7 novembre 1994) la Corte Costituzionale rigettava la questione di legittimità costituzionale degli artt. 565 e 572 c.c. nella parte in cui non prevedevano la successione dei fratelli e delle sorelle naturali del de cuius in mancanza di membri della famiglia intesa in senso stretto, e dunque prima dei parenti collaterali dal terzo al sesto grado. A testimonianza della delicatezza ed attualità del tema, i giudici della Consulta, pur respingendo la questione di legittimità, riconoscevano l’inopportunità, alla luce dei mutamenti del costume sociale, di un sistema successorio che escludesse dalla successione fratelli e sorelle naturali a beneficio di parenti legittimi anche molto lontani, ritenendo tuttavia eccedente i propri poteri un giudizio di bilanciamento tra i diritti conseguenti ad una situazione di mera consanguineità, quale è quella cui viene ricondotto il rapporto di parentela naturale, ed i diritti riconducibili alla parentela, quale rapporto derivante dall’appartenenza ad una famiglia fondata sul matrimonio(53).
La nuova formulazione degli artt. 74 e 258 c.c., espressione dell’impianto normativo risultante dalla riforma del 2012, orienta in modo diverso l’interpretazione dell’art. 565 c.c. e delle categorie di successibili, dovendosi ricomprendere tra i parenti collaterali anche fratelli e sorelle (già) naturali del de cuius, la cui comune paternità sia stata riconosciuta o accertata giudizialmente(54). Ciò dà luogo ad ipotesi di concorso nella successione ab intestato in precedenza sconosciute al sistema, il che impone particolare attenzione nell’affrontare casi pratici alla luce dei rinnovati principi. Rinnovando le considerazioni svolte nel corso dei precedenti paragrafi, il pensiero va ai casi di successione tra fratelli nati da unioni non coniugali o a seguito dello “stratificarsi” di famiglie ricomposte.
Il mutato quadro normativo di riferimento ha importanti conseguenze anche rispetto alla successione degli ascendenti, sia in tema di diritti dei legittimari, sia per quel che concerne la successione legittima(55).
La legge 151/75, invero, aveva determinato una equiparazione tra filiazione legittima e naturale in linea retta discendente, ma non in linea ascendente, residuando rilevanti differenze, sul piano del trattamento successorio, tra genitori (e ascendenti) legittimi e naturali.
Con riguardo ai diritti dei legittimari, è opportuno segnalare la nuova formulazione dell’art. 536 c.c., norma basilare in quanto individua i soggetti aventi diritto ad una quota di legittima. Ebbene, al primo comma, il legislatore dispone che «le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella successione sono: il coniuge, i figli, gli ascendenti». Quanto a questi ultimi, scompare, rispetto alla precedente formulazione, il riferimento riduttivo agli ascendenti legittimi. Pertanto, può oggi dirsi che gli ascendenti, i quali abbiano riconosciuto persona successivamente deceduta senza figli, hanno diritto ad una quota di legittima nella misura di un terzo del patrimonio del de cuius (art. 538 comma I c.c.) qualora non concorrano con il coniuge del defunto; ove, invece, si verifichi detto concorso, la quota loro riservata è pari ad un quarto ex art. 544 c.c.
Di particolare interesse sono, altresì, le conseguenze della riforma in materia di vocazione legale. La norma dell’art. 578 c.c. ammetteva la successione del genitore naturale al figlio premorto senza prole né coniuge; tuttavia, con una intricata progressione normativa, precisava che, in caso di riconoscimento da parte di entrambi i genitori, l’eredità sarebbe spettata a ciascuno di essi; ove però uno solo dei genitori avesse legittimato il figlio, il genitore naturale sarebbe stato escluso dalla successione. In tal modo, ancora una volta, il legislatore sanciva la prevalenza della parentela legittima su quella naturale, lasciando irrisolti peraltro gravi problemi di ordine pratico, quale quello relativo alla sorte dell’eredità nel caso in cui il genitore “legittimante” vi avesse rinunziato. La disposizione in oggetto risulta oggi abrogata; i principi che regolano la successione del genitore naturale sono comuni a quelli relativi alla successione del genitore legittimo (art. 568 e 571 c.c.), ovviamente nei casi in cui la filiazione sia stata riconosciuta o accertata giudizialmente.
Quanto invece agli ascendenti naturali, nessun diritto era previsto per gli stessi dalla precedente normativa. Nel delineare le categorie di successibili ex lege, l’art. 565 c.c. prevedeva i soli ascendenti legittimi; l’art. 582 c.c. chiariva l’entità delle quote in caso di concorso del coniuge con ascendenti, fratelli e sorelle, stabilendo che «al coniuge sono devoluti i due terzi dell’eredità se egli concorre con ascendenti legittimi o con fratelli e sorelle anche se unilaterali ovvero con gli uni e con gli altri …». Nel silenzio del legislatore, nonostante i tentativi di parte della dottrina(56)di poter riconoscere elementi a supporto della successione dell’ascendente naturale dalla disciplina dettata in materia di alimenti (art. 433 c.c.) e di rappresentazione (art. 467), l’orientamento prevalente escludeva che gli ascendenti naturali avessero titolo a succedere(57). Ancora una volta risultava determinante il principio di relatività del riconoscimento come sancito dall’art. 258 c.c.(58)
L’eliminazione, imposta dalla riforma del 2012, di ogni discriminazione tra figli legittimi e naturali, nonché l’esistenza di un legame di parentela rispetto a questi ultimi, ha portato alla riformulazione delle anzidette impostazioni ermeneutiche, dovendosi riconoscere oggi la possibilità di concorso ex lege alla successione del discendente premorto anche degli ascendenti naturali.


(1) M. SESTA, «L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari», in Fam. e dir., 2013, 3, p. 231 e ss.

(2) Cfr. M. DOSSETTI, in Il diritto delle successioni, Successione e diritti del coniuge superstite e del convivente more uxorio, diretto da Bonilini, p. 1 e ss.

(3) P. FORCHIELLI, «Aspetti successori della riforma del diritto di famiglia», in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1975, p. 1013.

(4) B. DE FILIPPIS, «La nuova legge sulla filiazione. Una prima lettura», in Fam. e dir., 2013, 3, p. 291.

(5) Sul punto, B. DE FILIPPIS, op. cit., p. 291.

(6) M. DOSSETTI, op. cit., p. 9.

(7) Sul punto, C. COPPOLA, I diritti di abitazione e d’uso spettanti ex lege, in Il diritto delle successioni, Successione e diritti del coniuge superstite e del convivente more uxorio diretto da Bonilini, p. 51 e ss.

(8) G. AZZARITI e A. IANNACCONE, «Successioni dei legittimari e successioni dei legittimi», in Giur. sist. diretta da W. Bigiavi, Torino 1997, p. 99 e ss.

(9) Cass. 12 giugno 2014, n. 13407, attualmente inedita.

(10) Corte d’Appello di Venezia 14/06/1984, in Giur. it. 1986, I, 2, p. 28; Tribunale Foggia 30/01/1993, in Giust. civ ., 1993, I, p. 1652.

(11) E. PEREGO, «I presupposti della nascita dei diritti di abitazione e di uso a favore del coniuge superstite», in Riv. dir. civ., 1980, p. 707 e ss.; L. MENGONI, Successioni per causa di morte, Parte speciale, Successione legittima in Trattato Cicu Messineo, Milano 1999, 176; A. PALAZZO, Le successioni, I, in Trattato Iudica - Zatti, Milano 2000, p. 469.

(12) G. BONILINI, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2003, p. 124; A. RAVAZZONI, «I diritti di abitazione e di uso a favore del coniuge superstite», in Dir. fam. pers., 1978, p. 243; E. CANTELMO, «La situazione del coniuge superstite», in Rass. dir. civ., 1980, p. 53; M. COSTANZA, «Osservazioni in tema di successione del coniuge separato», in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1978, p. 750 e ss.

(13) F. FERRANDO, Il matrimonio, in Trattato Cicu Messineo, Milano, 2002, p. 185 e ss.

(14) Cfr. F. GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, p. 5 e ss.

(15) Per un’ampia analisi sull’argomento, C. COPPOLA, La successione del convivente more uxorio, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, diretto da Bonilini, III, La successione legittima, Milano, 2009, p. 47 e ss; C. COPPOLA, La successione del convivente more uxorio , in Il diritto delle successioni, Successione e diritti del coniuge superstite e del convivente more uxorio , diretto da Bonilini, Torino, 2004, p. 379 e ss: M. DOGLIOTTI, Famiglia di fatto , in Dig. dic. priv ., sez. civ ., VIII, p. 190; A. SPADAFORA, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata , Milano, 2001, p. 22 e ss; G. PALERMO, «Convivenza more uxorio e famiglia naturale», in Giur. it ., 1999, p. 1908 e ss.

(16) C. COPPOLA, La successione del convivente more uxorio, cit., p. 47 e ss.

(17) Cfr. Cass., 12 luglio 2011, n. 15301, in Giust. civ., 2011, 11, p. 2582; Cass., 30 maggio 2008, n. 14481, in Giust. civ. Mass ., 2008, 5, p. 842.

(18) C. COPPOLA, La successione del convivente more uxorio, cit., p. 47 e ss.

(19) Cfr., C. COPPOLA, La successione del convivente more uxorio, in Il diritto delle successioni ..., cit., p. 379 e ss.

(20) In Foro it., 1980, I, c. 1564.

(21) In Giur. cost., 1988, p. 1789; Giust. civ., 1988, I, p. 1654.

(22) Cfr. C. COPPOLA, La successione del convivente more uxorio, in Il diritto delle successioni ..., cit. p. 379 e ss. L’autrice sottolinea come il bisogno abitativo costituisca altresì ratio di ulteriore riconoscimento dei diritti lato sensu successori del convivente, questa volta in materia di alloggi di edilizia residenziale pubblica (ossia, secondo la definizione del D.P.R. 1035/72, gli alloggi costruiti o da costruirsi da parte di enti pubblici a totale carico o con il contributo dello Stato). Trattasi di tipologia abitativa sottratta alla legge sull’equo canone, e come tale non soggetta alla previsione dell’articolo 6 della legge 382/1978. Ebbene, in materia, l’art. 12 del D.P.R. 1035/72 prevede che in caso di decesso del concorrente, abbiano diritto ad ottenere l’assegnazione dell’alloggio, purché conviventi con l’aspirante assegnatario al momento della sua morte, e inclusi nel nucleo familiare al momento della domanda, nell’ordine coniuge, figli legittimi, naturali riconosciuti, adottivi, affiliati, ascendenti in primo grado. La figura del convivente more uxorio, il quale abbia stabilmente convissuto con l’aspirante assegnatario almeno due anni anteriori al bando per l’assegnazione, viene inserita in questo elenco in forza della delibera del Cipe adottata nel 1981 in conformità all’art. 2, comma 2, n. 2 della legge 457/1978.

(23) Trib. Roma, 21 marzo 1988, in Giur cost., 1989, II, p. 474.

(24) Corte Costituzionale pronunzia n. 310 del 26 maggio 1989, in Foro it. 1991, I, p. 446; in Vita not. 1989, p. 82.

(25) La sentenza è pubblicata in Giur. it., 1999, p. 279; Foro it. 1998, I, c. 392; Nuova giur. civ. comm., 1999, I, p. 87.

(26) In Giur. cost., 2000, 6.

(27) In Giur. cost., 2009, 2, p. 779; Foro it., 2010, 3, p. 796, Giust. civ. , 2009, 4-5, p. 817.

(28) In argomento, A. AMBANELLI, «Convivenza more uxorio: il risarcimento dei danni per la morte del convivente», in Fam. pers. e succ., 2006, p. 251 e ss.

(29) Per tutte, Cass., 28 marzo 1994, n. 2988, in Resp. civ. e prev ., 1995, p. 564.

(30) Corte d’Appello Firenze 29 aprile 1996, inedita.

(31) In giurisprudenza, contraria all’ammissibilità del vincolo testamentario di destinazione è stata la pronunzia del Tribunale di Roma 18 maggio 2013, in Notariato, 2014, 1, cui sia consentito rinviare anche per il commento di C. ROMANO, «Vincolo testamentario di destinazione ex art. 2645-ter c.c.: spunti per ulteriori riflessioni».

(32) Si potrà, altresì, provvedere in vita alla stipula di un contratto di assicurazione sulla vita a beneficio del proprio convivente, sì da consentire a questi il conseguimento di una somma di denaro alla morte del contraente.

(33) Negli Stati Uniti d’America si registra la percentuale più alta di seconde unioni, dato che circa la metà dei matrimoni coinvolge soggetti reduci da precedenti matrimoni ed oltre il 10% delle nuove nozze rappresenta, almeno per uno dei coniugi, la terza esperienza coniugale. Nei Paesi anglosassoni si parla di “stepfamily”.

(34) Sul piano giuridico, il matrimonio tra genitore biologico e nuovo coniuge determina il sorgere di un vincolo di affinità tra quest’ultimo ed il figlio dell’altro coniuge, con conseguenze sul piano degli impedimenti matrimoniali (art. 87 n. 4 e n. 5 c.c.), nonché sulla legittimazione a proporre istanza di interdizione o inabilitazione (art. 417 c.c.), e per l’istituzione di amministratore di sostegno (art. 406 c.c.).

(35) F. PADOVINI, I diritti successori dei figli: problemi aperti, in Quaderni del Notariato, Genitori e figli: quali riforme per le nuove famiglie, a cura di E. Ferrando e G. Laurini, Milano, 2013, p. 131.

(36) Sul punto, sia consentito rinviare a C. ROMANO, «I riflessi successori della riforma della filiazione naturale», in Notariato, 2014, 2.

(37) B. DE FILIPPIS, op. cit., p. 291.

(38) L’espressione è di A. GRAZIOSI, «Una buona novella di fine legislatura: tutti i figli hanno eguali diritti, dinanzi al Tribunale Ordinario», in Fam. e dir., 2013.

(39) M. BIANCA, «L’uguaglianza dello stato giuridico dei figli nella recente legge n. 219 del 2012», in Giust. civ., 2013, 5-6, p. 205.

(40) Cfr., sul punto, V. CARBONE, «Riforma della famiglia: considerazioni introduttive», cit., p. 225 e ss.

(41) Cfr. C.M. BIANCA, Diritto civile, II, Milano, 2001, p. 16.

(42) Cfr. V. SANTARSIERE, «Le nuove norme sui figli nati dal matrimonio. Superamento di alcuni aspetti discriminatori», in Giur. mer., 2013, 3, p. 522.

(43) Il principio di relatività aveva le proprie radici nel Codice del 1865, il cui art. 182 così prevedeva: «Il riconoscimento non ha effetto che riguardo a quello dei genitori da cui fu fatto e non dà al figlio riconosciuto alcun diritto verso l’altro genitore».

(44) Cfr. A. CICU, Successioni per causa di morte. Parte generale, in Tratt. di dir. civ. e comm. diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1961, p. 111.

(45) Corte Costituzionale n. 79 del 14 aprile 1969, in Giur. it., 1969, I, c. 1220; in Foro it. 1969, I, p. 1033.

(46) Cfr. C.M. BIANCA, Diritto civile, II, La famiglia. Le successioni, Milano, 1985, p. 519; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 2009, tomo I, p. 208.

(47) G. PRESTIPINO, Delle successioni in generale, artt. 456 - 535 , in Comm. cod. civ. diretto da De Martino, Novara, 1982, p. 158.

(48) L. CARRARO, «Parentela e vocazione a succedere dei fratelli naturali», in Riv. dir. civ., 1980, I, p. 218; C. GRASSI, «Operatività della rappresentazione a favore dei discendenti di fratelli naturali», in Familia, 2003, p. 240; F. PROSPERI, «Ambito della rilevanza della parentela naturale e successione tra fratelli», in Rass. dir. civ., 1980, p. 1119.

(49) Cfr. sul punto, G. FERRI, Successioni in generale, in Comm. cod. civ., cit., p. 207; A. CICU, op. cit., 1968, p. 112; E. PEREGO, La rappresentazione, in Tratt. dir. priv. diretto da Rescigno, V, I, Torino, 1997, p. 123.

(50) Cfr. G. CAPOZZI, op. cit., p. 623.

(51) Corte Costituzionale, 4 luglio 1979, n. 55, in Foro it., 1980, I, 1, c. 908; in Giur. it. 1980, I, 1, c. 1121.

(52) Corte Costituzionale, 12 aprile 1990, n. 184, in Rass. dir. civ ., 1991, p. 421.

(53) Corte Costituzionale, 7 novembre 1994 n. 377, in Fam e dir., 1995, p. 5 e ss.

(54) Cfr. N. ROTONDANO, L’incidenza della legge n. 219/2012 sul sistema delle successioni e delle donazioni, Relazione al Convegno tenutosi presso il Tribunale di Napoli in data 06 giugno 2013.

(55) Cfr. F. PADOVINI, op. cit., p. 131, il quale nota come «l’eliminazione dello iato tra figli legittimi e naturali comporta anche un ampliamento, per dir così, inverso dei chiamati alla successione di un figlio naturale, ricomprendendovi gli ascendenti, che potranno essere naturali, oltrechè i fratelli e le sorelle e, più in generale, tutti gli altri parenti».

(56) Cfr. L. CARRARO, La vocazione legittima alla successione, Padova, 1979, p. 166.

(57) In argomento, cfr. G. CATTANEO, La vocazione necessaria e la vocazione legittima , in Tratt. dir. priv. diretto da P. Rescigno, Torino, 1997, p. 497.

(58) M. RONCHI, La successione legittima, cit., p. 844.

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