Il contributo della prassi notarile alla evoluzione della disciplina delle situazioni reali - PREFAZIONE
PREFAZIONE
Innanzi tutto, un ringraziamento e un compiacimento.
Il ringraziamento, sincero, vivissimo, va al dottor Massimo Palazzo, Presidente della ‘Fondazione italiana del Notariato’, per l’invito a presiedere questo Convegno e che altamente mi onora.
Il compiacimento è duplice.
In primo luogo, per quel che questa riunione di studio significa ai miei occhi sotto il profilo culturale. Io la interpreto, infatti, come una assunzione di responsabilità da parte di quel pratico ben innervato nel viluppo dell’esperienza giuridica, che è oggi il notaio. Nel momento che stiamo vivendo e che consiste in una transizione rapidissima e in mutazioni profonde nell’ordine giuridico; nel momento attuale, caratterizzato da una fattualità intensa, con i fatti - sociali, economici, tecnici - che si evolvono veloci senza che le norme ufficiali, per impotenza o sordità del legislatore, rièscano a ordinarli, il notaio, che è al cuore della applicazione del diritto, non può ridursi a ripetitore di formulette tralatizie eludendo il suo compito di interprete.
Essendo collocato, al pari del giudice (e dello scienziato quando questi sia consapevole della indefettibile carnalità del diritto), nella estrema trincea dove i cittadini chiedono soluzioni immediate per i loro problemi, egli non potrà sottrarsi al dovere elementare di corrispondervi; e vi corrisponderà unicamente se, accanto all’esegesi delle norme, egli si farà concretamente interprete, cioè mediatore tra fatti sopravvenuti e diritto ufficiale, o addirittura inventore.
Poiché questa impegnativa qualifica potrà sorprendere e preoccupare, tengo a precisare che dico inventore, pensando al significato del latino invenire, trovare; trovare, cioè, la soluzione tecnica adeguata a ordinare la fattispecie che ha di fronte, percorrendo due strade: o trasfigurare vecchi arnesi del laboratorio giuridico dando loro un vigore nuovo e anche diverso, o, di fronte alla carica intrinsecamente normativa di taluni fatti, conferir loro un conio tecnico scovando appoggi e coperture formali all’interno dell’universo giuridico ufficiale. Prima o poi, presto o tardi, bene o male, come è stato per il trust di cui si parlerà tra breve, interverrà il legislatore.
In questi casi, il notaio, senza che lui lo voglia, forte solo della propria perizia tecnica e della propria disponibilità all’ascolto della storia (che è storia minuta, umile, non rumorosa, ma che è la nostra storia quotidiana), fa un autentico salto di piano: l’applicatore diventa facitore di diritto; di più, facitore di pensiero giuridico. Non pensate che lo affermi pubblicamente oggi, perché ho di fronte una platea di illustri notai. Chi vi parla, che ha insegnato per tanti decennii la storia del diritto nella Facoltà giuridica fiorentina, ricorda con piacere quando, invitato nel lontano 1988 a redigere la ‘voce’ Pensée juridique per un Dictionnaire encyclopédique de théorie du droit, non esitai a scrivere che il pensiero giuridico, ossia il più elevato livello di teorizzazione scientifica, non è monopolio di istituti universitarii o, comunque, accademici, ma che, al contrario, officine assai fertili sono stati e possono tuttora essere gli ufficii di organi giudiziarii o gli studii professionali di avvocati e notai; ed erano proprio le vicende della scienza giuridica dallo ius commune ai giorni nostri a dàrmene piena conferma.
Vorrei aggiungere - e solo per testimoniarvi la mia ferma convinzione - che è - questa - una elementare verità da me ripetuta nel 2002, quando, invitato, insieme al compianto amico Giuliano Vassalli, da Francesco Palazzo, allora Presidente, a tenere la prolusione per l’anno accademico della fiorentina ‘Scuola di specializzazione nelle professioni legali’, io identificai il tempo storico tra la fine del secondo millennio e i primi anni del terzo, come il trionfo della prassi; mi sembrava cioè che fosse l’officina della prassi a salvare il diritto nella crisi profonda derivante dallo scollamento fra ufficialità - sempre più, o assente, o sterile - e il magma ribollente - ribollente di vita - dell’esperienza quotidiana.
Ho detto, però, più sopra che il compiacimento è duplice; ce n’è, infatti, un secondo, ed è per la avvedutissima scelta del tema della odierna giornata, consistente in una opportuna messa a fuoco sulle trasformazioni (o, per meglio dire, sulle sostanziose alterazioni) di un modello sette/ottocentesco di proprietà privata individuale collocato da illuministi e giacobini in una sorta di sacrario e lì conservato gelosamente con il contributo determinante dello zelo di parecchi giuristi. Un modello che, in quanto collegato strettamente alla libertà dell’individuo (espressione e salvaguardia di quella) non poteva non serbarsi immutabile nelle sue definizioni originarie contenute nelle Déclarations rivoluzionarie e negli articoli del Codice napoleonico, immutabile per la sua pregnanza essenzialmente etica.
Due qualificazioni apparivano, fino a ieri, ripugnanti alla concezione che chiamerò - per intenderci - paleo/borghese: ‘comune/collettiva’ e ‘funzionale’. Metterei da parte la prima, che non ci interessa in questo nostro Convegno, anche se non si è mai parlato tanto come oggi di proprietà comune e di proprietà collettiva (quam mutatum ab illo! Se penso che il mio non dimenticato Maestro di ‘diritto civile’, Salvatore Romano, non esitava ad affermare che, ove si parlasse di proprietà collettiva, il sostantivo sarebbe male usato trattàndosi di figura giuridica sicuramente non/proprietaria).
Ci preme, invece, e non poco, l’altra qualificazione: ‘funzionale’, respingibile - e drasticamente respinta - da chi pretendeva di lasciare la proprietà nel suo sacrario di purezza civilistica, giacché ‘funzionale’ era aggettivo che riconduceva l’esercizio del potere non solo nell’interesse del titolare, ma anche di altri, o interamente di altri, o della sfera pubblica, inquinando pubblicisticamente la natura di quel potere.
Durante il Novecento, secolo pos-moderno, c’erano state voci coraggiose che erano suonate disarmoniche rispetto alla grande maggioranza e che avevano ricevuto la condanna dell’esilio. Il mio caro Maestro Enrico Finzi, in una memorabile Relazione al Primo Congresso nazionale di Diritto agrario del 1935, si era messo sulla strada di una deliberata dissacrazione, analizzando l’istituto non più dall’alto del soggetto titolare ma dal basso della cosa e cercando, altrettanto deliberatamente, di dargli una dimensione squisitamente pubblicistica trapiantando, per caratterizzare i poteri proprietarii, categorie elaborate dalla scienza pubblicistica come quella di ‘potere discrezionale’ e quella di ‘interesse legittimo’. E ci fu chi, nel 1939, in seno a un volume collettaneo sulla concezione fascista della proprietà privata, valorizzando le diverse qualità delle diverse cose, parlò di conseguenti diversi statuti proprietarii, come Filippo Vassalli, anticipando una conclusione pluralistica che Salvatore Pugliatti avrebbe consolidato negli anni Cinquanta. E ci fu anche chi, come Francesco Ferrara senior, parlò esplicitamente - nella stessa sede - di ‘proprietà/funzione’.
Il modello, grazie anche ad abili supporti mitologici, appariva allora troppo duro per essere scalfito. Oggi, sono i notai, dalla loro trincea fronteggiante i nuovi fatti economici e tecnici, a farsi carico di una riflessione, che, messe da parte le alate astrattezze di un tempo, constata (e lo segnalano apertamente i titoli di alcune odierne Relazioni) nella effettività della esperienza attuale ‘proprietà destinate’ e ‘proprietà funzionalizzate’, ma altresì - e qui è il titolo dell’intiero Convegno a segnalarlo - una evoluzione nella concezione e sistemazione dei diritti reali, nella quale un non minimo contributo si è avuto proprio in grazia di una incisiva prassi notarile.
Questa odierna riflessione corale, nella quale sono impegnati docenti universitarii e notai, mi sembra la dimostrazione della precisa volontà della comunità notarile di corrispondere ancora una volta al ruolo attivo e determinante che la società civile italiana le attribuisce.
Paolo Grossi
Emerito, Università di Firenze Giudice della Corte Costituzionale
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