Notariato e scienza del diritto: riflessioni in tema di proprietà nel secondo Novecento
Notariato e scienza del diritto: riflessioni in tema di proprietà nel secondo Novecento(1)
di Irene Stolzi
Professore associato di Storia del diritto medievale e moderno, Università di Firenze

Dopo il 1945: tra codice e costituzione

Più che all’esame di specifici versanti rispetto ai quali si è potuta apprezzare la peculiarità dell’apporto notarile nel determinare fisionomia ed evoluzioni di singoli istituti e fattispecie, le pagine che seguono vorrebbero assumere il punto di vista - più congeniale alla formazione storico-giuridica di chi scrive - del dialogo tra Notariato e scienza del diritto. Per verificare se possa registrarsi uno sviluppo sincrono, parallelo, tra le riflessioni del Notariato e quelle della scienza giuridica in tema di trasformazioni del diritto di proprietà e, allo stesso tempo, per vedere se e come simili riflessioni si siano combinate con corrispondenti processi di ripensamento del proprio ruolo e della propria identità professionale. Si tratta, come è facile immaginare, di un primo sondaggio, che non ha alcuna pretesa di esaustività ma che mira, più modestamente, a offrire qualche osservazione in ordine sparso all’interno di un territorio teorico di estrema complessità.
Sotto un simile profilo, la scelta del secondo dopoguerra come dies a quo deriva da ragioni intuitive alle quali è sufficiente fare un rapido cenno: sulle macerie del regime e della tragedia bellica, ad aprirsi è infatti una stagione che sollecita (anche) gli operatori del giure - quale che fosse la loro vocazione preminente, pratica o teorica - a riflettere congiuntamente sulle coordinate complessive dell’ordine giuridico, non meno che sulla propria funzione. In particolare, allo sguardo dell’osservatore si offre un panorama che rende sempre più difficile raffigurare, al modo tradizionale, la dialettica tra privato e pubblico, tra società e Stato, tra diritto, politica ed economia, quale esito di un’interazione armonica tra universi autonomi e tendenzialmente non interferenti. Del resto, i diffusi riferimenti alla crisi (delle fonti, del diritto privato, del diritto pubblico, del diritto tout court) testimoniano in modo eloquente la percezione del cambiamento, se è vero che parlare di crisi è sempre il modo per stilare un bilancio, per interrogarsi sulla perdurante attitudine delle risorse ermeneutiche note a contenere e fronteggiare le sfide regolative poste da una realtà in vertiginosa evoluzione. Non si tratta, beninteso, di un riferimento nuovo; crisi è infatti un termine che inizia a circolare insistentemente nel lessico giuridico dagli inizi del Novecento e che tuttora - si perdoni il bisticcio - non sembra conoscere crisi. Di sicuro, però, all’indomani della Liberazione esso tende a diventare l’incipit quasi obbligato di ogni riflessione che abbia a oggetto il diritto; e questo probabilmente avviene perché a farsi strada fu la convinzione che i fenomeni di crisi censiti non fossero destinati a dissolversi in tempi brevi. Diventava, cioè, sempre meno pervio asserire l’eccezionalità di quei processi di osmosi tra privato e pubblico, tra giuridico, politico ed economico, che la Costituzione elevava a caratteristica fondativa della nuova convivenza repubblicana e che trovavano significativi precipitati nello stesso tessuto normativo.
La proprietà non sfugge - o almeno: non può sfuggire a lungo - agli stimoli offerti dalla nuova temperie storica. Istituto cruciale ben oltre il territorio del diritto civile, la proprietà gioca, come noto, un ruolo di spicco nella costruzione del moderno giuridico: collocata in una dimensione ultrapatrimoniale (è forse l’unico diritto a esser definito sacro da alcune carte dei diritti settecentesche)(2), considerata, come ugualmente noto, il sinonimo più calzante della libertà individuale, di una libertà che trovava proprio nella declinazione volontaristico-potestativa attribuita al dominio il suo principale terreno di esplicazione, la proprietà ha rappresentato una decisiva cerniera tra libertà (e virtù) civili e politiche. Emblema dell’ottimo padre di famiglia, di quell’operosità lungimirante tipica di chi sa pensare al futuro dei propri figli, il proprietario è considerato il soggetto socialmente affidabile per eccellenza, il baluardo più sicuro dell’ordine, e, per tali ragioni e per molto tempo, praticamente l’unico a essere ammesso all’esercizio del voto.
Chiaramente, questa visione della proprietà, consacrata dai codici ottocenteschi, aveva già subito importanti cedimenti nella prima metà del XX secolo: il complesso normativo nato negli anni del primo conflitto mondiale, la Costituzione di Weimar (art. 153, terzo comma: «La proprietà obbliga. Il suo uso, oltre che al privato, deve essere rivolto al bene comune»), le aspirazioni palingenetiche ostentate, almeno sulla carta, dal regime fascista, pur rappresentando, come è evidente, vicende storiche non assimilabili, costrinsero in ogni caso i giuristi a misurarsi con la prospettiva della c.d. funzionalizzazione dei diritti soggettivi, con la possibilità che l’esercizio dei diritti individuali potesse essere convertito in strumento tenuto a (e capace di) realizzare (anche) interessi ultraindividuali. Tuttavia, se si escludono alcune rilevanti eccezioni - due nomi su tutti, per limitare lo sguardo all’Italia: Enrico Finzi e Lorenzo Mossa - a risultare prevalente nella scienza giuridica italiana infrabellica fu il tentativo di riportare, sovente al prezzo di complesse acrobazie argomentative, le novità registrate nel solco delle immagini tradizionali, tradizionalmente volontaristiche, della privatezza e del diritto di proprietà in specie(3).
L’incontro col nuovo tempo storico non poteva però essere rinviato sine die; ad esprimere una decisa inversione di rotta fu innanzi tutto il testo della Costituzione, sebbene la distinzione, inaugurata dalla giurisprudenza e recepita da buona parte della dottrina, tra norme precettive e norme programmatiche, tra norme costituzionali, cioè, ritenute suscettibili di immediata applicazione e norme viceversa ritenute bisognose di specifica traduzione legislativa, abbia inizialmente contribuito a misconoscere l’intima unità del progetto tracciato dal costituente. Sarà soprattutto dalla fine degli anni Cinquanta che la Carta costituzionale inizierà a diventare un testo rilevante per lo stesso immaginario del privatista, uno dei varchi incaricati di riscrivere il perimetro tradizionale del diritto civile e, insieme a esso, di ripensare ruolo e funzione del giurista. Da un simile punto di vista, la Carta repubblicana rilevava non solo e non tanto per quelle disposizioni che espressamente richiamavano la funzione sociale della proprietà (art. 42), o che collegavano l’esercizio di proprietà e iniziativa privata alla realizzazione di finalità socialmente apprezzabili (artt. 41, 43, 44, 45). A rilevare era piuttosto l’impianto complessivo di un testo che ambiva a disegnare un progetto di convivenza lontano dalle astrattezze ottocentesche e nutrito dalla relazione costante, necessaria, tra società e Stato, tra attori privati e pubblici, era l’impianto di una norma che aspirava a cogliere e collocare tutte le presenze giuridicamente rilevanti (lo Stato, le società intermedie, gli individui) in una tela complessa di interazioni e aspettative, di diritti e doveri, reputati tutti ugualmente necessari a disegnare la trama pluralistica delle democrazie contemporanee e i valori che ne avrebbero dovuto ispirare la vita.
Ma anche il più risalente codice civile del 1942 non appariva un testo privo di rilievo, incapace, come tale, di segnare alcune importanti discontinuità rispetto al precedente codice del 1865. Per varie ragioni. Perché l’art. 832, nel definire i poteri del proprietario, conteneva un espresso riferimento agli obblighi dello stesso; perché il nuovo codice si nutriva di un rapporto non episodico con la legislazione speciale: sia che rinviasse massicciamente a essa, sia che ne includesse interi tronconi nelle proprie maglie (per es. in materia di bonifica e di vincoli idrogeologici), in entrambe le ipotesi si trattava di norme che spesso tendevano a legare l’esercizio del diritto di proprietà alla realizzazione di interessi sociali o pubblici; perché le esigenze della produzione si affacciavano quale criterio atto a temperare le «ragioni della proprietà» in materia di immissioni (art. 844) o addirittura quale riferimento capace di determinare l’espropriazione del diritto in capo al proprietario neghittoso (art. 838) o comunque di condizionare complessivamente l’assetto del dominio (si pensi alla minima unità colturale, ai consorzi di ricomposizione fondiaria, ai trasferimenti coattivi); ma soprattutto perché si era di fronte a un testo che anche attraverso il richiamo al lavoro e all’impresa, alle sue differenti forme di organizzazione, mostrava di prendere le distanze da un’idea di diritto civile ridotto alla mera «contemplazione di rapporti atomistici tra patresfamilias»(4).
Mi hanno sempre colpito, al riguardo, alcune osservazioni di Filippo Vassalli, che del codice fu il principale artefice; in un ampio saggio, l’autore, nell’intento di illustrare (e di difendere) il ‘proprio’ codice affiancava due motivi (apparentemente) molto lontani.
«Certo - sosteneva - il codice parla ancora di proprietà come d’un diritto della persona. Ma qui conviene, una volta per tutte, render chiaro che se si rinuncia a codesto diritto si può anche fare a meno del codice civile, tutt’intero ... Il diritto civile è ... la disciplina della vita dell’uomo nei rapporti determinati dalla procreazione, dalla società coniugale e dall’attività economica. Questa disciplina nei nostri ordinamenti sociali, poggia tutta, immediatamente o mediatamente, sul riconoscimento della proprietà individuale. Il diritto di proprietà è il mezzo più efficace e più diffuso per convogliare il lavoro umano verso le cose e, quindi, per assicurare la produttività delle medesime: fuori d’un tal regime lo sfruttamento dei beni non potrebbe essere altrimenti assicurato che mediante una divisione degli uomini in condannati al lavoro, da una parte, e organizzatori e controllori del lavoro altrui, dall’altra»(5).
Poi, a poche righe di distanza osservava: il codice «mira a dare della vita stessa una disciplina integrale, nella quale i diritti subiettivi s’inseriscono come un elemento nel quadro più complesso e assumono quella figura che meglio ne rivela la riduzione a funzione. Con che siamo a veder configurata nella legge fondamentale del vivere civile una concezione del diritto soggettivo che si distacca nettamente da quella che caratterizza i codici dell’ottocento»(6)e che è ispirata dalla «preoccupazione costante di stabilire un raccordo tra i due momenti, privatistico e pubblicistico, mirando ad assicurare il coordinamento delle attività private, nella residua sfera ad esse eventualmente consentita, con le attività dei complessi politici o con le finalità dei medesimi»(7).
È vero, come da più parti è stato acutamente notato, che il codice civile è una norma che può vivere più di una vita, che presenta cioè alcune parti più legate alla tradizione e altre più in sintonia col nuovo spirito novecentesco; come è vero che esso è stato promulgato in un momento di transizione, ovvero in un momento nel quale le idee tradizionali iniziavano ad apparire obsolete, senza che tuttavia si potesse contare su un corredo sufficientemente chiaro di idee nuove(8). Ma è probabilmente anche vero (o almeno: si tratta di una interpretazione che sembra resa possibile dalla lettura congiunta di codice e costituzione) che tale coesistenza di motivi, più che segnalare una tensione irrisolta o addirittura un’antinomia interna al tessuto codicistico, possa servire a segnare i contorni di una scommessa regolativa che (tuttora) impone di cercare le vie per realizzare un equilibrio, tanto difficile quanto necessario, tra dimensione privata, sociale e pubblica.

Privato o pubblico: tertium non datur

Il Notariato, dal canto suo, sembra che registri puntualmente il cambio di passo, quanto meno sotto due aspetti, distinti ma strettamente legati. Il primo: non vi è praticamente articolo o saggio che non si apra col riferimento al mutato timbro delle relazioni giuridiche private e che non leghi tale mutato timbro a una nuova e più consistente presenza della regolazione pubblicistica in ambito privato. Il secondo aspetto è invece più strettamente legato alla questione proprietaria: i contributi di dottrina notarile vengono infatti organizzati e distribuiti sulla base delle diverse diramazioni intorno alle quali si stava ridisegnando lo stesso statuto proprietario: il transito dal singolare («la proprietà») al plurale («le proprietà»), transito talora argomentato con espresso richiamo alla coeva visione pugliattiana(9), trovava dunque un riscontro importante nella organizzazione delle stesse riflessioni notarili. Del resto, se si scorrono gli indici per argomento delle due Riviste (la Rivista del notariato e Vita notarile) che nascono nell’immediato secondo dopoguerra, si ricava un’indicazione abbastanza univoca in tal senso. Raramente infatti, la casella ‘proprietà’ figura senza ulteriori specificazioni (proprietà edilizia, immobiliare ecc.); allo stesso tempo, approfondimenti rilevanti per ricavare il senso delle trasformazioni del diritto dominicale possono leggersi sotto le altre voci intorno alle quali è organizzato l’indice (obbligazioni, donazioni, successioni, società ecc.) e che sono tutte, direttamente o indirettamente, legate all’acquisto e alla circolazione della proprietà.
Vi sono nondimeno alcune letture che prendono in considerazione nel suo complesso il problema delle evoluzioni del diritto di proprietà; se, ad esempio, si aprono le prime annate della Rivista del notariato, fondata e diretta, nel 1947, dal pugnace Andrea Giuliani, vi si trova più di un contributo che va in questa direzione. A sollecitare l’attenzione del Notariato italiano furono soprattutto i temi scelti dai colleghi francesi per l’organizzazione dei loro convegni annuali. Tre paiono particolarmente significativi, gravitanti, come sono, intorno a un identico nucleo tematico: così nel 1948, i notai d’oltralpe dedicano il loro simposio a Il declino delle nozioni di proprietà e di contratto; nel 1949 a La funzione sociale della proprietà e nel 1952 a L’ingerenza dello Stato nella vita privata: i conflitti tra lo Stato e l’individuo, il dirigismo economico. In particolare, nel 1949, la Rivista del notariato pubblica sia la relazione del Notaio francese Henry Maigret, intitolata La fonction sociale de la proprietè privee(10), sia le relazioni, presentate al medesimo convegno da due notai italiani: quella, dallo stesso titolo, di Vincenzo Baratta(11)e quella firmata da Giovanni Battista Curti Pasini (Lineamenti sommari sulla funzione sociale della proprietà privata nel diritto odierno italiano)(12).
Dall’esame di questi saggi sembrano emergere alcuni motivi costanti; per un verso, infatti, i toni appaiono seriamente preoccupati, a tratti caratterizzati da venature apocalittiche: si parla di «necrosi del diritto di proprietà»(13), o si fa riferimento a una disciplina, tanto codicistica quanto costituzionale, che sembrava essere penetrata «nel vivo delle carni della proprietà privata, mutilandone l’esercizio per una finalità essenzialmente sociale»(14). Non manca neppure qualche laudatio temporis acti, qualche denuncia che, con toni un po’ naïf, tende a legare le insidie della contemporaneità al dilagare della proprietà mobiliare e su beni incorporali, forme di dominio accusate di aver interrotto quel rapporto diretto tra soggetto e cosa che fino ad allora si era potuto esprimere nella amorevole e quotidiana cura delle res oggetto di proprietà(15).
Un altro aspetto che emerge con una certa chiarezza e che vale, con ogni probabilità, a spiegare simili toni, è la tendenza ad aderire all’idea di una divisione nitida, quasi manichea, tra privato e pubblico, tra il privato-individuale e il pubblico-statuale. Il campo giuridico viene cioè tematizzato come lo spazio in cui si realizza questa summa divisio, senza la possibilità di mediazioni o alternative. In tale prospettiva, dunque, ogni ipotesi di apertura ‘sociale’ del diritto privato finiva per essere identificata con la pubblicizzazione delle sue corde, con la ‘cessione’ al pubblico di aree e fattispecie fino a poco prima saldamente ancorate al terreno dell’autonomia privata. Finiva, insomma, per coincidere col mero «trasferimento nel campo pubblicistico di rapporti che tradizionalmente sorgevano, avevano vita e si esaurivano esclusivamente in un limitato ambito di interessi privati»(16). Non sorprende pertanto che simile «tendenza a trasferire nell’ambito del diritto pubblico il regolamento della proprietà privata»(17)venisse considerata, più «come conseguenza di orientamenti politici ed economici imposti, che come naturale e fatale portato della evoluzione della coscienza giuridica»(18); né sorprende che si consigliasse la massima «cautela» al legislatore onde evitare che la proprietà diventasse un «diritto affievolito» o un «interesse legittimo»(19).
Ma neppure sorprende il fatto che simili letture delle trasformazioni del diritto di proprietà venissero legate a una questione diversa e ulteriore coinvolgente il ruolo e il futuro della funzione notarile. Dinanzi a un ceto che, nelle sue espressioni più qualificate, era da tempo impegnato a valorizzare il proprio compito di mediazione tra particolare e generale, e, con esso, il senso e il valore di una professionalità non relegabile a «una forma deteriore di tecnicismo giuridico, una sorta di artigianato rispetto all’arte del giure»(20), le rinnovate sembianze della proprietà, e più in generale del diritto privato, facevano temere un regresso del magistero notarile a meri compiti di certificazione della cogente volontà pubblica, di una volontà che sembrava ormai invadere ogni rivolo della privatezza. Più che «formulatore delle leggi dei rapporti privati», più che «redattore originale delle convenzioni delle parti» il notaio sembrava essere chiamato semplicemente ad «adattare la convenzione particolare ad una formula-tipo, elaborata talvolta da lui, ma spesso imposta alla legge, dall’Amministrazione, da determinati organismi e collettività». Così, fatalmente, il notaio «assiste[va] al declino di quelle nozioni nelle quali aveva creduto, con la tristezza e il dispetto che assale chiunque si trovi nella necessità di bruciare ciò che adorava»(21).
Per questo la risposta sembrava essere una sola, e molto radicale: «ci sembra sia dovere … del Notariato non farsi travolgere, sino all’assorbimento, da questa assurda tendenza al dissolvimento dell’iniziativa privata»(22): il notaio «deve tendere, finchè non incontri il blocco granitico della legge, nell’opera e nelle aspirazioni sue, a mantenere integro il concetto del diritto perfetto di proprietà, di fronte a limitazioni o a vincoli che siano troppo facilmente manovrabili dalla pubblica amministrazione … se è persuaso (come tutti i Notai credo lo siano) che la proprietà individuale è la vera proiezione e prosecuzione dell’individuo, ove se ne reprimano gli egotismi e gli abusi, che sono proprio il germe patogeno dell’antisocialità nel possesso dei beni. La proprietà può, deve, anche, in climi sociali determinati e in tempo opportuno, venire compressa, mai soppressa; castigata, non sfigurata, perché inseparabile e caratterizzante nota, umana e sociale … Il Notaio ha sempre servito e servirà ognora il bene pubblico tra privati»(23).

Verso nuove frontiere della privatezza

Se, muovendo da questi presupposti allarmati - «Anche laddove non ha subito la condanna capitale per cedere il posto ai regimi comunisti, essa malamente sopravvive in un ambiente ostile, tra vessazioni e persecuzioni di ogni genere»(24)- si volesse rintracciare una traiettoria evolutiva, coinvolgente tanto la riflessione dei notai quanto la riflessione scientifica sul diritto, essa potrebbe essere, con qualche semplificazione, così compendiata: la percezione di una drastica alternativa tra privato e pubblico, alternativa che imponeva anche al notaio di scegliere ‘da che parte stare’ contribuendo ad allargare il fossato tra il suo volto di libero professionista e quello di pubblico ufficiale, viene progressivamente soppiantata da un’immagine più composita e articolata dell’ordine giuridico, di un ordine che inizia ad apparire strutturato per cerchi concentrici, che dalle posizioni privato-individuali transitava per la dimensione collettiva per arrivare al pubblico-statuale. A essere messa progressivamente a fuoco fu dunque una dimensione non (necessariamente) individualistico-potestativa della privatezza, dimensione cui non si chiedeva soltanto di svolgere un ruolo di intercapedine atto a scongiurare il contatto diretto tra il privato-individuale e il pubblico-statuale, ma che veniva investita di una più importante funzione (pro)positiva. Ad essere riconosciuta, in particolar modo, fu l’attitudine della privatezza a realizzare e promuovere assetti regolativi socialmente apprezzabili, rilevanti, cioè, oltre la sfera giuridica del singolo privato e, come tali, capaci di contribuire alla identificazione e alla realizzazione d’interessi qualificabili come generali.
Significativo, nel segnalare questo importante assestamento di prospettiva, il tenore della relazione presentata dalla delegazione italiana al III Congresso internazionale del Notariato latino nel 1954; un paragrafo di tale relazione, sintomaticamente intitolato «la funzione sociale del notaio», precisa infatti con grande chiarezza il senso attribuito a tale formula, troppo spesso utilizzata in maniera impropria o ritenuta genericamente espressione della crescente importanza della regolazione pubblicistica in materia privata. Parlando di funzione sociale del notaio - si legge nel testo dell’intervento congressuale - non si intendeva tanto «indicare il notaio quale soggetto di diritto pubblico»; piuttosto, attraverso un simile richiamo, ci si «preoccupa[va] di definir[n]e la attività nel campo del diritto privato e sotto il profilo dei diversi interessi collettivi che in questo settore trovano tutela»(25).
E poi una chiosa, decisiva per precisare il senso di quanto appena detto: viene infatti chiarito - e la precisazione è, appunto, fondamentale - come i richiami alla funzione sociale del notaio non potessero essere confusi col riferimento alla funzione sociale dei diritti soggettivi, e della proprietà in specie, ove attraverso tale riferimento si intendesse dare risalto a dati meta- o pregiuridici(26). La funzione sociale, insomma, non era, non doveva essere, l’espressione di un legame, magari aperto a interpretazioni diverse, tra ciò che stava fuori e ciò che stava dentro il diritto, ma doveva al contrario incarnare una frontiera squisitamente giuridica, chiamata a restituire i connotati della giuridicità in un determinato momento storico. E simile chiosa era decisiva proprio perché - contrariamente alle apparenze - non mirava a comprimere lo spazio riservato alla funzione sociale dei diritti e degli operatori chiamati a metterla a fuoco, ma ad accreditarli entrambi quali requisiti imprescindibili dell’ordinamento e di una giuridicità non semplicemente ‘temperata’ o ‘addolcita’ da istanze esterne, variamente denominabili ‘sociali’, ma nutrita, in tutte le proprie corde, da imprescindibili esigenze di contemperamento tra interessi privati, collettivi e pubblici. Col notaio che, nella sua veste di «ago sensibilissimo di una bilancia» (e non mero «compilatore meccanico di documenti»)(27), era tenuto a farsi carico dell’onere di questo necessario e salutare bilanciamento, contribuendo quotidianamente a costruire il volto di un sistema chiamato a ricondurre a equilibrio istanze diverse e talora contraddittorie. A essere posta sul tappeto non era quindi la questione di un’attività praeter o addirittura contra legem dell’interprete e del notaio in specie (il notaio ha «sempre operato all’interno del diritto positivo … non c’è mai stato … un uso alternativo del diritto»)(28); a essere sostenuta (e richiesta con forza allo stesso legislatore) era l’idea di un sistema capace di esprimere, muovendo dal livello legislativo, un tessuto sufficientemente chiaro di regole e principi a partire dai quali valorizzare il ruolo delle presenze chiamate a trasferire, sul piano dei singoli rapporti giuridici, quella scommessa di equilibrio che appariva ormai ineludibile per gli ordinamenti.
Le riviste notarili, anche sotto tale profilo, costituiscono un osservatorio rilevante: dalla metà degli anni Cinquanta, con un crescendo che arriva fino ai giorni nostri, sono molti gli indici che segnalano questa nuova consapevolezza, la consapevolezza di una funzione che non solo doveva stare al centro di processi di mediazione tra Stato e società, ma doveva saper modulare i propri interventi in direzioni capaci di corroborare (anche) il volto socialmente sensibile del diritto privato. Tutela del contraente debole, doveri di informazione, valutazione critica di certe clausole di esonero della responsabilità, rivendicazione del valore eminentemente sostanziale (necessario cioè a garantire la sicurezza del traffico giuridico) della forma di certi atti, rivitalizzazione di istituti, come la permuta, che sembravano destinati a fine certa e che invece si mostravano capaci di collocare sul piano, più robusto, dei diritti reali la posizione del privato(29), rappresentano - o almeno così mi pare - altrettanti sintomi di tale rinnovata consapevolezza del ceto notarile, di un ceto che poteva e doveva assumersi «precise responsabilità» onde evitare che il suo compito si riducesse a intervenire «quando i giochi sono già fatti»(30).
Un ultimo esempio, dei molti possibili: nel 1986 vengono pubblicati, in quattro corposi volumi, gli esiti di un riuscito esperimento di dialogo tra giuristi teorici e Notariato sul tema de La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive(31). Tra i vari contributi presenti, mi limito a menzionare quello di Pier Gaetano Marchetti che, nell’esaminare volto e funzione delle società immobiliari, rilevava puntualmente come simili figure, se mendate dai loro aspetti speculativi, potessero concorrere a innescare un circuito virtuoso, capace di farsi carico della realizzazione e della soddisfazione di rilevanti interessi sociali (stimolare la costruzione di nuovi immobili, identificare nuovi ceppi patrimoniali per i fondi pensionistici ecc.) «non più affidandosi solo all’iniziativa pubblica, ma riscoprendo l’impresa: un’impresa tuttavia a proprietà diffusa in cui la speculazione a breve dovrebbe rappresentare un obiettivo che cede di fronte alla prospettiva a medio-lungo periodo della stabilità dell’investimento di chi all’impresa stessa fornisce capitale di rischio»(32).
Non è probabilmente casuale - e così riprendo il tema iniziale di queste pagine - che la stessa riflessione teorica, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, avvii un processo di ripensamento di alcune nozioni, come quella di funzione, che pur essendo state variamente interpretate e tematizzate, tendevano tuttavia a essere identificate con ipotesi di commistione di elementi giuridici con elementi (sociali, etici, economici) estranei al mondo del diritto. Né appare casuale che, sulla scorta di tali assestamenti di rotta, una figura diabolica, come quella di abuso del diritto, venisse riammessa nel perimetro di lavoro del giurista su presupposti sensibilmente diversi rispetto ai passati. A sostenere queste rilevanti evoluzioni interpretative, pur facenti capo ad autori diversissimi, sembra tuttavia che stesse l’identico tentativo di vedere nel concetto di funzione una nozione coessenziale alla stessa definizione del diritto, e non l’esito di un ponte gettato tra giuridico e non-giuridico. Stava insomma l’idea che fosse possibile (e doveroso) rintracciare una funzione tipica degli istituti giuridici, di tutti gli istituti, anche di quelli sorti nel grande terreno della atipicità, se era vero che il diritto poteva realizzare appieno la sua vocazione ordinativa solo accettando di esprimere e comporre il plesso multiforme di interessi e istanze che concorrevano a disegnare il volto delle società contemporanee. Che era poi il modo che permetteva di riammettere nel perimetro del lavoro giuridico la questione, lungamente schivata, del (necessario) rapporto tra diritto e valori e di rendere la stessa Costituzione, la tavola dei valori della nuova convivenza democratica, un testo centrale anche per l’ideario del privatista(33).
Con alcune conseguenze rilevanti cui conviene dedicare qualche osservazione conclusiva; in primo luogo, una simile concezione del diritto conduceva a rivalutare la funzione dell’interprete, quale che fosse la sua vocazione preminente, pratica o teorica: non più visto soltanto come forza evolutiva, come soggetto tenuto a garantire che il tessuto normativo si adeguasse allo spirito dei tempi, né visto soltanto come il soggetto chiamato a fare ordine all’interno di una selva crescentemente inestricabile di precetti, l’interprete viene considerato come una delle presenze indispensabili, fisiologicamente indispensabili, per contribuire a definire il volto di un sistema giuridico e dei molteplici equilibri chiamati a tracciarne la fisionomia. Che sovente a finire sul banco degli imputati fosse il legislatore non sorprende più che tanto: a essere diffusamente criticate, dai giuristi teorici come dai pratici, erano infatti le fattezze di un tessuto legislativo ipertrofico, pulviscolare, caratterizzato da frequenti sciatterie e improprietà terminologiche; non basta: a destare preoccupazione erano, ben più consistentemente, i tratti di un complesso normativo che spesso appariva ispirato a principi contraddittori, non facilmente riconducibili a un’ispirazione unitaria e pertanto incapaci di segnare il perimetro di lavoro dello stesso interprete, del soggetto chiamato a nutrire dall’interno, incessantemente, le fibre del sistema giuridico. In questo quadro ricostruttivo, la stessa funzione notarile inizia ad essere raffigurata attraverso riferimenti concettuali nuovi: dal contributo di Satta del 1955 alle riflessioni di Salvatore Romano e di Emilio Betti del 1960, fino alle pagine scritte, a partire dai tardi anni ’70, da Nicolò Lipari, Mario Nigro e Francesco Busnelli(34), a emergere sono, come è chiaro, orientamenti diversi, ma tutti concordi nell’avvicinare la funzione del notaio a quella propria del giudice. Il carneluttiano «tanto più notaio quanto meno giudice», la concezione, insomma, che il notaio rappresentasse soprattutto un’alternativa al giudice(35), alle liti tra privati, tendeva infatti a essere soppiantata dall’idea di una funzione assimilabile a quella giurisdizionale, dall’idea che il notaio, al pari del giudice, svolgesse un fondamentale ruolo di composizione tra interessi diversi e di diversa ampiezza: composizione tra gli interessi privati coinvolti dall’atto notarile e contemporanea ricerca di un equilibrio tra questi ultimi e interessi sociali e pubblici(36). Ed era proprio a partire da tali acquisizioni che la vexata quaestio relativa alla caratterizzazione prevalente del lavoro del notaio (libero professionista o pubblico ufficiale?) iniziava ad essere declinata in termini inediti: non più tenuti a descrivere il carattere ancipite di una professione sospesa tra identità difficilmente conciliabili, i riferimenti ai due lati dell’opera notarile sembravano descrivere le facce necessariamente complementari della stessa medaglia. Verrebbe voglia di dire: pubblico ufficiale, il notaio, perché libero professionista, perché privato che lavora tra i privati e che, attraverso il requisito essenziale della terzietà della sua prestazione, mira a realizzare e tenere in equilibrio particolare e generale, interessi privati e interessi pubblici, libertà e responsabilità, agilità e sicurezza del traffico giuridico, offrendo, così, il risultato di un’attività di consulenza e mediazione funzionale all’equilibrio dell’intero sistema giuridico e perciò munita di indubbia rilevanza pubblicistica («Magistratura a presidio della legge; libera professione, a tutela della libertà individuale»)(37).
Si tratta, come è agevole intuire, di problemi in gran parte aperti e attuali che rendono difficile individuare il dies ad quem di questo intervento; e se è chiaro che i modelli scelti per tenere insieme i molteplici aspetti da cui risultano le singole esperienze storiche possono (e devono) adeguarsi al mutare dei tempi, pare altrettanto evidente che ritenere superata la sfida dell’equilibrio (tra pubblico e privato, tra particolare e generale ecc.) rappresenterebbe una resa amara per gli ordinamenti. Per questo mi piace concludere ricorrendo all’immagine utilizzata da uno straordinario filosofo del diritto novecentesco e che già altre volte mi è capitato di citare. Il riferimento è a Giuseppe Capograssi e alla sua idea di giurista: convinto che solo il giurista potesse contare sul privilegio dell’abbraccio complessivo perché interessato a trovare e inventare strumenti ordinanti, capaci, come tali, di stringere in un unico abbraccio i tanti e contraddittori lati di una determinata esperienza storica, Capograssi riteneva che solo il recupero di una forte dimensione progettual-programmatica del discorso giuridico sarebbe riuscito a scongiurare l’incontrastato predominio di quelle dimensioni - come la politica e l’economia - che, troppo spesso appiattite sulle (e dominate dalle) urgenze del presente sembrano scontare una crescente incapacità di immaginare il futuro(38).


(1) Poiché il contributo che si licenzia costituisce la trascrizione di una relazione congressuale, si è evitato di appesantire il testo con eccessive indicazioni bibliografiche limitandosi a riportare quelle strettamente necessarie alla lettura del testo stesso.

(2) V., ad es., l’art. 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto del 1789.

(3) Per un esame complessivo di questi aspetti, mi permetto di rinviare a I. STOLZI, L’ordine corporativo - poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Milano, 2007.

(4) F. VASSALLI, Motivi e caratteri della codificazione civile (1947), ora in ID., Studi giuridici, vol. III, tomo II, Milano, 1960, p. 620; assai preoccupato, sia in riferimento alle previsioni della costituzione che a quelle del codice, previsioni che sembravano «feri[re] le caratteristiche fondamentali di pienezza e di esclusività» del dominio, G. B. CURTI PASINI, «Lineamenti sommari sulla funzione sociale della proprietà privata nel diritto odierno italiano», in Riv. not., III, 1949, p. 409-411 (la frase citata è a p. 411).

(5) F. VASSALLI, op. cit., p. 614.

(6 Ivi, p. 621.

(7) Ivi, p. 622.

(8) Per una lettura a più voci delle caratteristiche del codice civile, v. Per i cinquant’anni del codice civile, a cura di M. Sesta, Milano, 1994; v. anche R. NICOLÒ, voce Codice civile, in Enc. dir., VIII, Milano, 1960, p. 245-246.

(9) S. PUGLIATTI, La proprietà e le proprietà (1952), in La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1954, p. 147-310.

(10) In Rivista del notariato, III, 1949, p. 291-305.

(11 Ivi, p. 306-310.

(12) Ivi, p. 408-414.

(13) H. MAIGRET, «Il notariato di fronte al declino delle nozioni di proprietà e di contratto», in Riv. not., II, 1948, p. 284.

(14) G.B. CURTI PASINI, op. cit., p. 412.

(15) v. a es. H. MAIGRET, «Il Notariato di fronte al declino …», cit., p. 286 e «Decadenza della proprietà privata»: è questo un articolo, non firmato, tratto da Il tempo di Roma del 10 gennaio 1950 e ripubblicato in Rivista del notariato, IV, 1950, p. 27.

(16) A. GIULIANI, «Discorso inaugurale tenuto presso la Scuola di notariato Anselmo Anselmi», in Riv. not., III, 1949, p. 188-189.

(17) A. GIULIANI, Introduzione a H. MAIGRET, «Il notariato di fronte al declino …», cit., p. 278.

(18) Ibidem.

(19) G.B. CURTI PASINI, op. cit., rispettivamente p. 410 e p. 412.

(20) A. GIULIANI, «Discorso inaugurale ...», cit., p. 185; per una lettura di sintesi dei vari fronti che hanno impegnato il notariato in direzione del riconoscimento della qualità del proprio lavoro, v. M. SANTORO, Il notariato nell’Italia contemporanea, Milano, 2004; ID., Notai - storia sociale di una professione in Italia (1861 - 1940), Bologna, 1998 e I. STOLZI, «Università e notai a colloquio – un profilo storico», in Riv. not., LXIII, 2009, p. 520-555.

(21) H. MAIGRET, «Il notariato di fronte al declino …», cit., p. 308.

(22) A. GIULIANI, Introduzione a H. MAIGRET, «Il notariato di fronte al declino …», cit., p. 278.

(23) G.B. CURTI PASINI, op. cit., p. 413.

(24) Decadenza della proprietà, cit., p. 26.

(25) «La funzione sociale del notaio», in Riv. not., VIII, 1954, p. 175.

(26) Ibidem.

(27) Ivi, p. 180.

(28) E. MARMOCCHI, Prassi contrattuale e tutela degli interessi, in La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive - quarant’anni di legislazione, dottrina, esperienze notarili e giurisprudenza, IV, Atti del convegno, Milano, 1986, p. 196.

(29) Ivi, p. 202-207, con riferimento appunto allo schema - che sembrava caduto in desuetudine - della permuta, schema utilizzato con riferimento alle transazioni aventi a oggetto immobili da costruire; nello stesso senso M. COMPORTI, Il condominio precostituito e i negozi di precostituzione condominiale (ivi, vol. I, p. 427-429); interessanti osservazioni possono leggersi anche in riferimento a un altro istituto - la comunione tacita familiare - che ugualmente sembrava «un residuo di vecchi ordinamenti feudali» e che invece poteva concorrere a inquadrare molte ipotesi di impresa familiare di carattere non solo agricolo in V. ANTONELLI, «La comunione tacita familiare agricola (nozioni e osservazioni)», in Riv. not., XVI, 1962, p. 102 e ss.

(30) P. BOERO, La tutela dell’acquirente, in La casa di abitazione …, cit., vol. IV, p. 141-142.

(31) L’opera consta di tre volumi, contenenti contributi dottrinali relativi ai vari ambiti indagati in riferimento al problema della casa di abitazione (aspetti costituzionali e amministrativi, civilistici ed economico-finanziari); il quarto volume raccoglie invece gli atti del Convegno svoltosi a Milano nell’aprile del 1986, destinato a discutere congiuntamente i diversi aspetti esaminati nei volumi precedenti. Nella Presentazione dell’opera, firmata da Luigi Mengoni e Lodovico Barassi, si legge: «il mondo universitario, spettatore qualificato della crisi degli schemi contrattuali, ei notai, spettatori quotidiani della stessa crisi» si sono fatti «promotori di una ricerca sui quarant’anni di casa dalla fine della guerra ad oggi per uno studio preliminare che consentisse di avanzare meditate e razionali proposte» (vol. I, p. VII).

(32) P. MARCHETTI, Le società immobiliari, in La casa di abitazione …, cit., vol. IV, p. 224.

(33) Per una lettura d’insieme di tali vicende e per ricavare più estese indicazioni bibliografiche su tale nuova generazione di civilisti (da Gino Gorla a Ugo Natoli, da Nicolò a Rescigno, da Rodotà a Mengoni, da Trimarchi a Perlingieri fino alle voci eterodosse dei sostenitori dell’uso alternativo del diritto), v. P. GROSSI, La cultura del civilista italiano - un profilo storico, Milano, 2002.

(34) Si tratta, rispettivamente, di S. SATTA, «Poesia e verità nella vita del notaio», in Riv. not., IX, 1955, p. II e ss.; SALVATORE ROMANO, «La distinzione tra diritto pubblico e privato» che costituisce il testo della prolusione al primo corso della scuola di notariato Cino da Pistoia, prolusione letta a Firenze il 3 febbraio del 1962, in Riv. not., XVII, 1962, p. 5. e ss.; E. BETTI, «Interpretazione dell’atto notarile», in Riv. not., XIV, 1960, p. 1 e ss.; N. LIPARI, «La funzione notarile oggi: schema di riflessione», in Riv. not., XXXI, 1977, p. 935 e ss.; M. NIGRO, «Il notaio nel diritto pubblico», in Riv. not., XXXIII, 1979, pp. 1170 e ss. e F. BUSNELLI, «Ars notaria e diritto vivente», in Riv. not., XLV, 1991, p. 3 e ss.

(35) V., F. CARNELUTTI, «La figura giuridica del Notaro», discorso pronunciato nel Maggio del 1950 a Madrid presso la sede del “Collegio de los escribanos” e poi pubblicato sia sulla Riv. trim. di dir. e proc. civ. del 1950, sia sulla Riv. not., V, 1951, p. 1 e ss. e ID., «Diritto o arte notarile?», in Vita not., V, 1954, p. 209 e ss. (in questo caso si tratta della relazione letta al III congresso internazionale del notariato latino tenutosi a Parigi nel 1954).

(36) Sul fronte del notariato, chiarissimo, in tale direzione, A. GIULIANI, «Considerazione su alcuni motivi per la riforma della legge notarile», in Riv. not., IV, 1950, p. 31.

(37) Ivi, p. 33.

(38) Il riferimento va a G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (ristampa inalterata) e alla interpretazione che del pensiero capograssiano dà P. PIOVANI nella Introduzione al volume testè citato.

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