Direttiva 2014/17/UE - Art. 7 - Norme di comportamento da rispettare quando si concedono crediti ai consumatori- Commento di Giulio Mastropasqua
Direttiva 2014/17/UE
Art. 7 - Norme di comportamento da rispettare quando si concedono crediti ai consumatori
Commento di Giulio Mastropasqua
Dottorando di ricerca in Diritto, economia e istituzioni, Università di Roma “Tor Vergata”
Art. 7
Norme di comportamento da rispettare quando si concedono crediti ai consumatori
1. Gli Stati membri esigono che il creditore, l’intermediario del credito o il rappresentante designato, quando mettono a punto prodotti creditizi o concedono, fungono da intermediari o forniscono servizi di consulenza relativi a crediti e, se del caso, a servizi accessori ai consumatori o quando eseguono un contratto di credito, agiscano in maniera onesta, equa, trasparente e professionale, tenendo conto dei diritti e degli interessi dei consumatori. Nell’ambito della concessione, dello svolgimento di attività di intermediario o della fornitura di servizi di consulenza relativi a crediti, le attività si basano sulle informazioni circa la situazione del consumatore e su ogni bisogno particolare che questi ha comunicato e su ipotesi ragionevoli circa i rischi cui è esposta la situazione del consumatore per tutta la durata del contratto di credito. In relazione alla fornitura di servizi di consulenza relativi a crediti, l’attività si basa inoltre sulle informazioni richieste a norma dell’articolo 22, paragrafo 3, lettera a.
2. Gli Stati membri provvedono affinché la maniera in cui i creditori remunerano il proprio personale e gli intermediari del credito, nonché la maniera in cui gli intermediari del credito remunerano il proprio personale e i loro rappresentanti designati non impediscano il rispetto dell’obbligo di cui al paragrafo 1.
3. Gli Stati membri provvedono affinché, nello stabilire e applicare le politiche retributive per il personale responsabile della valutazione del merito creditizio, i creditori rispettino i seguenti principi in maniera e misura appropriata alle loro dimensioni, alla loro organizzazione interna e alla natura, portata e complessità delle loro attività:
a) la politica retributiva promuove ed è coerente con una gestione sana ed efficace del rischio e non incoraggia un’assunzione di rischi superiore al livello di rischio tollerato del creditore;
b) la politica retributiva è in linea con la strategia aziendale, gli obiettivi, i valori e gli interessi a lungo termine del creditore e comprende misure volte a evitare conflitti di interesse, in particolare facendo in modo che la retribuzione non dipenda dal numero o dalla percentuale di domande accolte.
4. Gli Stati membri provvedono affinché, quando i creditori, gli intermediari del credito o i rappresentanti designati forniscono servizi di consulenza, la struttura remunerativa del personale interessato non ne pregiudichi la capacità di agire nel migliore interesse del consumatore e, in particolare, non dipenda dagli obiettivi di vendita. Al fine di conseguire tale obiettivo, gli Stati membri possono inoltre vietare le commissioni pagate dal creditore all’intermediario del credito.
5. Gli Stati membri possono vietare o imporre restrizioni ai pagamenti da un consumatore a un creditore o a un intermediario del credito prima della conclusione di un contratto di credito.
Clausole generali e poteri delle autorità creditizie
L’art. 7 apre il capo III della direttiva, che reca le Condizioni applicabili ai creditori(1), agli intermediari del credito(2 )e ai rispettivi rappresentanti designati(3). La disposizione in esame enuncia i comportamenti che gli Stati membri dovranno imporre a tali soggetti quando eroghino mutui ai consumatori: tra gli scopi dell’intervento normativo vi è quello di evitare che «un comportamento irresponsabile da parte degli operatori del mercato [possa] mettere a rischio le basi del sistema finanziario»(4). È necessario che gli operatori del mercato «considerino gli interessi del consumatore [svolgendo] ipotesi ragionevoli circa i rischi cui è esposta la situazione del consumatore per tutta la durata del contratto»(5); l’obiettivo di stabilità complessiva del sistema creditizio europeo resterebbe peraltro vulnerato se non fossero limitate «le pratiche di vendita indiscriminata» dei prodotti creditizi(6).
Il paragrafo 1, delimitato l’ambito oggettivo di applicazione della norma (i.e. la fase prenegoziale - della messa a punto e della consulenza - e quella di esecuzione dei contratti di mutuo)(7), pone in capo a creditori, intermediari e rappresentanti un dovere generale di buona fede e correttezza(8), declinato nelle categorie dell’onestà, equità, trasparenza e professionalità.
La previsione di doveri generali di correttezza nei rapporti con il cliente rappresenta, in sé considerata, una rilevante novità nel panorama della recente legislazione comunitaria in materia di tutela del consumatore creditizio: norme dello stesso tenore non si danno né nella direttiva 64/2007/CE (c.d. Psd), attuata in Italia con D.lgs. 27.1.2010, n. 11, relativa ai servizi di pagamento, né nella direttiva 2008/48/ CE, attuata in Italia con D.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, relativa ai contratti di credito dei consumatori(9). Il paragrafo 1 della disposizione in commento si segnala per un duplice profilo.
Per un verso, appare confermata la linea di tendenza che, in anni recenti, vede la tutela del consumatore trasformata da strumento in obiettivo dell’attività di vigilanza bancaria: la prevenzione delle controversie con i clienti è stata a lungo considerata quale semplice mezzo per preservare la necessaria fiducia dei clienti nel sistema creditizio, e quindi, per questa via mediata, garantire la stabilità del sistema creditizio. Tale veduta è stata definitivamente superata con il D.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, che ha introdotto nel Tub il nuovo art. 127, comma 01: «le autorità creditizie esercitano i poteri previsti dal presente titolo avendo riguardo, oltre che alle finalità indicate nell’art. 5, alla trasparenza delle condizioni contrattuali e alla correttezza dei rapporti con la clientela»(10).
Per altro verso, suscita una riflessione in ordine all’ampiezza dei poteri delle autorità competenti(11 )a garantire l’applicazione e il rispetto della direttiva. Ci si domanda, in altri termini, se le autorità creditizie, in virtù di queste clausole generali, vedranno accresciuti i propri poteri di enforcement.
A tale proposito possono prospettarsi due soluzioni interpretative.
a) Potrebbe pensarsi, come prima opzione, che i doveri di equità, onestà, trasparenza e professionalità, enunciati nell’art. 7 con formula assai generale, costituiscano un mero rinvio ad altre disposizioni della direttiva, che questi doveri specificano in obblighi di condotta maggiormente determinati.
Il dovere di trasparenza, ad esempio, parrebbe evocare l’obbligo di fornire al consumatore tutte le informazioni utili ad una corretta comprensione dell’oggetto e delle condizioni contrattuali. Termini, modi e contenuti dell’informazione sono delineati nel successivo capo IV della direttiva (Informazioni e pratiche preliminari alla conclusione del contratto di credito)(12). L’adempimento degli obblighi ivi specificati rappresenterebbe allora il primo (ma non unico) parametro di valutazione di un’agire corretto - sotto il profilo della trasparenza.
Analoghe considerazioni potrebbero essere svolte con riguardo al dovere di professionalità, che parrebbe risolversi, anzitutto, nei più dettagliati obblighi specificati dall’art. 9 (che detta requisiti di conoscenza e competenza per il personale) e dal medesimo art. 7 (nella parte in cui vieta al creditore di far dipendere la remunerazione del proprio personale dal raggiungimento di determinati obiettivi di vendita). L’adempimento degli specifici obblighi in cui parrebbero dettagliarsi i doveri generali di trasparenza, professionalità, equità e onestà, non basterebbe comunque ad escludere la scorrettezza della condotta del creditore: se così fosse l’art. 7, paragrafo 1, recherebbe una norme ridondante, priva di reale efficacia precettiva.
Dovrebbe dunque immaginarsi che le clausole generali recate dall’art. 7 siano destinate a svolgere una funzione di salvaguardia, consentendo alle autorità preposte a garantire l’applicazione e il rispetto della direttiva di censurare comportamenti di per sé conformi agli specifici obblighi di condotta recati dalla direttiva, ma concretamente scorretti sotto il profilo della insufficiente trasparenza, professionalità, equità, onestà(13).
b) La ricostruzione prospettata sub a) pare impedita, secondo l’opinione di dottrina e giurisprudenza prevalenti, dal principio di legalità(14).
Il dibattito in merito a questo profilo si è sviluppato, in Italia, intorno alle disposizioni di cui al titolo VI del Tub (‘Trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti’), il quale reca disposizioni che impongono agli operatori del settore bancario obblighi di condotta nei confronti della clientela.
Per garantire il rispetto di questi obblighi, alle autorità creditizie, ed in particolare alla Banca d’Italia (nei confronti di banche e intermediari finanziari) e all’Oam (nei riguardi di agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi), sono riconosciuti poteri ispettivi (artt. 128(15 )e 128-undecies, comma 4(16), Tub), inibitori (art. 128-ter(17 )e 128-duodecies(18), Tub) e sanzionatori (art. 144 e ss., Tub).
Ferma la competenza del legislatore nel determinare le sanzioni irrogabili(19), la specificazione delle condotte punibili è stata largamente rimessa a disposizioni di rango secondario, destinate a completare e integrare la disciplina del testo unico. La legittimità della delegificazione in punto di illeciti (amministrativi) nel settore bancario, lungamente dibattuta, è stata da ultimo confermata dal giudice di legittimità. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, i poteri regolamentari della Banca d’Italia non sono esercitati in maniera arbitraria, ma in conformità a strumenti normativi dettagliati e rigorosi; la potestà regolamentare dell’Autorità si risolve, in ultima analisi, in specificazione di precetti già sufficientemente dettagliati dalla legge(20), ed è pertanto legittima.
Analoghe considerazioni non potrebbero essere svolte con riguardo alla disposizione in commento. L’art. 7, primo paragrafo, si segnala infatti per la vaghezza delle formule linguistiche utilizzate(21): seguendo il ragionamento della Suprema Corte, non sembra possa aver legittimamente luogo, in questa ipotesi, alcuna specificazione di contenuti, fermo che, prima ancora che specificato, il contenuto dell’art. 7 dovrebbe essere determinato, in piena discrezionalità, dalle autorità creditizie.
Sulla scorta delle indicazioni fornite dalla giurisprudenza di legittimità, allora. sembra doversi escludere, con riferimento ai doveri di cui al paragrafo 1 dell’art. 7, il potere regolamentare, e quindi sanzionatorio, della Banca d’Italia(22).
Regole di condotta: tra nullità e responsabilità
La previsione di obblighi di condotta, specialmente se aventi forma di clausole generali, suscita un noto interrogativo: quid iuris nel caso in cui i contratti di credito siano conclusi a seguito di condotte scorrette del creditore, o siano da questo eseguiti in male fede? In altri termini, quali effetti sono predicabili in caso di inadempimento dei menzionati obblighi di correttezza, a prescindere dai poteri delle autorità di vigilanza?
Sul piano dei rapporti con il cliente-consumatore, la fattispecie in esame evoca l’alternativa fondamentale tra invalidità (del contratto di credito) e responsabilità (del creditore).
Sul tema, la stessa direttiva offre un elemento di analisi, che tuttavia non parrebbe recare argomenti decisivi: il considerando n. 9 specifica come gli Stati membri siano liberi di «mantenere o introdurre normative nazionali … per quanto riguarda la validità del contratto». A contrario se ne potrebbe trarre che, nell’intenzione del legislatore comunitario, la violazione dei doveri di buona fede non dovrebbe implicare, ipso iure, la nullità del contratto. Ma una simile conclusione deve essere verificata volgendo lo sguardo al nostro ordinamento nazionale. Il quale, come noto, non offre argomenti testuali decisivi a sostegno dell’una o dell’altra tesi.
Appare possibile concludere per la validità dei contratti conclusi o eseguiti in violazione di norme di condotta ricorrendo a due distinti argomenti.
In entrambi i casi, occorre muovere dalla disciplina della nullità contrattuale.
Ai sensi degli artt. 1418 e ss., c.c., in mancanza di una previsione testuale di invalidità, la nullità del contratto sarà predicabile ove si dia contrarietà tra la norma imperativa e il regolamento contrattuale (ex art. 1418, comma 1, c.c.). Non essendo revocabile in dubbio il carattere imperativo(23 )delle disposizioni di cui all’art. 7, paragrafo 1, della direttiva, ai fini della nullità è necessario che tra la norma imperativa e il contratto si dia una relazione di contrarietà.
a) La posizione oggi prevalente in dottrina tende a negare che l’inadempimento di obblighi di condotta, e in particolare dell’obbligo di buona fede, possa incidere sul contratto nel senso di pregiudicarne la validità.
L’impostazione muove dalla distinzione (e dal principio di non interferenza(24)) tra norme (imperative) c.d. di validità e norme (imperative) c.d. di comportamento: «Le regole di validità attengono … alla fattispecie del contratto … le regole di comportamento (o di buona fede) sono dirette invece ad assicurare la correttezza e la “moralità” delle contrattazioni … sono regole “elastiche” perché risultanti dalla “concretizzazione” (giudiziale) di una “clausola generale»(25).
Si rileva che l’art. 1418, comma primo, disciplina il contrasto tra contratto e norma imperativa, sanzionando con la nullità il regolamento autonomo disapprovato (in sé stesso) dalla norma, e non interessandosi, per contro, del comportamento delle parti. La non conformità del contegno dei contraenti ad una norma imperativa sarebbe fatto irrilevante ai fini dell’art. 1418, comma primo, c.c., potendo però determinare un diverso effetto (sia esso sanzione penale(26 )o conseguenza civilistica).
La discriminazione tra norme di validità e di comportamento è predicata per scongiurare le incertezza applicative che potrebbero determinarsi ricorrendo alla buona fede (o ad altre clausole generali) nelle valutazioni concernenti la validità del contratto: quando una disposizione impone schemi di contegno dai contorni non chiaramente definiti, la valutazione della conformità della condotta delle parti alla fattispecie normativa è in larga parte rimessa al giudice, alla valutazione delle circostanze concrete. Ammettere che l’inadempimento dell’obbligo di comportamento possa determinare la nullità del contratto, significherebbe sacrificare le esigenze di certezza ed uniformità che la materia esige(27). L’art. 7 della direttiva reca appunto clausole generali, inidonee, secondo questa veduta, ad aprire ad un giudizio di validità sul contratto.
Il principio di non interferenza tra norme di validità e norme di condotta è ammesso dalla più recente giurisprudenza, a partire dalla nota sentenza Rordorf(28 )in tema di violazione di obblighi di informazione posti a carico di mediatori finanziari.
b) La teoria della non interferenza tra norme di validità e norme di condotta né è pienamente condivisa, né trova nel diritto positivo decisivi argomenti a sostegno(29). La validità del contratto concluso in violazione di norme di condotta può essere diversamente argomentata, muovendo dalla lettera dell’art. 1418, comma primo.
La disposizione è parte di un complesso di norme che disciplinano la relazione tra fonti del rapporto contrattuale. Quest’ultimo, lungi dall’esaurirsi nello statuto determinato dal contratto, deve essere inteso quale summa delle qualifiche (obbligo, diritto …) determinate da una pluralità di fonti. Con la massima semplificazione, rapporto contrattuale si dirà il prodotto della combinazione di almeno due fonti, l’una autonoma (e concreta(30), il contratto), l’altra eteronoma (ed astratta, la legge). Quest’ultima attribuisce ai privati il potere autonomo (artt. 1322 e 1372 c.c.); enuncia i requisiti minimi di validità del contratto (artt. 1325-1342 c.c.); ne integra gli effetti (art. 1374 c.c.), anche imponendo l’inserzione automatica di clausole (art. 1339 c.c.). In ultimo, sancisce i limiti entro cui il potere autonomo dei contraenti può essere esercitato(31).
Nel contesto di questa relazione dinamica(32 )tra fonti del rapporto contrattuale, l’art. 1418, comma 1, predica la nullità della fonte autonoma quando contraria alla legge, i.e. la rimozione del rapporto, o di singole clausole che tale rapporto disciplinano, nell’ipotesi in cui contratto e legge siano incompatibili. Il concetto di contrarietà presuppone dunque la concorrenza tra due fonti, tra due modelli di condotta, entrambi applicabili al medesimo soggetto ed al medesimo contesto(33). Tra esse si dà contrarietà quando siano incompatibili i relativi effetti. Se per effetto intendiamo la qualifica (obbligo, diritto) attribuita ad un contegno da una fonte (sia essa autonoma - il contratto - o eternoma - la legge), la contrarietà di cui all’art. 1418 comma 1 c.c. evoca l’incompatibilità(34 )tra due qualifiche(35): il contratto è nullo se determina posizioni giuridiche soggettive (i.e. effetti giuridici) non compatibili con quelle che, in capo al medesimo soggetto, sono determinate dalla legge.
Fermate queste premesse, pare corretto escludere la nullità del contratto per inadempimento di obblighi di buona fede: non si dà, in tali ipotesi, incompatibilità tra effetti eteronomi e autonomi. Tra le due fonti non vi è contrarietà perché il comportamento scorretto è estraneo alla sfera degli effetti contrattuali: vi è un fatto compiuto (nella conclusione o in esecuzione di un negozio) in violazione di un divieto (od obbligo) legale, ma non anche contrarietà del contratto alla legge.
Esclusa la nullità(36), spetteranno al debitore leso dalla condotta scorretta di creditori, intermediari e rappresentanti designati i soli rimedi risarcitori.
Remunerazione del personale: gli effetti dell’inadempimento
I paragrafi 2, 3 e 4 dell’art. 7 sono vòlti ad incidere sulle politiche retributive del personale(37 )di creditori, intermediari del credito e loro rappresentanti designati.
Le norme appaiono ispirate a due rationes, logicamente complementari: evitare che la maniera in cui i creditori remunerano il personale impedisca a questi di tenere da conto gli interessi del consumatore, o, più in generale, di agire secondo correttezza; e, specularmente, evitare che le politiche retributive ostacolino una corretta valutazione del rischio di impresa.
L’esigenza di arginare le pratiche di vendita indiscriminata dei prodotti creditizi è perseguita vietando al creditore di incentivare la collocazione dei prodotti in spregio alle esigenze di stabilità - aziendale e di mercato: sono vietate le clausole che, nei contratti di lavoro del personale addetto alla valutazione del merito creditizio, pongano in relazione di proporzionalità retribuzione e numero di domande di credito accolte; sono altresì vietate le clausole che, nei contratti di lavoro dei consulenti finanziari, pongano in relazione di proporzionalità retribuzione e produttività (obiettivi di vendita).
Questi divieti parrebbero qualificabili quali ulteriori declinazioni (e specificazioni) del dovere generale di correttezza e professionalità. Ma, diversamente dagli altri paragrafi della disposizione, il paragrafo 3, lettera b, e il paragrafo 4 dell’art. 7 recano specifici obblighi (negativi) di condotta.
Una parte della dottrina appare incline ad ammettere la nullità del contratto per le ipotesi in cui siano violate norme di condotta dal contenuto sufficientemente determinato(38).
Tale veduta non sembra condivisibile se si ragiona in termini di nullità per incompatibilità degli effetti. La violazione della legge, anche in questo caso, non si colloca nella sfera degli effetti contrattuali. Il contratto, in altri termini, non determina qualifiche (posizioni giuridiche soggettive) incompatibili con l’obbligo (rectius, il divieto) di legge. L’incompatibilità sussiste tra un presupposto del contratto di credito e la norma di legge, e la nullità ex art. 1418, comma primo, c.c., deve essere esclusa(39).
Tale conclusione, coerente con le considerazioni svolte al precedente paragrafo, non pare possa essere smentita neanche se si argomentasse la nullità a partire dalla ratio che fonda i divieti, affermando cioè che senza la rimozione del contratto con il consumatore sarebbe vanificato l’obiettivo di protezione del consumatore e vulnerata la stabilità del mercato dei mutui ipotecari(40): se la ratio del divieto sta nella tutela del consumatore, il mero inserimento della clausola non appare in sé idoneo ad alterare il corretto operato del personale, ergo a determinare una condotta scorretta in confronto della controparte. L’accertamento della scorrettezza passa per un’indagine in concreto della condotta della parte, vòlta a vagliare se la verifica del merito creditizio sia stata compiuta dal dipendente con minore rigore, o se l’attività di consulenza sia stata svolta in modo non professionale, con l’intento di trarre guadagno dalla erogazione del finanziamento. Ragionando in termini di nullità per il mero fatto dell’inserimento della clausola, sarebbe dichiarata una nullità, argomentata sulla ratio della norma, ma a prescindere da una valutazione in termini di necessità e congruità dell’effetto con quella ratio. Viceversa, aprendo a tale verifica, si consentirebbe all’interprete di fondare la dichiarazione di nullità su una valutazione del tutto discrezionale, destinata a scontrarsi con le insopprimibili esigenze di certezza che connotano l’istituto della nullità contrattuale(41). Giova ricordare, inoltre, che il legislatore comunitario ha inteso lasciare in capo ai singoli Stati ogni decisione in ordine alla validità dei contratti(42). Argomentare la nullità del contratto sulla base della ratio della norma non terrebbe conto del fatto che il legislatore comunitario non ha valutato la rimozione del contratto come momento necessario al raggiungimento degli scopi di tutela prefissati.
(1) È creditore, ai sensi dell’art. 4, n 2: «una persona fisica o giuridica che concede o s’impegna a concedere crediti rientranti nell’ambito d’applicazione dell’articolo 3 nell’esercizio della propria attività commerciale o professionale».
(2) È intermediario del credito, ai sensi dell’art. 4, n. 5: «una persona fisica o giuridica che non agisce come creditore o notaio e non presenta semplicemente - direttamente o indirettamente - un consumatore a un creditore o intermediario del credito e che, nell’esercizio della propria attività commerciale o professionale, dietro versamento di un compenso, che può essere costituito da una somma di denaro o da qualsiasi altro corrispettivo finanziario pattuito: a) presenta od offre contratti di credito ai consumatori; b) assiste i consumatori svolgendo attività preparatorie o altre attività amministrative precontrattuali per la conclusione di contratti di credito diverse da quelle di cui alla lettera a); o c) conclude con i consumatori contratti di credito per conto del creditore».
(3) È rappresentante designato, ai sensi dell’art. 4, n. 8) «una persona fisica o giuridica che svolge le attività di cui al punto 5 per conto di un solo intermediario del credito e sotto la responsabilità piena e incondizionata di quest’ultimo».
(4) Enuncia il considerando n. 3: «La crisi finanziaria ha dimostrato che un comportamento irresponsabile da parte degli operatori del mercato può mettere a rischio le basi del sistema finanziario portando ad una mancanza di fiducia tra tutte le parti coinvolte, in particolare i consumatori, e a conseguenze potenzialmente gravi sul piano socioeconomico. Molti consumatori hanno perso fiducia nel settore finanziario e i mutuatari si sono trovati sempre più in difficoltà nel far fronte ai propri prestiti: ciò ha portato all’aumento degli inadempimenti e delle vendite forzate».
(5) Enuncia il considerando n. 31: «Il quadro giuridico applicabile dovrebbe dare ai consumatori fiducia nel fatto che i creditori, gli intermediari del credito e i rappresentanti designati considerano gli interessi del consumatore, sulla base delle informazioni aggiornate a disposizione del creditore, dell’intermediario del credito e dei rappresentanti designati e di ipotesi ragionevoli circa i rischi a cui è esposta la situazione del consumatore per tutta la durata del contratto di credito proposto».
(6) Enuncia il considerando n. 35: «La maniera in cui i creditori, gli intermediari del credito e i rappresentanti designati remunerano il proprio personale dovrebbe essere uno degli aspetti essenziali per garantire la fiducia dei consumatori nel settore finanziario. La presente direttiva fissa le norme per la remunerazione del personale allo scopo di limitare le pratiche di vendita indiscriminata e di garantire che la maniera in cui è remunerato il personale non rechi pregiudizio all’obbligo di considerare gli interessi del consumatore. In particolare i creditori, gli intermediari del credito e i rappresentanti designati non dovrebbero concepire le politiche retributive in modo da incentivare il proprio personale a concludere un determinato numero o un determinato tipo di contratti di credito o ad offrire servizi accessori particolari ai consumatori senza tenere nella debita considerazione gli interessi e i bisogni dei consumatori stessi».
(7) Le condizioni si impongono a creditori, intermediari e rappresentanti «quando mettono a punto prodotti creditizi o concedono, fungono da intermediari o forniscono servizi di consulenza relativi a crediti e, se del caso, a servizi accessori ai consumatori o quando eseguono un contratto di credito». L’art. 7 determina i propri effetti tanto nella fase precontrattuale quanto nella fase di esecuzione del rapporto. Il legislatore comunitario sembra prendere atto di come la preparazione di un contratto di credito non contempli una fase di vera e propria trattativa: tale lemma non compare nella disposizione in commento e la fase preparatoria pare risolversi in mera messa a punto del prodotto o dell’offerta.
(8) L’attività di creditori e intermediari del credito deve basarsi «sulle informazioni circa la situazione del consumatore e su ogni bisogno particolare che questi ha comunicato e su ipotesi ragionevoli circa i rischi cui è esposta la situazione del consumatore per tutta la durata del contratto di credito». Gli operatori devono cioè «[tenere] da conto i diritti e gli interessi dei consumatori», secondo una formula che evoca una delle interpretazioni più ricorrenti, in tribunali e corti nazionali, della clausola generale di buona fede di cui agli artt. 1175, 1337 e 1375 c.c.: Cass., 16 novembre 2000, n. 14865: «Nei contratti a prestazioni corrispettive i doveri di correttezza, di buona fede e di diligenza - di cui agli artt. 1337, 1338, 1375 e 1175 - si estendono anche alle cosiddette obbligazioni collaterali di protezione, di informazione, di collaborazione, che presuppongono e richiedono una capacità discretiva ed una disponibilità cooperativa dell’imprenditore nell’esercizio della professione e , quindi, nel tenere conto delle motivazioni della controparte».
(9) Più in generale, doveri di buona fede non sono enunciati espressamente, in una formulazione sì ampia, nel D.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (c.d Testo unico bancario, Tub).
(10) Cfr. S. ROSSI, «La tutela del consumatore di servizi bancari e finanziari: quadro normativo e competenze della Banca d’Italia», intervento al Convegno organizzato dal Cnel “La competenza in materia di tutela dei consumatori: evoluzione alla luce dei recenti indirizzi del Consiglio di Stato”, 12 luglio 2012, reperibile sul sito www. bancaditalia.it/interventi/intaltri_mdir/rossi-12072012. pdf; A. URBANI, «La vigilanza sui soggetti esercenti. Il credito ai consumatori», in Banca, borse tit. credito, 2012, p. 442 e ss.; A. BALDASSARRE, Le sanzioni della Banca d’Italia, in Le sanzioni delle autorità amministrative indipendenti, a cura di M. Fratini, Padova, 2011, p. 555-6. Sull’individuazione delle Autorità competenti, si rinvia al commento sub art. 5.
(11) Per l’individuazione delle Autorità competenti, si rinvia al commento sub art. 5.
(12) Particolare rilievo assumono gli artt. 11, che prevede le «informazioni di base da includere nella pubblicità» e 13, che disciplina le «informazioni generali relative ai contratti di credito».
(13) Questo pensiero intorno al ruolo delle clausole generali è espresso dalla Commissione europea nella «Comunicazione relativa all’applicazione della direttiva in materia di pratiche sleali» del 14 marzo 2013 [COM (2013) 138 final; http://ec.europa.eu/justice/consumer- marketing/files/ucpd_communication_it.pdf]: «le norme di principio della direttiva hanno consentito alle autorità nazionali di stare al passo con prodotti, servizi e tecniche di vendita in rapida evoluzione. Esse funzionano come norme “di chiusura” che stabiliscono criteri da usare, con una certa flessibilità, per impedire comportamenti sleali che non sono vietati da disposizioni specifiche». Analoghe considerazioni hanno indotto la Commissione ad avviare nei confronti dell’Italia, il 17 ottobre 2013, la procedura di infrazione 2013/2169. In tale sede la Commissione ha ribadito la ultrattività delle clausole generali di buona fede rispetto ai confini delle fattispecie che rechino specifici obblighi di correttezza: «[P]er quanto possa essere una disciplina settoriale specifica nello stabilire obblighi informativi aggiuntivi nella fase precontrattuale, non si può escludere che, pur rispettando tali obblighi di trasparenza e pubblicità delle informazioni, un professionista metta in atto una pratica sleale».
(14) Sul principio di legalità nell’ordinamento bancario e finanziario A. BALDASSARRE, op. cit., p. 502 e ss.
(15) Art. 128 Tub: «[a]l fine di verificare il rispetto delle disposizioni del presente titolo, la Banca d’Italia può acquisire informazioni, atti e documenti ed eseguire ispezioni presso le banche, gli istituti di moneta elettronica, gli istituti di pagamento e gli intermediari finanziari».
(16) Art. 128-undecies, comma 4: «L’Organismo verifica il rispetto da parte degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi della disciplina cui essi sono sottoposti; per lo svolgimento dei propri compiti, [l]’Organismo può effettuare ispezioni e può chiedere la comunicazione di dati e notizie e la trasmissione di atti e documenti, fissando i relativi termini».
(17) Art. 128-ter: «[q]ualora nell’esercizio dei controlli previsti dall’articolo 128 emergano irregolarità, la Banca d’Italia può: a) inibire ai soggetti che prestano le operazioni e i servizi disciplinati dal presente titolo la continuazione dell’attività, anche di singole aree o sedi secondarie, e ordinare la restituzione delle somme indebitamente percepite e altri comportamenti conseguenti; b) inibire specifiche forme di offerta, promozione o conclusione di contratti disciplinati dal presente titolo; c) disporre in via provvisoria la sospensione, per un periodo non superiore a novanta giorni, delle attività di cui alle lettere a) e b), laddove sussista particolare urgenza; d) pubblicare i provvedimenti di cui al presente articolo sul sito web della Banca d’Italia e disporre altre forme di pubblicazione, eventualmente a cura e spese dell’intermediario».
(18) Ai sensi dell’art. 128-duodecies l’Oam può applicare nei confronti degli iscritti: a) il richiamo scritto; b) la sospensione dall’esercizio dell’attività per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a un anno; c) la cancellazione dagli elenchi.
(19) La riserva di legge è assoluta per quanto concerne la determinazione della sanzione irrogabile: Cass. civ., sez. I, 14 novembre 2003, n. 17176.
(20) Cass. civ., sez. I, 23 marzo 2004, n. 5743.
(21) Formule per loro natura inidonee a garantire l’auspicata uniformità applicativa. Enuncia il considerando n. 2:«[t]ra le legislazioni dei vari Stati membri relative alle norme di comportamento nell’attività di erogazione di crediti per beni immobili residenziali e tra i sistemi di regolamentazione e vigilanza degli intermediari del credito e degli enti non creditizi che offrono contratti di credito relativi a beni immobili residenziali esistono differenze sostanziali. Tali differenze creano ostacoli che limitano il livello dell’attività transfrontaliera sia sul lato dell’offerta che su quello della domanda, riducendo così la concorrenza e le possibilità di scelta sul mercato, facendo aumentare il costo dell’erogazione di crediti a carico dei prestatori e addirittura impedendo loro di esercitare tale attività».
(22) Ai sensi dell’art. 27, comma 1-bis, cod. cons., potrebbe immaginarsi l’intervento dell’Agcm qualora le condotte contrarie a buona fede dei creditori o degli intermediari integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta, ai sensi del cod. cons.
(23) La posizione prevalente in dottrina e giurisprudenza attribuisce carattere imperativo alle disposizione poste a presidio e tutela di interessi generali (o, secondo un pensiero analogo, dell’ordine pubblico): ex multis, in dottrina, R. TOMMASINI, voce Nullità (diritto privato), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 908; F. GALGANO, Simulazione. Nullità del contratto. Annullabilità del contratto, nel Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1998, p. 233 e ss.; V. ROPPO, Il contratto, Milano, 2011, p. 382; C. SCOGNAMIGLIO, «Il giudice e le nullità: punti fermi e problemi aperti nella giurisprudenza della Corte di Cassazione», in Nuov. giur. civ. comm., 2013, I, p. 15, ove si legge: «[l’essenza della categoria della nullità] risiede nella tutela di interessi generlai,di valori fondamentali, o che comunque trascendono quelli del singolo». Nella giurisprudenza del giudice di legittimità si segnala Cass., 18 febbraio 2008, n. 3950, in Foro amm. - CdS, 2008, I, p. 378: «… compito del giudice, ai fini della declaratoria di nullità, è solo quello di stabilire se la norma o le norme contraddette dall’autonomia privata abbiano carattere imperativo, siano cioè dettate a tutela dell’interesse pubblico». Cfr. Cass., 26 gennaio 2000, n. 863. Secondo una diversa lettura, imperative sarebbero le disposizioni che tutelino un interesse indisponibile per i privati, anche qualora esso interesse non sia generale ma settoriale o individuale: M. MANTOVANI, La nullità e il contratto nullo, in V. ROPPO, Trattato del contratto, IV- I rimedi, 1, p .43. Cfr. anche A. BARBA, La nullità del contrattoper violazione di norma imperativa, in Il contratto in generale, nel Trattato dei contratti, III, 2, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, p. 967 e A. ALBANESE, «Non tutto ciò che è “virtuale” è “razionale”: riflessioni sulla nullità», in Eur. dir. priv., 2012, p. 503.
(24) C. SCOGNAMIGLIO, «Regole di validità e regole di comportamento: i principi ed i rimedi», in Eur. dir. priv., 2008, p. 611-613: «il senso del principio di non interferenza tra regole di validità e regole di comportamento … non è tanto quello di sancire a priori una incomunicabilità assoluta tra questi due tipi di regole, bensì … quello di riservare in via esclusiva al legislatore di tipizzare fattispecie di comportamenti i quali, se tenuti nella fase antecedente la conclusione del contratto, possono incidere sulla validità del medesimo». Cfr. V. PIETROBON, Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, Padova, 1990, p. 104 e ss.; A. GENTILI, «Disinformazione e invalidità: i contratti di intermediazione dopo le Sezioni Unite», in Contratti, 2008, p. 393 e ss.; D. FARACE, «Regole di validità, regole di comportamento e donazione di organi», in Corr. giur., 2014, p. 196 e ss.
(25) G. D’AMICO, La responsabilità precontrattuale, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, V, Rimedi-2, Milano, 2006, p. 1001; v. anche p. 808.
(26) Uno dei principali ambiti di applicazione del criterio che distingue norme di validità e di comportamento è proprio quello del contratto concluso in violazione del precetto penale. La questione degli effetti civili della violazione della norma penale è ampiamente dibattuta. Dottrina e giurisprudenza hanno prospettato soluzioni differenziate: vi è chi sostiene la non circoscrivibilità del disvalore penale, affermando la necessaria nullità del contratto a seguito dell’irrogazione della sanzione penale (cfr. G. FOSCHINI, «Delitto e contratto», in Arch. pen., 1935, p. 72; R. MELFI, «Sulla nullità del contratto d’opera per difetto di titolo professionale», in Riv. dir. lav., 1952, I, p. 259; cfr. anche Cass., 8 agosto 1990, n. 7998, in Mass. Foro it., 1990, c. 946); chi è propenso ad escludere la nullità del contratto muovendo dalla qualifica del precetto penale quale norma di comportamento (M. RABITTI¸ Contratto illecito e norma penale. Contributo allo studio della nullità, Milano, 2000, p. 63; V. PIETROBON, op. cit.); chi ritiene di escludere la nullità ove la disposizione penale si rivolga alla tutela di interessi privati (Cass., 17 maggio1986, n. 3266, in Società, 1986, p. 1310); chi (tra gli altri, I. LEONCINI, «I rapporti tra contratto, reati contratto e reati in contratto», in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, p. 997; cfr. G. DE NOVA, «Il contratto contrario a norme imperative», in Riv. crit. dir. priv., 1985, p. 443; G. OPPO, «Formazione e nullità dell’assegno bancario», in Riv. dir. comm., 1963, I, p. 153, spec. p. 178) distingue tra reati-contratto e reati in contratto, affermando la nullità sia del negozio disapprovato espressamente dall’ordinamento penale (come accade nelle fattispecie di ricettazione, art. 648 c.p.), sia del contratto che, pur non specificamente vietato, appaia il prodotto della condotta illecita di entrambi i contraenti (così, ad esempio, nel reato di turbata libertà degli incanti, art. 353 c.p.), ma ritenendo di escludere la nullità per le ipotesi in cui la condotta di uno solo dei contraenti sia colpita dal disvalore penale (così per l’estorsione: art. 629 c.p.).
(27) G. D’AMICO, op. cit., 1001: «… Una volta riconosciuto che per le regole di validità si giustifica (e, anzi, si impone) la necessità di una rigorosa formalizzazione - si verrebbe meno a questa esigenza ove si ammettesse che l’invalidità di un atto possa dipendere dalla qualificazione di un comportamento alla stregua dei (mutevoli) criteri valutativi extralegali, cui rimanda una regola … come quella di buona fede». Cfr. anche C. CASTRONOVO, Principi del diritto europeo dei contratti, parte I e II, Prefazione all’edizione italiana, Un contratto per l’Europa, Milano, 2011, p. XXXIV: «… spostare la qualifica dal terreno legislativo a quello giudiziale crea un aggravio sul piano della cretezza del diritto …». C. SCOGNAMIGLIO, «Regole di validità e regole di comportamento: i principi ed i rimedi», cit., p. 611-613; S. PAGLIANTINI, «Una nullità virtuale di protezione? A proposito degli artt. 28 e 34 del c.d. “Cresci Italia”», in Oss. dir. civ. comm., 2012, p. 73, specialmente p. 76 e ss. Cfr. Cass., S.U., 19 dicembre 2007, n. 26724, in Foro it., I, 2008, c. 784: «i doveri di comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole predefinite».
(28) Cass., S.U., 19 dicembre 2007, n. 26724. Nella sentenza, la Corte esclude che l’inadempimento degli obblighi informativi, pur idoneo ad influire sul consenso, “inquinandolo”, possa far ritenere mancante il consenso medesimo. Si afferma inoltre la distinzione (ed il principio di non interferenza) tra regole di comportamento e regole di validità: «Che tale distinzione, sovente ribadita anche dalla dottrina, sia fortemente radicata nei principi del codice civile è difficilmente contestabile. Per persuadersene è sufficiente considerare come dal fondamentale dovere che grava su ogni contraente di comportarsi secondo correttezza e buona fede - immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., e sottostante a quasi tutti i precetti legali di comportamento delle parti di un rapporto negoziale (ivi compresi quelli qui in esame) - il codice civile faccia discendere conseguenze che possono, a determinate condizioni, anche riflettersi sulla sopravvivenza dell’atto (come nel caso dell’annullamento per dolo o violenza, della rescissione per lesione enorme o della risoluzione per inadempimento) e che in ogni caso comportano responsabilità risarcitoria (contrattuale o precontrattuale), ma che, per ciò stesso, non sono evidentemente mai considerate tali da determinare la nullità radicale del contratto (semmai eventualmente annullabile, rescindibile o risolubile), ancorché l’obbligo di comportarsi con correttezza e buona fede abbia indiscutibilmente carattere imperativo». Già in precedenza la Corte si era occupata della sorte del contratto concluso a seguito dell’inadempimento di obblighi informativi, escludendone la nullità tanto per mancanza del consenso quanto per contrarietà a norme imperative: Cass., 29 settembre 2005, n. 19024, in Nuova giur. civ. comm, 2006, I, p. 897, con nota di E. PASSARO, «Intermediazione finanziaria e violazione degli obblighi informativi: validità dei contratti e natura della responsabilità risarcitoria». I principi enunciati dalla sentenza Rordorf sono stati recentemente ribaditi da Cass., 10 aprile 2014, n. 8462, che esclude, in materia di intermediazione finanziaria, la nullità dei contratti per la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni. Tale violazione può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove avvenga nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione, mentre è fonte di responsabilità contrattuale, ed, eventualmente, può condurre alla risoluzione del contratto, ove riguardi le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto. Cfr. per una giurisprudenza più recente, Cass., 10 aprile 2014, n. 8462.
(29) La carenza di dati positivi idonei a discriminare tra norme di validità e norme di comportamento è il principale argomento cui ricorrono le autorevoli voci che dissentono dalla ricostruzione proposta. Secondo V. ROPPO l’applicazione del criterio comporterebbe il chiaro assorbimento della nullità virtuale nella categoria delle nullità strutturali, riducendosi inevitabilmente la disposizione di cui al comma 1 dell’art. 1418 a lettera morta: non potendo mai derivare la nullità dalla violazione di un obbligo comportamentale, la nullità virtuale interverrà solo per vizio di un requisito comunque strutturale, col risultato che il primo comma dell’art. 1418 c.c. risulterà applicabile solo negli stessi casi in cui troverà (già) applicazione il comma 2 dello stesso articolo. V. ROPPO, «La nullità virtuale dopo la sentenza Rordorf», in Danno e resp., 2008, p. 536. Si veda anche F. DI MARZIO, secondo il quale vi sono margini per la dichiarazione della nullità a seguito dell’inadempimento di un obbligo di condotta, ogni qual volta la condotta imposta sia delineata nel suo preciso contenuto dal legislatore, e non rimessa alla determinazione del giudice: F. DI MARZIO, La nullità del contratto, Padova, 2008, p. 539. Notazioni critiche sul principio di non interferenza in A. DI AMATO, Contratto e reato. Profili civilistici, Napoli, 2003, p. 27: «La distinzione tra regole di validità e regole di comportamento, se può essere utile su un piano meramente conoscitivo per una migliore organizzazione delle norme sui contratti, laddove elevata essa stessa a regola diviene non congrua».
Le stesse S.U., 26724/2007, cit., cadono in contraddizione nell’enunciazione dei corollari del principio di non interferenza, ammettendo che il principio è valido solo di tendenza: vi sono norme di condotta la cui violazione determina nullità del contratto, come nel caso del negozio concluso con circonvenzione di incapace.
Tra gli Autori non inclini ad ammettere il principio di non interferenza tra regole di validità e regole di condotta si segnala, con diversi accenti, anche R. SACCO: «là dove l’evento lesivo che corona la condotta illecita sia la prestazione, da parte della vittima, di un consenso viziato, la rimozione degli effetti contrattuali può essere il rimedio adatto per neutralizzare la lesione». L’A. fa riferimento ad ipotesi non riconducibili alle fattispecie tipiche di vizi del consenso: gli obblighi precontrattuali, se inadempiuti da una parte, attribuiscono all’altra il diritto di agire per l’adempimento in forma specifica, che si realizzerebbe appunto nella rimozione degli effetti contrattuali. R. SACCO, in R. SACCO - G. DE NOVA, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 2004, p. 244.
Si segnala infine Trib. Firenze, 19 aprile 2005, in Giust. civ., 2005, I, p. 1271, emblematica di un orientamento diffuso nelle corti di merito, prima delle sezioni unite “Rordorf”, inclini a riconoscere la nullità del contratto concluso a seguito dell’inadempimento dei doveri di informazione da parte dell’intermediario finanziario: «la normativa [di trasparenza] è posta a tutela dell’ordine pubblico economico e, dunque, si sostanzia in norme precettive, la cui violazione impone la reazione dell’ordinamento attraverso il rimedio della nullità del contratto».
(30) N. IRTI, «La teoria delle vicende del rapporto (per la ristampa di un libro di Mario Allara)», in Riv. dir. civ., 1999, p. 421.
(31) Cfr. M. ORLANDI, Dominanza relativa e illecito contrattuale,
in Il terzo contratto, a cura di G. Gitti - G. Villa, Bologna,
2008, spec. 138 ss.
(32) M. ORLANDI, op. cit., p.172.
(33) M. ORLANDI, op. cit., p.175.
(34) Il lemma contrarietà evoca il concetto di antinomia. Essa è intesa, dalla migliore dottrina, quale incompatibilità logica tra enunciati. Sono incompatibili due proposizioni che non possono essere entrambe vere: N. BOBBIO, Teoria generale del diritto, Torino, 1993, p. 209 e ss. Ma si veda anche M. ORLANDI, op. cit., p. 175 e relative note.
(35) Per questi rilievi cfr. anche M. ORLANDI, Pactum de non petendo e inesigibilità, Milano, 2000, p. 112 e ss.
(36) Non anche la annullabilità. L’inadempimento all’obbligo di agire in modo equo, onesto, professionale e trasparente nella fase preparatoria dell’accordo impone al giudice di indagare la volontà del consumatore: il contratto sarà suscettibile di annullamento qualora la condotta scorretta del creditore abbia indotto la controparte in un errore rilevante ai sensi degli artt.
1428-1431 c.c., integrati o meno che siano gli estremi del dolo determinante (art. 1439 c.c.).
(37) Ai sensi dell’art. 4, n. 11, della direttiva sono personale:
«a) le persone fisiche che lavorano per il creditore o l’intermediario del credito, che esercitano direttamente le attività di cui alla presente direttiva o che hanno contatti con i consumatori nell’esercizio delle attività di cui alla presente direttiva; b) le persone fisiche che lavorano per un rappresentante designato, che hanno contatti con i consumatori nell’esercizio delle attività di cui alla presente direttiva; c) le persone fisiche che gestiscono direttamente o controllano le persone fisiche di cui alle lettere a, e b».
(38) «Infatti ciò che appare imprescindibile non è che la nullità per violazione di regola di comportamento sia prevista nella legge (come eccezione ad una regola generale) ma che tale regola di comportamento sia concretizzata a priori nel suo preciso contenuto dal legislatore (nella descrizione di tale comportamento), e pertanto non sia dedotta a posteriori dal giudice. … Nella legislazione degli ultimi tempi si rinvengono numerose ipotesi di norme imperative che impongono precisi doveri di comportamento a una delle parti del rapporto». F. DI MARZIO, op. cit., p. 539.
(39) È prevedibile che, nell’ordinamento nazionale, i divieti di cui al paragrafo 3, lettera b, e al paragrafo 4 siano recepiti in norme idonee ad incidere (ex artt. 1322, 1374, 1339, 1344 c.c.) sul contratto che lega il creditore al proprio dipendente o collaboratore, determinandone la parziale nullità (artt. 1418, comma 1 e 1419, o, più verosimilmente, ex art. 1344 c.c.) ed, eventualmente, l’integrazione legale (ex artt. 1339 c.c., in applicazione di clausole tratte dal contratto collettivo di riferimento). Tale circostanza non pare possa indurre ad argomentare la nullità derivata del contratto di credito, ipotizzando un collegamento tra esso e il contratto di lavoro - o di collaborazione autonoma - con il personale: tra i due contratti non può dirsi esistente alcun collegamento negoziale, posto che tra gli stessi non appare predicabile un nesso di interdipendenza (questa formula è del C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il Contratto, II ed. , Milano, 2000, p. 481). Se quest’ultima si risolve, secondo l’orientamento prevalente, in connessione funzionale, nesso teleologico, scopo comune e unitario, nella fattispecie in esame non pare ravvisabile né unitarietà dell’operazione, né una finalità comune alle parti ricavabile dalla combinazione dei due negozi. La clausola di proporzionalità tra retribuzione e produttività rappresenta solo una delle (innumerevoli) circostanze di fatto che, in vario modo, potrebbero concorrere nella determinazione a contrarre di una o di entrambe le parti.
(40) Si allude al criterio c.d. del minimo mezzo, elaborato in dottrina (G. DE NOVA, op. cit., p. 435 e ss.) e applicato in giurisprudenza (Cass., 11 dicembre 1991, n. 13393, in Giust. civ., 1992. I, p. 1503; Cass. 5 aprile 2003, n. 5372, in Giust. civ., 2003, I, p. 1789) per argomentare dichiarazioni di nullità sulla base delle esigenze perseguite dal legislatore. L’applicazione del criterio ha suscitato perplessità nella dottrina più sensibile alle esigenze di certezza del diritto: A. DI AMATO, op. cit., p. 45.
(41) Il tenore complessivo delle disposizioni in materia di nullità tratteggia un sistema rigido, rispetto al quale la selezione delle fattispecie di invalidità appare rimessa esclusivamente alla determinazione degli organi legislativi.
(42) Enuncia il considerando n. 9: «[p]er i settori che non sono compresi nella presente direttiva, gli Stati membri sono liberi di mantenere o introdurre norme nazionali. In particolare, gli Stati membri possono mantenere o introdurre disposizioni nazionali in settori quali il diritto contrattuale, per quanto riguarda la validità dei contratti di credito, il diritto patrimoniale, la registrazione fondiaria, l’informativa contrattuale e, ove non disciplinate nella presente direttiva, le questioni post- contrattuali».
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