Direttiva 2014/17/UE - Art. 23 - Prestiti in valuta estera - Commento di Federico Azzarri
Direttiva 2014/17/UE
Art. 23 - Prestiti in valuta estera
Commento di Federico Azzarri
Assegnista di ricerca in Diritto privato, Università di Pisa
Art. 23
Prestiti in valuta estera
1. Gli Statimembri provvedono affinché, se il contratto di credito si riferisce a un prestito in valuta estera, sia messo a punto un quadro regolamentare adeguato nel momento in cui è concluso il contratto di credito, in modo da assicurare almeno che:
a) il consumatore abbia il diritto di convertire il contratto di credito in una valuta alternativa a determinate condizioni; o b) esistano altri meccanismi volti a limitare il rischio di cambio a cui il consumatore è esposto in forza del contratto di credito.
2. La valuta alternativa di cui al paragrafo 1, lettera a, è:
a) quella in cui il consumatore percepisce principalmente il reddito o detiene gli attivi con i quali dovrà rimborsare il credito, come indicato al momento della più recente valuta zione di merito creditizio condotta in relazione al contratto di credito; o
b) quella dello Stato membro in cui il consumatore era resi dente al momento della conclusione del contratto di credito o è attualmente residente.
Gli Stati membri possono precisare se sono a disposizione del consumatore entrambe le scelte di cui al primo comma, lettere a, e b, o solo una di esse o possono consentire ai creditori di precisare se sono a disposizione del consumatore entrambe le scelte di cui al primo comma, lettere a, e b, o solo una di esse.
3. Se un consumatore ha il diritto di convertire il contratto di credito in una valuta alternativa conformemente al paragrafo 1, lettera a), gli Stati membri garantiscono che il tasso di cambio al quale avviene la conversione sia il tasso di mercato applicabile il giorno della domanda di conversione, salvo se diversamente precisato nel contratto di credito.
4. GliStatimembriprovvedonoaffinché,seunconsumatore ha un prestito in valuta estera, il creditore avvisi il consumatore regolarmente su carta o mediante un altro supporto durevole almeno laddove il valore dell’importo totale o delle rate perio diche residui a carico del consumatore vari di oltre il 20 % rispetto a quello che si avrebbe se si applicasse il tasso di cambio tra la valuta del contratto di credito e la valuta dello Stato membro applicabile al momento della conclusione del contratto di credito. L’avvertenza informa il consumatore del l’aumento dell’importo totale dovuto dal consumatore, indica, se del caso, il diritto di convertirlo in una valuta alternativa e le condizioni per farlo e illustra altri eventuali meccanismi appli cabili per limitare il rischio di cambio cui è esposto il consu matore.
5. GliStatimembripossonodisciplinareulteriormenteipre stiti in valuta estera, a condizione che tale regolamentazione non sia applicata retroattivamente.
6. Le disposizioni applicabili a norma del presente articolo sono comunicate al consumatore nel Pies e nel contratto di credito. Se nel contratto di credito non esiste alcuna disposizione volta a limitare il rischio di cambio a cui il consumatore è esposto nel caso di una fluttuazione del tasso di cambio inferiore al 20 %, il Pies include un esempio illustrativo dell’impatto di una fluttuazione del 20 % sul tasso di cambio.
Introduzione e struttura della direttiva
La direttiva 2014/17/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 febbraio 2014, sui contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali, recante modifica delle direttive 2008/48/ CE e 2013/36/UE e del regolamento (UE) n. 1093/2010, intende definire un quadro comune di disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative concernenti «alcuni aspetti» dei contratti di credito ai consumatori garantiti da ipoteca o altrimenti relativi a beni immobili residenziali (art. 1)(1). Gli obiettivi della direttiva, dichiarati nei numerosi considerando che preludono ai cinquanta articoli ed ai tre allegati, sono di creare un mercato interno del credito immobiliare più trasparente ed efficiente di quello che ha contribuito a determinare la recente crisi finanziaria, caratterizzata anche dalla difficoltà dei mutuatari di far fronte ai prestiti contratti e dal conseguente aumento delle procedure di esecuzione forzata(2), e di innalzare ad un livello elevato la protezione dei consumatori, come dimostra pure il vincolo di piena armonizzazione che investe sia le norme relative alle informazioni precontrattuali, da rendere attraverso il prospetto informativo europeo standardizzato (Pies), sia quelle inerenti al calcolo del Taeg(3).
Il campo di applicazione delle nuove disposizioni, individuato dal primo comma dell’art. 3, riguarda in via generale, e ferme restando le eccezioni indicate al secondo comma, due tipologie di contratti: i contratti di credito garantiti da ipoteca o da altra garanzia analoga, comunemente utilizzata in uno Stato membro sui beni immobili residenziali, oppure da altro diritto connesso a tali beni (lett. a); e i contratti di credito finalizzati all’acquisto o alla conservazione di diritti di proprietà su un terreno o su una costruzione edificata o progettata (lett. b).
Di base, la direttiva si occupa essenzialmente dei contratti di credito finalizzati all’acquisto di un bene immobile residenziale, ossia destinato ad essere occupato come «abitazione, appartamento o altro luogo di residenza del consumatore o di un familiare del consumatore»(4): lo si evince dal considerando n. 17 e dall’art. 3, comma terzo, lett. b, secondo cui gli Stati membri possono decidere di sottrarre dalla sfera di intervento della direttiva i contratti di credito volti all’acquisto di immobili destinati esclusivamente al mercato delle locazioni, senza tuttavia essere a ciò obbligati(5).
La struttura del testo si dipana lungo quattordici capi. Dal punto di vista della disciplina contrattuale e dell’attuazione del rapporto che ne discende, i più rilevanti sono: il quarto (artt. 10-16), dedicato alle “informazioni e pratiche preliminari alla conclusione del contratto di credito”; il quinto (art.
17), sul “tasso annuo effettivo globale”; il sesto (artt. 18-20), che si occupa della “valutazione del merito creditizio” (e la cui portata innovativa è tale da indurre il legislatore europeo a richiamarne il contenuto già all’art. 1, nel definire l’oggetto della direttiva stessa); il settimo (art. 21), a proposito dell’ “accesso alle banche dati” (utilizzate negli Stati membri onde compiere la valutazione del merito creditizio); l’ottavo (art. 22), inerente ai “servizi di consulenza”; il nono (artt. 23-24), sui “prestiti in valuta estera e [sui] tassi di interesse variabili”; e, infine, il decimo (artt. 25-28), posto a regolare la “buona esecuzione dei contratti di credito e [i] diritti connessi”(6).
La nozione di prestiti in valuta estera
L’articolo 23 dir. 2014/17 contiene il nucleo della disciplina dei «prestiti in valuta estera».
Si ha un prestito in valuta estera allorché nel contratto di credito ricorra una delle due ipotesi previste all’art. 4, n. 28, ovvero: quando il credito viene espresso in una valuta diversa da quella in cui il consumatore percepisce il suo reddito (income) o detiene il patrimonio (assets) con il quale dovrà rimborsare il finanziamento (lett. a); oppure, quando il credito risulta denominato in una valuta diversa da quella dello Stato membro in cui il consumatore risiede (lett. b).
Nel primo criterio si fa un riferimento incolore alla valuta nella quale il reddito o il patrimonio del consumatore si manifestano(7); nel secondo, invece, si traccia un nesso ben preciso tra la residenza del consumatore e il territorio dell’Unione.
Tale combinazione intende ampliare quanto più possibile l’ambito di applicazione delle regole previste all’art. 23, evitando peraltro, attraverso il criterio della residenza, situazioni dubbie che altrimenti sarebbero potute insorgere là dove il consumatore percepisse il proprio reddito in una valuta diversa da quella in cui il prestito è denominato e, al contempo, nel suo patrimonio rientrassero pure beni il cui valore fosse espresso proprio dalla valuta di denominazione, come immobili situati nel territorio dello stato in cui essa ha corso legale, oppure consistenti pacchetti di azioni quotate nella borsa di quel paese. In simili ipotesi, infatti, il solo criterio della “nazionalità”, conducendo ad esiti discordanti, avrebbe potuto essere fonte di incertezza in ordine all’applicabilità o meno dell’art. 23, salvo, magari, quando il mutuatario, ponendo a specifica garanzia delle proprie obbligazioni un particolare cespite del patrimonio extrareddituale, avesse con ciò sancito un inequivocabile legame tra la valuta del credito e quella in cui egli «holds the assets from which the credit is to be repaid».
D’altro canto, il criterio delle residenza ha pure un’autonoma ragion d’essere, sia perché è plausibile che il consumatore, pur avendo un reddito in divisa straniera, possa nondimeno disporre di ulteriori risorse economiche nella valuta del suo stato di residenza (provenienti, ad esempio, da investimenti, donazioni, successioni …), e che potrebbero essergli eventualmente utili a sostenere il mutuo, finanche in misura considerevole, là dove, ad esempio, perdesse la propria occupazione; sia, inoltre, perché la moneta nella quale egli riceve il reddito, nel corso del tempo necessario al rimborso del finanziamento, potrebbe anche mutare, a seguito di un cambio di occupazione, e magari divenire quella avente corso legale nello stato di residenza: ora, se fosse da considerare prestito in valuta estera solo il prestito denominato in una valuta diversa da quella in cui il reddito è percepito, il consumatore che avesse stipulato il contratto di credito in una moneta diversa da quella avente corso legale nel suo Stato membro di residenza, ma analoga a quella in cui riceveva il reddito, non potrebbe poi invocare i meccanismi di tutela previsti dall’art. 23 per far fronte al rischio di cambio neppure qualora l’avvenuto mutamento della valuta reddituale rendesse assai più oneroso l’adempimento delle sue obbligazioni restitutorie.
Sempre con riguardo al criterio della residenza, è ancora da notare come esso non venga qui accompagnato da accezioni quali “normale” o “abituale”, pure altrove adoperate dal diritto europeo. Tuttavia, il concetto di residenza, come già nel nostro ordinamento (art. 43, secondo comma, c.c.), indica di per sé una tendenziale stabilità della dimora, e dunque può essere richiamata, in mancanza di altre indicazioni normative, la definizione di residenza (normale/abituale) che compare, identica nella sostanza, all’art. 12 della dir. 2006/126/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 dicembre 2006, concernente la patente di guida, e all’art. 6 della dir. 2009/55/CE del Consiglio del
25 maggio 2009, relativa alle esenzioni fiscali applicabili all’introduzione definitiva di beni personali di privati provenienti da uno Stato membro, secondo la quale il luogo di residenza corrisponde al luogo in cui una persona dimora abitualmente, ovvero almeno centottantacinque giorni all’anno in ragione di legami personali e professionali, oppure, nel caso di una persona senza legami professionali, per ragioni di legami personali che rivelano l’esistenza di una stretta correlazione tra la persona in questione e il luogo in cui abita(8).
Infine, sebbene l’oggetto della dir. 17/2014 sia rappresentato proprio dal credito necessario all’acquisto di beni immobili residenziali, ovvero di immobili destinati ad essere abitati continuativamente dal consumatore o da un suo familiare, l’art. 4, n. 28, lett. b, richiama unicamente il luogo di residenza abituale del consumatore al momento della conclusione del contratto (e non il luogo ove è posto l’immobile in cui andrà ad abitare), essendo in tal momento che deve essere definita la valuta oggetto del medesimo.
Gli obiettivi della dir. 17/2014 rispetto ai prestiti in valuta estera
Le regole che la direttiva serba ai prestiti in valuta estera sono introdotte da alcune valutazioni, espresse nei considerando che precedono i vari articoli e che illustrano gli intendimenti del legislatore europeo in materia(9).
Al considerando n. 4 si legge, infatti, che nei mercati del credito ipotecario all’interno dell’Unione sono stati ravvisati - tra gli altri - anche alcuni problemi relativi ai crediti denominati in valuta estera e contratti dai consumatori al fine di beneficiare di un tasso di interesse più favorevole, sebbene ciò non fosse sempre preceduto da un’adeguata informazione o comprensione dei rischi di cambio insiti in tali operazioni. I problemi in questione sono anzitutto individuati in carenze regolamentari ed in fenomeni di più ampia portata, quali la situazione economica generale e la scarsa cultura finanziaria dei mutuatari. Inoltre, è ravvisata tra i diversi Stati membri una notevole varietà di regimi, «inefficaci, incoerenti o [addirittura] inesistenti», per quanto riguarda la disciplina degli intermediari del credito e degli enti non creditizi che erogano crediti per beni immobili residenziali. Simili premesse, prosegue il quarto considerando, possono allora produrre significativi effetti “a cascata” sul piano macroeconomico, danneggiare i consumatori ed ergere barriere economiche o giuridiche alle attività transfrontaliere, creando condizioni diseguali per gli operatori del mercato.
Al considerando n. 30, poi, si trova più dettagliatamente anticipato il tipo di intervento che il legislatore europeo ritiene necessario predisporre con riguardo ai prestiti in valuta estera: intervento che comporta l’adozione di misure volte, da un lato, a garantire la piena consapevolezza, da parte dei consumatori, del rischio che stanno assumendo con la sottoscrizione di tali contratti, e, da un altro lato, a consentire loro di limitare l’esposizione al rischio di cambio o attraverso il riconoscimento del diritto di convertire la valuta in cui è denominato il credito, ovvero attraverso altri meccanismi, quali l’introduzione di limiti massimi o, qualora risulti sufficiente, anche solo il rilascio di determinate avvertenze.
Prima di passare all’esame della disciplina specifica, è tuttavia opportuno accennare a quelle disposizioni incaricate di ridurre l’asimmetria informativa del consumatore, nei confronti dei creditori, degli intermediari del credito o dei loro rappresentanti designati, per quanto concerne, soprattutto, le conseguenze della stipulazione di un contratto di credito in valuta estera.
Da questo punto di vista, l’art. 11, che precisa intanto le informazioni di base che debbono essere incluse in ogni forma di pubblicità dei contratti di credito che indichi un tasso di interesse o qualsiasi altro dato numerico riguardante il costo del finanziamento, stabilisce, al secondo comma, lett. j, che già in questa fase, se si tratta di un contratto denominato in valuta estera, sia rilasciata un’avvertenza relativa al fatto che eventuali fluttuazioni del tasso di cambio potrebbero incidere sul calcolo dell’importo che il consumatore sarà tenuto a corrispondere.
L’art. 13, primo comma, lett. f, poi, include l’indicazione della valuta o delle valute estere disponibili, unitamente alla spiegazione delle implicazioni che per il consumatore può avere la denominazione del credito in tali valute, tra le informazioni generali «chiare e comprensibili» che debbono in qualsiasi momento essere rese disponibili, su supporto cartaceo o su altro supporto durevole(10 )o in forma elettronica.
L’art. 14, inoltre, dedicato alle informazioni precontrattuali, impone, entro un serrato orizzonte temporale, e dopo che il consumatore abbia fornito le informazioni «necessarie» circa le sue esigenze, la sua situazione finanziaria e le sue preferenze (ex art. 20), che gli siano rilasciate mediante il Pies le informazioni personalizzate necessarie a confrontare i crediti disponibili sul mercato, a valutarne le implicazioni e a prendere una decisione informata sull’opportunità di stipulare o meno il contratto di credito.
L’art. 16, infine, richiede che le informazioni precontrattuali siano corredate di «spiegazioni adeguate», ovvero tali da consentire al consumatore di valutare se il contratto di credito sia adatto alle sue esigenze ed alla sua situazione finanziaria, puntualmente indicando, precisa la norma (primo comma, lett. c), anche gli effetti specifici che i prodotti proposti possono avere per il consumatore, incluse le conseguenze del mancato pagamento da parte sua.
I limiti al rischio di cambio
La regola generale
Il primo comma dell’art. 23 stabilisce che gli Stati membri debbono predisporre un quadro normativo
«adeguato» dei prestiti in valuta estera, tale cioè da assicurare almeno, al momento della conclusione del contratto: o il diritto del consumatore di convertire il contratto in una valuta diversa, e a determinate condizioni (lett. a); oppure, la presenza di altri meccanismi volti a limitare il rischio di cambio a cui il consumatore è esposto in forza del contratto (lett. b).
Il secondo comma, poi, precisa che gli Stati membri sono liberi di contemplare, nelle normative interne, o entrambe le anzidette forme di tutela in favore del consumatore, ovvero un tipo di tutela soltanto, o, ancora, di lasciare direttamente al creditore la facoltà di precisare se al consumatore spettino, di nuovo, entrambe le tutele o solo una di esse.
Là dove il consumatore eserciti la facoltà di conversione prevista al primo comma, lett. a, dell’art. 23, il secondo comma specifica inoltre che la valuta alternativa in cui il debito sarà espresso corrisponderà o a quella in cui il consumatore percepisce principalmente il reddito o detiene gli attivi con i quali dovrà rimborsare il credito, come indicato al momento della più recente valutazione di merito creditizio condotta in relazione al contratto di credito (lett. a); oppure, a quella dello Stato membro in cui il consumatore era residente al momento della conclusione del contratto di credito o in cui è attualmente residente (lett. b).
Come si vede, si tratta di criteri analoghi a quelli adoperati all’art. 4, n. 28, ai quali si affiancano ora precisazioni ulteriori che, però, possono essere tenute presenti anche rispetto alla definizione di prestito in valuta estera su cui ci siamo già soffermati.
Alla lett. a, anzitutto, si fa riferimento alla valutazione del merito creditizio, ovvero alla formula
- già presente nella dir. 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008 relativa ai contratti di credito ai consumatori (art. 8), e introdotta nel nostro sistema all’art. 124- bis, D.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (Tub), ad opera del D.lgs. 13 agosto 2010, n. 141(11 )- con cui si indica la «valutazione delle prospettive che le obbligazioni debitorie risultanti dal contratto di credito siano rispettate» (art. 4, n. 17). Tale valutazione deve essere condotta dal creditore, ai sensi dell’art.
20, primo comma, dir. 17/2014, sulla base delle informazioni inerenti al reddito ed alle spese del consumatore, nonché delle altre informazioni in ordine alla sua situazione economica e finanziaria, che debbono tutte essere raccolte secondo criteri di necessarietà, sufficienza e proporzionalità(12). Si tratta di un passaggio fondamentale, giacché l’art. 18, quinto comma, lett. a, stabilisce che il creditore eroga il credito solo quando i risultati della valutazione del merito creditizio indichino che gli obblighi derivanti dal contratto di credito saranno verosimilmente adempiuti secondo le modalità prescritte dal contratto stesso.
Dal complesso delle informazioni, decisive e avvalorate(13), su cui si basa il riscontro della “meritevolezza” del consumatore che richiede il credito, dunque, occorre allora trarre - già prima della conclusione del contratto, al fine di definire se questo avrà o meno ad oggetto un prestito in valuta estera, ex art.
4, n. 28 - anche l’informazione relativa alla valuta in cui si esprimono la principale fonte di reddito del consumatore o gli elementi attivi del suo patrimonio preposti al soddisfacimento del credito (invero, il testo della lett. a, dell’art. 4, n. 28, non specifica che deve essere presa in considerazione la fonte “principale” del reddito del consumatore, ma non vi è dubbio che si debba seguire tale ragionevole parametro qualora il consumatore abbia più voci di reddito espresse in valute diverse(14)).
Venendo ora all’altro criterio, preposto ad individuare la divisa di eventuale conversione del prestito, e contenuto all’art. 23, secondo comma, lett. b, si nota che esso richiama in primis, ancora in corrispondenza all’art. 4, n. 28, lett. b, la valuta dello Stato membro in cui il consumatore era residente al momento della conclusione del contratto di credito; tuttavia, rispetto a quest’ultima disposizione, aggiunge che la valuta originaria può essere convertita anche in quella avente corso legale nello Stato membro ove il consumatore risiede al tempo in cui esercita detta facoltà di conversione. Si tratta di una precisazione coerente rispetto alla natura dei contratti di credito, che sono appunto contratti di durata, e che intende assicurare al consumatore la possibilità di convertire il prestito nella valuta del paese ove, successivamente alla stipulazione del contratto, abbia instaurato un legame stabile, la quale potrebbe finanche essere divenuta la valuta che caratterizza adesso in prevalenza il suo reddito o il suo patrimonio.
La facoltà del consumatore di convertire il prestito in altra valuta
Come poc’anzi ricordato, la lett. a, del primo comma dell’art. 23 assegna al consumatore il diritto di
«convertire il contratto» in una valuta alternativa e a determinate condizioni. Si tratta, come pure abbiamo visto, di una facoltà che la direttiva assegna intanto in via potenziale, giacché la disponibilità del rimedio, esclusiva o concorrente, o, viceversa, la sua indisponibilità, viene rimessa dal secondo comma alle scelte che compirà il legislatore dell’attuazione.
L’istituto, a prima vista, rammenta la facoltà accordata dall’art. 1278 c.c. al debitore di una somma determinata in moneta non avente corso legale nello Stato di pagare in moneta legale e al corso del cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento.
In dottrina si discute peraltro sulla struttura di siffatta obbligazione pecuniaria. Secondo un’opinione, saremmo in presenza di una duplicità di prestazioni dedotte in obligatione, onde per cui la fattispecie sarebbe da ricondurre al novero delle obbligazioni alternative(15). A parere di altri, invece, la norma delineerebbe un’obbligazione con facoltà alternativa (o obbligazione facoltativa), nella quale, cioè, una soltanto è la prestazione oggetto dell’obbligazione, sebbene sia comunque consentito al debitore di estinguere altrimenti il suo obbligo; ciò sarebbe supportato dal testo dell’art. 1278 c.c., che sembra considerare quale unica prestazione realmente dovuta solo quella di eseguire il pagamento attraverso la moneta estera, salvo attribuire al debitore la facoltà di liberarsi eseguendo una prestazione diversa, la quale, però, non è assunta in obligatione(16).
Una terza opinione, ancora, segnala invece come l’inquadramento della figura nei ranghi delle obbligazioni con facoltà alternativa presenti significative incompatibilità con la disciplina propria di queste ultime, rendendolo dunque non del tutto convincente. In particolare, l’obbligazione facoltativa si estingue in via automatica quando non sia possibile procurarsi l’oggetto dedotto nel rapporto; orbene, dalla disciplina delle obbligazioni inerenti a un pagamento in moneta estera, al contrario, si ricava che il debitore, sia pure in ultima istanza, resta comunque tenuto ad eseguire il pagamento versando l’importo equivalente nella valuta nazionale avente corso legale (artt. 1279 e 1280, secondo comma, c.c.). L’impossibilità di procurarsi l’oggetto originario, infatti, comporta che la facoltà di pagare in valuta nazionale divenga un vero e proprio obbligo, in forza di un fenomeno che non si spiega secondo il dualismo tra obbligazioni alternative ed obbligazioni con facoltà alternativa, bensì, piuttosto, attraverso l’intervento di un meccanismo di conversione legale dell’oggetto del rapporto che conferisce un ulteriore tratto di specialità ai debiti pecuniari rispetto al sistema generale delle obbligazioni; specialità che in questo contesto si giustifica con il peculiare nesso tra la natura dell’oggetto e la nozione di impossibilità, e che rende insoddisfacente spiegare il mutamento del rapporto, ex artt.
1279 e 1280, secondo comma, c.c., anche ricorrendo alla semplificazione che si verifica di solito nelle obbligazioni alternative allorquando una delle due prestazioni, prima della concentrazione, diventi impossibile per causa non imputabile al debitore. In tal senso, infatti, è da tenere presente che pure là dove l’oggetto dell’obbligazione fosse incontestabilmente la divisa straniera, in virtù del patto espresso che mettesse fuori gioco la valuta nazionale, ex art. 1279 c.c., l’obbligazione si convertirebbe nondimeno in quest’ultima valuta qualora risultasse impossibile procurarsi quella straniera(17).
Al netto di questo raffronto con la disciplina interna, allora, emerge come il diritto di conversione del contratto, a cui fa riferimento l’art. 23, primo comma, lett. a, non corrisponda in alcun modo alla prerogativa riconosciuta al debitore dall’art. 1278 c.c. Al di là delle differenze che intercorrono tra le varie ricostruzioni, infatti, quest’ultima norma è incentrata sul momento esecutivo del rapporto, interessandone unicamente l’oggetto della prestazione; la facoltà accordata al debitore dalla direttiva, al contrario, riveste una portata più ampia, come testimonia anche il dato letterale della disposizione, che non è circoscritto alla mera facoltà di pagare in moneta diversa da quella originariamente convenuta, bensì richiama proprio la «conversione del contratto», seppure, chiaramente, in un senso profondamente diverso da quello che a questa espressione ricollega l’art. 1424 c.c. (il quale, appunto, denomina conversione l’attitudine del contratto nullo a produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale rispetti i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, risulti che queste lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità dell’atto stipulato)(18).
Più precisamente, la figura della conversione allude qui ad un peculiare ius variandi(19 )previsto in favore del consumatore, ovvero ad un diritto potestativo(20 )che attribuisce a questi il potere di mutare unilateralmente una parte di primaria importanza del regolamento contrattuale, quale è quella relativa alla definizione della valuta in cui il prestito è espresso, sostituendo la pattuizione inizialmente concordata dalle parti con una nuova indicazione attinta dal secondo comma dell’art. 23. La duplice circostanza, poi, che il diritto in questione, da un lato, abbia un fondamento normativo, e, da un altro lato, sia rimesso al rispetto di precise condizioni di esercizio, che debbono essere già predeterminate nel contratto di credito, come si evince dal primo comma, lett. a, dell’art. 23, consente poi di ritenere superate quelle opportune cautele che tradizionalmente circondano lo ius variandi allorquando sia riconducibile ad un’esclusiva costruzione dell’autonomia privata, le quali ne subordinano l’ammissibilità e l’efficacia ad un’articolata valutazione che tiene conto dell’interesse che è preposto a tutelare e del grado di discrezionalità riconosciuto al titolare nel suo esercizio(21).
Piuttosto, atteso che la previsione delle condizioni alle quali soggiace il diritto di conversione(22 )sarà solitamente spettanza del creditore, in qualità di soggetto predisponente l’intero contratto, essendo difficile immaginare sul punto l’instaurarsi di una specifica trattativa con il consumatore, si pone semmai il problema di evitare che le condizioni adottate possano risultare così gravose da scoraggiare, o di fatto precludere, l’esercizio del diritto in parola. Al riguardo, e fermo restando che la legge di attuazione potrebbe addirittura non contemplare lo ius variandi, o finanche consentire al creditore di escluderlo (ma solo in presenza di altri strumenti a tutela del debitore contro il rischio di cambio), là dove ciò non avvenisse, l’effettività di tale rimedio, in mancanza di specifiche norme introdotte ad hoc in sede di recepimento, verrebbe presidiata dalla disciplina delle clausole vessatorie, la quale (artt. 33 ss. cod. cons.) sancisce la nullità di protezione delle clausole che, a dispetto della buona fede, comportano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; squilibrio che qui si tradurrebbe nella privazione, o comunque nell’intollerabile restrizione, di un diritto in astratto riconosciuto dalla legge al consumatore ma, in concreto, reso inoperante in forza della gravosità delle clausole che ne regolano l’esercizio.
In ordine alle condizioni che il professionista potrebbe apporre nel contratto onde subordinarvi il ricorso al diritto di conversione, può essere tracciato un nesso tra questo aspetto ed il sesto comma dell’art. 23, ove si rinviene una previsione i cui esiti sono suscettibili di dare adito a qualche perplessità, alla luce di una lettura complessiva dell’intero articolo.
La previsione in parola, dopo aver stabilito che le disposizioni applicabili a norma dell’art. 23 debbono essere comunicate al consumatore nel Pies e nel contratto di credito, afferma che se nel contratto di credito «non esiste alcuna disposizione volta a limitare il rischio di cambio a cui il consumatore è esposto nel caso di una fluttuazione del tasso di cambio inferiore al 20%», il Pies deve includere un esempio illustrativo dell’impatto che una svalutazione del 20% della valuta nazionale del mutuatario avrebbe sull’importo dovuto in base al contratto.
La regola presenta appunto un certo margine di ambiguità, giacché non si coordina agevolmente con altre parti dell’art. 23. Infatti, la circostanza che il contratto possa non comprendere alcuna disposizione tesa a contenere il rischio di cambio - per fluttuazioni inferiori al 20% - stride con i rimedi che l’art. 23, al primo comma, parrebbe assegnare in ogni caso al consumatore, i quali, anche là dove la loro articolazione venisse rimessa dal legislatore interno al creditore, sembrerebbe comunque che non possano mai essere posti del tutto fuori gioco, dovendo il contratto contemplare almeno o il diritto di conversione o, in mancanza, qualche altro meccanismo teso a contrastare il rischio di cambio. Eppure, alla luce del sesto comma dell’art. 23, tale monito risuona assai meno perentorio, giacché il creditore, a cui la legge nazionale affidi la facoltà di predisporre i mezzi di prevenzione degli effetti del rischio di cambio, o anche solo l’indiscriminata libertà di definire i presupposti di esercizio del diritto di conversione, appare infatti libero di subordinare l’intervento dei meccanismi di contrasto di tale rischio alla sola circostanza che esso raggiunga o oltrepassi la soglia del 20%. In altri termini, la tutela del consumatore si profila diversamente declinata in ragione delle manifestazioni del rischio di cambio: innanzi alla prospettiva di oscillazioni dei tassi di cambio contenute al di sotto della soglia del 20%, infatti, è sufficiente che il creditore abbia assolto ad una sorta di “caveat debitor”(23), ovvero al dovere di arricchire il novero delle informazioni contenute nel Pies con un pragmatico ed immediato esempio di quel che una fluttuazione del 20% del tasso di cambio potrebbe, in concreto, comportare sulle obbligazioni che il consumatore assumesse con il contratto di credito(24). Viceversa, di fronte all’eventualità di variazioni del tasso di cambio che tocchino od oltrepassino la soglia del
20%, la mera tutela preventiva, rivolta essenzialmente a colmare un gap cognitivo e di esperienza del consumatore, diverrebbe inadeguata, e, al riguardo, il sesto comma dell’art. 23, se letto in connessione, da un lato, con le «determinate condizioni» a cui la lett. a, del primo comma affida l’esercizio dello ius variandi, e, da un altro lato, con la possibile evenienza, contemplata dallo stesso comma sesto dell’art.
23, che il contratto non preveda alcuna disposizione volta a limitare il rischio di cambio inferiore al tetto del 20%, impedisce al creditore di introdurre clausole volte a negare al consumatore il diritto di convertire il prestito in altra valuta, o il diritto di ricorrere agli ulteriori meccanismi preposti alla limitazione del rischio di cambio, ex art. 23, primo comma, lett. b, tutte le volte in cui, nel corso del rapporto, si registri una svalutazione della moneta nazionale del consumatore pari o superiore al 20% rispetto a quella in cui è denominato il prestito.
Se la ricostruzione della trama interna dell’art. 23 così delineata è corretta, allora, può infine segnalarsi l’opportunità che il legislatore dell’attuazione, qualora intenda assicurare una tutela effettiva al consumatore contro il rischio di cambio, eviti di rimettere all’assoluta disponibilità del creditore quel diritto di conversione che si profila come uno dei più efficaci e stabili strumenti di reazione ad impreviste o imprevedibili variazioni dei tassi di cambio, poiché, altrimenti, il creditore sarebbe sempre libero di condizionarne l’esercizio ad una fluttuazione del tasso di cambio almeno pari al 20%.
Gli «altri meccanismi» di cui all’art. 23, primo comma, lett. b)
1. Massimali e condizioni di ammissibilità al prestito
Il primo comma dell’art. 23, alla lett. b, fa riferimento ad «altri meccanismi volti a limitare il rischio di cambio» che possono essere previsti assieme o in alternativa al diritto di conversione.
Su quali siano i meccanismi in parola, però, la direttiva non fornisce molte indicazioni.
Siffatta vaghezza discende anche dalla genesi dell’art. 23, il cui testo attuale non era presente nella originaria proposta della Commissione del 31 marzo 2011(25 )- dove, anzi, ai prestiti in valuta estera non era serbato che un isolato richiamo all’interno delle informazioni precontrattuali(26 )- bensì è stato inserito attraverso i corposi e consistenti emendamenti del Parlamento europeo confluiti nella risoluzione legislativa del 10 dicembre 2013.
A seguito di questa modifica, il considerando n. 30 della direttiva precisa ora, come anticipato, che gli altri meccanismi suscettibili di essere adottati possono consistere nell’introduzione di limiti massimi (agli importi dei prestiti in valuta estera), oppure, qualora siano reputate sufficienti al fine di contenere il rischio di cambio, anche in ulteriori avvertenze sugli effetti che possono discendere dalla sottoscrizione di un mutuo in una divisa diversa rispetto a quella in cui il consumatore percepisce il reddito o a quella del suo stato di residenza.
Tale posizione è stata ribadita anche dalla Commissione, in ordine ad una petizione presentata al Parlamento europeo da una cittadina greca con cui si sollecitava un intervento dell’Unione (intervento peraltro estraneo ai poteri della Commissione) al fine di sciogliere i contratti di prestito in franchi svizzeri che erano stati stipulati da quattro banche sistemiche greche nel biennio 2007-2008, sostenendo che questi istituti non avessero informato i mutuatari integralmente, con accuratezza ed in anticipo dei rischi connessi a tali prestiti, venendo in questo modo meno ai principi di buona fede e di etica bancaria(27).
I meccanismi così suggeriti dalle fonti europee consentono alcune valutazioni.
Incominciando, intanto, dal secondo tipo di meccanismo ipotizzato dal trentesimo considerando, non persuade l’idea che l’incremento delle informazioni, sia pure in veste di avvertenze, da dare al consumatore sia davvero idoneo a costituire un’alternativa in senso tecnico allo ius variandi. A parte, infatti, che sarebbe opportuno che il consumatore ricevesse in ogni caso informazioni uniformi, complete e precise prima di concludere il contratto, non si vede poi che genere di informazioni supplementari questi potrebbe ottenere oltre a quelle inerenti alla «spiegazione delle implicazioni» dei prestiti in valuta estera, le quali rientrano già all’interno delle informazioni generali che il creditore è comunque tenuto a dare, ex art. 13, lett. f, in modo chiaro e comprensibile e su supporto cartaceo, o su altro supporto durevole, o in forma elettronica. Tantopiù, ancora, che sul creditore grava normalmente pure l’obbligo di fornire al consumatore «informazioni [precontrattuali] personalizzate necessarie a confrontare i crediti disponibili sul mercato, [a] valutarne le implicazioni e [a] prendere una decisione informata sull’opportunità di concludere un contratto di credito», le quali debbono pertanto essere ritagliate sulla base delle notizie - verificabili, ex art. 20 - a sua volte fornite dal consumatore e relative alle sue esigenze, alla sua situazione finanziaria ed alle sue preferenze (art. 14, primo comma, lett. a). Ma non solo: l’art. 16, infatti, ribadisce che le «spiegazioni» rese dal creditore (anche mediante le informazioni precontrattuali) debbono altresì essere «adeguate», ovvero tali da consentire al consumatore di valutare «se il contratto di credito e i servizi accessori proposti siano adatti alle sue esigenze e alla sua situazione finanziaria» (primo comma); esse, inoltre, debbono illustrare, tra l’altro,
«gli effetti specifici» che i prodotti proposti possono avere nei suoi confronti (primo comma, lett. c). Insomma, se il creditore (così come l’intermediario del credito o il suo rappresentante designato) adempie puntualmente gli obblighi informativi che in ogni caso precedono la conclusione dei contratti di credito, non sembra che l’imposizione di altri doveri di disclosure inerenti ai prestiti in valuta estera permetta al consumatore di apprendere più di quanto il corretto assolvimento degli obblighi posti dagli artt. 14 e ss. dovrebbe già consentirgli di conoscere al fine di assumere una decisione consapevole. Dunque, non è auspicabile che il legislatore dell’attuazione delinei, quale alternativa al diritto di conversione, un surplus informativo (probabilmente più formale che sostanziale), atteso, peraltro, che volendo prestare attenzione al dato letterale della direttiva, se non vi è dubbio che lo ius variandi sia idoneo a «limitare il rischio di cambio», così come, in linea generale, anche la previsione di un massimale, in ragione del contenimento dell’esposizione patrimoniale del debitore, un risultato di analoga portata non sarebbe invece raggiunto dai soli obblighi informativi, i quali sono certamente indispensabili a rendere il consumatore effettivamente edotto dei rischi comportati dai mutui in valuta estera, ma, di per sé, tali informazioni non contribuiscono realmente a circoscrivere la portata di tale rischio una volta che sia stato assunto.
Venendo adesso all’opzione che prevede, invece, l’impiego di massimali, la direttiva parrebbe quasi ipotizzare che il legislatore dell’attuazione provveda ad individuarli direttamente, oppure che ne rimetta l’individuazione ai singoli creditori, ma, presumibilmente, all’interno di una soglia invalicabile fissata ex lege, lasciando poi eventualmente liberi costoro di affiancare o meno a tale misura anche il diritto di conversione, sempre in base al secondo comma dell’art. 23. Ad ogni modo, trattandosi di massimali, ovvero di parametri preesistenti alla conclusione del contratto, è chiaro che ad essi non è riferibile l’evenienza, prevista dal sesto comma dell’art. 23, che i meccanismi di contrasto del rischio di cambio possano essere disattivati dal contratto, qualora la fluttuazione del tasso di cambio resti inferiore al 20%, essendo tale fluttuazione un evento che si verifica in seguito alla stipulazione del mutuo ed alla nascita delle relative obbligazioni in capo al mutuatario.
Ciò detto, l’impiego di un massimale secco, ossia corrispondente ad un importo oltre il quale il prestito in valuta estera non possa essere richiesto, appare un’alternativa troppo rigida ed inefficiente, considerando che la condizione reddituale e patrimoniale di ogni mutuatario varia da caso a caso. Sarebbe dunque preferibile che il legislatore dell’attuazione, attraverso parametri che tenessero conto, da un lato, della richiesta del mutuatario, e, da un altro lato, della sua situazione economica complessiva come ricostruita attraverso la valutazione di merito creditizio, individuasse un rapporto, espresso in percentuale, tra importo mutuabile e dotazione patrimoniale del mutuatario, indicativo del tetto massimo oltre il quale un mutuo in valuta estera non può essere accordato(28), sulla scia di quanto, per certi versi, è già avvenuto in Francia, come a breve vedremo.
In tal senso, spunti importanti provengono dalla raccomandazione del Comitato europeo per il rischio sistemico del 21 settembre 2011, proprio dedicata ai prestiti in valuta estera(29). Nell’ampio e dettagliato documento, infatti, si leggono alcune indicazioni, rivolte alle autorità nazionali di vigilanza ed agli Stati membri, che vale la pena rammentare.
Il testo si apre intanto con una prima raccomandazione (la A) dedicata all’adeguatezza delle informazioni che gli istituti finanziari debbono fornire ai prenditori; in particolare, i prenditori debbono ricevere informazioni sufficienti a consentire loro di assumere decisioni «consapevoli e prudenti», che includano anche una dimostrazione dell’impatto che un forte deprezzamento della moneta avente corso legale nello Stato membro nel quale il prenditore è domiciliato, o di un aumento del tasso di interesse estero, potrebbero avere sulle rate di rimborso(30). La seconda parte della raccomandazione, poi, richiede che gli istituti finanziari siano incoraggiati ad offrire alla clientela prestiti in moneta locale
«per le stesse finalità dei prestiti in valuta estera», con il che si esorta l’adozione di strategie, da parte degli Stati membri e delle autorità di vigilanza, in qualche modo tese a rendere più concorrenziale, dal punto di vista delle condizioni offerte, il mercato dei prestiti in moneta nazionale, onde accrescerne la «sostituibilità» rispetto a quelli in valuta estera ed incrementare la competizione a vantaggio dei prenditori(31).
La raccomandazione B, invece, è rivolta in modo particolare al merito creditizio dei prenditori, e, tra l’altro, sottolinea come la concessione di prestiti in valuta estera andrebbe riservata unicamente a prenditori che dimostrino un significativo merito di credito, tenendo conto della struttura di rimborso del prestito e della capacità dei prenditori di resistere a shock avversi del cambio e del tasso di interesse estero; all’uopo, si suggerisce anche di valutare l’introduzione di requisiti di sottoscrizione più rigorosi, basati sul rapporto fra servizio del debito e reddito e sul rapporto prestito/valore. Infine, la raccomandazione C invita le autorità di vigilanza a monitorare se i prestiti in valuta estera alimentino un’eccessiva espansione del credito complessivo, auspicando in tal caso l’adozione di regole ulteriori - o più rigorose - di quelle delineate nella raccomandazione B(32).
La strada tracciata dalla raccomandazione B, in particolare, è quella che è stata intrapresa dal legislatore francese, il quale, con l’art. 54 della loi 2013-672 del 26 luglio 2013(33), ha introdotto l’art. L312-3-1 code consom., secondo cui il consumatore non può contrarre prestiti denominati in una valuta estranea all’Unione europea e rimborsabili in moneta nazionale, cioè in euro, a meno che non dichiari, al momento della conclusione del contratto, di percepire il proprio reddito in quella divisa o di detenere un patrimonio espresso nella stessa valuta, salvo il caso in cui il rischio di cambio sia posto a carico di un altro soggetto (con le modalità di cui diremo). Là dove il mutuatario risponda ai requisiti soggettivi stabiliti per ricevere un prestito in valuta estera, il secondo comma dell’art. L312-3-1 prevede allora che egli debba essere informato, prima della sottoscrizione, dei rischi che questa tipologia di contratti comporta e dell’eventuale possibilità di convertire l’importo del finanziamento nella valuta nazionale. La definizione della disciplina di dettaglio viene poi rimessa, dal terzo comma, al décret n. 2014-544 del
26 maggio 2014, relatif aux prêts libellés en devises étrangères à l’Union européenne. Con questo provvedimento è stato introdotto all’interno del code de la consommation il nuovo art. R312-0, il cui secondo comma stabilisce che il prestito in valuta estera possa essere stipulato solo con un mutuatario che, sopportando il rischio di cambio, abbia dichiarato «sur l’honneur», mediante un documento che andrà allegato al contratto, di percepire oltre la metà dei suoi redditi annuali nella valuta oggetto del prestito, ovvero di disporre, al momento della sottoscrizione del contratto, di un patrimonio finanziario o immobiliare, espresso in quella valuta, che sia almeno pari al 20% del valore del prestito.
Alla luce di queste condizioni selettive nell’accesso ai prestiti in valuta estera, infine, la seconda parte del primo comma dell’art. R312-0 ribadisce altresì il carattere facoltativo del diritto di conversione del mutuatario, il quale, infatti, potrebbe anche non essere contemplato nel contratto (tuttavia, se tale diritto è previsto, il documento informativo da consegnare al consumatore prima della conclusione del contratto deve precisarne le modalità di esercizio).
2. (Segue) Contratti finanziari
Vi è, infine, da chiedersi se tra gli «altri meccanismi» di cui al primo comma, lett. b, dell’art. 23, possano rientrare anche quei contratti a cui, soprattutto nei rapporti che coinvolgono un importatore o un esportatore, si fa comunemente ricorso nella pratica commerciale per contrastare il rischio di cambio, quali, ad esempio, i currency futures, le currency options o i currency swaps(34).
La legittimità di questo genere di contratti, assai diversi tra loro per natura ed effetti, non è certo posta in dubbio dalla direttiva, ed anzi, talvolta, nel diritto italiano, l’impiego di un determinato strumento finanziario è stato addirittura imposto proprio a copertura del rischio di cambio: è il caso del D.m. 5 luglio 1996, n. 420, che, nel dettare norme per l’emissione di titoli obbligazionari da parte degli enti locali, all’art. 2 aveva stabilito che, per la copertura del rischio di cambio, tutti i prestiti in valuta estera contratti dall’ente locale dovessero essere accompagnati, al momento dell’emissione, da una corrispondente operazione di swap che trasformasse, per l’emittente, l’obbligazione in valuta in obbligazione in lire, senza introdurre elementi di rischio. Tale vincolo era stato poi ribadito nel decreto del Ministero dell’economia e delle finanze 1° dicembre 2003, n. 389, che, nel regolamentare l’accesso degli enti territoriali al mercato dei capitali, all’art. 3 aveva previsto che, in caso di operazioni di indebitamento effettuate in valute diverse dall’euro, fosse obbligatorio prevedere la copertura del rischio di cambio mediante «swap di tasso di cambio» (individuando inoltre, al secondo comma, anche ulteriori operazioni derivate consentite).
Invero, le vicende che hanno riguardato l’impiego di strumenti derivati da parte degli enti locali non sono, probabilmente, il miglior viatico in materia. Infatti, dopo le iniziali aperture normative volte ad assecondare esclusive esigenze di hedging, a partire dalla legge finanziaria del 2002 era stato consentito un dilagante utilizzo di questi contratti al fine di favorire una politica di gestione attiva dell’indebitamento che mirasse alla riduzione dei debiti pregressi gravanti sui bilanci(35), ma i cui esiti effettivi, non di rado scaturiti da un’adesione non del tutto consapevole ai meccanismi di funzionamento dei derivati, hanno poi indotto il legislatore dapprima a sospendere la possibilità di farvi ricorso (art. 62, sesto comma, D.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con mod. L. 6 agosto 2008, n. 133), e, infine, salvo alcune ipotesi eccezionali, a vietarla del tutto (art. 1, comma n. 572, L. 27 dicembre 2013, n. 147, la legge di stabilità 2014, che ha modificato il testo dell’art. 62 D.l. 112/2008)(36).
Di primo acchito, la questione se la direttiva intendesse o meno ricomprendere tra gli «altri meccanismi» pure i contratti derivati potrebbe indurre ad una risposta negativa, giacché questi negozi sono normalmente caratterizzati da una componente di aleatorietà, a seconda dei casi più o meno marcata(37), la quale non contribuisce dunque a farli apparire come una congrua alternativa al diritto di conversione(38), ovvero ad una facoltà che, se esercitata, comporta l’effetto - sempre certo nei suoi esiti - di convertire il credito a un dato tasso di cambio, e, segnatamente, al tasso di mercato applicabile il giorno della domanda di conversione o all’altro tasso eventualmente precisato nel contratto (art.
23, terzo comma), laddove le risultanze degli strumenti derivati tendono invece a restare in balia di dinamiche macroeconomiche dal costante ed incerto sviluppo.
D’altro canto, la versatilità degli strumenti derivati è tale da non escludere che essi possano essere adoperati anche al fine di realizzare una piena funzione di garanzia contro il rischio di cambio. Nella direttiva vi sono anche alcuni segnali in tal senso, là dove si prospetta la possibilità che il contratto di credito sia accompagnato pure da un servizio o da un prodotto finanziario: si legga, al riguardo, il considerando n. 24, che fa appunto riferimento alla «combinazione dei contratti di credito con uno o più servizi o prodotti finanziari sotto forma di pacchetto»(39); il considerando n. 25, poi, ammette che in alcuni casi possa essere giustificata la commercializzazione abbinata di prodotti finanziari assieme al contratto di credito, ad esempio quando il prodotto di investimento serva da ulteriore garanzia del credito; l’art. 4, n. 26 e 27, ancora, richiama l’inclusione nell’offerta o nella commercializzazione di un contratto di credito di prodotti o servizi finanziari nelle definizioni di «pratica di commercializzazione abbinata» e di «pratica di commercializzazione aggregata»; infine, l’art. 14, decimo comma, precisa che, ai fini delle comunicazioni mediante telefonia vocale di cui all’art. 3, terzo comma, della dir.
2002/65/CE, concernente la commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori, la descrizione delle principali caratteristiche del servizio finanziario, da fornire ai sensi dell’art. 3, terzo comma, lett. b, secondo trattino, dell’anzidetta direttiva, deve comprendere almeno gli elementi indicati all’all. II, parte A, sezioni da 3 a 6 della dir. 17/2014.
Inoltre, l’idea che il creditore possa proporre anche strumenti contrattuali volti al contrasto del rischio di cambio consentirebbe di comprendere appieno il senso di una disposizione - la seconda parte del quarto comma dell’art. 23 - che, altrimenti, sembrerebbe restare irrisolto. La prima parte del comma in parola contiene un obbligo, gravante sui creditori, che rafforza quel caveat debitor che costituisce parte integrante della tutela prevista per i consumatori: infatti, la previsione in esame impegna gli Stati membri a provvedere affinché, là dove un consumatore abbia contratto un prestito in valuta estera, il creditore lo avvisi regolarmente, su carta o su un altro supporto durevole, allorquando il valore dell’importo totale o delle rate periodiche che residuano a suo carico vari di oltre il 20% rispetto a quello che si avrebbe se si applicasse il tasso di cambio tra la valuta del contratto di credito e la valuta dello Stato membro applicabile al momento della conclusione del contratto di credito. La seconda parte del quarto comma, poi, stabilisce che l’avvertenza in questione deve informare il consumatore dell’aumento dell’importo totale dovuto, indicando, se previsto, il diritto di convertirlo in una valuta alternativa e le condizioni per farlo, ed illustrando altresì gli «altri eventuali meccanismi» per limitare il rischio di cambio.
Ora, è qui evidente il nesso con i meccanismi finalizzati a reagire al rischio di cambio a cui si fa cenno nel primo comma dell’art. 23, alla lett. a. Eppure, tenendo conto che questa informativa avviene quando il rapporto contrattuale è già sorto ed è nel pieno del suo svolgimento, gli «altri eventuali meccanismi» che adesso il creditore è tenuto a rammentare al consumatore difficilmente potrebbero corrispondere a quelli indicati nel considerando n. 30 della direttiva. In particolare, non trovano certamente riscontro nei massimali, che, se previsti, limitano, più radicalmente, e fin dall’inizio, la portata del mutuo; né, tantomeno, possono venire in ballo le «avvertenze» pure richiamate nel medesimo considerando, dato che la seconda parte del quarto comma dell’art. 23 già impone un obbligo di avvertire, senza contare, di nuovo, che, là dove il diritto di conversione non fosse previsto, i meccanismi in questione resterebbero l’unica alternativa del consumatore per fronteggiare il rischio di cambio, ma se questi consistessero solo in una mera avvertenza relativa ad un fenomeno già in corso - e a cui si è esposti in forza del contratto già stipulato - non offrirebbero, in realtà, alcuna effettiva difesa al debitore.
Da ultimo, l’indicazione forse più significativa, al fine di ritenere che tra i meccanismi in parola siano suscettibili di rientrare anche gli strumenti finanziari, proviene, da un lato, ancora dalla prima raccomandazione Cers, ove si legge pure che gli istituti finanziari debbono essere incoraggiati ad offrire alla clientela «strumenti finanziari a copertura del rischio di cambio», e, da un altro lato, da un raffronto comparatistico, ossia dall’art. R312-0 code consom., che pure ha avuto una genesi indipendente dalla dir. 17/2014 (tant’è che nel complesso la normativa francese risulta più restrittiva di quest’ultima nel disciplinare l’accesso ai prestiti in valuta straniera). Questa disposizione, infatti, al terzo comma, dopo aver precisato che il rischio di cambio si intende a carico del mutuatario allorquando la variazione dei tassi di cambio colpisce l’ammontare delle rate, la durata del mutuo od il costo totale del finanziamento, afferma che «lorsque l’emprunteur a souscrit une assurance ou un contrat financier le garantissant contre le risque de change, le risque de change n’est pas considéré comme supporté par l’emprunteur»(40 )(la precisazione è da mettere in relazione all’art. L312-3-1 code consom., il quale, come si è detto, al primo comma restringe la concessione dei prestiti in valuta estera ai soli consumatori che detengano in quella valuta una significativa parte del reddito o del patrimonio, corrispondente alla misura precisata dal secondo comma dell’art. R312-0, salvo quando «le risque de change n’est pas supporté par l’emprunteur»).
Tale rilievo, peraltro, induce a ritenere che il legislatore europeo, non avendo del resto contemplato requisiti soggettivi analoghi a quelli presenti nel diritto d’Oltralpe per la stipulazione di un prestito in valuta estera, avrebbe potuto dare maggiori indicazioni al riguardo, proprio in ragione dell’ampia e variegata portata degli strumenti finanziari, magari ribadendo la necessità che venissero selezionati, da parte del prestatore del servizio, attraverso una valutazione in termini di adeguatezza e alla luce delle informazioni fornite dal consumatore in ordine alle sue conoscenze ed alle sue esperienze in materia, nonché ai suoi obiettivi di riferimento(41). Sarebbe, insomma, stato coerente riaffermare quegli elementi di “personalizzazione” della prestazione di servizi finanziari già introdotti con la c.d. direttiva Mifid(42), ossia la dir. 2004/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004 (v., soprattutto, l’art. 19 di tale direttiva, nonché gli artt. 27 e ss. della dir. 2006/73/CE della Commissione del 10 agosto 2006, recante modalità di esecuzione della dir. 2004/39/CE), la cui importanza si profila d’altronde pure ai fini del nostro discorso, visto che la dir. 17/2014 intende altresì promuovere anche la stabilità finanziaria del mercato interno dell’Unione.
Da ultimo - ma non per ultimo - deve poi tenersi presente - a conclusione e quale costante sfondo delle considerazioni finora svolte - che ogni strumento finanziario di copertura da un rischio presenta a sua volta un costo, variabile in funzione del grado di copertura e della durata del rapporto da cui origina il rischio(43), e tale costo, a seconda dei casi, potrebbe ridurre sensibilmente, o addirittura azzerare del tutto, la convenienza economica derivante dalla stipulazione di un mutuo in valuta estera.
Effettività della trasparenza contrattuale e clausole di cambio
Il monito dalla Corte di Giustizia
Una decisione della Corte di Giustizia, resa proprio con riferimento ad un mutuo denominato in valuta estera(44), offre alcune importanti indicazioni in materia di clausole vessatorie nei contratti con i consumatori e trasparenza del contenuto contrattuale.
La vicenda da cui la sentenza prende avvio è quella di un mutuo ipotecario, espresso in franchi svizzeri, che era stato erogato a due coniugi ungheresi; il contratto prevedeva che la fissazione in franchi svizzeri dell’importo del mutuo sarebbe avvenuta in base al corso di acquisto di questa divisa applicato dalla banca alla data di erogazione dei fondi; viceversa, l’importo in fiorini ungheresi che ogni mese i coniugi avrebbero dovuto versare sarebbe stato determinato in ragione del corso di vendita del franco svizzero applicato dalla banca il giorno precedente la data di esigibilità della rata. I mutuatari hanno così contestato innanzi ai giudici ungheresi la clausola che permetteva l’indicizzazione dell’obbligazione restitutoria ad un parametro di cambio diverso e variabile rispetto a quello adoperato per esprimere l’importo dato a mutuo, sostenendo che ciò conferisse un vantaggio unilaterale ed ingiustificato alla banca.
Dopo che le ragioni dei coniugi erano state accolte in primo grado ed in appello, la questione approda alla Corte Suprema ungherese, che rimette alla Corte di Giustizia alcune questioni pregiudiziali, concernenti, tra l’altro: a) il fatto se, ai sensi dell’art. 4, secondo comma, dir. 93/13/CE, la clausola che determina i tassi di cambio, e che non sia stata negoziata individualmente, rientri nella nozione di oggetto principale del contratto, nonché, in caso di risposta negativa, se la differenza tra il corso di acquisto e quello di vendita debba essere considerata alla stregua di una remunerazione di servizi resi, la cui congruità non può quindi, se non nei casi delimitati dalla direttiva stessa, essere esaminata al fine di affermare il carattere abusivo della pattuizione; b) l’interpretazione dei requisiti di chiarezza e comprensibilità dai quali il secondo comma dell’art. 4 dir. 93/13/CE fa dipendere l’eventuale giudizio di vessatorietà delle clausole che definiscono l’oggetto del contratto o l’adeguatezza del prezzo dei beni o dei servizi forniti.
Con riguardo al primo aspetto, la Corte afferma anzitutto che occorre dare un’interpretazione restrittiva al secondo comma dell’art. 4 dir. 93/13/CE, giacché tale previsione costituisce un’eccezione al sistema di tutele descritto dalla direttiva. Per tale ragione, possono rientrare nella nozione di oggetto principale del contratto unicamente le clausole che definiscono le prestazioni essenziali del negozio, restandone dunque escluse quelle che, diversamente, rivestono carattere accessorio, ma valutare se la pattuizione che stabilisce il tasso di cambio delle rate mensili del mutuo rientri nell’una o nell’altra categoria è prerogativa che spetta al giudice nazionale, alla luce della natura, dell’economia generale e delle clausole complessive del contratto, nonché del suo contesto giuridico e fattuale. Inoltre, prosegue la Corte, la clausola che contempla per il consumatore l’obbligo di corrispondere importi derivanti dalla differenza fra il corso di acquisto della valuta straniera ed il corso di vendita non può essere trattata come una clausola che prevede un prezzo o una remunerazione - non fornendo il mutuante alcun servizio di cambio in occasione di tale calcolo - e la sua congruità, pertanto, sfugge a quell’esenzione dal vaglio giudiziale prevista sempre dal secondo comma dell’art. 4 dir. 93/13/CE. L’altra questione portata all’attenzione della Corte di Lussemburgo, poi, è strettamente connessa alla prima, giacché, qualora il giudice del rinvio dovesse considerare attinente all’oggetto principale del contratto la clausola inerente al tasso di cambio, quest’ultima potrebbe invero non incorrere nel giudizio di vessatorietà, ma solo là dove fosse stata redatta in modo chiaro e comprensibile(45). Si chiede, dunque, alla Corte di Giustizia di precisare se tali requisiti rilevino solo da un punto di vista lessicale, oppure se debbano risultare chiare e comprensibili per il consumatore anche le ragioni economiche sottostanti all’applicazione della clausola, nonché il rapporto della stessa con le altre pattuizioni contrattuali.
La Corte, scorgendo alla base della dir. 93/13/CE l’idea che il consumatore versi in una posizione di asimmetria sia di potere contrattuale sia informativa rispetto al professionista(46 )- e ritenendo quindi di «fondamentale importanza» le informazioni rese, prima della conclusione del contratto, in merito
«alle condizioni contrattuali ed alle conseguenze di detta conclusione» - afferma che l’obbligo di trasparenza previsto all’art. 5 della medesima, che investe le clausole scritte, comprese quelle di cui all’art. 4, secondo comma, deve essere inteso in maniera estensiva: ne consegue, allora, che di fronte ad una clausola che permetta al professionista di calcolare il livello dei rimborsi mensili dovuti dal consumatore in funzione del corso di vendita della valuta estera applicato dal professionista stesso, diviene essenziale che il contratto esponga in modo trasparente il «motivo» e le «modalità» di tale meccanismo di conversione, nonché il rapporto - ovvero le differenze - fra tale meccanismo e quello prescritto dalle clausole relative invece all’erogazione del mutuo, in modo che il consumatore possa prevedere, sulla base di criteri «precisi ed intelligibili», le conseguenze economiche che potrebbero derivargli da un simile accordo. Spetterà, dunque, al giudice del rinvio verificare se, alla luce dell’insieme di pertinenti elementi di fatto, tra cui la pubblicità e l’informazione fornite dal mutuante nell’ambito della negoziazione del mutuo, «un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento ed avvertito potesse non soltanto conoscere l’esistenza della differenza, generalmente osservata sul mercato dei valori mobiliari, tra il corso di vendita ed il corso di acquisto di una valuta estera, ma anche valutare le conseguenze economiche, per esso potenzialmente significative, dell’applicazione del corso di vendita ai fini del calcolo dei rimborsi di cui in definitiva sarebbe stato debitore e, pertanto, il costo totale del suo mutuo»(47).
In altri termini, l’interpretazione estensiva dell’art. 5 dir. 93/13 perorata dalla Corte di Giustizia conduce ad un arricchimento dell’obbligo di trasparenza, poiché non è più sufficiente che il professionista assicuri la chiarezza formale delle clausole, e, in particolare, della clausola di cambio, bensì è necessario che il consumatore acquisti una piena consapevolezza in ordine agli effetti della stessa, al rapporto con le altre clausole del contratto, e segnatamente con quelle relative all’erogazione del mutuo, e, infine, alle ricadute patrimoniali che questi aspetti, decisivi nella definizione dell’obbligo restitutorio del mutuatario, comporteranno nella sua sfera economica.
In tal senso, la regola dell’art. 23, sesto comma, dir. 17/2014, che prescrive di allegare al Pies un esempio dell’impatto che una fluttuazione del 20% del tasso di cambio potrebbe avere sul consumatore
- ma solo là dove il contratto non contenga disposizioni volte a limitare il rischio di cambio inferiore a detta soglia - pare divenire addirittura inadeguata, alla luce del principio appena ricordato, poiché, nella prospettiva dischiusa dalla Corte di Giustizia, esempi del genere, magari riferiti a più di una percentuale di oscillazione del tasso di cambio, sembrano, in ogni caso, imprescindibili al fine di garantire quella “trasparenza informata” che deve riguardare i risvolti che i prestiti in valuta estera sono suscettibili di arrecare al il consumatore(48).
A questo punto, risulta allora più pertinente la scelta operata dal diritto d’Oltralpe, che al primo comma dell’art. R312-0 code consom. impone al mutuante, prima di rilasciare un prestito in valuta estera a un consumatore, non solo di informarlo dei rischi inerenti a questa tipologia di prestiti, e soprattutto del rischio di cambio, ma anche - in ogni caso - di consegnargli un documento informativo contenente due simulazioni volte ad illustrare l’impatto che sul finanziamento, in termini di scadenze, di durata e di costo complessivo, avrebbe una variazione sfavorevole (per il debitore) del 10% e del
20% del tasso di cambio «constaté le jour de la remise du document ou à défaut le dernier jour ouvré précédant et qui a servi à déterminer les échéances, la durée du prêt et le coût total du crédit».
Peraltro, a voler prendere alla lettera la Kásler, si direbbe che il professionista sia tenuto finanche a illustrare il «motivo» per cui intende adottare un determinato meccanismo di cambio, ovvero a palesare le «ragioni economiche sottese all’applicazione della clausola contrattuale» onde renderla immune al giudizio di vessatorietà: il che, nel caso al centro della decisione, avrebbe praticamente significato illustrare ai mutuatari il vantaggio che sarebbe derivato alla banca dall’assoggettare le rate del mutuo, da corrispondere in fiorini, al corso applicato dalla stessa alla vendita del franco svizzero il giorno precedente le date di esigibilità(49).
Le ricadute della sentenza Kásler
Alla luce della pronuncia della Corte di Giustizia appena esaminata, possono essere tratte alcune conclusioni a proposito del rilievo che assumono le clausole di cambio nel giudizio di vessatorietà.
La Corte, come abbiamo detto, rimette al giudice nazionale il compito di dirimere la questione se le clausole in parola attengano o meno all’oggetto principale del contratto.
Ora, se propendiamo per la concezione tradizionale ed unitaria dell’oggetto (che, al limite, nel diritto italiano, potrebbe anche essere sospinta dal riferimento del secondo comma dell’art. 34 cod. cons. alla «determinazione dell’oggetto» tout court(50)), la quale individua in detto elemento il risultato che ciascuna parte vuole ottenere dal contratto(51), e che, dal punto di vista del creditore, corrisponde, nel caso all’attenzione della Corte, al diritto alla restituzione, in forma rateale, dell’importo dato a mutuo maggiorato degli interessi e delle spese di gestione (voci confluite nel Taeg), non sarebbe probabilmente errato ascrivere le clausole sul tasso di cambio tra quelle attinenti all’oggetto (principale) del contratto. Tali clausole, infatti, nella vicenda Kásler, non si limitavano ad indicare semplicemente il meccanismo aritmetico di calcolo della rata, ma precisavano piuttosto che il meccanismo in concreto adottato non avrebbe consentito di determinare ex ante gli importi rateali, poiché all’uopo sarebbe stato necessario attendere di conoscere il corso di vendita del franco svizzero applicato dall’istituto bancario, ossia dal mutuante, il giorno precedente la data di esigibilità della rata: col risultato che, fino a quel momento, sarebbe risultato incerto il l’ammontare di una prestazione, quella del mutuatario, indubbiamente essenziale(52).
D’altro canto, una lettura restrittiva del concetto di “prestazione essenziale”, su cui si appunta il giudizio della Corte, volta cioè a ricomprendervi solo le clausole “sul” prezzo, e non anche quelle “relative” al prezzo(53), potrebbe desumersi dalla ratio stessa dell’esclusione dal giudizio di vessatorietà, ex art. 4, secondo comma, dir. 93/13, della clausola riferita in senso stretto all’«oggetto principale del contratto», intesa come la pattuizione che contiene l’elemento economico di più immediata percepibilità ed apprezzabilità da parte del consumatore, la quale, oltre ad attrarre principalmente la sua attenzione, gli consente, già nell’immediato, una ponderazione consapevole e responsabile della convenienza dell’affare, onde decidere se stipulare il contratto oppure cercare sul mercato un’alternativa concorrenziale: in ipotesi, trattandosi di un mutuo, potrebbe allora qui venire in considerazione la sola clausola relativa al tasso di interesse(54).
Sul piano applicativo, comunque, dalle affermazioni della Corte di Giustizia non sembrano profilarsi, almeno nel caso Kásler, conseguenze divergenti a seconda che la clausola sul tasso di cambio sia ricondotta oppure no al piano dell’oggetto contrattuale. Infatti, il giudizio di merito su questa clausola non dovrebbe in ogni caso concernere la sua eventuale portata squilibrata - dato che, trattandosi di un contratto reso aleatorio per volontà delle parti, sarebbe improprio formulare un giudizio sull’equilibrio delle prestazioni corrispettive - quanto, piuttosto, la sua chiarezza, nel solco di quell’indirizzo della Corte di Lussemburgo (entro il quale la sentenza Kásler si inserisce appieno) che, mercé l’interpretazione estensiva dell’art. 5 dir. 93/13, erge la trasparenza a canone generale onde soppesare di per sé la vessatorietà delle clausole(55).
In particolare, deve essere richiamata la pronuncia RWE Vertrieb(56), resa a proposito di una pattuizione recante uno ius variandi che assegnava ad un’impresa di approvvigionamento il diritto di modificare il prezzo di fornitura del gas senza essere tenuta ad indicare le ragioni, le condizioni o la portata della modifica. La Corte, al fine di stabilire se una clausola del genere fosse o meno conforme agli artt. 3 e
5 dir. 93/13 (nonché all’art. 3, terzo comma, dir. 2003/55/CE), ha affermato che occorre, tra l’altro, appurare se il contratto espone in modo trasparente il «motivo» e le «modalità di variazione» di dette spese, affinché il consumatore possa prevedere, in base a criteri chiari e comprensibili, le possibili modifiche delle stesse, atteso che, in linea di principio, l’assenza di informazioni sul punto, prima della nascita del rapporto, non può essere compensata dalla circostanza che i consumatori, nel corso dell’esecuzione del contratto, saranno poi informati con un preavviso ragionevole della modifica del prezzo e del loro diritto di recedere, là dove non desiderino accettare tale mutamento.
Come si vede, anche nel caso appena riferito, la censura della Corte è diretta non tanto verso le possibili conseguenze economicamente inique di una certa clausola, quanto sul fatto che il testo della stessa non consentisse al consumatore di formulare una previsione su quali avrebbero potuto essere le implicazioni patrimoniali dello ius variandi riconosciuto al professionista. Allo stesso modo, nella vicenda Kásler, non viene in considerazione l’impatto, finanche assai gravoso, che la clausola di cambio avrebbe potuto avere sull’obbligazione restitutoria dei mutuatari, quanto il dubbio che la formulazione della stessa potesse non essere adeguata a far prefigurare ad un «consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento ed avvertito» le ricadute economiche, potenzialmente significative, che il criterio di calcolo del tasso di cambio sarebbe stato capace di comportare sul costo totale del mutuo; circostanza, quest’ultima, che, rivelando una mancanza di informazione e di trasparenza da parte del professionista, legittima in ogni caso il sindacato di vessatorietà sulla clausola.
In conclusione, per avere un’ulteriore idea delle conseguenze applicative del discorso fin qui svolto, può essere opportuno fare un rapido cenno ad alcune decisioni del Collegio di Coordinamento dell’Arbitro bancario finanziario che si sono direttamente richiamate alla sentenza Kásler. Si è trattato in questi casi di valutare la legittimità di una clausola che, all’interno di un contratto di credito denominato in franchi svizzeri, prevedeva, in caso di richiesta di estinzione anticipata del finanziamento, che l’importo del capitale residuo andasse prima convertito in franchi svizzeri al tasso di cambio convenzionale fissato nel contratto e poi successivamente riconvertito in euro al cambio franco svizzero/euro rilevato il giorno del rimborso. Le decisioni in parola, sulla scia della Corte di Giustizia, hanno rilevato come una pattuizione del genere non descrivesse in maniera trasparente il funzionamento concreto del meccanismo di conversione della valuta estera, né il rapporto fra tale meccanismo e quello prescritto dalle clausole relative all’erogazione del mutuo, omettendo infatti di esporre le operazioni aritmetiche che avrebbero dovuto essere eseguite al fine di realizzare la duplice conversione; pertanto, tale opacità, non rendendo agevolmente comprensibile al consumatore il tecnicismo della clausola, è ritenuta idonea a determinare la nullità della stessa ai sensi degli artt. 33 e 36 cod. cons. Sempre poi in conformità alle indicazioni della sentenza Kásler, infine, il Collegio precisa altresì che la lacuna conseguente alla caducazione della clausola vessatoria dovrà essere colmata attraverso il ricorso alla disciplina dispositiva che il predisponente aveva inteso derogare a proprio vantaggio, e che viene qui rinvenuta nell’art. 125-sexies, primo comma, Tub, in base al quale il consumatore può rimborsare anticipatamente in qualsiasi momento, in tutto o in parte, l’importo dovuto al finanziatore: importo che dovrà quindi essere calcolato, precisa il Collegio, senza il meccanismo della duplice conversione originariamente previsto, e che corrisponderà in definitiva alla differenza tra la somma mutuata (espressa in euro) e l’ammontare complessivo delle quote capitale già restituite calcolate secondo l’indicizzazione contrattuale al franco svizzero(57).
L’irretroattività delle norme della direttiva
L’art. 23, quinto comma, dir. 17/2014 lascia liberi gli Stati membri di disciplinare ulteriormente i prestiti in valuta estera, purché tale regolamentazione non sia applicata retroattivamente (e purché, può aggiungersi, non sia diminuito il livello di tutela riconosciuto dalla direttiva ai consumatori). Malgrado la norma in parola riferisca in modo espresso l’irretroattività solo alle eventuali ulteriori disposizioni che uno Stato membro dovesse emanare in materia di prestiti in valuta estera, tale limite riguarda in realtà l’intera direttiva, come dimostrano, da un lato, l’art. 42, che fissa il termine massimo per il suo recepimento da parte degli Stati membri, nonché il termine a partire dal quale le disposizioni così adottate divengono applicabili, al 21 marzo 2016, e, da un altro lato, l’art. 43, il quale puntualizza che la direttiva non è applicabile ai contratti di credito conclusi prima del 21 marzo 2016.
Per quel che concerne il quinto comma dell’art. 23, comunque, la precisazione ivi compiuta non è del tutto superflua, giacché, se non vi fosse stata, sarebbe forse potuto sorgere il dubbio che il diritto di conversione, per sua natura destinato ad essere esercitato in seguito alla nascita del rapporto, e fintantoché il rapporto persista, potesse essere invocato anche a proposito di rapporti sorti da contratti conclusi prima del recepimento e dell’entrata in vigore delle previsioni della direttiva, in quanto la Corte di Giustizia, a proposito della efficacia retroattiva della legge (civile), afferma che le nuove norme non si applicano alle situazioni giuridiche sorte e definitivamente acquisite in precedenza, mentre debbono essere applicate agli «effetti futuri» di tali situazioni (oltre che alle situazioni giuridiche nuove), salvo che le stesse, come è appunto il nostro caso, non siano accompagnate da disposizioni particolari che ne determinano specificatamente le condizioni di applicazione nel tempo(58).
(1) Tra i primi commenti alla direttiva, v. I. FERRETTI, «Contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali: prime osservazioni sulla direttiva 2014/17/UE», in Contr. impr. Europa, 2014, p. 863; J. SCHÜRNBRAND, «Die Richtlinie über Wohnimmobilienkreditverträge für Verbraucher», in ZBB, 2014, p. 168.
(2) Considerando n. 2 e 3. In generale, sull’esposizione della casa di abitazione alle azioni esecutive promosse dai creditori, v. A. FUSARO, «Homestead exemption», in Contr. impr. Europa, 2014, 1.
(3) Considerando nn. 7 e 15, e art. 2, secondo comma.
(4) La ridondanza della formula si stempera nella versione inglese del testo, dove con abitazione si intende «house» e con appartamento il corrispondente termine «apartment».
(5) … Tant’è che il considerando n. 56, con riguardo ai contratti di credito relativi all’acquisto di un bene immobile esplicitamente non adibito ad esigenze abitative del consumatore o di un suo familiare, suggerisce agli Stati membri di specificare che il futuro reddito locativo debba essere tenuto presente nella valutazione della capacità del consumatore di rimborsare il credito, e indica altresì le conseguenze che derivano dalla mancata inclusione di una simile disposizione nei diritti nazionali.
(6) Gli altri sette capi riguardano: il primo (artt. 1-5), l’“oggetto, [l’]ambito di applicazione, [le] definizioni e [le] autorità competenti” (a garantire il rispetto e l’applicazione della direttiva); il secondo (art. 6), l’“educazione finanziaria” (dei consumatori); il terzo (artt. 7-9), le “condizioni applicabili ai creditori, agli intermediari del credito e ai rappresentanti designati”; l’undicesimo (artt. 29-34), i “requisiti per lo stabilimento e la vigilanza di intermediari del credito e rappresentanti designati”; il dodicesimo (art. 35), l’“abilitazione e [la] vigilanza degli enti non creditizi”; il tredicesimo (artt. 36-37), la “cooperazione tra le autorità competenti dei diversi Stati membri”; il quattordicesimo (artt. 38-50), le “disposizioni finali”.
(7) V., sul punto, anche le ulteriori osservazioni al par. La regola generale.
(8) Il secondo comma stabilisce, inoltre, che nel caso di una persona i cui legami professionali risultino situati in un luogo diverso da quello dei suoi legami personali, e che pertanto sia indotta a soggiornare alternativamente in luoghi diversi posti in due o più Stati membri, si presume che la residenza normale sia nondimeno quella del luogo dei legami personali, purché tale persona vi ritorni regolarmente. Questa condizione non è richiesta allorché la persona effettui un soggiorno in uno Stato membro per l’esecuzione di una missione di durata determinata. La frequenza di un’università o di una scuola, ancora, non implica il trasferimento della residenza normale.
(9) È significativo osservare come l’Unione europea si trovi oggi ad affrontare una complessa problematica che nel passato non aveva mancato di originare vivaci controversie giudiziarie nel Vecchio continente, le quali indussero la letteratura giuridica ad avvicinarsi al tema delle obbligazioni pecuniarie in valuta estera con una sensibilità ed un’attenzione alla posizione del debitore, a fronte dei rischi valutari, che in qualche misura si ravvisa anche nella dir. 17/2014. La vicenda a cui si allude, e di cui dà conto lo studio di T. DALLA MASSARA, Obbligazioni pecuniarie. Struttura e disciplina dei debiti di valuta, Padova, 2012, p. 172 e ss., è quella dei c.d. “Couponprocesse”, ovvero dei giudizi che negli anni Settanta dell’Ottocento si instaurarono tra le società ferroviarie austriache ed i portatori dei titoli di debito da queste emesse, destando una notevole attenzione a livello europeo. Riassumendo in breve gli eventi, i titoli emessi a quel tempo dalle società ferroviarie austriache avevano la caratteristica di essere espressi, al pari delle corrispondenti cedole di interessi, in fiorini austriaci oppure nella moneta del Paese di collocamento del titolo, a scelta del portatore. Il 9 luglio 1873 in Germania si ebbe il passaggio dalla circolazione in argento a quella in oro, in concomitanza con l’introduzione del marco quale nuova unità monetaria in sostituzione del tallero. Tale circostanza sorprese le società ferroviarie austriache, che, contestando il ragguaglio tra la vecchia e la nuova valuta germanica, negarono sia il rimborso dei titoli sia il pagamento degli interessi, a causa della forte rivalutazione che aveva avuto la moneta tedesca rispetto a quella nazionale. Sebbene il provvedimento adottato dalla Germania avesse inciso sulle obbligazioni emesse anche in moneta estera dalle ferrovie austriache, che si erano infatti obbligate a pagare, a scelta del portatore, in fiorini austriaci oppure in moneta tedesca, queste non avrebbero avuto ragioni di “stretto diritto” per rifiutare il pagamento, salvo invocare la necessità che venisse mantenuta una certa commisurazione tra il debito espresso in moneta austriaca e quello espresso (originariamente) in moneta tedesca; ciò nondimeno, i tribunali austriaci si mostrarono propensi ad accogliere le istanze rappresentate dalle società ferroviarie nazionali, mentre le corti tedesche, viceversa, furono più inclini a tutelare la posizione dei creditori. In epoca più recente, invece, le aule giudiziarie italiane hanno conosciuto numerose liti innescate dall’aggravamento della posizione contrattuale di coloro che, prima del settembre del 1992, avevano stipulato un mutuo in Ecu. Il mutuo in Ecu aveva registrato una certa diffusione nel nostro paese, in quanto il tasso che vi era applicato risultava assai più vantaggioso di quello riservato al mutuo in lire, tantopiù, inoltre, che il meccanismo dello Sme sembrava garantire la fluttuazione delle monete aderenti all’interno di un range contenuto. Senonché, nel settembre del 1992 vi fu un attacco speculativo che coinvolse, con particolare intensità, la lira e la sterlina inglese, a fronte del quale risultarono inefficaci anche gli interventi tesi al sostegno di queste valute posti in essere dalle banche centrali in virtù dell’adesione dei paesi di riferimento allo Sme. Così, anche in seguito ad un discusso intervento di svalutazione della sola lira, che non riuscì a fermare la speculazione, il 16 settembre 1992 il governo italiano ne decise l’uscita dallo Sme (così come, lo stesso giorno, fece anche il governo del Regno Unito nei confronti della sterlina), col risultato che la nostra moneta, che all’inizio era stata quotata poco più di 1.500 lire rispetto all’Ecu, arrivò in seguito a toccare punte di oltre 2.200 lire, salvo poi riassestarsi, in seguito alla riammissione nello Sme, su quotazioni inferiori ma comunque più alte rispetto a quella iniziale. Tali vicende fecero così da sfondo a una serie di decisioni giurisprudenziali in cui si affermò un indirizzo uniforme nel respingere le domande degli attori- mutuatari volte, tra l’altro, ad ottenere la risoluzione dei contratti di mutuo per eccessiva onerosità sopravvenuta, o quantomeno la riduzione ad equità della loro prestazione (non di rado accompagnando a tali richieste anche ulteriori domande risarcitorie dirette a contestare un’asserita violazione degli obblighi di correttezza e di informazione nell’esecuzione del contratto da parte delle banche); in tema, M. CURCURUTO-G. LEMME, «Le problematiche in tema di mutui in Ecu», in Giur. comm., 1997, II, p. 459, a margine di Trib. Pescara, 24 gennaio 1997; A. CERVINI, «Mutui in valuta e rischio di cambio fra realità e presupposizione», in Giust. civ., 1996, II, p. 327; Trib. Torino, 15 ottobre 1996, in Giust. civ., 1997, I, p. 1409, con nota di A. CERVINI, «Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta dei mutui in valuta»; Trib. Roma, 22 maggio 1998, in Banca, borsa, tit. cred., 2000, II, p. 193, con nota di U. MINNECI, «Sopravvenienza del mutuo in Ecu e doveri di buona fede».
(10) L’art. 4, n. 18, dir. 17/2014, onde definire «supporto durevole», rinvia all’art. 3, lett. m, della dir. 2008/48/ CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori (e dunque, ad ogni strumento che permetta al consumatore di conservare le informazioni che gli sono personalmente indirizzate, in modo da potervi accedere in futuro per un periodo di tempo adeguato alle finalità a cui esse sono destinate, e che permetta altresì la riproduzione identica delle informazioni memorizzate).
(11) La valutazione del merito creditizio sottintende il rinvio al c.d. principio del “prestito responsabile”, che, seppure in modo meno esplicito rispetto alla formulazione inizialmente presente all’interno della Proposta di direttiva del 2002, traspare nondimeno dall’art. 8 della dir. 2008/48/CE e dal considerando n. 26 della medesima, soprattutto nella parte in cui afferma che «in un mercato creditizio in espansione, in particolare, è importante che i creditori non concedano prestiti in modo irresponsabile o non emettano crediti senza preliminare valutazione del merito creditizio, e gli Stati membri dovrebbero effettuare la necessaria vigilanza per evitare tale comportamento e dovrebbero determinare i mezzi necessari per sanzionare i creditori qualora ciò si verificasse». Con riguardo all’art. 124-bis Tub (inserito nel capo relativo al credito ai consumatori), v. T. RUMI, «Verifica del merito creditizio ed efficacia dei rimedi a tutela del consumatore», in Contratti, 2014, p. 880 e ss.; G. PIEPOLI, «Sovraindebitamento e credito responsabile», in Banca, borsa, tit. cred., 2013, p. 38; M. GORGONI, «Spigolature su luci (poche) e ombre (molte) della nuova disciplina dei contratti di credito ai consumatori», in Resp. civ. prev., 2011, p. 764 e ss.; G. DE CRISTOFARO, «La nuova disciplina dei contratti di credito ai consumatori e la riforma del t.u. bancario», in Contratti, 2010, p. 1051 e ss.; ID., «La nuova disciplina comunitaria del credito al consumo: la direttiva 2008/48/CE e l’armonizzazione “completa” delle disposizioni nazionali concernenti “taluni aspetti” dei “contratti di credito ai consumatori”, in Riv. dir. civ., 2008, II, p. 274 e ss. Con particolare riguardo alla dir. 17/2014, v. S. PAGLIANTINI, «Statuto dell’informazione e prestito responsabile nella direttiva 17/2014/UE (sui contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali)», in Contr. impr. Europa, 2014, p. 523; E. PELLECCHIA, «L’obbligo di verifica del merito creditizio del consumatore: spunti di riflessione per un nuovo modo di guardare alla “contrattazione con l’insolvente”», in Nuove leggi civ. comm., 2014, p. 1088.
(12) Il primo comma dell’art. 20 stabilisce altresì che le informazioni in questione sono ottenute dal creditore da pertinenti fonti interne o esterne, incluso il consumatore; tali informazioni comprendono anche quelle fornite all’intermediario del credito o al rappresentante designato nel corso della richiesta di credito. Le informazioni sono opportunamente verificate, anche attingendo, se necessario, a documentazione indipendente verificabile. Inoltre, l’art. 21, primo comma, prevede che a tutti i creditori sia garantito l’accesso a specifiche banche dati utilizzate in ogni Stato membro al fine di valutare il merito creditizio dei consumatori e al solo scopo di verificare che questi ultimi rispettino gli obblighi di credito per tutta la durata del contratto di credito.
(13) V. nota precedente.
(14) Al fine di individuare quale sia la fonte principale, poi, oltre al criterio meramente quantitativo, potrebbe essere preso in esame, a seconda delle circostanze, anche un criterio che tenga conto delle prospettive di permanenza di una determinata fonte di reddito rispetto ad un’altra.
(15) C.M. BIANCA, Diritto civile, 4, L’obbligazione, Milano, 1993 (rist. agg.), p. 163 e ss.
(16) A. CIATTI, Art. 1278 - Debito di somma di monete non aventi corso legale, in Comm. cod. civ., diretto da E. Gabrielli, Delle obbligazioni, artt. 1277-1320. Leggi collegate, a cura di V. Cuffaro, Torino, 2013, p. 19 e ss.; B. INZITARI, Delle obbligazioni pecuniarie, Art. 1277-1284, in Comm. Scialoja- Branca, Bologna-Roma, 2011, p. 186 e ss.; T. ASCARELLI, Obbligazioni pecuniarie, Art. 1277-1284, in Comm. Scialoja- Branca, Bologna-Roma, 1968 (rist. I ed.), p. 371 e ss.; D. RUBINO, Delle obbligazioni. Obbligazioni alternative - obbligazioni in solido - obbligazioni divisibili e indivisibili, Art. 1285-1320, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1968, p. 21, p. 32 e ss.
(17) U. BRECCIA, Le obbligazioni, in Tratt. dir. priv., a cura di G. Iudica - P. Zatti, Milano, 1991, p. 306 e ss. In tal senso anche T. DALLA MASSARA, op. cit., p. 168 e ss., che osserva altresì come il dibattito attorno alla riconducibilità dell’art. 1278 c.c. al modello delle obbligazioni alternative o facoltative abbia, in definitiva, una giustificazione più sistematica che in termini di divergenti ricadute pratiche, giacché, essendo il debito qui in considerazione un debito di denaro - per il quale il debitore risponde con tutti i suoi beni presenti e futuri, ex art. 2740 c.c. - non è dato riscontrare quella principale differenza che caratterizza il regime delle due figure, per la quale mentre nelle obbligazioni alternative la sopravvenuta impossibilità di una prestazione per causa non imputabile al debitore, che si verifichi prima della concentrazione, rende l’obbligazione semplice (art. 1288 c.c.), nelle obbligazioni facoltative l’impossibilità sopravvenuta dell’unica prestazione dedotta in obligatione conduce invece alla liberazione del debitore incolpevole (L. BIGLIAZZI GERI - U. BRECCIA - F.D. BUSNELLI - U. NATOLI, Diritto civile, 3, Obbligazioni e contratti, Torino, 1990 (rist.), p. 28). Inoltre, anche là dove si volesse, in un’ottica un po’ arcaica e superata, ricondurre l’obbligazione pecuniaria tra i ranghi delle obbligazioni generiche, la massima genus numquam perit potrebbe nondimeno essere richiamata per affermare l’ “indistruttibilità del denaro”, essendo pur sempre possibile, anche mediante la conversione prevista dall’art. 1278 c.c., provvedere all’adempimento dei debiti di denaro.
(18) Là dove l’importo e le rate del mutuo siano espresse in moneta straniera, si pone, come già rispetto all’art. 1278 c.c., il tradizionale problema se sia legittima l’iscrizione di ipoteca da parte del mutuante per una somma denominata in valuta estera. Sul punto, la dottrina si mostra in prevalenza contraria, in ossequio all’inderogabile principio di specialità della garanzia ipotecaria, secondo cui l’ipoteca deve essere iscritta su beni specialmente indicati e per una somma determinata in denaro (art. 2809, primo comma, c.c.), onde tutelare sia la libera circolazione dei beni, sia le ragioni dei terzi acquirenti e degli altri creditori, che hanno tutti interesse a conoscere la portata dei vincoli che insistono sul bene; viceversa, un’iscrizione ipotecaria in valuta estera, benché riferita a debiti da pagare nella stessa valuta, comporterebbe un rinvio dell’esatta determinazione quantitativa del gravame al tempo della distribuzione del ricavato della vendita forzata, che avviene nella moneta avente corso legale, giacché solo allora l’applicazione del rapporto di cambio tra la valuta legale e la valuta estera indicata nell’iscrizione consentirebbe di fissare il limite della somma da corrispondere al creditore ipotecario (così, A. CHIANALE, L’ipoteca, in Tratt. dir. civ., diretto da R. Sacco, Torino, 2005, p. 262). Ciò detto, però, si ritiene comunque ammissibile, da parte del creditore, l’iscrizione ipotecaria per una somma espressa in moneta nazionale non strettamente legata al controvalore in essere al momento della formalità ed idonea a coprire anche eventuali andamenti negativi del rapporto di cambio, in virtù di un’interpretazione estensiva dell’art. 2838 c.c., che non concernerebbe solo i debiti di valore in senso stretto, ma potrebbe riguardare pure i debiti in valuta estera, difettando del pari, in tal caso, l’indicazione nel titolo del controvalore espresso in moneta avente corso legale che dovrà essere attribuito al creditore ad esito dell’esecuzione forzata; così, di nuovo, A. CHIANALE, op. cit., 263; C.M. BIANCA, Diritto civile, 7, Le garanzie reali. La prescrizione, Milano, 2012, p. 334 e ss.; G. GORLA - P. ZANELLI, Del pegno. Delle ipoteche, Art. 2784-2899, IV ed., in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1992, p. 224, sulla scia di un’intuizione di G. OPPO, «Finanziamenti in Ecu, clausole monetarie e garanzie del prestito», in Riv. dir. civ., 1985, I, p. 202 e ss., il quale segnala, comunque, l’opportunità che la somma da iscrivere risulti nondimeno già concordata nel titolo, onde evitare ogni rischio di riduzione, ex art. 2873, primo comma, c.c. Nega, invece, la possibilità del creditore di quantificare unilateralmente una somma adeguata al rischio di cambio, là dove la stessa non sia stata convenuta nel titolo, T. ASCARELLI, op. cit., 424, giacché tale facoltà sarebbe eccezionalmente prevista solo per i debiti di valore. In senso contrario all’opinione maggioritaria, invece, v. il parere pro veritate di V. ROPPO, «Iscrivibilità di ipoteca per somma denominata in moneta estera», in Riv. dir. priv., 1996, p. 55 e ss., secondo cui l’ipoteca prestata a garanzia di un credito denominato in moneta estera può, ed anzi normalmente dovrebbe, essere iscritta per una somma che sia denominata nella stessa moneta.
(19) Lo ius variandi non comporta una novazione del rapporto contrattuale, osserva P. SIRENA, Le modificazioni unilaterali, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, III, Effetti, a cura di M. Costanza, Milano, 2006, p. 143, ossia l’estinzione del medesimo e la sua sostituzione con un rapporto avente un contenuto diverso, bensì consiste in una peculiare trasformazione dello stesso, che può essere più appropriatamente ascritta ad un’ipotesi di “revisione”, ovvero ad una categoria che, pur nutrita di numerose sfaccettature in ragione delle eterogenee fattispecie che possono esservi ricondotte, nella sua declinazione più generale attiene alla «esigenza di conciliare la forza obbligatoria di un atto con l’adattamento delle sue conseguenze alle situazioni della realtà sfuggite alla previsione delle parti o manifestatesi nella fase della realizzazione dei suoi effetti» (R. TOMMASINI, Revisione del rapporto (diritto privato), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, p. 108). La legislazione italiana, peraltro, già conosce numerose ipotesi che comportano la modificabilità unilaterale, ad personam o per classi di clienti, di un contratto di cui siano parti un professionista ed un consumatore, oppure un professionista ed un cliente; v. S. PAGLIANTINI, «La modificazione unilaterale del contratto asimmetrico secondo la Cassazione (aspettando la Corte di Giustizia)», in Contratti, 2012, p. 165 e ss.; T. CAPURRO, «La clausola di ius variandi tra giudizio di validità e sindacato sull’esercizio del diritto», in Contr. impr., 2013, p. 1341. Particolare rilevanza, poi, ha acquisito lo ius variandi a favore dell’istituto di credito nell’ambito dei contratti bancari (art. 118 Tub), delle operazioni di finanziamento ai consumatori (art. 125-bis, comma secondo, Tub), e dei contratti quadro per i servizi di pagamento (art. 126-sexies Tub); in tema, S. PAGLIANTINI, «L’incerta disciplina del nuovo ius variandi bancario: tracce per una lettura sistematica», in Nuove leggi. civ. comm., 2012, p. 119; A.A. DOLMETTA, Linee evolutive di un ius variandi, in Ius variandi bancario. Sviluppi normativi e di diritto applicato, Milano, 2012, p. 1; A. SCIARRONE ALIBRANDI - G. MUCCIARONE, La pluralità delle normative di ius variandi nel Tub: sistema e fratture, ivi, p. 59; F. SARTORI, Sul potere unilaterale di modificazione del rapporto contrattuale: riflessioni in margine all’art. 118 Tub, ivi, p. 127. Per quanto riguarda, infine, lo ius variandi introdotto dall’art. 23, primo comma, lett. a, dir. 17/2014, è da notare come, rispetto alle altre figure di ius variandi già presenti nel nostro sistema, questa abbia la peculiarità di essere riservata, anzitutto, al consumatore, e non al professionista; e, inoltre, proprio per la funzione di tutela a cui risponde, di non prevedere a favore di quest’ultimo un potere di rifiuto, né, tantomeno, di recesso (v., invece, al contrario, l’art. 118, secondo comma, Tub; l’art. 126-sexies, secondo comma, Tub; l’art. 40, terzo comma, D.lgs. 23 maggio 2011, n. 79 (cod. tur.); l’art. 41, secondo comma, cod. tur.; in tema, v. sempre S. PAGLIANTINI, «La modificazione unilaterale del contratto asimmetrico», cit., passim).
(20) P. SIRENA, op. cit., p. 143; R. TOMMASINI, op. cit., p. 130.
(21) V. ROPPO, Il contratto, II ed., Milano, 2011, in Tratt. dir. priv., diretto da G. Iudica - P. Zatti, p. 525 e ss.
(22) Certamente, il diritto di conversione, al pari di ogni ius variandi, deve sempre essere esercitato secondo buona fede (art. 1375 c.c.), e dunque con modalità che non risultino irragionevoli o ingiustificatamente lesive degli interessi della controparte (P. SIRENA, op. cit., p. 146). Da un punto di vista temporale, poi, lo ius variandi deve essere esercitato fintantoché il rapporto sia ancora in corso di esecuzione (R. TOMMASINI, op. cit., 123; diversamente, P. SIRENA, op. loc. cit., ritiene concepibile, almeno in astratto, una modificazione retroattiva del rapporto una volta che questo abbia esaurito i suoi effetti); inoltre, esso non incide sulle prestazioni già eseguite.
(23) Allorquando il prestito sia denominato in valuta straniera, l’all. II alla dir. 17/2014, contenente il modello del Pies, prevede, al punto n. 3 (parte A), che, se richiesto ai sensi del sesto comma dell’art. 23, il prospetto debba contemplare un’indicazione del seguente tenore: «Ad esempio, se [valuta nazionale del mutuatario] si svalutasse del 20% rispetto a [valuta del credito], l’ammontare del Suo mutuo aumenterebbe di [inserire importo nella valuta nazionale del mutuatario]. L’importo potrebbe tuttavia essere superiore se il valore di [valuta nazionale del mutuatario] scendesse più del 20%».
(24) … Tant’ che, come si dirà meglio nel prossimo paragrafo, tra i meccanismi alternativi al diritto di conversione sono, in teoria, suscettibili di rientrare, secondo la direttiva, anche delle semplici avvertenze.
(25) COM(2011) 142 def.
(26) Malgrado i prestiti in valuta estera fossero considerati come una pratica con un significativo impatto sui consumatori (v. punto n. 1, nota n. 2, della Relazione), infatti, a questi era dedicata un’unica disposizione all’interno della proposta di direttiva (la lett. f, dell’art. 9, primo comma), ove si prevedeva che le informazioni precontrattuali dovessero comprendere anche una spiegazione delle implicazioni che la denominazione del credito in una valuta estera avrebbe avuto per il consumatore.
(27) Comunicazione ai membri della Commissione per le petizioni del Parlamento europeo del 27 maggio 2014 inerente alla petizione 0761/2013 (il testo può leggersi sul sito del Parlamento europeo).
(28) La tecnica di individuare il tetto massimo del prestito attraverso un parametro espresso in percentuale è, del resto, già stata adoperata, in via generale, proprio con riguardo al mutuo fondiario, ovvero il mutuo avente per oggetto la concessione, da parte di banche, di finanziamenti a medio e lungo termine garantiti da ipoteca di primo grado su immobili (art. 38, primo comma, Tub). In particolare, l’art. 38, secondo comma, Tub, demanda alla Banca d’Italia, in conformità alle deliberazioni del Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio, il compito di determinare l’ammontare massimo dei finanziamenti in parola, individuandolo in rapporto al valore dei beni ipotecati o al costo delle opere da eseguire sugli stessi (v. tit. V, cap. I, sez. II della circolare della Banca d’Italia n. 229 del 21 aprile 1999, che dà attuazione alla delibera Cicr del 22 aprile 1995, fissando l’ammontare massimo nella misura dell’80% del valore dei beni o del costo delle opere, precisando però che tale soglia può essere innalzata fino al 100% in presenza di garanzie integrative offerte dal cliente); in tema, D. TOMMASINI, «Il superamento del limite di finanziabilità nel credito fondiario», in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, p. 388, a margine di Cass., 28 novembre 2013, n. 26672.
(29) CERS/2011/1.
(30) CERS/2011/1, punto IV.1.2 dell’allegato. Al fine di dare attuazione alla prima parte della raccomandazione, la Banca d’Italia ha predisposto un’integrazione, attualmente non ancora emanata, delle disposizioni regolamentari intitolate “Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti” (provvedimento del 29 luglio 2009), che può essere letta, sul portale Internet dell’Ente, all’interno del documento con cui sono state sottoposte a consultazione pubblica l’insieme di modifiche che si intende apportare al regolamento citato, al fine di recepire le innovazioni normative intervenute negli ultimi anni, di realizzare una semplificazione dei documenti informativi e di fornire chiarimenti in ordine alla disciplina attuale, come recita l’incipit del testo illustrativo di accompagnamento. Per il tema di nostro interesse, al paragrafo 3 della seconda sezione, viene previsto che i fogli informativi, oltre a richiamare il rischio di cambio tra i rischi tipici dell’operazione, forniscano esemplificazioni utili a far comprendere il possibile impatto di tale rischio sulle somme che il debitore dovrà corrispondere (in particolare, si contemplano almeno due esempi: uno, relativo al caso di apprezzamento significativo e realistico della valuta in cui è espresso il finanziamento dopo due anni dalla conclusione del contratto, ed un altro che affianca a tale evenienza anche quella del contestuale aumento del 2% del tasso di interesse. Eventuali altre simulazioni, relative stavolta ad una variazione del tasso di cambio favorevole per il cliente, ed eventualmente combinate con una diminuzione del tasso d’interesse, debbono essere «simmetriche e di pari numero» rispetto a quelle anzidette).
(31) In diverso ambito, un intervento legislativo volto a “incoraggiare” una certa tipologia di mutui, ritenuti più favorevoli per i consumatori, lo si è peraltro già avuto con il D.l. 29 novembre 2008, n. 185, conv. con mod. L. 28 gennaio 2009, n. 2, che, all’art. 2, quinto comma, ha previsto l’obbligo, per le banche e gli intermediari finanziari iscritti negli elenchi di cui agli artt. 106 e 107 Tub che offrano alla clientela mutui garantiti da ipoteca per l’acquisto dell’abitazione principale, di assicurare ai clienti «la possibilità di stipulare tali contratti a tasso variabile indicizzato al tasso sulle operazioni di rifinanziamento principale della Banca centrale europea». La ratio di questo intervento era stata infatti individuata nella circostanza che il c.d. tasso Bce dovrebbe tendenzialmente offrire maggiore stabilità rispetto al c.d. tasso Euribor, sebbene non si sia mancato di rilevare come il vantaggio derivante al consumatore dalla maggior fermezza del primo, e finanche dall’eventuale minor valore rispetto al secondo, potesse nondimeno essere ridotto in forza dell’applicazione di un più elevato spread da parte della banca rispetto ai mutui indicizzati all’Euribor; in tal senso, F. CHESSA, «Tasso Bce: un nuovo parametro di indicizzazione per i mutui», in Imm. e propr., 2009, p. 150 e ss.; R. FRANCO, «Mutui prima casa e “decreto anti- crisi”: luci ed ombre», in Notariato, 2009, p. 81. Sul punto, comunque, le disposizioni relative alle Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari …, cit., della Banca d’Italia, pur ammettendo che i tassi offerti sui mutui indicizzati al tasso Bce non debbano necessariamente coincidere con quelli relativi ai mutui indicizzati a tassi di mercato (come appunto Euribor), precisa tuttavia che gli spread non debbono discostarsi in maniera rilevante ed ingiustificata dal differente costo della copertura del rischio di tasso.
(32) Le altre raccomandazioni concernevano, poi, la gestione interna dei rischi da parte degli istituti finanziari (D); l’adeguatezza della dotazione patrimoniale degli istituti finanziari al fine di coprire i rischi connessi ai prestiti in valuta estera (E); i rischi di liquidità e di finanziamento assunti dagli istituti finanziari in relazione ai prestiti in valuta estera (F); la necessità che le autorità nazionali di vigilanza degli Stati membri di origine dei relativi istituti finanziari imponessero, in materia di prestiti in valuta estera, misure rigorose almeno quanto quelle in vigore nello Stato membro ospitante in cui tali istituti operano fornendo servizi transfrontalieri o attraverso succursali (G).
(33) Con questa norma, scrive D. LEGEAIS, «Établissements de crédit», in Rev. trim. dr. com., 2013, p. 560, «le législateur entend tirer les conséquences de l’affaire Dexia», alludendo alla vicenda che aveva visto numerosi enti locali sottoscrivere mutui indicizzati sulla base di meccanismi speculativi e situazioni valutarie che avevano finito per procurare loro ingenti perdite. Di tali episodi, e dei relativi strascichi giudiziari, possono agevolmente reperirsi notizie sui siti Internet dei quotidiani d’Oltralpe: «Emprunts toxiques: Grenoble attaque Dexia» (lefigaro.fr del 4 luglio 2014); «Tout comprendre des emprunts toxiques en 10 questions» (lemonde.fr del 13 marzo 2014); «Les collectivités locales piégées par les crédits risqués» (lemonde.fr del 15 giugno 2010); «Prêts toxiques: Dexia condamnée à rembourser 3,4 millions d’euros à Angoulême» (liberation.fr del 4 luglio 2014). Dal punto di vista tecnico, uno degli argomenti principali fatti valere attraverso le impugnazioni di questi contratti è stata la mancata menzione del Teg (taux effectif global); e la loi n. 2014-844 del 29 luglio 2014 («relative à la sécurisation des contrats de prêts structurés souscrits par les personnes morales de droit public») che ha introdotto la “validation” dei contratti in parola, malgrado la mancata apposizione del Teg o altri difetti, ha originato un caso di grande interesse giuridico, anche dal punto di vista della legittimità costituzionale, atteso che un precedente tentativo di “validazione legislativa”, condotto attraverso la legge finanziaria per il 2014, si era infranto contro la decisione del Conseil constitutionnel n. 2013-685 DC del 29 dicembre 2013, che aveva ritenuto il provvedimento di valenza eccessivamente larga rispetto agli intendimenti dichiarati nei lavori parlamentari (in tema, J. LASSERRE CAPDEVILLE, «La validation rétroactive des contrats de prêts dépourvus d’indication du Teg est déclarée inconstitutionnelle», in AJ Collectivités Territoriales, 2014, p. 107). Diversamente, la legge 2014-844, che ha tenuto conto dei rilievi mossi dal Consiglio costituzionale, è stata poi dallo stesso dichiarata legittima, con la Décision n. 2014-695 DC del 24 luglio 2014, in virtù del fatto che il legislatore «a strictement limité la portée de ces validations en adéquation avec l’objectif poursuivi»: obiettivo che è stato individuato dall’Exposé des motifs della legge n. 2014-844 nel fatto che «compte tenu du risque financier considérable pesant sur Sfil et Dexia, dont l’Etat est respectivement actionnaire à 75% et 44%, la sécurisation des contrats de prêts demeure indispensable et répond à un motif impérieux d’intérêt général» (la situazione riferita dalla relazione di accompagnamento alla legge, infatti, si era determinata a seguito del “salvataggio” dell’istituto da parte dello Stato francese); su quest’ultima pronuncia, v. P. DE BAECKE, «La validation législative des contrats conclus dans des conditions irrégulières: les emprunts toxiques justifiés par un motif impérieux d’intérêt général», in Constitutions, 2014, p. 360.
(34) Per alcuni riferimenti bibliografici essenziali, con riguardo soprattutto al rischio di cambio, v. P. BERNARDINI, «Il rischio di cambio nei contratti internazionali», in Dir. comm. internaz., 1989, p. 10 e ss.; R. CAVALLO BORGIA, «Nuove operazioni dirette alla eliminazione del rischio di cambio», in Contr. impr., 1988, p. 393 e ss.; B. INZITARI, «Swap (contratto di)», ivi, p. 597 e ss., p. 601 e ss.; G. CAPALDO, Profili civilistici del rischio finanziario e contratto di swap, Milano, 1999, p. 54 e ss.; F. GRECO, «Domestic currency swap, anticipazione bancaria e responsabilità della banca», in Resp. civ. prev., 2006, p. 143; G. RACUGNO, «Lo swap», in Banca borsa tit. cred., 2010, I, p. 39; F. CAPUTO NASSETTI, I contratti derivati finanziari, Milano, 2007, p. 327 e ss.; G. GABRIELLI, «Operazioni su derivati: contratti o scommesse?», in Contr. impr., 2009, p. 1133; R. MARCELLI, I derivati: impiego a copertura e impiego speculativo. Strumenti di tutela del diritto, in S. AMBROSINI - P.G. DEMARCHI, Banche, consumatori e tutela del risparmio. Servizi di investimento, market abuse e rapporti bancari, Milano, 2009, p. 275 e ss.; E. GIRINO, I contratti derivati, II ed., Milano, 2010, p. 52 e ss.; E. BARCELLONA, «Strumenti finanziari derivati: significato normativo di una “definizione”», in Banca, borsa, tit. cred., 2012, p. 541; S. PAGLIANTINI - L. VIGORITI, I contratti «swap», in I contratti per l’impresa, II, Banca, mercati, società, a cura di G. Gitti - M. Maugeri - M. Notari, Bologna, 2012, p. 190 e ss. Nella letteratura economica specialistica, v. J.C. HULL, Options, Futures and Other Derivatives, fifth edition, Upper Saddle River, NJ, 2002, passim. Limitandosi ai tre modelli contrattuali ricordati nel testo, è opportuno ricordare che essi assolvono alle seguenti funzioni: il future su valute consente di realizzare un acquisto a termine di divise estere, impegnando le parti a scambiarsi, ad una certa data, un determinato quantitativo di valuta al prezzo pattuito al momento della conclusione del contratto, e che potrà risultare, alla scadenza del future, pari o inferiore o superiore a quello “spot”, col risultato che, nel primo caso, l’operazione risulterà neutrale per entrambe le parti, mentre nel secondo caso si risolverà a vantaggio dell’acquirente e a svantaggio della controparte, e, infine, nel terzo caso, si risolverà a svantaggio dell’acquirente e a vantaggio della controparte; diversamente, la currency option assegna all’acquirente un diritto di opzione, dietro pagamento di un corrispettivo, che gli attribuisce la facoltà di acquistare (o vendere) a una certa data e al prezzo concordato una determinata quantità di valuta: il titolare dell’opzione, quindi, assume su di sé, oltre al costo dell’esercizio del diritto, anche il costo di acquisto del diritto stesso, col risultato che tale operazione potrebbe poi rivelarsi sconveniente non solo quando l’esercizio dell’opzione risulti di per sé indifferente, perché il prezzo convenuto corrisponde a quello di corso, col risultato che sull’acquirente graverà in ogni caso una perdita secca e pari al premio versato, ma pure quando il differenziale, comunque positivo, tra il prezzo concordato ed il prezzo corrente non riesca tuttavia a coprire il costo del premio; lo swap su valute, infine, è un’applicazioni peculiare del contratto di swap, che, nella sua definizione basilare, implica l’impegno di due parti a scambiarsi, in una o più scadenze prefissate, due somme di denaro calcolate applicando due diversi parametri (di solito corrispondenti a tassi di interesse e/o di cambio) ad un identico ammontare di riferimento; di regola, alla scadenza o alle scadenze concordate, viene effettuato un unico pagamento, su base netta, in forza di una compensazione volontaria (in questi termini, la Camera dei Lords inglese, nella decisione del 24 gennaio 1991, Hazell c. Hammersmith e Fulham LBC, in Banca, borsa, tit. cred., 1991, II, p. 433, con nota di R. AGOSTINELLI, «Struttura e funzione dei contratti di swap»). Nella sua declinazione valutaria, lo swap può configurarsi come currency swap, quando le due parti sono indebitate in valute diverse (Alfa ha debiti in euro e crediti in dollari e Beta crediti in euro e debiti in dollari), oppure come domestic currency swap, quando lo stesso sia concluso tra due parti, entrambe “residenti” ove vi è una stessa valuta avente corso legale, e che, in forza di rapporti contrattuali con soggetti terzi “non residenti”, siano rispettivamente creditore e debitore verso una controparte (appunto non residente) di una somma di denaro espressa nella stessa moneta estera (E. GIRINO, op. cit., p. 70 e ss.; B. INZITARI, op. ult. cit., p. 601).
(35) A. SCOGNAMIGLIO, «Profili di costituzionalità dei limiti all’utilizzo degli strumenti finanziari derivati da parte degli enti territoriali», in Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, p. 26, a margine di Corte Cost., 18 febbraio 2010, n. 52 (ivi, 1), che ha escluso la fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Regione Veneto e dalla Regione Calabria contro l’art. 62, D.l. 112/2008, relativo all’uso degli strumenti finanziari derivati da parte delle Regioni e degli enti locali. Sulla delicata questione dell’esercitabilità di poteri di autotutela, da parte degli enti territoriali, onde divincolarsi dai derivati stipulati, v. F. CAPRIGLIONE, «I “derivati” dei comuni italiani nella gestione della finanza pubblica. Una problematica ancora attuale», in Banca, borsa, tit. cred., 2014, I, p. 289 e ss., e Cons. St., Ad. Plen., 5 maggio 2014, n. 13, in Pluris, e Cons. St., 27 novembre 2012, n. 5962, in Foro amm. CdS, 2012, p. 2905.
(36) F. CAPRIGLIONE, op. cit., 265.
(37) Per alcune riflessioni sulle caratteristiche degli strumenti derivati, anche alla luce dell’esperienza recente, M. DE POLI, Interest rate swap e patologie contrattuali, in U. MORERA - R. BENCINI, I contratti «derivati». Dall’accordo alla lite, Bologna, 2012, p. 33 e ss.
(38) Tantopiù, inoltre, che già i mutui in valuta estera sono da reputare contratti aleatori, laddove il mutuo, normalmente, sarebbe invece un contratto commutativo, in quanto con essi, come già all’epoca dei rammentati mutui in Ecu, il mutuatario si assume i rischi valutari legati alle fluttuazioni del cambio tra la valuta straniera e quella nazionale; G. DI GIANDOMENICO, L’alea normale, in G. DI GIANDOMENICO - D. RICCIO, I contratti speciali. I contratti aleatori, in Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, 2005, p. 107 e nota 40; G. FAUCEGLIA, Art. 1818 - Impossibilità o notevole difficoltà di restituzione, in Comm. cod. civ., diretto da E. Gabrielli, Dei singoli contratti, artt. 1803-1860, a cura di D. Valentino, Torino, 2011, p. 222, nota 20; Cass., 21 aprile 2011, n. 9263, in Giust. civ. mass., 2011, p. 650.
(39) … Nonché all’importanza di «impedire pratiche quali la commercializzazione abbinata di taluni prodotti che possono indurre i consumatori a concludere contratti di credito non rispondenti al loro interesse, senza peraltro limitare la commercializzazione aggregata di prodotti potenzialmente vantaggiosa per i consumatori».
(40) La disposizione francese prospetta dunque anche la possibilità di sottoscrivere un’assicurazione contro il rischio di cambio. Nel nostro sistema, l’assicurabilità di un rischio del genere (introdotta inizialmente con la L. 12 aprile 1973, n. 221) si inserisce tra le più generali disposizioni sull’assicurazione dei crediti all’esportazione di merci e servizi. In particolare, la L. 24 maggio 1977, n. 227, che istituiva presso l’Ina la Sezione speciale per l’assicurazione del credito all’esportazione (Sace), avente personalità di diritto pubblico, oltre ad ampliare l’intervento dello Stato nell’assicurazione del credito all’esportazione, elencava poi una serie di rischi ed operazioni assicurabili tra le quali compariva pure, per l’appunto, il rischio di cambio (art. 14, n. 11). Anche a seguito della trasformazione della Sace in Istituto per i servizi assicurativi del commercio estero (art. 1, D.lgs. 31 marzo 1998, n. 143), di nuovo con personalità giuridica di diritto pubblico, e poi della ulteriore trasformazione in società per azioni (art. 6, D.lgs. 30 settembre 2003, n. 269), il rischio di cambio continua a figurare tra le categorie di rischi assicurabili da tale ente, ai sensi dell’art. 1, punto 1.1.8, della delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) n. 93 del 9 giugno 1999, adottata in base all’art. 2, terzo comma, D.lgs. 143/1998. D’altro canto, l’assicurazione del rischio di cambio sembra teoricamente praticabile anche dalle imprese private, giacché questa tipologia di rischio rientra fra quelle inerenti al «credito all’esportazione», la cui tutela assicurativa è espressamente contemplata nell’ambito del quattordicesimo ramo all’interno della classificazione prevista dall’art. 2, terzo comma, D.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, il Codice delle assicurazioni private, là dove individua le sfere dell’attività assicurativa riservate alle imprese di assicurazione (art. 11), ribadendo, a proposito dell’assicurabilità del credito, la classificazione già operata dall’allegato unico al D.lgs. 17 marzo 1995, n. 175 (decreto poi abrogato dallo stesso D.lgs. 209/2005), in cui al n. 14 compariva l’assicurabilità del credito all’esportazione, delle perdite patrimoniali derivanti da insolvenze, delle vendite a rate, del credito ipotecario e del credito agricolo. Invero, secondo alcuni, il credito all’esportazione assicurabile dalle imprese private si limiterebbe al solo rischio di insolvenza, e non anche, invece, al rischio di cambio, che resterebbe dunque, assieme ad altre tipologie di rischi concernenti il credito all’esportazione, prerogativa esclusiva della Sace (C. RUSSO, «L’assicurazione del credito all’esportazione. Profili contrattuali», in Dir. banca e merc. fin., 1999, p. 356); a ben vedere, però, tale distinzione non trova riscontro nella legge, la quale ha infatti ricompreso il credito all’esportazione nel campo di esercizio dell’attività assicurativa da parte delle imprese private autorizzate, senza compiere ulteriori specificazioni o delimitazioni. In tal senso, L. BUGIOLACCHI, «Contratto di assicurazione con clausola di beneficio di cambio in favore dell’assicuratore tra “resistenza” del tipo, necessità di giudizio di cui all’art. 1322, comma 2, c.c. e giustificazione causale dello spostamento patrimoniale», in Resp. civ. prev., 2004, p. 1051 e ss., il quale, comunque, osserva (p. 1055, nota 18) che l’assicurazione del rischio di cambio da parte delle imprese private è da reputarsi un evento alquanto raro, giacché per queste risulta infatti oneroso farsi carico di rischi legati ad eventi rispetto ai quali è difficile pervenire ad una neutralizzazione del rischio attraverso le ordinarie tecniche attuariali.
(41) Tale aspetto emerge nitidamente dalle parole di V. DI CATALDO, «L’ordinamento italiano del mercato finanziario tra continuità e innovazioni. Le ragioni del cliente», in Banca, borsa, tit. cred., 2013, p. 235, che, nel segnalare alcuni profili di possibile intervento a proposito della disciplina dell’intermediazione finanziaria, riflette sull’opportunità di valorizzare le esigenze segnalate dal cliente e poste alla base del suo investimento (attraverso un percorso che, peraltro, non andrebbe in conflitto col generale principio di irrilevanza dei motivi, poiché qui l’esigenza che spinge il cliente all’acquisto del derivato contribuisce a modellare la causa del contratto stesso, «in quanto la causa concreta del singolo derivato si specifica e si definisce nella negoziazione che porta alla conclusione del contratto di acquisto»). In particolare, l’A. muove proprio da un esempio simile a quelli che potrebbero venire in considerazione nel nostro discorso, in cui, cioè, prefigura il caso di un cliente che richiede un derivato a copertura di un finanziamento erogato dallo stesso intermediario e al quale viene invece fornito un derivato altamente speculativo, «caratterizzato dalla presenza di opzioni esotiche e di effetti leva, con profili di pay-off non lineari e/o altre trappole nascoste».
(42) Sui giudizi di adeguatezza (o di appropriatezza) dell’operazione finanziaria (in ragione del diverso tipo di servizio prestato: v. art. 19, quarto e quinto comma, dir. Mifid, artt. 35 e ss., dir. 2006/39/CE, e artt. 39 e ss., reg. Consob n. 16190 del 29 ottobre 2007), cfr., di recente, F. DELFINI, «Valutazione di adeguatezza ex art. 40 reg. intermed., obbligazioni strutturate e derivati di credito», in Banca borsa tit. cred., 2014, p. 296 e ss.
(43) P. BERNARDINI, op. cit., p. 11 e ss.
(44) Corte Giust. UE, 30 aprile 2014, causa C-26/13, Árpad Kásler, Hajnalka Káslerné Rábai c. OTP Jelzálogbank Zrt. Su tale decisione, v. F. SCAVONE, «Le clausole abusive e gli effetti della declaratoria di nullità nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea: il caso Kásler c. OTP Jelzálogbank Zrt», in Contr. impr. Europa, 2014, p. 875.
(45) Corte Giust. UE, 3 giugno 2010, causa C-484/08, Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid c. Asociación de Usuarios de Servicios Bancarios (Ausbanc), punto 39.
(46) Corte Giust. UE, 3 giugno 2010, causa C-484/08, cit., punto 27.
(47) In tema, S. PAGLIANTINI, «L’equilibrio soggettivo dello scambio (e l’integrazione) tra Corte di Giustizia, Corte costituzionale ed Abf: “il mondo di ieri” o un trompe l’oeil concettuale?», in Contratti, 2014, p. 857 e ss., che ben descrive il climax argomentativo della sentenza attraverso tre punti, che vertono sull’informazione precontrattuale dettagliata, sulla piena trasparenza circa il funzionamento del contratto e, infine, sulla contrattualizzazione dell’informazione precontrattuale.
(48) Sul fronte della riduzione dell’asimmetria informativa, l’art. 24 dir. 17/2014, significativamente posto subito dopo quello dedicato ai prestiti in valuta straniera, stabilisce che gli Stati membri, in caso di contratti di credito a tassi variabili, debbono far sì che ogni indice o tasso di riferimento utilizzato al fine di calcolare il tasso debitore sia chiaro, accessibile, obiettivo e verificabile dalle parti contrattuali e dalle autorità competenti, e che gli archivi storici dei parametri adoperati siano mantenuti dai fornitori degli stessi o dai creditori.
(49) Per completezza, si tenga presente che con la Kásler la Corte di Giustizia si è espressa anche a proposito di una terza questione che le era stata posta dai giudici ungheresi, relativa alla possibilità, per il giudice nazionale, di sostituire la clausola abusiva con un’altra attinta da una disposizione legislativa di natura suppletiva là dove il contratto non possa altrimenti sopravvivere alla declaratoria di nullità della singola clausola. Sul punto, la Corte afferma che una simile opzione è nondimeno conforme all’obiettivo dell’art. 6, primo comma, dir. 93/13, giacché se il giudice fosse tenuto a dichiarare nullo il contratto nel suo insieme, il consumatore rischierebbe di trovarsi esposto a conseguenze particolarmente disagevoli, col risultato che questi potrebbe essere indotto a non far valere l’abusività della pattuizione per non dover rinunciare all’affare, venendosi, però, così a compromettere il carattere dissuasivo dell’intera disciplina sulle clausole vessatorie. Nel caso specifico, infatti, la caduta del contratto avrebbe per effetto l’obbligo delle parti di restituire il denaro ricevuto, e ciò risulterebbe presumibilmente assai più difficoltoso per il consumatore che per il mutuante, il quale, d’altro canto, non sarebbe così incentivato ad evitare l’impiego di clausole vessatorie nella stesura dei contratti.
(50) La scelta del legislatore italiano viene ritenuta opportuna da P. SIRENA, Art. 1469-ter, 2° comma, in Clausole vessatorie nei contratti del consumatore, a cura di G. Alpa e S. Patti, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano, 2003, p. 860, che osserva come in tal modo si sia provveduto ad eliminare una distinzione labile, destinata inevitabilmente a suscitare incertezze ermeneutiche, senza, d’altro canto, ridurre in alcun modo la tutela del consumatore. Critico sulla formula originaria della direttiva, ma scettico sul fatto che l’eliminazione dell’aggettivo da parte del legislatore italiano abbia fugato tutti i dubbi ermeneutici, invece, è M. FARNETI, La vessatorietà delle clausole «principali» nei contratti del consumatore, Padova, 2009, p. 190 e ss.
(51) Tra le varie definizioni di oggetto del contratto proposte in dottrina, questa appare la più convincente; v. E. NAVARRETTA, Fatti e atti giuridici, in U. BRECCIA - L. BRUSCUGLIA - F.D. BUSNELLI - F. GIARDINA - A. GIUSTI - M.L. LOI - E. NAVARRETTA - M. PALADINI - D. POLETTI-M. ZANA, Diritto privato, parte prima, II ed., Torino, 2009, p. 290 e ss.
(52) In favore dell’inclusione, all’interno del richiamo all’oggetto compiuto dal secondo comma dell’art. 34 cod. cons., delle «clausole determinative delle prestazioni», senza ulteriori distinzioni, v. A. FICI, Art. 34 - Accertamento della vessatorietà delle clausole, in Comm. cod. civ., diretto da E. Gabrielli, Dei contratti in generale, artt. 1425-1469-bis. Leggi collegate, a cura di E. Navarretta - A. Orestano, Torino, 2011, p. 833. Anche P. SIRENA, ult. op. cit., p. 855 e ss., p. 860, ritiene che la norma, nell’escludere il giudizio di vessatorietà, non distingua tra prestazioni principali ed accessorie, ma solo in quanto essa sottrarrebbe direttamente al controllo contenutistico la determinazione di tutti gli elementi che non siano stabiliti da una disciplina legale, in linea con quanto afferma una tendenza interpretativa maturata nella dottrina tedesca.
(53) In tal senso, S. PAGLIANTINI, op. locc. citt.
(54) Per una riflessione in tal senso, E. NAVARRETTA, Luci e ombre nell’immagine del terzo contratto, in Il terzo contratto, a cura di G. Gitti - G. Villa, Bologna, 2008, p. 319 e ss.; EAD., «Causa e giustizia contrattuale a confronto: prospettive di riforma», in Atti del Convegno per il cinquantenario della Rivista di diritto civile “Il diritto delle obbligazioni e dei contratti: verso una riforma? Le prospettive di una novellazione del libro IV del codice civile nel momento storico attuale”, Treviso, 23-24-25 marzo 2006 (Riv. dir. civ., 2006, 6), p. 419 e ss. La valutazione circa l’inerenza o meno di una clausola all’oggetto principale del contratto deve essere compiuta alla luce del contenuto complessivo del negozio, onde soppesare le pattuizioni che possono, in modo determinante, aver catturato l’attenzione del consumatore - anche alla luce del tipo di contratto, delle informazioni che ne hanno preceduto la conclusione e del settore di mercato in cui si inserisce - e, conseguentemente, averne orientato le scelte (insiste su questo punto M. FARNETI, op. cit., p. 232 e ss.).
(55) Si tratta di un’interpretazione estensiva, dunque, che finisce per veicolare anche nel nostro ordinamento un principio, altrove sancito in modo espresso dalla legge, v., ad esempio, il § 307 I BGB, secondo cui uno «svantaggio inadeguato» a discapito della controparte del predisponente, di quelli suscettibili di determinare l’inefficacia della clausola, può risultare anche dal fatto che la stessa non sia «chiara e comprensibile». A tale risultato, peraltro, tendeva sostanzialmente la tesi di G. CIAN, «Il nuovo capo XIV-bis (titolo II, libro IV) del codice civile, sulla disciplina dei contratti con i consumatori», in Studium iuris, 1996, p. 419, secondo la quale le clausole redatte in termini non intelligibili, dal punto di vista del consumatore, sarebbero da ritenere vessatorie già in virtù del principio generale per cui sono nulle le manifestazioni di volontà alle quali, pur avendo applicato tutti i canoni ermeneutici previsti dal legislatore, non sia possibile attribuire un significato univoco. Nel contesto specifico della disciplina derivante dalla dir. 93/13, infatti, l’A. riconosce alla disposizione il peculiare significato di elevare la soglia minima di intelligibilità nei casi in cui la dichiarazione contrattuale sia rivolta ad un consumatore, nei cui confronti non varrebbe pertanto adoperare un linguaggio esclusivamente od eccessivamente tecnico e settoriale (che è un po’ quello che, come subito si dirà nel testo, ha avuto occasione di affermare pure la Corte di Giustizia).
(56) Corte Giust. UE, 21 marzo 2013, causa C-92/11, RWE Vertrieb AG c. Verbraucherzentrale Nordrhein-Westfalen eV.
(57) Collegio di coordinamento Abf, 17 giugno 2015, ricorso n. 99018, pervenuto il 29 gennaio 2014; Collegio di coordinamento Abf, 17 giugno 2015, ricorso n. 682637, pervenuto il 17 luglio 2013; Collegio di coordinamento Abf, 17 giugno 2015, ricorso n. 520279, pervenuto il 20 maggio 2014.
(58) Corte Giust. UE, 16 dicembre 2010, causa C-266/09, Stichting Natuur en Milieu, Vereniging Milieudefensie, Vereniging Goede Waar & Co. c. College voor de toelating van gewasbeschermingsmiddelen en biociden. Ancor più stringente, poi, è l’affermazione del principio di irretroattività da parte della Consulta, la quale, pur riconoscendo che un tale principio (art. 11 disp. sulla legge in gen.) non si impone, con riguardo alla legge civile, con la stessa forza che gli conferisce l’art. 25, secondo comma, C. in materia di leggi penali, nondimeno i principi di ragionevolezza, di coerenza e certezza dell’ordinamento e di rispetto delle funzioni del potere giudiziario, nonché, in particolare, il principio di affidamento del privato, maturato con il consolidamento di situazioni sostanziali, rendono molto strette le maglie per l’introduzione di disposizioni con valore retroattivo, dovendo infatti simili interventi essere giustificati da motivi imperativi di interesse generale, i quali, peraltro, non potrebbero essere identificati nella necessità di contenere la spesa pubblica o di far fronte ad evenienze eccezionali (Corte cost., 4 luglio 2013, n. 170, in Giur. cost., 2013, p. 2523, ove si richiama anche il consolidato orientamento della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, ribadito, di recente, nella decisione del primo luglio 2014, causa 61820/08, Guadagno et autres c. Italie). Per una critica a queste posizioni tradizionali, peraltro, v. A. GENTILI, «Sulla retroattività delle leggi civili», in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 781 e ss., e spec. p. 794. Con particolare riferimento ad eventuali disposizioni retroattive che determinassero effetti pregiudizievoli rispetto a diritti soggettivi perfetti aventi la loro base in rapporti di durata di natura contrattuale, poi, la Corte Costituzionale ha altresì precisato che la legittimità di simili interventi richiederebbe la presenza di una «“causa” normativa adeguata», ovvero che la funzione della norma fosse tale da rendere “accettabilmente” penalizzata la posizione del titolare del diritto compromesso, attraverso la concessione di “contropartite” intrinseche allo stesso disegno normativo idonee a bilanciare le posizioni delle parti (Corte Cost., 22 maggio 2013, n. 92, in DeJure, s.m. in Giur. it., 2014, p. 25, con nota di E. DEL PRATO «Ragionevolezza, retroattività, sopravvenienza: la legge attraverso le categorie del contratto»).
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